DIR. EDITORIALE
ART DIRECTOR
EDITOR
GRAFICO
UFF. TECNICO
REDAZIONE
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doppio riscatto. Una fiaba moderna che è un inno alla vita, alla possibilità di un dialogo tra mondi lontani, all’autenticità dei sentimenti che ci rendono uomini e fratelli.
libellule
Il Bianca scivolava veloce e inclinato sulle onde appena formate. Il solo rumore era quello del vento e lo sciabordio dell’acqua sotto il bompresso. La barca lasciava dietro a sé una scia di schiuma allegra e pulita che si richiudeva come una cicatrice immediatamente dopo il suo passare, come a sigillare una vecchia ferita. Controllò ancora una volta che tutto a bordo fosse in ordine perché di sicuro il vecchio gli avrebbe detto di fare così. L’uomo gli aveva insegnato tante cose che d’ora in poi gli sarebbero tornate utili. Cose che lui, a sua volta, avrebbe potuto un giorno insegnare a qualcuno. Era solo questione di tempo...
La storia senza tempo dell’amicizia tra un vecchio e un ragazzo, nati in due terre lontane ma uniti dallo stesso mare.
a l b e r t o c ava n n a
Cavanna L’uomo che non contava i giorni
Alberto Cavanna è nato a Savona nel 1961. Figlio d’arte – la sua famiglia ha per oltre quattro generazioni operato nel campo della lavorazione del legno a bordo –, dall’età di quindici anni ha avuto l’occasione di lavorare per molti cantieri intervenendo su importanti barche, navi e sugli ultimi velieri in legno. Ha esordito con il romanzo Bacicio do Tin (Mursia 2004), cui sono seguiti Da bosco e da riviera (Rizzoli 2008) e la raccolta di racconti A piccoli colpi di remo (Arte Navale 2011) finalista al Premio Bancarella 2011. Si dedica inoltre all’arte della pittura.
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L’ U O M O CHE NON C O N TAVA I GIORNI
ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO P R O G E T T O G R A F I C O : andrea geremia in copertina : foto © R amon A zofra E la b orazione immagine : marcello dolcini F O T O dell’ autore : © B A S S O C A N N A R S A
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DIMENSIONE: 130x200 mm
Dalla luce accecante delle coste tunisine alla penombra umida di uno scantinato nel carruggio di un paesino ligure: è lunga la strada che porta il ventenne Mohamed lontano dalla propria terra alla ricerca di un nuovo mattino, con un doloroso segreto custodito nel cuore. Il tempo è un lusso da dimenticare per chi è costretto a badare quotidianamente alla sopravvivenza, e Mohamed, dopo aver chiuso i ricordi in una giara senza fondo, si affida all’urgenza dei propri bisogni più essenziali. Ma la fortuna lo assiste quando una notte, sfinito dalla fatica, improvvisa un giaciglio e si addormenta fuori dal magazzino del vecchio Cristoforo, un carpentiere in pensione dai modi bruschi e un po’ sgarbati. Vinta l’iniziale diffidenza, tra i due nasce un sentimento elementare e fortissimo di vicinanza, come se l’età e le distanze non fossero nulla rispetto alla loro essenza comune: è il mare che – con il suo linguaggio universale, con i suoi gesti antichissimi –, anziché separarli, li unisce. I giorni trascorrono, uno simile all’altro, sospesi in un tempo uguale che, ciascuno per le sue ragioni, né Mohamed né il vecchio vogliono misurare: piano piano, il ragazzo dimostra al “baccan” (padrone) – come chiama il suo ospite – di conoscere le parole e i gesti dell’arte navale: insieme si mettono all’opera per finire di costruire il gozzo che il vecchio da solo stentava a portare a termine. Il silenzio del lavoro quotidiano, i suoi rituali sapienti, le pause a base di focaccia scandiscono quelle ore nascoste agli occhi del mondo, riconsegnando ai due uomini qualcosa che entrambi pensavano di aver smarrito per sempre. Con voce asciutta e scarna, simile ai ciottoli levigati della sua terra, Alberto Cavanna ci racconta una storia struggente di amicizia e di solidarietà, in cui il mare è il vero protagonista. È la storia di due solitudini che s’incontrano originando un
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Alberto Cavanna
L’uomo che non contava i giorni
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Questo romanzo è frutto dell’immaginazione. Ogni riferimento a persone e fatti reali è da ritenersi casuale.
