Francesca Caferri, "Il Paradiso ai piedi delle donne"

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EDITOR

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REDAZIONE

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Francesca Cafer ri I L

Francesca Caferri, giornalista de «la Repubblica», da dieci anni si occupa di mondo arabo e musulmano: ha seguito gli sviluppi sociali e le maggiori crisi nella regione, viaggiando dall’Iraq all’Afghanistan, passando per Israele, Libano, Pakistan, Yemen, Arabia Saudita, Egitto e molti altri paesi. Vincitrice del premio di giornalismo Saint-Vincent, è una delle fondatrici del movimento «Se non ora quando?». Questo è il suo primo libro.

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foto © liana miuccio

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Le donne e il futuro del mondo musulmano

P A R A D I S O

Francesca Caferri

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Il Paradiso ai piedi delle donne

P I E D I D E L L E D O N N E

La manager si muove con decisione: firma documenti, controlla la mail sul BlackBerry, chiede aggiornamenti, convoca una riunione. Poi si accorge di essere in ritardo: dall’attaccapanni afferra un velo nero e chiama l’autista. Devono sbrigarsi, altrimenti farà tardi. Prima di partire si copre la testa con il velo e dal sedile posteriore dà indicazioni. Non può guidare l’auto che la porterà all’appuntamento: siamo in Arabia Saudita e nonostante diriga un gruppo dal fatturato milionario, Khlood al-Dukheil deve sottostare alle rigide regole del protocollo, che prevede che le donne si mostrino in pubblico solo velate e avvolte da una lunga tunica nera e non possano sedere al volante. Quello con Khlood al-Dukheil è solo uno degli incontri di questo libro: dall’Arabia Saudita allo Yemen, attraversando Egitto, Pakistan, Afghanistan e Marocco, Francesca Caferri, giornalista da sempre attenta a questi temi, ci guida in un viaggio nel mondo musulmano visto attraverso gli occhi femminili. Una serie di ritratti raccontano come il ruolo delle donne sia cambiato e perché non ci fosse nulla da stupirsi nel trovarle in piazza durante la Primavera araba: la premio Nobel per la Pace yemenita Tawakkol Karman, l’impiegata egiziana Asma Mahfouz, che con un video su YouTube ha portato migliaia di persone a manifestare contro il presidente Hosni Mubarak, le poliziotte afghane che devono combattere contro i loro stessi colleghi per lavorare e Nadia Yassine, la politica conservatrice che sfida Mohammed VI, re del Marocco. Pagina dopo pagina le protagoniste di questo libro distruggono stereotipi e ci spiegano perché, come disse Maometto, «il Paradiso è ai piedi delle madri». E delle donne. Seguire i loro passi è fondamentale anche per noi. Perché se la sfida sui diritti femminili è ancora aperta in molti paesi, in nessun luogo è importante come nel mondo musulmano: è dall’esito di questo braccio di ferro che si capirà chi vincerà lo scontro fra conservatori e riformisti. E quali scenari futuri si apriranno per questa regione del mondo così densa di contraddizioni.

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO grap h ic de s igner : s u s anna to s atti

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Introduzione

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Eravamo cinque donne. Sedute intorno a un tavolo, in una sera di primavera, a mangiare all’aperto: abbiamo riso e scherzato su tutto. Le calorie e la golosità, le prossime vacanze, le richieste dei figli, la difficoltà di conciliare vita privata e lavoro, i vestiti, le scarpe. Poi siamo passate ai discorsi seri: un divorzio, un marito troppo geloso ma amatissimo, la politica. Non la finivamo più. A un certo punto il cameriere, divertito, ci ha portato una seconda porzione di dolci, omaggio della casa: sul vassoio non ne abbiamo lasciato uno. La serata si è conclusa con una foto ricordo che conservo ancora. Cinque volti sorridenti. Tre con i capelli appena coperti da un velo nero, gli altri due scoperti: sfacciatamente simili nell’allegria di quel momento. Questo libro è nato lì, nel febbraio 2010, sulla terrazza del ristorante O a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. Dalla cena con le tre amiche saudite che ci avevano aperto i loro cuori e le loro vite, io e la collega americana che mi accompagnava tornammo incredule. Entrambe, senza incontrarci prima, avevamo percorso in lungo e in largo il Medio Oriente e i paesi dell’Islam, raccontando di guerre e di violenze. Ma anche di studentesse testarde, decise contro tutto e contro tutti a studiare per costruirsi un futuro, di donne che andavano al lavoro ogni giorno anche se minacciate di morte per questo, di rivoluzionarie scanzona-

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te, di madri di famiglia indomite. Eppure mai come quella sera ci sembrava di avere scoperto un mondo. Come se l’ironia delle tre amiche e le loro battute sulle abaye, le lunghe tuniche nere che – come noi visitatrici – erano costrette a indossare ogni volta che mettevano piede fuori di casa, avessero acceso un raggio di luce sulle decine di storie che ciascuna di noi aveva raccolto nei suoi viaggi. Di viaggi in questi anni ne ho fatti parecchi. Sono una giornalista. Ho sempre voluto occuparmi di altri mondi, parlare di come si vive là fuori: circa dieci anni fa il mio sogno si è realizzato. Ho lasciato l’arido ma istruttivo mondo del giornalismo finanziario e sono approdata alla mia vera passione: gli esteri. Era il 2001, l’anno che ha cambiato tutto. Frotte di reporter si precipitarono a raccontare il mondo da cui il disastro dell’11 settembre aveva preso origine: l’Arabia Saudita dei severi wahabiti, l’Egitto degli ambigui Fratelli musulmani, il Pakistan culla dell’estremismo. E, su tutti, l’Afghanistan dei barbari talebani, un paese che dal 1996 viveva nella stessa disastrosa condizione economica e sociale, e che per anni la stampa aveva – con qualche lodevole eccezione – ignorato. Il risultato furono fiumi di inchiostro e ore di trasmissioni radio e tv: alcuni notevolissimi, altri francamente da dimenticare. Da allora e per anni, ho avuto l’impressione che la maggior parte dei giornalisti raccontasse la stessa storia, come un disco rotto: l’estremismo fanatico, le scuole religiose che incitano all’odio, la sottomissione del sesso femminile, le poche eroine controcorrente. Così, un po’ per spirito di contraddizione, un po’ per rabbia sono arrivata a occuparmi di mondo musulmano e di donne. Da tempo viaggiavo in Medio Oriente e in Asia per interesse personale: eppure, quando ne leggevo sui giornali, mi sembrava che di alcuni paesi non ci arrivasse che un ritratto parziale, che non coincideva, se non in parte, con la mia esperienza. Continuavo a chiedermi come mai non ci

