Gianluca Nicoletti, "Alla fine qualcosa ci inventeremo"

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DIR. EDITORIALE

ART DIRECTOR

EDITOR

GRAFICO

REDAZIONE

UFF. TECNICO

2 M M di A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A

cui dovrete

occuparvi sempre, notte e gior-

no, durante tutta la vita e con lo struggimento di non poterlo più fare quando la vostra esistenza sarà agli sgoccioli.

Tommy cresce e diventa sempre più serio, come se

iniziasse a pensare: «Sto diventando un adulto, e adesso?». In verità questo non lo pensa minimamente, forse sta solo capendo che il

tempo passa anche per lui.

Se potessi rubare per me dieci anni di vita, li cambierei con la certezza dell’inferno.

Mi serve ancora tempo, devo costruire qualcosa per lui.

q u a l c o s a

http://www.miofiglioautistico.it

Provate a sobbarcarvi per un istante il peso di un figlio di

f i n e

Gianluca Nicoletti, giornalista, nota e pungente voce della radio italiana, conduce la trasmissione MelogCronache meridiane (Radio 24) e collabora alla «Stampa». È autore di: Ectoplasmi, Golem, Perché la tecnologia ci rende umani, Libro infame e, da Mondadori, Amen, Le vostre miserie, il mio splendore e il bestseller Una notte ho sognato che parlavi.

Il nuovo libro dell’autore di Una notte ho sognato che parlavi Gianluca Nicolet ti a l l a

prattutto per combattere il pensiero angoscioso che, quando non ci saranno più, quel figlio «strampalato» venga trattato dalla società come «materiale da discarica di esseri umani». Alla fine qualcosa ci inventeremo è un libro provocatorio e arrabbiato, ma – proprio come Una notte ho sognato che parlavi, di cui è il naturale seguito – struggente e pieno d’amore. Alternando il racconto di episodi vergognosi e buffi, imbarazzanti e commoventi, fa luce su una realtà che troppo spesso si preferisce tenere nascosta dietro le finestre di casa e soffocare nel silenzio.

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i n v e n t e r e m o

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO grap h ic de s igner : gaia s tella de s anguine

gianluca nicoletti

Alla fine qualcosa ci inventeremo

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I N C O P E R T I N A : foto di Fabrizio I ntonti

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DIMENSIONE: 150x210 mm

Che ne sarà di mio figlio autistico quando non sarò più al suo fianco

Tommy ha da poco compiuto sedici anni. Vive l’età in cui tutti gli adolescenti cominciano a fare progetti sul futuro e i genitori si preparano a lasciarli camminare da soli. Ma Tommy è un adolescente speciale: certo, è bravissimo a risolvere il cubo di Rubik, sa alzarsi perfettamente in equilibrio dopo aver girato per mezz’ora, in posizione yoga, come una trottola sulla sedia d’ufficio del padre, però il suo sguardo fatica a incrociare il tuo e il suo vocabolario è fatto di una manciata di parole. Perché Tommy è autistico, un dolcissimo, solitario ragazzone che senza l’aiuto di qualcuno difficilmente potrà percorrere le strade della vita. Tommy «frequenta» il liceo artistico, ma non conosce l’ambizione di un diploma o di una laurea. Il vero traguardo di quelli come lui è l’autonomia nelle piccole azioni di tutti i giorni: sapersi lavare e vestire, allacciarsi le scarpe, affettare le zucchine per un piatto di pasta da cucinare sotto lo sguardo attento di un adulto. E se fino a un anno fa la sua gestione quotidiana – già tutt’altro che semplice – era pur sempre l’unico problema dei genitori, per loro è ora arrivato il momento di affrontare nuovi angoscianti quesiti: che ne sarà di Tommy domani? Chi se ne occuperà quando il padre e la madre non avranno più le energie per camminargli accanto? Chi potrà arginare le ansie, le crisi di quell’«omaccione-bambino» dalla forza incontrollabile? Con la lucidità, insieme disincantata e ironica, e la visionarietà che gli riconosciamo, Gianluca Nicoletti ci racconta (e si racconta) cosa succede «dopo», quando al tuo bambino incapace di comunicare e giocare inizia a spuntare la barba e tu, oltre alle difficoltà del presente, devi fare i conti con il suo futuro. Con la fine della scuola superiore, il sogno dell’inclusione totale naufraga miseramente, per molti ragazzi autistici si aprono le porte dei centri per handicappati gravi, per tanti altri non c’è alternativa alla reclusione fra le mura domestiche. Aumenta il deserto intorno a loro. E ai loro genitori. I quali, mossi da un «miraggio di immortalità», si vedono costretti a trovare una soluzione in proprio: per questa ragione pullulano le associazioni, le onlus, i siti, i blog. Perché l’attivismo è il miglior modo «per dare un senso al quotidiano», e so-