L’uomo che non contava i giorni di Alberto Cavanna Collezione Libellule ISBN 978-88-04-61390-9 Published by arrangement with Cristina Tizian editor agent © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione febbraio 2012
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L’uomo che non contava i giorni
Al SciĂš Rodolfo
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Camminava ormai da giorni, e quel giorno da ore.
Continuava dall’alba senza fermarsi, e il passo era pesante non per il tempo trascorso ma per la strada che aveva ancora davanti e il nulla che si lasciava alle spalle. Tutto ciò che era stata la sua vita era andato perduto, come la zavorra di sabbia che suo nonno faceva buttare in mare quando non serviva più perché avevano a bordo le reti bagnate. Mai cercare di avanzare con del peso inutile è una regola importante quando devi fare tanta strada. Essenziale per la sopravvivenza se poi non sai quanto quella strada sarà lunga né dove ti sta portando. E quanto sarebbe stata lunga la strada dalla porta di casa sua fino a un nuovo mattino? Non lo sapeva. Immaginava che per poter otte7
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nere una nuova vita, una nuova alba, il giorno presente dovesse comunque passare: questa era l’unica certezza che aveva al momento, e ogni volta che arrivava la notte si sentiva in qualche modo più leggero. Aveva due problemi essenziali da affrontare: cosa mangiare e dove dormire. Il freddo era la prima cosa che lo aveva impressionato di quei posti: a casa sua non aveva mai sentito quel vento pungente, carico di gelo, che scendeva dalle colline e gli entrava nei vestiti fino a farlo tremare. Quel freddo, prima ancora di sentirlo sulla pelle, gli era sceso nel cuore. La sua casa... quello era ormai l’unico ricordo che riusciva ad affrontare senza rischiare di affondare. E così si trovava spesso a pensare a quando il nonno lo svegliava a notte fonda per andare a pesca e, dal vecchio paese di pietra sulla collina riarsa, scendevano insieme a piedi fino al porticciolo di scogli e sabbia dove era ormeggiata la barca costruita da suo padre. Uscivano di casa che era ancora scuro e la strada di terra battuta era illuminata a volte dalla luna, altrimenti la tenue luce delle stelle e la memoria bastavano per sapere dove mettere i piedi. Di solito lui portava in spalla qualcosa di leggero, come le fiocine, alcune cime o la fiasca dell’acqua da bere, mentre il nonno e suo padre si erano caricati sulle spalle le reti in grandi gerle di vimini. Camminavano per almeno un’ora in quel modo, 8
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quasi sempre senza dire nulla. Solo il nonno, a volte, rompeva il silenzio rivolgendosi a suo padre che rispondeva con un mormorio. Lui non capiva bene, durante il tragitto, a che punto della strada fossero arrivati nÊ quanto mancasse all’arrivo, ma non gli importava. Il saluto di sua madre alle spalle, la promessa della giornata in mare e il ritorno a casa la sera erano sicurezze che lo accompagnavano dalla nascita. Camminava in silenzio e basta. Poi, finalmente, vedeva il tremolio dell’acqua sul fare del nuovo giorno e capiva di essere arrivato. La loro vecchia barca grigia, di legno screpolato dal sole, galleggiava nella piccola insenatura naturale, un ricovero semplice, un piccolo riparo dai venti dominanti, fatto solo da qualche scoglio lasciato rotolare in mare. Era legata con una cima consunta a una pietra su cui qualcuno negli anni aveva inciso una scanalatura affinchÊ il nodo non mollasse. Scaricavano con calma la roba sulla spiaggia e, passandosela, la imbarcavano. Il nonno diceva la preghiera del mattino prima di mollare gli ormeggi e infine, al suono rantolante del vecchio diesel, la barca prendeva il largo per la giornata di pesca. Questo succedeva prima. Ora invece era diverso. La porta di casa si era chiusa dietro di lui e davanti aveva un mare che non conosceva.