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fosse qualcosa di più da dire, un passo avanti da fare: come poteva l’Islam che aveva nutrito il genio medico e filosofico di Averroè, creato quella meraviglia assoluta che è la moschea di Cordoba, dato vita ai tesori di conoscenza ancora oggi nascosti fra le sabbie di Timbuctu essere diventato solo terrore e minaccia? Come era possibile che le eredi di Khadija e Aisha, le amatissime mogli del Profeta, si fossero trasformate negli esseri miseri e passivi di cui leggevamo sui giornali? Davvero quello stesso Corano che lodava la saggezza di Bilqis, regina di Saba, al cospetto del re Salomone, imponeva la sottomissione delle donne? Interrogativi come questi negli anni hanno guidato i miei viaggi: alla ricerca delle risposte, ho conosciuto persone da cui ho appreso enormi lezioni di vita e di dignità. Molte di loro sono donne. Giovani o anziane, che percorrono le strade del mondo a modo loro, non come vorremmo noi. Che spesso non rientrano nei nostri schemi e per questo non sempre ci piacciono: persone come Nadia Yassine, figlia dello sceicco Abdessalam Yassine, oggi alla testa di Giustizia e Carità, il più popolare movimento politico marocchino, messo al bando perché di stampo islamico e critico nei confronti della monarchia. Nadia – a cui è stato più volte negato il visto per l’Europa, a causa delle sue idee controverse – è la figura femminile più popolare del paese, molto più della principessa Lalla Salma, moglie del re Mohammed VI, idolatrata dai magazine. È a lei e, sul fronte opposto, alle giornaliste scomode di «Femmes du Maroc», il settimanale che nel 2009 ha messo in copertina per la prima volta nel mondo arabo una donna nuda e incinta, che dobbiamo guardare per provare a capire dove va il Marocco. Oppure ragazze come l’egiziana Asma Mahfouz, l’eroina – velata – del 25 gennaio 2011, un’impiegata ventiseienne che, con un video girato da sola e messo su YouTube, ha spinto in strada migliaia di compatrioti contro il regime del presidente Mubarak. E che in piazza si è ritrovata fianco a

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fianco con i capelli bianchi di Nawal al-Sa‘dawi, 80 anni, psichiatra, laica, femminista, per anni esiliata per aver affiancato nei suoi scritti parole come donna e sessualità. O, infine, donne come Tawakkol Karman, la giornalista yemenita che ha guidato in maniera pacifica la rivolta del 2011 in uno dei paesi con il maggior numero di armi pro capite al mondo:1 per il suo ruolo nella Primavera di Sana’a, Karman ha ottenuto il premio Nobel per la Pace, prima araba a ricevere questo riconoscimento. È di loro che questo libro vuole parlare. Donne come Nadia, Asma e Tawakkol negli ultimi dieci anni le ho incontrate in Pakistan, in Yemen, sotto le abaye dell’Arabia Saudita e in tanti altri paesi. Sono l’avanguardia di un movimento che con molta fatica, ma con successo, sta cambiando la faccia del mondo musulmano e che ancora di più lo farà nel futuro. Lo sta facendo negli uffici e nelle università, nelle piazze dove manifesta e nei Parlamenti ai quali è riuscito a imporre leggi più favorevoli alle donne; non tutte vengono applicate, ma oggi sono scritte sulla carta. E rispetto al passato è già un passo avanti. Questo movimento rivendica le sue origini, le sue tradizioni, la sua religione; e non si limita a scimmiottare il modello occidentale. Nella Sunna, la tradizione che raccoglie gli hadith, i detti di Maometto, ovvero gli episodi della sua vita e i pareri che diede a chi andava a parlare con lui, c’è la storia di un giovane che si recò dal Profeta per chiedergli consiglio prima di unirsi a una spedizione militare: «E la sua risposta fu: “Tua madre è viva?”. “Sì” disse il giovane. “E allora resta con lei, perché il Paradiso è ai suoi piedi.”». La visione dell’Islam a cui le protagoniste del mio libro si ispirano è questa. Dei 359 milioni di abitanti di 22 paesi del mondo arabo, più del 50 per cento sono donne, in buona parte giovani.2 Rispetto alle generazioni precedenti le ragazze di oggi hanno più possibilità di studiare e lavorare, si sposano più tar-

