DIR. EDITORIALE
ART DIRECTOR
EDITOR
GRAFICO
REDAZIONE
UFF. TECNICO
2 M M di A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A
foto © marina alessi
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arturo cattaneo la notte inglese romanzo
niente e a nessuno. Nel profondo, dove reni, cuore e cervello si toccano, sento che la notte non finirà mai. Adesso so che per amore forse non morirò, ma per mancanza d’amore sì. Arturo Cattaneo è nato a Milano, dove insegna Letteratura inglese all’università Cattolica. È stato giornalista professionista. Ha pubblicato vari saggi e volumi sui rapporti tra cultura italiana e cultura inglese, tra cui Chi stramalediva gli inglesi (Vita e Pensiero, 2007). Nel 2010 è uscito il romanzo Ci vediamo a settembre (Sedizioni).
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www.xxxxxxxxxxxx.it
arturo cattaneo
Rido, per la prima volta senza voler piacere a qualcuno, senza pensare a
ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO PROGET TO GRAFICO: MARCELLO DOLCINI G R A P H I C D E S I G N E R : manuele scalia
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In copertina: Elaborazione da foto © Michael S. Yamashita/Corbis
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DIMENSIONE: 156x233 mm
Una sera d’estate tiepida e piena di promesse, a Cambridge, tra le palazzine austere e i prati verdissimi dei college. Riccardo ha diciannove anni e si sta preparando a uno degli eventi più importanti della vita studentesca: il Society Night Dinner, la cena di gala che si svolge secondo regole uguali da secoli. Quando il Master pronuncia la frase di rito “Follow me, boys!”, il sipario si apre e gli ospiti sciamano nel salone ovattato di legno chiaro e tendaggi di velluto: circondati dalle foto in bianco e nero delle generazioni che li hanno preceduti, i partecipanti si accingono a una cena che si ripete uguale a se stessa da tempo immemorabile ma insieme è il preludio a una notte destinata a rimanere unica – inimitabile come la giovinezza. Gradualmente, l’ufficialità lascia il posto a un carnevale che annulla gerarchie e rituali: la piccola umanità racchiusa nel college – etero e gay, laici e credenti, adulti e soprattutto giovani di ogni nazionalità – è investita da una corrente crescente di erotismo ed ebbrezza. Per Riccardo, studente italiano la cui brillante intelligenza nasconde il segreto tarlo di un’inadeguatezza, il girotondo sempre più veloce dei volti, dei dialoghi, degli sguardi ha in serbo una rivelazione: tra le pieghe di questa notte veloce l’amore è in agguato, irridente e imprendibile, assoluto e perentorio come solo a vent’anni. In quel teatro naturale che è un college di Cambridge, Riccardo sta prendendo le distanze dall’Italia e dalla famiglia, scoprendo se stesso attraverso gli altri e attraverso una nuova lingua, l’inglese. Una galleria di personaggi originali e vivissimi, una riflessione in punta di penna sullo spaesamento sentimentale di un ragazzo e di un’intera generazione, ma soprattutto un’appassionata e freschissima commedia divisa in cinque atti a crescente gradazione alcolica, sulla scia dei liquori che distillano il rituale del Society Night Dinner: Sherry, Red wine, Port and Madeira, High spirits. Fino all’atto finale, Milk, quando la notte magica scivola in un mattino caliginoso, e alla tavola del breakfast Riccardo, ancora stordito, s’interroga sulla domanda di tutta una vita: cosa cambia con l’amore? Pagine dalla scrittura impeccabile ma soprattutto vibranti di giovinezza, in cui ciascuno ritroverà una notte dei propri vent’anni.
BROSSURA
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Scrittori italiani e stranieri
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Arturo Cattaneo
La notte inglese romanzo
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Gli avvenimenti, le persone e i luoghi descritti in questo romanzo sono fittizi. Eventuali analogie con avvenimenti, persone e luoghi reali sono dovute al fatto che in ogni epoca e Paese gli studenti e le universitĂ tendono ad assomigliarsi.