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Alla fine qualcosa ci inventeremo

Ci siamo tolti la maschera per non essere riconosciuti nella follia che affolla il nostro muto pensare

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Effetto Stigler

Il 17 gennaio nell’anno 2014 è caduto di venerdì. Quel funesto incrocio di venerdì e di 17 è per me iniziato alle otto di mattina, con l’ascensore schiantato proprio mentre io ero dentro e risalivo verso casa. Il nostro palazzo è servito da un vecchio ascensore Stigler a gabbia degli anni Venti, progettato all’origine per andare su e giù per sei piani provvedendo alle ordinarie transumanze familiari dell’epoca. Le sue salite e discese attaccato a cavi d’acciaio a vista erano state valutate per sostenere mediamente due uscite quotidiane per gli inquilini uomini e una per le donne. Al massimo il raddoppio di saliscendi era previsto anche per le signore se, oltre alla spesa, avevano l’impegno della novena. Sapevo di rischiare ogni giorno con un ascensore pensato per altri tempi, soprattutto perché oggi il palazzo è occupato quasi esclusivamente da uffici. Il viavai di persone che vanno e vengono non è sopportabile per il vecchio trabiccolo di legno e vetrinette che, per lo stress eccessivo, spesso cede. Così, quel venerdì 17 gennaio, l’ascensore ha cominciato a tremare, poi ha fatto un salto in basso, strattonato all’istante dal freno di sicurezza. Mentre pensavo che sarei morto sfrittellato, ho fatto giusto in tempo a considerare che fortuna fosse stata quella di ritrovarmi lì da solo (mia moglie

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era allettata con la febbre) venti secondi dopo aver consegnato mio figlio Tommy ad Alessandro, il ragazzo che lo aspetta sul marciapiede davanti al portone per portarlo a scuola con il pulmino del comune. Quando ho capito che non sarei morto, con un’ardita peripezia sono riuscito a svicolare nella fessura di trenta centimetri scarsi tra il muro e il cancelletto dell’ascensore, bloccato tra due pianerottoli, continuando a pensare che mi sarebbe stato impossibile, se Tommy fosse stato dentro con me, issare gli oltre novanta chili del mio ragazzone balzano per quel pertugio dove a stento passavo io; di sicuro, il suo testone riccioluto sarebbe rimasto incastrato. Risalendo a piedi le scale per prendere giacca e valigia, mi faceva male la schiena per il colpo di frusta, ma sono poi partito abbastanza leggero verso la Puglia, dove avevo una presentazione del libro in cui ho raccontato della mia vita con Tommy. Lo stesso giorno, però, lo scuolabus giallo ha pensato di non riportare a casa il mio Capoccione strampalato: qualche funzionario preposto al servizio aveva deciso che il trasporto per Tommy andasse cambiato. L’ha fatto di sua iniziativa, forse per ottimizzare le spese, o forse per favorire un’altra famiglia che aveva battuto i piedi. Quel signore sconosciuto non si è posto il problema di quale tragedia potesse significare per un autistico l’interruzione di una routine. Da zelante «efficientatore» ha deciso d’intervenire senza consultarsi con gli educatori e senza preoccuparsi di avvertire la famiglia né tantomeno la scuola. Così a mezzogiorno Tommy è uscito di classe e ha cominciato ad aspettare il suo pulmino per completare quell’insieme mentale «scuola-casa» che rappresenta un anello importante della consuetudine quotidiana, aiutandolo ad allontanare l’ansia continua che il mondo possa all’improvviso finire. Più ancora di lui si è agitata sua madre, che oramai fibrilla per un nonnulla che le faccia immaginare una cri-