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di, hanno maggiore voce in capitolo nella politica e nella società dei loro paesi e – dato fondamentale – fanno meno figli, garantendo così a loro stesse e ai bambini che mettono al mondo migliori livelli di istruzione e di accesso alla salute. Fra il 1970 e il 2010 il tasso di fertilità nel mondo arabo è quello che ha subito il più rapido declino a livello mondiale, passando da 6,8 figli per donna a 3,6.3 Entro il 2050 gli esperti si aspettano che in ogni famiglia della regione ci siano in media 2,1 figli: un dato in linea con i valori mondiali, che sono di due bambini per gruppo familiare. Questo cambiamento porta con sé conseguenze importantissime: fra le altre, l’aumento dei livelli di istruzione femminile, la riduzione del gap di formazione fra i sessi, una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Parallelamente alla diminuzione della natalità sono infatti cresciuti i tassi di scolarizzazione, soprattutto nei paesi più ricchi dell’area:4 oggi il 90 per cento delle bambine va alla scuola primaria, in dodici paesi l’80 per cento si iscrive alla secondaria e più della metà degli studenti migliori è formata da ragazze.5 In questo campo un paese chiuso e conservatore come l’Arabia Saudita è un buon esempio: attualmente il 60 per cento degli studenti che frequentano gli atenei sauditi sono donne, come il 21 per cento degli ottantamila universitari che sono all’estero con le borse di studio sponsorizzate da re Abdullah.6 Negli ultimi anni il ritorno in patria delle ragazze che hanno studiato negli Stati Uniti o in Europa ha sottoposto la società a scossoni fino ad allora impensabili, e nel futuro questo fenomeno non potrà che accentuarsi. «Per quanto tempo pensa che queste giovani se ne staranno tranquille senza lavorare, senza esprimersi e senza votare quando rientreranno a casa?» mi chiese nel 2010 una rappresentante delle Nazioni Unite nel suo ufficio di Riyadh. La funzionaria onu sorrideva con aria complice. Non poteva parlare della questione ufficialmente, vista la delicatezza del tema, ma era certa di essere seduta su una bomba a

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orologeria: e questo le piaceva molto. Mi spiegò che, come i suoi colleghi nel resto della regione, nei prossimi anni si aspettava la crescita di una categoria di donne istruite che avrebbe fatto pressioni per il cambiamento anche nei paesi più conservatori, come appunto l’Arabia Saudita. «Ci vorrà tempo, non sarà semplice, ma il cammino è iniziato» concluse. La partecipazione delle donne nelle manifestazioni di piazza della Primavera araba del 2011, dall’Egitto al Bahrein passando per lo Yemen, dimostra che aveva ragione. Khlood al-Dukheil spera davvero che il cammino sia irreversibile: alla testa dell’impero economico fondato dal padre, è una delle manager più in vista dell’Arabia Saudita. Qualche anno fa, trovare una donna nella sua posizione sarebbe stato impensabile: oggi è sempre più comune. Fateci caso quando leggete un pezzo su questo paese: nelle prime tre righe vi diranno sempre che le donne lì non possono neanche guidare, poverette. E poi via con i «non»: non possono lavorare né viaggiare senza autorizzazione, e quindi decidere, amare, pensare. Quella sera, durante la nostra cena a Riyadh, Khlood e le sue amiche avevano scherzato sulla marea di «non» che le accompagnava, ma si vedeva che in fondo erano irritate. «Certo, ci sono moltissime cose che non possiamo fare. Ma tante altre che facciamo, forse con più passione di voi, perché lottiamo di più per ottenerle. E al di là dei “non” siamo come voi: amiamo i trucchi, la moda, le scarpe. Andiamo dal parrucchiere, lavoriamo, gestiamo imprese, creiamo progetti, cuciniamo, ci preoccupiamo per figli e mariti. Dovresti raccontarlo a quelli che parlano di noi come delle poverette» mi aveva detto una di loro. «Ci provo da anni. Credimi, non è sempre facile» era stata la mia risposta imbarazzata. Quella sera ho capito che neanche io sapevo abbastanza della vita vera di queste donne. O forse lo sapevo, ma di certo non ne avevo scritto in maniera sufficiente. Qualche settimana dopo il mio rientro, al giornale mi

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Nelle foto scattate a piazza Tahrir durante la rivoluzione egiziana, i capelli bianchi di Nawal al-Sa‘dawi spiccano in mezzo a un mare di veli e di teste scure. A dispetto dei suoi 80 anni e dei rischi, la più famosa femminista egiziana ha passato tutti i diciotto giorni che ci sono voluti alla folla per avere ragione di Hosni Mubarak in piazza, fra la gente. «Aspettavo quel momento da quando avevo 10 anni, non potevo mancare: non avrei mai potuto rinunciarci» mi disse qualche mese dopo. «Tanti mi hanno ripetuto che ero troppo vecchia per stare in strada, che avevo fatto la mia parte, dovevo tornare a casa e far sentire la mia voce da lì. Ma non potevo farlo. E poi i giovani mi hanno protetta, sempre: stavo per essere travolta da un cavallo della polizia e mi hanno portata via di corsa. Quando le pallottole hanno cominciato a volare mi hanno fatto da scudo. Venivano a ringraziarmi per quello che avevo scritto e detto per anni: mi raccontavano che i miei libri avevano cambiato la loro vita. E restavano accanto a me. È stata un’esperienza incredibile.» Nelle immagini di al-Sa‘dawi circondata da giovani vestiti all’americana o da ragazze a capo coperto, uomini e donne di mezza età, laici e religiosi, c’è la chiave per capire cosa è successo in Egitto tra la fine di gennaio e la metà di febbraio del 2011: «A piazza Tahrir ho visto l’Egitto rap-