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La notte inglese di Arturo Cattaneo Collezione Scrittori italiani e stranieri ISBN 978-88-04-61438-8 Š 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione aprile 2012
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La notte inglese
The young, for all their glory, are desperate, like the Florentines in plague time. brendan kennelly, The Florentines
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La foto di fine anno mi guarda dallo stesso punto in cui era appesa quella di chi occupava la stanza prima di me. Le foto ufficiali del college sono delle stesse dimensioni, ogni anno. È una tradizione, o forse dipende dal fatto che il fotografo non è mai cambiato, a memoria d’uomo: Mr Eden, piccolo, occhiali neri, giacchetta grigio tortora con due spacchi laterali, più dottorale di molti professori. In questo modo il vantaggio è doppio: l’alone sulla parete coincide e il chiodo è sempre lo stesso. A quel chiodo sono state appese generazioni di studenti del St Andrew’s, decine e decine di classi. A Cambridge niente cambia, tutto è sempre uguale, tranne il materiale umano. Plus ça change, plus c’est la même chose dicono qui, acconsentendo per una volta a citare i francesi. «Non è vero» dice Alain strizzando l’occhio al momento di uscire per un nuovo appuntamento: «Plus c’est la même chose et plus ça change. È l’unico modo per non morire di noia». Vedendo le foto che affollano le pareti delle sale comuni, spesso mi chiedo se il gruppo conti più dell’individuo. I volti piccoli, allineati, da lontano sembrano intercambiabili: come le anatre sulle cartoline del Cam. Sono realmente cambiate nel tempo, le facce dei ragazzi del St Andrew’s? Mi avvicino alla nostra foto, scattata sotto il sole di fine maggio. 9
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Di certo sembriamo molto più giovani degli studenti di cinquant’anni fa: volti da uomini, sofferti, privi di facili illusioni. Io ho addirittura l’aria di un ragazzino, con i miei diciannove anni appena compiuti. Al pensiero sembra sogghignare anche il Master, Canon Kirby, al centro della prima fila, scuro nella toga, il viso grigio come certe sue pipe di schiuma annerite dal tempo. Per lui le differenze di età, razza e religione non contano: esistono solo i boys del college, compreso Mr Fitzpatrick, l’archeologo irlandese che ha stabilito un vitalizio con il St Andrew’s, ieratico e immobile sul bastone che gli fa da gamba, un occhio coperto da una pezza nera come un vecchio pirata o un profeta che ha consumato la vista. Sono stato felice quando Mr Eden mi ha indicato, con un gesto e un sussurro professionali, «Top line, Sir, if you please», la terza fila, quella dei più alti. E lì mi sono intrufolato tra Alain e Klaus, con Andrés alla sua destra. Nessuno ha trovato da ridire. Un attimo dopo Mr Eden ci fissava nel tempo, o almeno finché durerà questa foto. Non è l’unica, ce ne sono altre: quelle della squadra di calcio, del team di canottaggio, ma questo è il gruppo, qui ci siamo tutti, vecchi e giovani, inglesi e stranieri, bianchi e neri, eterosessuali e omosessuali. Stacco il quadretto dal chiodo per osservarlo da vicino. Ho ancora qualche minuto, prima di scendere. Un osservatore esterno riuscirebbe ad associare i volti alle propensioni sessuali? E sarebbe colpito da quelli che per me si stagliano nel gruppo, o passerebbe oltre con un movimento distratto dell’occhio? Nella foto guardiamo tutti nella stessa direzione, verso il vuoto o il futuro, ma nella realtà di ogni giorno tutti si rivolgono ad Alain. È lui l’ago della bilancia al St Andrew’s, il modello inconfessato, la pietra dello scandalo e la pietra di paragone. Unifica le passioni, i linguaggi, il Vecchio e il Nuovo Mondo. Viene da Montréal, e la sua lingua madre, il francese, lascia in eredità al suo inglese una qualità raffinata e un tono leggermente nasale. È lui che lancia le mode, che rende popolari un gesto o una battuta. Nel periodo in cui sono arrivato furoreggiavano i suoi “Pleeeeeeease!” miagolati, 10