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si di Tommy e che, dopo un’ora di telefonate senza senso, ha infine spedito in taxi la nostra cara Nelly per riportare Tommy alla base. Io, per fortuna, ho saputo dell’accaduto quando tutto era risolto, mentre, in viaggio sul Frecciargento verso Bari, cercavo di fendere la barriera umana di pendolari seduti per terra per andare a prendermi un panino al bar, nella quarta carrozza. Già prigioniero di una furiosa incazzatura che sarebbe scemata solo a Caserta, dove il treno si è miracolosamente vuotato, per il restante tratto di ferrovia (coperto straordinariamente in cinque ore di viaggio per problemi tecnici) ho postato la storia su tutti i miei social network, chiedendo: «Perché i disabili sono considerati come pacchi dai nostri amministratori?». In rete sono molto più ascoltato che nella vita concreta, perciò qualche collega ha cominciato a chiamarmi, moltissimi hanno rilanciato il post dai loro account, la vicenda è diventata pubblica in un’ora e le solerti signore degli uffici stampa dei vari assessorati in Campidoglio si sono subito allarmate. Sono iniziate le telefonate imbarazzate, le scuse, le giustificazioni, le rassicurazioni. E il giorno dopo, grazie anche ad alcuni pezzi sui giornali, sono arrivati sms contriti… Insomma, non ho difficoltà a immaginare che la prossima volta ci penseranno bene prima di fare una stronzata simile. Tommy, in fondo, è fortunato: alla fine subirà soprusi gravi e diretti solo quando io non avrò più modo di scrivere di lui. Per ora è coperto dal mio reagire sempre violento con gli strumenti della scrittura e della parola: sono la sua barriera protettiva, proprio come il farmaco antiepilettico che lo copre dalle convulsioni. Ma verrà un giorno in cui nessuno mi chiederà più di scrivere libri, nessuno mi offrirà un microfono o uno spazio su un giornale. Quel giorno Tommy sarà esposto alle intemperie dell’indifferenza umana come la maggior parte dei suoi colleghi poco loquaci.

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Alla fine qualcosa ci inventeremo

Ci penso spesso a Tommy senza di me, sempre più di frequente da quando mi guardo allo specchio e ammetto di essere vicino a quella rappresentazione di un uomo che ho sempre attribuito alla vecchiaia. Non ho molto tempo; devo sbrigarmi a rendere concreta ogni mia immaginazione su un suo futuro dopo di me. Chissà, mi chiedo, come gli verrà spiegato che io sono morto. Forse per viltà, «morte» è una parola che con lui non ho mai pronunciato. Come gli posso far allucinare l’idea di uno stato che nemmeno io conosco come esperienza? In che modo posso comunicargli qualcosa che terrorizza chiunque? Proprio a lui, cui basta vedere la copertina del dvd di Biancaneve per chiudersi le orecchie, quasi avesse paura che il cervello possa schizzargli fuori. Ultimamente Tommy è cresciuto a dismisura. Mi sento un fuscello accanto a lui, eppure solo un anno fa riuscivo a tenergli testa fisicamente quando provava a menarmi. Lo immobilizzavo, anche se a fatica; schivavo le sue manone e lo incravattavo con le gambe fino a che non si calmava come un puledro rassegnato sotto al suo domatore. Temo di cominciare ad assomigliare, in quanto a usura, a quell’antiquato ascensore, uscito nel 1920 dalle officine meccaniche Stigler di Milano, un gioiello della tecnica ascensoristica a trazione elettrica, oggi non più adeguato a sopportare il peso di cui viene caricato. L’«effetto Stigler», che penso prima o poi colga ogni genitore d’autistico, lo sintetizzo nella lancinante sensazione di non poter più farcela a tirare su il proprio figliolo. La corda si rompe e il motore comincia a girare a vuoto, sconquassando la cabina con il frastuono di un singhiozzo disperato. Seppure per me ancora dovrebbe volercene prima che mi appiccichino addosso il cartello condominiale con scritto «guasto», come quello che era attaccato al mio ascensore, ancora a mezz’asta la sera successiva al blocco, quando me ne sono tornato a casa reduce dalla presentazione pugliese. Ho girato non poco in quest’ultimo anno, e mi sono fatto