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presentato in tutte le sue facce: egiziani di tutte le età e di tutte le provenienze, copti e musulmani, giovani e anziani, donne con il velo e donne senza, ricchi e poveri. Milioni di persone hanno avuto il loro spazio a piazza Tahrir, come membri della stessa famiglia» ha dichiarato lo scrittore egiziano oggi più famoso al mondo, ‘Ala al-Aswani.1 In quelle giornate d’inverno un intero paese è esploso. In prima fila c’erano le donne: quelle che avevano lottato per una vita, quelle che mai prima di allora si erano unite a una manifestazione e le ragazzine che negli ultimi anni avevano usato Internet come arma per chiedere libertà. Contadine e ricche borghesi. Laiche e religiose. Giovani e vecchie. Semplicemente, egiziane. Quando le prime immagini della rivolta del Cairo hanno cominciato ad arrivare sui circuiti televisivi internazionali, l’attenzione dei media è stata subito catturata dal mare di visi femminili che riempivano il cuore della città. Tentando di spiegare il fenomeno, i giornalisti si sono ricordati di una signora dai capelli bianchi che da anni girava il mondo per parlare delle donne del suo paese: Nawal al-Sa‘dawi, appunto. In decine, in quei giorni, l’hanno chiamata. E lei ha risposto paziente, senza però risparmiare qualche espressione di stizza. «Erano stupiti e chiedevano spiegazioni» ricorda. «A tutti ho ripetuto la stessa cosa: “Perché vi meravigliate? Le donne in Egitto combattono da più di cento anni. Solo degli ignoranti potevano essere tanto sorpresi”.» La rabbia di Nawal al-Sa‘dawi ha radici antiche, che affondano nella sua vicenda personale e, ancora di più, in quella del suo paese. La storia del potere al femminile in Egitto ha inizio ai tempi di Cleopatra, ma il nome di donna che più di ogni altro risuonava a piazza Tahrir nei giorni della rivoluzione era quello di Hoda Sha’rawi. Figlia e moglie di uomini politici fautori dell’indipendenza, poetessa, fondatrice di scuole per ragazze, lei stessa attiva nel movimento contro il colonialismo, Sha‘rawi fu la prima, quasi

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cento anni fa, a rivendicare diritti per le donne nel mondo arabo: lo fece promuovendo la causa dell’emancipazione in patria e all’estero, lottando incessantemente per l’istruzione femminile e rivendicando alle donne un ruolo di primo piano nel futuro Egitto indipendente. Il suo nome resta legato a un giorno di maggio del 1923 quando, di ritorno da un congresso a Roma, al momento di scendere dal treno che la riportava al Cairo si fermò, fissò la folla venuta a salutarla e si sfilò il velo, lasciando scoperto il volto. In un paese dove gli harem erano ancora una realtà ben radicata e le donne vivevano confinate in casa e sorvegliate da schiere di eunuchi, nessuna prima di lei aveva osato tanto. La reazione fu all’inizio di sconcerto, poi di gioia: alcune alla stazione la imitarono e lanciarono in aria il loro velo, «l’ostacolo maggiore alla partecipazione delle donne nella vita pubblica»,2 come la stessa Sha‘rawi lo aveva definito. L’episodio fece scandalo e contribuì all’ingresso di Sha‘rawi nei libri di storia: ma la sua lotta durava già da anni. L’Unione femminista egiziana (efu), da lei fondata, era stata la prima organizzazione a prendere la parola in nome delle donne in Egitto. Le sue rappresentanti avevano sfidato politici e opinionisti senza guardare in faccia nessuno e, anche se spesso erano uscite sconfitte dalle loro battaglie, avevano aperto il terreno per conquiste future. Hoda Sha‘rawi morì nel 1947.3 Alla sua scomparsa le egiziane erano diventate il motore del movimento femminista arabo e una ragazzina dalla pelle scura di Kafr Tahla, un piccolo villaggio sul Nilo a nord del Cairo, aveva già raccolto la sua fiaccola: Nawal al-Sa‘dawi, appunto. Per anni al-Sa‘dawi è stata il simbolo dell’Egitto contro: medico e scrittrice, è diventata famosa per le battaglie contro le mutilazioni genitali e i dettami della religione e per gli scritti su temi tabù come prostituzione e sessualità femminile. La sua è una lotta che dura da decenni, iniziata con l’esperienza di dottore nelle campagne e maturata nel con-

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fronto con una politica e una società sorde alle sue parole: nei circoli della Cairo bene così come all’estero, al-Sa‘dawi ha sbattuto la drammatica condizione delle egiziane sotto il naso dei potenti senza curarsi troppo delle conseguenze. Le sue azioni ne hanno fatto un’icona ma al tempo stesso un bersaglio: rimossa dal posto di medico a Kafr Tahla per aver difeso una ragazzina vittima di abusi, cacciata dall’ufficio di direttore generale per l’educazione al ministero della Salute dopo aver pubblicato un libro contro le mutilazioni genitali, arrestata per aver criticato il presidente Anwar alSadat,4 costretta all’esilio dai fondamentalisti, è autrice di alcuni dei testi più forti contro l’oppressione femminile e i pericoli del fondamentalismo religioso. Se si cercasse una frase sola per definirla, senza timore di sbagliare si potrebbe dire che Nawal al-Sa‘dawi è la voce delle donne che non hanno voce nel mondo arabo. La vocazione di spirito ribelle ce l’ha dalla nascita: «Spingi Nawal nel fuoco e ne uscirà indenne» diceva di lei la madre5 quando aveva meno di 10 anni. Allora non poteva sapere quanto quelle parole fossero profetiche: «Aveva ragione,» ricorda oggi la scrittrice «nella mia vita ho sofferto moltissimo, eppure sono sempre riuscita a reagire. Sono stata arrestata, umiliata, minacciata, messa al bando dagli editori, ho divorziato tre volte. Ma ho avuto anche momenti di grande felicità: ho due figli fantastici e ho scritto più di quaranta libri tradotti in tutto il mondo. Il risultato è che oggi non ho paura neanche dell’inferno». Non sono parole da prendere alla leggera le sue, perché quando parla di inferno al-Sa‘dawi sa di cosa si tratta: negli anni ne ha sperimentate diverse forme, dal carcere all’esilio, passando per la violenza coniugale. Eppure nulla in lei ha lasciato una traccia profonda come il suo primo incontro con il dolore: aveva 6 anni quando, come la maggior parte delle bambine egiziane,6 venne sottoposta alla mutilazione genitale, una pratica che secondo chi la difende dovrebbe purificare il corpo femminile mediante l’asporta-