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a esprimere insoddisfazione o sarcasmo più efficacemente di un “fuck off”, o in alternativa i suoi schiaffi simulati, irridenti. I capelli gli cadono sulle spalle in una serie di onde, come quelle di una statua greca, che Alain ricorda nei lineamenti regolari e nel naso, dritto e quasi in linea con la curva del mento. “Mollemente virile” penso osservandolo. Soprattutto quando si muove. L’impressione è che voglia rendere inequivocabile che il suo fisico da atleta, la forza dei muscoli che ne fa il miglior vogatore del college, non sono destinati alle donne. Per essere precisi, raramente alle donne. Che comunque lo trovano attraente. Un po’ per gioco e un po’ per la sfida implicita nella conquista di un omosessuale, le ragazze mi chiedono di presentarglielo, o d’invitarlo ai party in camera mia. La più insistente è Mara, che lontana dal fidanzato italiano, ricco e poco amato, non si stanca di provocare. «Peccato che Alain sia un culo, se no me lo farei subito.» «È che tu, dear Mara, hai la variante femminile del desiderio maschile di redimere una prostituta. Molto romantico.» «Guarda che andare con una prostituta non ti farebbe poi così male, Ricky dear» replica Mara sbattendo esageratamente le ciglia annerite dal trucco sugli occhi verdi. Se troverò mai il coraggio di baciarla, giuro che ci farò l’amore per giorni, fino a cadere sfinito come un gatto. È merito di Alain se appena arrivato a Cambridge non mi hanno arrestato. Be’, forse in prigione non mi avrebbero sbattuto, ma in tribunale ci sono andato. Ero qui da pochi giorni e una sera giravo allegramente su una bicicletta senza luci. Stavo tornando al St Andrew’s dopo essere stato a casa di certe ragazze spagnole conosciute da Carletto Pozzi, l’altro italiano al college. Anche lui senza luci. Una pattuglia di polizia ci ha fermato e sequestrato le bici. Una volta al college abbiamo scoperto che il foglio che ci avevano lasciato non era una ricevuta per le nostre bikes, ma un ordine di comparizione in tribunale: avevamo commesso un reato, per il quale dovevamo presentarci di fronte al molto onorevole giudice 11
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Furnivall. In inglese è più impersonale: Mr Justice Furnivall. Sembrava un soprannome: Giustizia Furnivall. Come l’eroe di un western all’italiana. Alain, che studia Legge, si è subito offerto di scrivere la nostra memoria difensiva, e all’ora stabilita si è presentato con noi davanti al giudice. «Ci dichiariamo colpevoli, vostro onore» la sostanza della breve arringa di Alain, «ma ci appelliamo alla vostra clemenza. Gli imputati non conoscevano la legge inglese, erano qui da pochi giorni, e inoltre, ehm... provengono da un Paese in cui girare in bicicletta di sera senza luci non è considerato un reato grave, forse nemmeno un reato... in questo momento la giurisprudenza non mi assiste... in effetti andare in giro senza luci è tanto diffuso quanto la caccia alla volpe in Inghilterra...» Il tutto pronunciato in tono professionale. Apparentemente non sgradito alla corte, visto che ci hanno lasciato andare senza multarci. «Bene, Mr Barton» ha concluso Justice Furnivall congedandoci, «ma ricordi ai suoi assistiti che anche la caccia alla volpe ha le sue regole, in questo Paese.»
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È quasi ora di scendere al Society Night Dinner. Per gli uomini sono di rigore giacca e cravatta, per le donne l’abito lungo. È un’occasione speciale, mondana, nessuno indossa la toga come le altre sere della settimana. La mancanza di una giacca nel mio guardaroba è stata un problema, al mio arrivo al St Andrew’s. Ma ne occorreva una, se non si voleva rimanere esclusi dalla cena di gala, e il Society Dinner, è stato subito chiaro, era la chiave per entrare nelle stanze segrete di quel convento laico che è un college di Cambridge. La giacca non si è rivelata una difficoltà insormontabile. Un po’ come l’abito lungo prescritto per le signore. Qui il concetto di “lungo” è un compromesso tra un ideale di eleganza sobria e soluzioni molto pratiche. Molto carnali, in qualche caso. Al mio pri12