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un’idea abbastanza chiara di come vivono anche altre persone quello che è il mio maggior problema familiare. Galleggiamo tutti nel miraggio d’essere immortali. I nostri figli balzani c’imprigionano nel loro «tempo della chiocciola», quello di chi si porta dietro un guscio dove rintanarsi, ma ci tengono in vita con una struggente malia che ci fa illudere di poter compiere imprese epiche. Nessuno di noi avrebbe avuto occasione di meravigliarsi per l’energia che ancora si trova addosso se non fosse per il proprio imperterrito figliolo, il più assetato dei vampiri, che ha imparato a succhiarci la vita piano piano, per farci durare il più possibile, come fa il gatto quando agguanta un passerotto e ci gioca a lungo prima di mangiarselo. Ho capito che quello che per semplificare chiamiamo «autismo» è una categoria dell’esistenza, una delle infinite possibilità che abbiamo di misurare il mondo e i nostri simili, un punto di vista individuale che geneticamente si distribuisce in diverse percentuali d’intensità e in un numero impressionante di esseri umani. La cosa più pesante che ho dovuto sopportare in quest’ultimo anno è avvertire un senso di speranzosa attesa che io potessi fare qualcosa di concreto. Ho cercato in tutte le maniere di svicolare dall’idea che io potessi avere qualche possibilità di cambiare la realtà, riguardo alla montagna di angoscia che provoca l’autismo nel nostro paese; eppure, ovunque mi trovassi al cospetto di famiglie con il mio problema, ho visto sempre le stesse facce e gli stessi occhi. Persone come me dopate d’autismo, oramai dipendenti fino alle ossa dal morso amoroso del divoratore che allevano in casa. Nel leggere questo mio pensiero, più i genitori sono giovani e più si irriteranno, più sono avanti nell’«esperienza» e più non potranno che darmi ragione: la nostra vita ha un paletto fisso a cui siamo legati; possiamo al massimo girarci attorno per quanto saremo riusciti ad allungare la corda che a esso ci lega. Cerchiamo di non pensarci, e siamo talmente presi dal

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quotidiano adattarci da ottenere quasi un benefico stordimento che abbassa gradualmente la soglia delle nostre attese, di quello che potremmo fare per gratificare noi stessi, della nostra fiducia nel futuro. Il nostro futuro è la mattina dopo in cui tutto ricomincia, o l’attesa della sera in cui potremo goderci un po’ di silenzio quando nostro figlio dorme, ammesso che gli vada di dormire. Forse tutto questo l’ho già detto; speravo che, una volta scritto un libro sulla mia vita con Tommy, mi sarei potuto tirare fuori, almeno dalla necessità di dar corpo a quelli che un anno fa immaginavo essere soltanto miei pensieri fissi; ma poi ho visto che sono davvero in tanti a essere trapassati dalle stesse domande senza risposta. Ho capito finalmente che io, in questa storia, ci sarò dentro per sempre, così, finché ho testa per farlo, tanto vale che continui a raccontare.

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Tommy ha compiuto il suo sedicesimo compleanno. Sedicesimo: me l’ha ricordato mia moglie alla festicciola triste che avevano organizzato per lui, nel centro dove ancora passa qualche ora alla settimana a fare musicoterapia suonando le percussioni con un gruppetto di suoi colleghi. Avevo risposto d’istinto: «Quindici!» all’educatrice che mi aveva chiesto l’età del festeggiato, rimuovendo completamente che fosse già così grande. Eppure ce l’ho addosso praticamente da quasi tre intere stagioni della mia vita. È tipica di me quest’approssimazione riguardo ai compleanni: vengo da genitori che mi hanno fatto passare la voglia di festeggiarli, come d’altronde di attribuire lietezza ai normali eventi familiari. Con Tommy, poi, è davvero più complicato accettare ogni compleanno: come può avere già sedici anni quell’omaccionebambino che ancora mi si avvinghia come una piovra affettuosa quando guardiamo assieme i cartoni in tv stravaccati sul divano? A sedici anni io già scorrazzavo in moto, mi consumavo in amori disperati, pensavo a come entrare in maniera truffaldina a vedere i film vietati ai minori di diciotto. Tommy, invece, mangia soddisfatto patatine fritte, pizzette rosse e frappe di carnevale, felice perché gli hanno regalato un’armonica a bocca e una parannanza da cuoco con disegnati dei pesci. Quando gli metteranno davanti la torta con