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zione del clitoride. Un atto che – se non porta alla morte – lascia tracce indelebili sul fisico e sulla mente di chi lo subisce. «Venni accerchiata da quattro donne» racconta nella sua autobiografia «mi presero mani e piedi, come se dovessero crocifiggermi. […] Non dimenticherò mai quel giorno del 1937. Sono passati cinquantasei anni ma lo ricordo ancora, come se fosse ieri. Giacevo in una pozza di sangue. Quando l’emorragia si fermò, la daya [levatrice] sbirciò fra le mie gambe e disse: “È tutto a posto. La ferita è guarita, sia ringraziato Dio”. Ma restava il dolore, acuto come un ascesso. Non riuscivo a immaginare cosa mi avrebbe riservato il destino. Solo Allah era in grado di vedere nel futuro, un futuro che si annunciava pieno di pericoli.»7 La mutilazione fu l’ultima volta in cui famiglia e tradizione ebbero ragione della giovane Nawal. Subito dopo la ragazzina sviluppò quell’attitudine da combattente che non l’avrebbe mai più abbandonata: già a 10 anni, quando cominciarono a presentarsi i pretendenti a chiederla in sposa, aveva imparato a fingersi selvaggia e maldestra. Schivate quelle nozze che per lei avrebbero significato, come per amiche e cugine, la fine di ogni sogno, riuscì a convincere il padre a farla studiare. «Accettò perché mio fratello maggiore a scuola era una delusione: e almeno uno di noi due doveva andare bene. Quante volte lo sentii dire a mia madre che avrei dovuto nascere maschio, non femmina: faceva male sentirlo parlare così, ma mi spingeva a impegnarmi ancora di più.» Mi raccontò questo episodio più di cinquant’anni dopo, durante il nostro primo incontro, e ancora gli occhi le brillavano al ricordo della vittoria nel braccio di ferro con la famiglia.8 Un passo dopo l’altro la ragazzina testarda divenne una giovane promettente, tanto brava da arrivare alla laurea in medicina. Ma non dimenticò mai il passato. Il giorno in cui incassò il suo primo stipendio da medico, volle pagare un tributo alle donne della famiglia – sua madre per prima – che per anni si erano sacrificate tra fornelli a petrolio puz-

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zolenti e sporchi: «Entrai in un grande negozio chiamato Shaker, sulla Fouad al-Awal Street, accanto al cinema Rivoli» ricorda. «Avevo una sola idea in testa: una cucina a butano con un forno e quattro bruciatori di una marca nota all’epoca come Master Flame. La prima rata ammontava a 5 sterline, i restanti pagamenti sarebbero stati suddivisi in trentasei mesi. Mi infilai in casa, accompagnata da tre uomini del negozio incaricati del trasporto. Entrarono in silenzio in cucina e collocarono l’elettrodomestico sotto la finestra, accanto alla dispensa. Poi se ne andarono, sempre in punta di piedi. I raggi del sole pomeridiano penetravano fra i muri delle case e l’inferriata della finestra. Si indirizzavano sui fornelli come guidati da una forza superiore. Entrò mia madre e con gli occhi spalancati chiese: “E questa da dove arriva?”. “Dal cielo” risposi. Gli occhi le brillarono della gioia dei bambini. Come me, aveva sognato da sempre il momento in cui ci saremmo disfatti della vecchia stufa. Come me, aveva guardato in tutti i negozi le cucine a gas che bruciavano con una fiamma di un blu puro, si accendevano sfregando il cerino una sola volta e non avevano bisogno di nessun ago per rimuovere i residui di fuliggine. Dava un’occhiata al prezzo, sospirava e passava oltre.»9 Qualche tempo dopo Nawal si sposò per la prima volta, con un compagno di università: quel matrimonio d’amore, fortemente voluto e difeso contro l’opposizione della famiglia, si rivelò un incubo. Il brillante studente che le aveva fatto perdere la testa partì volontario per il fronte, a combattere contro gli inglesi. Al ritorno, si era trasformato in un drogato che la derubava. Nel 1957, dopo aver messo al mondo la figlia Mona, chiese il divorzio: «Mi sentivo come uno schiavo liberato dalle catene, come un uccello scappato dalla gabbia» scrive.10 Qualche tempo dopo tornò a Kafr Tahla per diventare il medico del villaggio. Gli anni di lavoro a diretto contatto con le classi più umili11 le fornirono il materiale per il libro che avrebbe segnato la sua vita: Women and Sex, pubblicato nel 1972, è un du-

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rissimo atto di accusa contro le mutilazioni genitali e la violenza contro le donne, tanto diretto e severo da costare all’autrice il posto presso il ministero della Salute.12 Messa alle strette dai superiori, al-Sa‘dawi scelse di non rinnegare nulla di quello che aveva scritto: per questo fu costretta alle dimissioni. Da quel giorno, lo spirito di denuncia non ha più abbandonato i suoi scritti, saggi o romanzi che siano: i libri parlano di prostitute, violenza, soprusi e del ruolo della religione come mezzo di oppressione politica e sociale. Non stupisce, dunque, che abbiano procurato all’autrice tanti guai. Nel 1981 al-Sa‘dawi è stata arrestata su ordine di Anwar al-Sadat per aver denunciato l’iniquità degli accordi di Camp David, con cui il presidente egiziano siglava – primo capo di Stato arabo – la pace con Israele. Solo la morte di Sadat le restituì la libertà. In seguito le sue posizioni la portarono allo scontro diretto con Suzanne Mubarak, la potentissima first lady che voleva fare dei diritti femminili il suo campo di azione privato. Negli anni Novanta ad attaccarla furono i fondamentalisti: il suo nome finì in una lista di persone da eliminare perché «nemiche dell’Islam». Così, insieme al terzo marito Sherif Hetata, fu costretta a rifugiarsi negli Stati Uniti, dove rimase per anni. Rientrata in patria alla fine del decennio, neanche allora ha trovato pace. L’ultimo scontro pubblico l’ha affrontato (e vinto) nel 2001, quando un gruppo ultra-conservatore l’ha denunciata per apostasia, chiedendo che a Hetata, medico e dissidente anche lui, fosse imposto di divorziare da lei, in quanto infedele. Un mare di rughe le taglia la pelle scura, i capelli bianchi sono perennemente arruffati, come nelle foto di quando era bambina, ma dagli occhi sprigiona una forza che non ha nessuna intenzione di piegarsi ai limiti che l’età le imporrebbe. La voce è forte e le parole che pronuncia taglienti, allenate da anni di contestazioni. Vive sola in una casa non lontana dal centro del Cairo. Tre anni fa ha abbandonato Heta-