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mo Society Dinner sono rimasto folgorato da una signora tecnicamente in lungo, in realtà rivestita dalla vita ai piedi da una gonna a fiori che aveva l’aria di un tendaggio sottratto a qualche finestra “conveniente”, come dicono gli inglesi, e dalla vita in su da una collana di perle adagiata su un torso nudo salvo una fascia che le cingeva il seno come una bandana. Il fatto che il seno si muovesse irrequieto tutta la serata, come per liberarsi dalla stoffa che lo costringeva, mi aveva ipnotizzato: riuscivo a sentirlo bagnato di sudore nello sforzo. Alla fine, basta una giacca qualsiasi. Non importa se brutta, lisa, fuori moda, troppo corta o troppo lunga, mal combinata con il resto dell’abbigliamento, o dai colori improponibili. Una giacca. Do una scorsa al menu, un cartoncino color avorio piegato in due, come un invito di nozze. In copertina, il nome del college su due righe: St Andrew’s House. Sotto, lo stemma in bianco e nero, a malapena decifrabile tanto è piccolo e sbavato nella riproduzione. Nelle due pagine interne si fronteggiano la lista dei vini e dei liquori su un lato, quella delle portate sull’altro. Un bel miscuglio linguistico e culinario, con i suoi Salade niçoise, CÔtes du RhÔne, Daube de mouton, Carottes, Champignons, Griestorte, Fromage. Eppure sono stati questi menu i primi segni tangibili del mio ingresso in un nuovo mondo, insieme ai cartelli stradali e ai titoli neri e compatti dei giornali sugli stand di metallo fuori dalle edicole. Messaggi diretti, non testi generici sui quali imparare l’inglese. Anche se, rifletto gettando un’altra occhiata al menu, d’inglese qui ce n’è poco. Una lingua ambigua, mi ha subito messo in guardia Alain, una lingua sfuggente. Poche regole ma una giungla di sfumature e modi di dire che tradiscono chi viene da fuori. Come una folla di volti in una grande città: apparentemente indifferenziati, ma chi c’è nato riconosce al volo lo straniero. «È stato calcolato» lascia cadere con noncuranza perfida John Patterson in una delle sue lezioni alla History Faculty «che la maggior parte delle parole inglesi usate in conversazione è di origine 13
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germanica.» Lo dice con un sorriso sottile e un filo di voce ironico, incongruo in un gigante di un metro e novanta per novanta chili. Patterson leva la pelle alle sue classi con la perizia del chirurgo e il ghigno appena accennato, sneer, del torturatore: «Gli inglesi guidano a sinistra. I francesi guidano a destra. Gli italiani guidano a destra, a sinistra, al centro». Da incazzarsi. Ma inoppugnabile, o difficilmente confutabile, come sempre con Patterson. Se non opponendogli la stessa ironia maligna. «Se non che...» rispondo all’osservazione sulla prevalenza di parole germaniche nella lingua inglese rispetto alle latine «se non che le parole chiave sono per lo più di origine latina. Basta che ci guardiamo intorno» continuo. «Siamo una class della History Faculty di una university, e stiamo studying language e literature.» «True» replica Patterson ridacchiando. «True, in a way» e passa ad altro senza abbassarsi a usare un solo termine latino. «Bravo Rick! Anzi Riccardo, niente germanismi.» Mara esce dalla grande porta a vetri della History Faculty come se fuori l’aspettasse una folla di ammiratori pronti a correrle incontro. In realtà ci siamo solo io e due o tre reduci dalle lezioni del mattino: il gruppetto che ha deciso di fare un salto in centro per l’intervallo del pranzo. «Sei stato grande Rick!» La guardo con l’aria di chi non capisce. Voglio gustarmi il trionfo dando l’impressione di non essermi neppure accorto di averla spuntata su Patterson. Almeno oggi. «Il difensore dei latini. E delle latine.» Mara mi prende sottobraccio e accenna un movimento che potrebbe portare in ogni direzione. In effetti, oscilliamo insieme senza muoverci. Provo a fare resistenza. «Solo? E delle nordiche allora, delle slave, delle orientali? A proposito, pensavo giusto di andare al cinese in Petty Cury. Economico, rapido, esotico.» «Al cinese? Senza invitarmi, come al solito?» Lo sapevo. Nel momento in cui ho detto “cinese” ho capito che sa14
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rebbe tornata sul punto. Avrei dovuto prevederlo. È da quando è arrivata a Cambridge per i corsi estivi che insiste. In due o tre occasioni mi ha messo alle strette: perché non la invitavo fuori a cena, o a ballare al Taboo? Una volta non ce l’ho più fatta, non so perché, non c’era una ragione precisa, ma sono esploso, secco, in un tono di voce duro. «Cazzo, Mara, ma non puoi andarci da sola? Non avrai certo bisogno di me per uscire la sera...» «E se invece volessi andarci proprio con te? E se fossi venuta a Cambridge apposta per uscire con te?» Il tono era meno morbido del solito, le parole accompagnate da un sorriso un po’ tirato. Mi sono sentito in colpa. «Guarda che se questa settimana non m’inviti alla cena del college mi offendo» ha continuato, visto che io non rispondevo. «Non