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il suo nome e sopra la candelina sparafuoco si chiuderà le orecchie di fronte alla fontana di scintille luminose, ammirato e spaventato allo stesso tempo. E ha sedici anni... Accanto a lui ci sono anche ragazzi più grandi. L’età di quel gruppetto va dai quattordici ai ventidue. I più anziani, per modo di dire, sono lì per una concessione, un cedimento ai regolamenti conquistato dai loro genitori, che si sono saputi muovere entro quell’area di contrattazione con operatori e responsabili, cosa che non è detto sia sempre possibile. Raggiunta la maggiore età non dovrebbero più stare in quel posto: non è ammesso, perché la legge stabilisce che per loro non ha più senso essere sottoposti a terapie. Insomma, entrano nella dimensione dell’autistico fantasma, quell’essere alla domanda del cui destino nessuno sa dare una risposta precisa. Dopo aver soffiato sulla torta, Tommy sale su una sedia a rotelle motorizzata e si mette a scorrazzare nella stanza, ma finisce per investire una ragazza, lei pure autistica, che comincia a piagnucolare. È colpa mia. Sono stato io, suo padre, ad averlo incitato a fare un giro sulla carrozzella elettrica, dopo avercelo fatto anch’io. Mi sono sentito in colpa sotto gli sguardi di rimprovero delle operatrici; mi dispiace, ma non tolleravo più la tristezza di quanto accadeva in quella stanza. Indiscutibile la buona volontà e l’affetto di tutte le persone che si erano adoperate per la festicciola, ma io non sopporto più di vedere congelati in un’eterna fanciullezza esseri umani che per ormoni e stazza fisica bambini non lo sono più da un pezzo. La maggior parte degli amici di Tommy, come lui d’altronde, ancora staziona in un istituto specializzato, dove girano, come criceti sulla ruota, dai tempi della scuola materna. Con gli autistici sono trattati anche altri ragazzi e adulti con problemi di tutti i tipi: oltre che psichici, anche motori. Per questo ci si sente in un ambiente a metà tra l’eterno asilo, un parcheggio per carrozzelle e un magazzino di ausili ortopedici.

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Niente da dire sull’istituto, che occupa una vecchia costruzione ottocentesca e porta il nome della benemerita signora che lo fondò, moglie di un magistrato. Era stata mossa a pietà da alcune famiglie di reclusi che lei andava a visitare, quando aveva visto ragazzi e bambini trascinarsi sul pavimento afflitti da un handicap che nessuno sapeva come trattare. All’esterno una lapide d’epoca ricorda che in quel posto sono accolti «fanciulli minorati». E così il deposito per minorati è ancora l’ultimo ridotto dove il mio bellissimo gigante può trascorrere un paio d’ore a settimana, che per lui sono comunque importanti perché una casella fissa nel suo calendario mentale sa che in quei giorni lui andrà in quel posto a fare quelle cose. Sono tasselli che lo aiutano a tenere assieme la sua instabile visione del tempo che passa, che è passato e che passerà. Per lui, però, fatalmente verrà il giorno in cui potrà guardare quell’istituto solo da fuori, perché troppo poco minorato per essere seppellito al reparto dei gravissimi non autosufficienti. Non sono mai salito fino ai ricoverati all’ultimo piano, lasciati in quel posto dai loro parenti, o magari rimasti soli al mondo: ci sono anche anziani, possono solo aspettare di morire. Quei residui umani in fase di smaltimento sono proprio davanti alle finestre della casa dove vivo con la mia famiglia; mi affaccio e li immagino allettati oltre le mura gialline dell’istituto, immobilizzati, inchiodati in un piano alto con dei finestroni quadrettati di legno antico verniciato bianco, dietro cui la notte vedo accesa la luce azzurrina delle corsie d’ospedale. Tommy oggi è troppo grande per quelle seggioline, quegli armadietti colorati con attaccati i disegni fatti da mani che sembrano di bambini dell’asilo, i cartoncini con riprodotti gli oggetti per permettere a chi non parla di fare delle richieste con il metodo della comunicazione aumentativa, che integra il linguaggio verbale: «Sono allegro, sono triste, ho fame, ho sete, mamma, papà, casa», tutto sotto forma di figurine da indicare… Lui mi guarda e sorride, come se