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ta, l’uomo che con lei aveva sopportato le minacce, l’esilio, le umiliazioni di una vita sotto sorveglianza e al quale nei suoi libri aveva dedicato bellissime frasi d’amore: «Molti dei miei amici mi hanno domandato come potessi chiedere di nuovo il divorzio alla mia età» racconta. «È vero, quando ho deciso di rompere il matrimonio avevo 76 anni. Ma la questione non è mai stata quella. Io non accetto compromessi, non l’ho mai fatto. Ho scoperto che mio marito mi mentiva e mi tradiva: se io, che sono un simbolo di lotta contro l’oppressione maschile, avessi accettato di sopportare e restare con lui in nome dell’età cosa avrebbero fatto le altre donne? Non potevo: meglio divorziare di nuovo.» A causa di questo modo di fare poco diplomatico e inflessibile, al-Sa‘dawi è rimasta a lungo una voce inascoltata anche fra i circoli dei dissidenti: molti la consideravano eccessiva, troppo estremista per essere un interlocutore serio, troppo ruvida perché si potesse instaurare con lei un dialogo vero. Poi è arrivata piazza Tahrir e tutto è cambiato: «È stato meraviglioso: come trovare una nuova famiglia. Eravamo tutti insieme sotto le tende: ricchi e poveri, giovani e anziani, donne e uomini. Abbiamo vissuto un sogno. Aspettavo quel momento da sempre, eppure quando è arrivato è stata una sorpresa enorme, non avrei mai creduto di vederlo con i miei occhi. Gli egiziani che si riprendevano la loro dignità, il loro paese. Esserci mi ha ripagato di anni di lotta. All’annuncio delle dimissioni di Mubarak c’è stata un’ondata di emozione che non dimenticherò mai». Dopo gli anni dell’esilio e quelli dell’isolamento, al-Sa‘dawi è ora al centro del dibattito politico: molte delle battaglie che si combattono nella fase post-rivoluzionaria sono le stesse che lei ha affrontato per anni, molti dei temi sul tappeto oggi sono quelli su cui ha scritto centinaia di pagine. A dispetto dell’età, a 81 anni per la madrina del femminismo egiziano si apre una fase nuova: e lei, neanche a dirlo, ne è felicissima. «Non ho mai smesso di lottare; ma ora lo faccio con più forza» puntualizza. «Non voglio che la reli-

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gione ci scippi quello che abbiamo ottenuto, che delle forze retrograde prendano il posto del serpente a cui abbiamo staccato la testa. Il rischio c’è e bisogna vigilare.» La vita di Nawal al-Sa‘dawi oggi più che mai sembra un romanzo. Di autobiografie ne ha già pubblicate tre, due per raccontare i primi anni e l’età matura, una dedicata al periodo trascorso in prigione: il sospetto è che dopo i fatti del 2011 ce ne vorrà una quarta. Per ora sta lavorando a far rinascere l’Unione delle donne egiziane (organizzazione che aveva creato e che fu poi bandita per volontà di Suzanne Mubarak) ed è tornata all’amore di sempre, la scrittura: «A piazza Tahrir sono diventata una persona migliore, ho visto con i miei occhi il sogno dell’uguaglianza realizzarsi. Di questo sto scrivendo. È un romanzo ispirato a quello che è accaduto, cosa verrà dopo non lo so ancora. Ma di un fatto sono certa: la rivoluzione vivrà, anche se ci vorranno anni per farla trionfare, anche se dovremo batterci a lungo per fermare la contro-rivoluzione. Il futuro è dei giovani che erano in piazza, di chi sta lottando ora per prendersi le cose per cui io ho lottato una vita intera». Di donne come quelle di cui parla al-Sa‘dawi in Egitto ce ne sono molte. Contrariamente a ciò che accade in altri paesi, come l’Arabia Saudita e lo Yemen, da tempo le egiziane ricoprono ruoli di primo piano nella società e nella politica: sin dall’inizio del secolo scorso, il movimento per l’indipendenza ha camminato al fianco di quello per l’affermazione dei diritti femminili. È dall’Egitto che, con le idee dell’intellettuale riformista Qasim Amin prima e di Hoda Sha‘rawi poi, è partito il movimento di liberazione delle musulmane. Ed è sempre in Egitto che, dai tempi di Nasser in poi, le donne hanno ottenuto risultati che in zone vicine sono ancora oggi impensabili: le egiziane votano dal 1956 e sin dagli anni Sessanta la loro presenza nei governi è pressoché costante.13 Da tempo sono in primo piano in campi come la televisione, l’in-