sto scherzando» ed era seria, anche se sorrideva. «Giuro che non ti parlo più.» E alla fine ho detto sì. Con Mara cedo sempre, solo con lei mi capita di essere eccitato senza provare imbarazzo o paura. Ha una sensualità molle, debordante, i seni morbidi e pieni come una statua che ha preso vita, si è appena svegliata e si stropiccia gli occhi, languida. Morbidi e pieni anche sotto le magliette da due soldi dei mercati rionali che si ostina a portare in Inghilterra («Tanto, rispetto a quello che si mettono le inglesi...»). Mi piace il suo viso tondo, ammiccante, le efelidi sparse, gli occhi verdi sgranati, da Lolita di provincia. A dirglielo s’incazza di sicuro. O forse no: le piace stupire. Se mai si offende per il “di provincia”. E i capelli: di seta, rosso biondi. Ginger. Mara’s got ginger hair. È venuta a Cambridge per migliorare il suo inglese, e perché l’Inghilterra è libertà, avventura, poter dormire tutta la notte con un ragazzo, o ogni notte con un ragazzo diverso. Let’s spend the night together / now I need you more than ever, l’accenno spesso a lei e alle altre. L’Inghilterra è la conchiglia di un mondo di parole e suoni magici. Forse è veramente venuta anche per me. 15
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foto © marina alessi
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arturo cattaneo la notte inglese romanzo
niente e a nessuno. Nel profondo, dove reni, cuore e cervello si toccano, sento che la notte non finirà mai. Adesso so che per amore forse non morirò, ma per mancanza d’amore sì. Arturo Cattaneo è nato a Milano, dove insegna Letteratura inglese all’università Cattolica. È stato giornalista professionista. Ha pubblicato vari saggi e volumi sui rapporti tra cultura italiana e cultura inglese, tra cui Chi stramalediva gli inglesi (Vita e Pensiero, 2007). Nel 2010 è uscito il romanzo Ci vediamo a settembre (Sedizioni).
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In copertina: Elaborazione da foto © Michael S. Yamashita/Corbis
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Una sera d’estate tiepida e piena di promesse, a Cambridge, tra le palazzine austere e i prati verdissimi dei college. Riccardo ha diciannove anni e si sta preparando a uno degli eventi più importanti della vita studentesca: il Society Night Dinner, la cena di gala che si svolge secondo regole uguali da secoli. Quando il Master pronuncia la frase di rito “Follow me, boys!”, il sipario si apre e gli ospiti sciamano nel salone ovattato di legno chiaro e tendaggi di velluto: circondati dalle foto in bianco e nero delle generazioni che li hanno preceduti, i partecipanti si accingono a una cena che si ripete uguale a se stessa da tempo immemorabile ma insieme è il preludio a una notte destinata a rimanere unica – inimitabile come la giovinezza. Gradualmente, l’ufficialità lascia il posto a un carnevale che annulla gerarchie e rituali: la piccola umanità racchiusa nel college – etero e gay, laici e credenti, adulti e soprattutto giovani di ogni nazionalità – è investita da una corrente crescente di erotismo ed ebbrezza. Per Riccardo, studente italiano la cui brillante intelligenza nasconde il segreto tarlo di un’inadeguatezza, il girotondo sempre più veloce dei volti, dei dialoghi, degli sguardi ha in serbo una rivelazione: tra le pieghe di questa notte veloce l’amore è in agguato, irridente e imprendibile, assoluto e perentorio come solo a vent’anni. In quel teatro naturale che è un college di Cambridge, Riccardo sta prendendo le distanze dall’Italia e dalla famiglia, scoprendo se stesso attraverso gli altri e attraverso una nuova lingua, l’inglese. Una galleria di personaggi originali e vivissimi, una riflessione in punta di penna sullo spaesamento sentimentale di un ragazzo e di un’intera generazione, ma soprattutto un’appassionata e freschissima commedia divisa in cinque atti a crescente gradazione alcolica, sulla scia dei liquori che distillano il rituale del Society Night Dinner: Sherry, Red wine, Port and Madeira, High spirits. Fino all’atto finale, Milk, quando la notte magica scivola in un mattino caliginoso, e alla tavola del breakfast Riccardo, ancora stordito, s’interroga sulla domanda di tutta una vita: cosa cambia con l’amore? Pagine dalla scrittura impeccabile ma soprattutto vibranti di giovinezza, in cui ciascuno ritroverà una notte dei propri vent’anni.
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