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avesse capito che gli conviene stare al gioco: se si accorgono che sta diventando adulto, da quel posto, squallido ma familiare, sarà cacciato. Tutto sommato intuisce che starsene nella sua cameretta a guardare dalla finestra sarebbe ancora peggio, così preferisce fingere d’essere bimbo nella casa dei fanciulli minorati. Il nuovo educatore di Tommy è Marco, il tatuato, che ha sostituito l’avvolgente maternage della tata russa che l’ha praticamente allevato per cinque anni, da quando era bimbo a quando è diventato un gigante peloso (ma che, senza rimpianto apparente e con il felice pragmatismo di una reduce del socialismo reale, l’ha ceduto al giovane vegano, ora suo addestratore alla vita). Marco gli ha regalato per il compleanno il cubo di Rubik. Con grande nostra sorpresa, abbiamo scoperto che Tommy è bravissimo a risolverlo, in pochissimi passaggi, anche se glielo incasiniamo per bene. Rimette a posto il cubo quasi all’istante; lo rigira un po’ tra le dita poi, velocissimo e senza sbagliare mai un tentativo, ricompone tutti i lati con colore omogeneo. Devo pensare che sia un genio? Che diventerà un grande matematico? Devo lavorare su questo suo talento? No, non lo penso proprio. Tommy è veloce con il cubo di Rubik, come da bambino era velocissimo con i puzzle: prendeva i pezzi a caso dal mucchio e ne componeva l’immagine non si sa come. Sono semplicemente magie di secondo livello, che alla scuola di Harry Potter usano i ragazzi per passare il tempo a ricreazione, non serviranno mai a qualcosa d’importante. Ricordo che, durante il mio servizio militare, c’era un ingegnere, anche lui marmittone tardivo come ero io, che steso in branda armeggiava con il cubo di Rubik per passare il tedio dei pomeriggi di consegna. I colleghi semianalfabeti – ce n’erano tanti – gridavano al miracolo perché ci riusciva in qualche ora e studiandoci su. Riuscirci non significa nulla. Me lo ripeto, ma lo scrivo per far comprendere a chi legge e non ha un figlio autistico: con quanti infinitesimali

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brandelli di speranza, noi genitori di tali figuri cerchiamo di diluire in ogni istante che ci è possibile la gelida certezza che nostro figlio non guarirà mai, se per guarigione s’intende essere uguale agli altri. Tommy da qualche anno trascorre la settimana bianca con un gruppetto di suoi colleghi. Quest’ultimo inverno Marco lo ha accompagnato. In un video che mi ha inviato durante uno di quei giorni, Tommy scende con gli sci da fondo lungo un declivio, ma prende velocità e grida: «Aiuto Marco!!! Aiuto!». Gridare «aiuto» è per lui una maniera per esorcizzare l’ansia, perché in realtà scende sicuro e con equilibrio; poi pronuncia «Marco» perfettamente: mi accorgo che ha pure l’erre moscia come la mia. Non l’avevo mai sentita pronunciare da lui quella consonante che mi fece subire per tutta la prima elementare l’onta d’essere ammalato di rotacismo; erano i tempi in cui le maestre ti punivano se non pronunciavi l’erre nella maniera «giusta», e così mi sono trovato a essere lo zimbello della classe perché per me era impossibile. Avevo completamente rimosso questa esperienza e, ora, guarda un po’, Tommy me l’ha fatta tornare in mente. Solo che io avevo appena sei anni allora e lui adesso ben sedici, e suscita fierezza per ogni vocale o consonante in più che pronuncia. In altri video, di Tommy fenomeno sulle nevi sono riprese alcune serate in hotel: le operatrici ballano La Bomba scatenate assieme ai ragazzi, «Suavecito para abajo, para abajo…». E Tommy, giusto per fare un favore a chi avrà insistito, abbozza qualche passo, forse un po’ scocciato… «Con movimiento sexy, con movimiento sexy» L’amatissima psicologa sarda che lo segue da quando era piccolo si contorce con grande impegno, una cubista consumata non saprebbe fare meglio, l’apprezzo davvero. Mi rattrista, confesso, pensare che a un ragazzo sedicenne quello spettacolino di solito non lo somministra una seria studiosa quarantenne con occhiali e capelli raccolti con la coda, ma una ragazzina poco più che sua coetanea, che la

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società considera come minimo un soggetto a rischio sventatezza, da dover recuperare allo studio, al senso di responsabilità, ai valori… Ma questi sono solo pensieri miei, per Tommy è indifferente. Tommy esegue meccanico «Una mano en la cintura…», guardando svagato verso quel punto indefinibile dell’orizzonte, quello che io a volte vorrei tanto poter raggiungere.