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dustria cinematografica e la letteratura. Nell’ultimo decennio poi la loro presenza si è fatta ancora più evidente, anche grazie a una serie di iniziative che hanno sfidato la dilagante cultura conservatrice: da Radio Motalakat (la radio delle divorziate), creata per rispondere alle domande delle mogli che vogliono separarsi, al blog fenomeno del 2008, «Che il velo sia da sposa!», di Ghada Abdel Aal, una sorta di «Sex and the City» all’egiziana in cui l’autrice parla della difficoltà di trovare marito,14 fino al successo della dottoressa Hiba Qtub e del suo programma tv sulla sessualità, il mondo femminile in Egitto è apparso sempre meno disposto a rimanere chiuso dentro limiti prefissati. Lo conferma una lunghissima serie di «prime volte». Solo negli ultimi cinque anni il soffitto di cristallo è stato sfondato nelle università e nella magistratura, con l’insediamento della prima preside di facoltà e delle prime trenta giudici; nelle amministrazioni locali grazie a Eva Kyrolos, avvocato, copta, eletta sindaco del suo villaggio, e in quella nazionale: nonostante la fortissima opposizione dei conservatori, Amal Afifi è stata la prima donna ammessa a ricoprire la carica di maazouna, funzionario governativo incaricato dei matrimoni.15 Le donne sono state inoltre il motore di alcuni dei fenomeni che hanno fatto da incubatori per la protesta del 2011. Ghada Shahbender, la creatrice di «Shayfeen.com» (letteralmente «Vi stiamo osservando») – un sistema di monitoraggio elettorale basato su segnalazioni dei cittadini – è stata fra i primi a rivelare i brogli dietro alle cosiddette «elezioni libere» dell’era Mubarak. Ragazze e professioniste sono state l’anima di «Kifaya» (Abbastanza), il movimento della società civile che sin dal 2005 era in strada per protestare contro il governo. All’interno dei Fratelli musulmani la componente femminile si è ritagliata un ruolo sempre più attivo, contribuendo alle attività sociali e aprendo il gruppo alle nuove tecnologie. Nelle università, manipoli di studentesse – appartenenti prevalentemente a partiti islami-

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ci – si sono opposte con forza a ogni tentativo di limitare i loro spazi, arrivando a inscenare manifestazioni in difesa del diritto di indossare il velo integrale. E, nel 2006, in prima fila nel grande sciopero che ha paralizzato il centro tessile di El-Mahalla El-Kubra e innescato un’ondata di proteste simili in tutto il paese c’erano le operaie. Ai fenomeni sociali si sono affiancate le riforme legislative: nel 2004 è stata cancellata la legge che vietava alle egiziane che sposano stranieri di passare la nazionalità ai figli: l’anno dopo, i tempi di custodia dei bambini da parte delle madri divorziate sono stati allungati. Nel 2007 sono state introdotte le quote rosa in Parlamento. Il 2008 è stato l’anno delle norme in difesa dell’infanzia: l’età minima per il matrimonio è stata portata a 18 anni e le mutilazioni genitali sono state proibite per legge. Infine, l’istruzione: il gap fra i sessi si è ridotto sensibilmente, arrivando alle 95 bambine per 100 maschi iscritti alle scuole elementari del 2007 contro le 66 del 1975.16 Per anni dietro a ognuno di questi provvedimenti si è intravista l’ombra di Suzanne Mubarak. A lungo la ex first lady ha fatto di tutto per legare il suo nome alle riforme a favore delle donne nella speranza, neanche troppo nascosta, di vincere il Nobel per la Pace. Suzanne, come tutti la chiamano, non è mai stata amata dalle attiviste, che le hanno sempre rinfacciato un interesse solo formale per la loro causa: eppure paradossalmente, la sua uscita di scena oggi rischia di danneggiarle. I partiti di stampo conservatore, che dopo la caduta del regime hanno acquistato un ruolo di primo piano, promettono di rivedere tutte quelle norme che, a loro giudizio, sarebbero figlie della volontà dei Mubarak di «occidentalizzare» l’Egitto: prime nella lista le cosiddette «leggi di Suzanne», quelle sulle donne appunto. Una prospettiva che spaventa, e non poco, molte egiziane: «Ci sono voluti vent’anni di lavoro per ottenere le riforme: le abbiamo strappate noi, non Suzanne» dice Nahed Shetata, dell’Egyptian Center

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for Women Rights, la principale ong femminile del paese. «Lei ha cercato di prendersene il merito, ma i cambiamenti sono stati il frutto del lavoro di centinaia di persone e non permetteremo che vengano annullati.» Dai loro uffici nel quartiere Maadi, poco lontano dal centro del Cairo e dal letto del Nilo, Shetata e le sue colleghe sono state per anni uno dei pilastri del movimento femminile: subito dopo la caduta del regime si sono mobilitate affinché le egiziane potessero dire la loro nel primo voto libero in più di trent’anni. I loro incontri di formazione per candidate ed elettrici hanno attratto centinaia di partecipanti appartenenti a tutti gli schieramenti dell’arco politico, Fratelli musulmani e partiti salafiti compresi. Particolare enfasi è stata data al problema della violenza contro le donne e al come affrontarla nel nuovo corso: dal Cairo ad Alessandria, passando attraverso le campagne e i villaggi conservatori al confine con il Sudan, il fenomeno in Egitto ha infatti le dimensioni della piaga. Nel 2008 un sondaggio rivelava che il 46,1 per cento delle egiziane e il 52,3 per cento delle straniere che vivevano nel paese erano soggette a molestie quotidiane, dai commenti sessuali a vere e proprie aggressioni.17 Un problema accentuato dal dilagare dell’ideologia wahabita, importata dai tanti uomini emigrati nei ricchi paesi del Golfo per lavorare, ma anche dalla crescente repressione messa in atto dalle autorità: dal 2005 in avanti le donne sono state oggetto di attacchi mirati ogni volta che si sono unite a proteste antigovernative. L’episodio del 6 aprile 2010 riportato da ‘Ala al-Aswani nel suo ultimo libro, La rivoluzione egiziana, con un generale che sistematicamente ordinava ai suoi uomini di prendere di mira le ragazze durante una manifestazione, è significativo.18 Così come le aggressioni, avvenute sotto gli occhi delle forze di sicurezza, alle giornaliste che nel 2005 raccontavano le proteste dell’opposizione alla vigilia delle elezioni presidenziali. Questo atteggiamento purtroppo non è scomparso con