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no, durante tutta la vita e con lo struggimento di non poterlo più fare quando la vostra esistenza sarà agli sgoccioli.

Tommy cresce e diventa sempre più serio, come se

iniziasse a pensare: «Sto diventando un adulto, e adesso?». In verità questo non lo pensa minimamente, forse sta solo capendo che il

tempo passa anche per lui.

Se potessi rubare per me dieci anni di vita, li cambierei con la certezza dell’inferno.

Mi serve ancora tempo, devo costruire qualcosa per lui.

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Gianluca Nicoletti, giornalista, nota e pungente voce della radio italiana, conduce la trasmissione MelogCronache meridiane (Radio 24) e collabora alla «Stampa». È autore di: Ectoplasmi, Golem, Perché la tecnologia ci rende umani, Libro infame e, da Mondadori, Amen, Le vostre miserie, il mio splendore e il bestseller Una notte ho sognato che parlavi.

Il nuovo libro dell’autore di Una notte ho sognato che parlavi Gianluca Nicolet ti a l l a

prattutto per combattere il pensiero angoscioso che, quando non ci saranno più, quel figlio «strampalato» venga trattato dalla società come «materiale da discarica di esseri umani». Alla fine qualcosa ci inventeremo è un libro provocatorio e arrabbiato, ma – proprio come Una notte ho sognato che parlavi, di cui è il naturale seguito – struggente e pieno d’amore. Alternando il racconto di episodi vergognosi e buffi, imbarazzanti e commoventi, fa luce su una realtà che troppo spesso si preferisce tenere nascosta dietro le finestre di casa e soffocare nel silenzio.

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Che ne sarà di mio figlio autistico quando non sarò più al suo fianco

Tommy ha da poco compiuto sedici anni. Vive l’età in cui tutti gli adolescenti cominciano a fare progetti sul futuro e i genitori si preparano a lasciarli camminare da soli. Ma Tommy è un adolescente speciale: certo, è bravissimo a risolvere il cubo di Rubik, sa alzarsi perfettamente in equilibrio dopo aver girato per mezz’ora, in posizione yoga, come una trottola sulla sedia d’ufficio del padre, però il suo sguardo fatica a incrociare il tuo e il suo vocabolario è fatto di una manciata di parole. Perché Tommy è autistico, un dolcissimo, solitario ragazzone che senza l’aiuto di qualcuno difficilmente potrà percorrere le strade della vita. Tommy «frequenta» il liceo artistico, ma non conosce l’ambizione di un diploma o di una laurea. Il vero traguardo di quelli come lui è l’autonomia nelle piccole azioni di tutti i giorni: sapersi lavare e vestire, allacciarsi le scarpe, affettare le zucchine per un piatto di pasta da cucinare sotto lo sguardo attento di un adulto. E se fino a un anno fa la sua gestione quotidiana – già tutt’altro che semplice – era pur sempre l’unico problema dei genitori, per loro è ora arrivato il momento di affrontare nuovi angoscianti quesiti: che ne sarà di Tommy domani? Chi se ne occuperà quando il padre e la madre non avranno più le energie per camminargli accanto? Chi potrà arginare le ansie, le crisi di quell’«omaccione-bambino» dalla forza incontrollabile? Con la lucidità, insieme disincantata e ironica, e la visionarietà che gli riconosciamo, Gianluca Nicoletti ci racconta (e si racconta) cosa succede «dopo», quando al tuo bambino incapace di comunicare e giocare inizia a spuntare la barba e tu, oltre alle difficoltà del presente, devi fare i conti con il suo futuro. Con la fine della scuola superiore, il sogno dell’inclusione totale naufraga miseramente, per molti ragazzi autistici si aprono le porte dei centri per handicappati gravi, per tanti altri non c’è alternativa alla reclusione fra le mura domestiche. Aumenta il deserto intorno a loro. E ai loro genitori. I quali, mossi da un «miraggio di immortalità», si vedono costretti a trovare una soluzione in proprio: per questa ragione pullulano le associazioni, le onlus, i siti, i blog. Perché l’attivismo è il miglior modo «per dare un senso al quotidiano», e so-

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