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la fine di Mubarak: uno dei primi segnali della rottura fra i generali e la gente subito dopo le dimissioni del presidente sono stati i test di verginità imposti alle ragazze arrestate a piazza Tahrir. Le giovani coinvolte ne sono uscite umiliate e spaventate, ma nonostante tutto molte di loro sono tornate in strada qualche mese dopo, per la seconda fase della rivoluzione: ancora una volta la presenza femminile tra i manifestanti, scrive sempre al-Aswani, è stata «stupefacente». Quando una ragazza velata è stata malmenata e quasi spogliata alla luce del sole dai poliziotti antisommossa,19 in migliaia sono scese in strada per rivendicare dignità e chiedere giustizia: il suo reggiseno blu esposto agli occhi di tutti ha fatto scattare una rabbia profonda fra le progressiste così come fra le conservatrici. Tenendosi per mano e gridando slogan in nome del rispetto, ancora una volta le egiziane hanno mostrato di non voler sottostare ai dogmi sociali e di avere il diritto, come i loro compatrioti maschi, di esigere un paese più giusto. Per capire quanto coraggiosa sia stata questa scelta bisogna prendere un sondaggio realizzato nella primavera del 2011, quindi dopo la prima fase della rivolta anti-Mubarak, dalla rivista femminile «Nasf Addounia» («La metà del mondo»). Interrogati sul ruolo delle donne nella società, la maggior parte degli intervistati continuava a negare loro una partecipazione paritaria: il 71 per cento non avrebbe voluto vederle in polizia, neanche per occuparsi di altre donne. L’87 per cento considerava le riforme legislative degli ultimi anni come frutto della volontà di Suzanne Mubarak, non delle battaglie della società civile, l’88 per cento rispondeva «no» alla domanda se fosse possibile per l’Egitto avere una donna presidente. Eppure, anche in tanta chiusura, c’era uno spiraglio. Al quesito se ci fosse in definitiva una donna degna di sedere sulla poltrona più alta della Repubblica, gli intervistati hanno risposto di sì. Indicando compatti un nome: quello di Gameela Ismail.

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DIR. EDITORIALE

ART DIRECTOR

EDITOR

GRAFICO

REDAZIONE

UFF. TECNICO

Francesca Cafer ri I L

Francesca Caferri, giornalista de «la Repubblica», da dieci anni si occupa di mondo arabo e musulmano: ha seguito gli sviluppi sociali e le maggiori crisi nella regione, viaggiando dall’Iraq all’Afghanistan, passando per Israele, Libano, Pakistan, Yemen, Arabia Saudita, Egitto e molti altri paesi. Vincitrice del premio di giornalismo Saint-Vincent, è una delle fondatrici del movimento «Se non ora quando?». Questo è il suo primo libro.

2 M M di A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A

foto © liana miuccio

2 M M di A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A

Le donne e il futuro del mondo musulmano

P A R A D I S O

Francesca Caferri

A I

Il Paradiso ai piedi delle donne

P I E D I D E L L E D O N N E

La manager si muove con decisione: firma documenti, controlla la mail sul BlackBerry, chiede aggiornamenti, convoca una riunione. Poi si accorge di essere in ritardo: dall’attaccapanni afferra un velo nero e chiama l’autista. Devono sbrigarsi, altrimenti farà tardi. Prima di partire si copre la testa con il velo e dal sedile posteriore dà indicazioni. Non può guidare l’auto che la porterà all’appuntamento: siamo in Arabia Saudita e nonostante diriga un gruppo dal fatturato milionario, Khlood al-Dukheil deve sottostare alle rigide regole del protocollo, che prevede che le donne si mostrino in pubblico solo velate e avvolte da una lunga tunica nera e non possano sedere al volante. Quello con Khlood al-Dukheil è solo uno degli incontri di questo libro: dall’Arabia Saudita allo Yemen, attraversando Egitto, Pakistan, Afghanistan e Marocco, Francesca Caferri, giornalista da sempre attenta a questi temi, ci guida in un viaggio nel mondo musulmano visto attraverso gli occhi femminili. Una serie di ritratti raccontano come il ruolo delle donne sia cambiato e perché non ci fosse nulla da stupirsi nel trovarle in piazza durante la Primavera araba: la premio Nobel per la Pace yemenita Tawakkol Karman, l’impiegata egiziana Asma Mahfouz, che con un video su YouTube ha portato migliaia di persone a manifestare contro il presidente Hosni Mubarak, le poliziotte afghane che devono combattere contro i loro stessi colleghi per lavorare e Nadia Yassine, la politica conservatrice che sfida Mohammed VI, re del Marocco. Pagina dopo pagina le protagoniste di questo libro distruggono stereotipi e ci spiegano perché, come disse Maometto, «il Paradiso è ai piedi delle madri». E delle donne. Seguire i loro passi è fondamentale anche per noi. Perché se la sfida sui diritti femminili è ancora aperta in molti paesi, in nessun luogo è importante come nel mondo musulmano: è dall’esito di questo braccio di ferro che si capirà chi vincerà lo scontro fra conservatori e riformisti. E quali scenari futuri si apriranno per questa regione del mondo così densa di contraddizioni.

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO grap h ic de s igner : s u s anna to s atti

d

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I N C O P E R T I N A : elaborazione da foto © C lay ton B a s tiani / T re v illion I mage s

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DIMENSIONE: 150x210 mm

BROSSURA

PANTONE 810 C

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