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Si fermò e guardò il cielo scuro: stava iniziando a piovere. Si strinse nella vecchia giacca di suo fratello maggiore e riprese il cammino. Il paese della riviera che stava attraversando, e del quale non ricordava il nome, non era diverso da quelli che stavano sul suo mare. La spiaggia, il fronte delle case, gli stretti vicoli che salivano verso la collina, lastricati di pietra, e altre piccole vie che li tagliavano paralleli alla riva battuta dalle onde: tutto era simile. Era su una di queste viuzze che stava camminando ora. L’aveva imboccata perché qui sentiva meno il vento freddo che invece spazzava gli altri vicoli, soffiando dal monte verso la riva e increspando il mare con raffiche che lo striavano di scuro andando verso il largo. Ormai era molto tardi e in giro non c’era più nessuno. Sulla spiaggia, verso il limite dell’arco della costa, gli era sembrato di vedere delle barche. Forse, anche lì come a casa sua, c’era gente che pescava. Avrebbe chiesto il giorno dopo, ora era troppo stanco per proseguire. Sulla sua destra vide un vicolo più buio degli altri e lo imboccò. Era una stradina senza uscita, leggermente in salita, che dopo pochi passi finiva contro una vecchia arcata di mattoni e pietre corrose. Da un lato una scaletta portava a un terrazzo con persiane chiuse. Sotto l’arcata, profonda di un paio di metri, s’in10
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travedeva un portone di legno, come quello di una cantina o di una vecchia bottega. Lì il vento non si sentiva quasi. Senza aspettare di essere così stanco da cadere nella disperazione, mise a terra il suo saccone, ne tirò fuori una coperta lisa e si rannicchiò coprendosi nel modo migliore per dimenticare almeno il freddo se non la fame. Dall’interno della bottega chiusa filtrava un odore familiare, di legno, corda e altre cose. Pensando a suo nonno e a suo padre mentre scendevano dal paese verso la barca per andare a pescare, Mohamed si addormentò profondamente, allontanando ogni altro pensiero e sperando di non sognare.
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«Eh déscite! Sta chì a nu l’è cà teu! Qui non sei a
casa tua... sveglia!» Mohamed si svegliò di soprassalto e ricordò quasi subito dove si trovava. Era una cosa importante da fare quando capitava di addormentarsi per strada, in posti sconosciuti. Davanti a lui c’era un vecchio e lo stava osservando con la faccia dura. Era un uomo alto e ben messo, portava sulle spalle ancora robuste una logora camicia di flanella a scacchi sopra un lupetto color vino, un paio di calzoni di velluto a coste macchiati, tenuti su da una grossa cintura sistemata sotto il ventre prominente, e due usurati scarponcini di tipo militare che completavano il suo abbigliamento. I capelli erano grigi e radi, la faccia larga, ben rasata, 13
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scura di sole e piena di rughe sul collo massiccio, gli occhi quasi invisibili attraverso due fessure sotto le sopracciglia folte. Aveva in mano un paio di chiavi e un pacchetto che mandava un buon odore di pane. Doveva essere il padrone del magazzino e voleva entrare a casa sua ma lui era sdraiato proprio di traverso nel bel mezzo del portone col suo giaciglio improvvisato. Si alzò subito togliendosi la coperta di dosso e si spostò educatamente. «Excusez-moi, monsieur... cioè, scusami signiore...» L’uomo non disse nulla e, senza cambiare l’espressione coriacea, lo osservò mentre riponeva con cura la coperta nel saccone e si faceva da parte. Sempre senza parlare, scrollando la testa grigia, mise la vecchia chiave rugginosa nella toppa, diede un paio di rumorosi giri e spalancò l’antro scuro. Ne uscì come una folata umida: un forte odore di legno e segatura vecchia riempirono improvvisamente il piccolo androne sotto l’arcata. L’uomo entrò con passo pesante e poco dopo una luce si accese. Mohamed istintivamente guardò dentro. Era un locale non grande, senza altra apertura salvo il portone sul vicolo, e al centro lo spazio a disposizione era quasi totalmente riempito da una barca di legno in costruzione. Fece qualche altro passo e rimase incantato a fissarla. «Cusse ti gh’è da mi-à? Cosa cazzo guardi?» quasi gli urlò minaccioso il vecchio girandosi verso di lui. 14
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«Est-il un gourse, monsieur?» chiese il ragazzo timidamente, indicando la barca. L’uomo rimase un attimo perplesso. «Cumme ti l’è ciamòu? Come hai chiamato la mia barca?» Mohamed la osservò ancora un attimo, poi volse gli occhi all’uomo che lo stava scrutando con attenzione. «Gourse. In mio Paese, en français, io chiamo quello bateau gourse, in mia lingua gareb. Ma ho anche entendu gente di île de Malta chiamare quella luzzu... e anche des siciliens parlaient d’un bateau qui s’appelle guzzu...» Il vecchio non disse nulla e continuò a osservarlo attraverso le due fessure con le mani conserte. «Da dove vieni?» chiese brusco. «Tunisie.» «E cosa facevi là?» «Mia famille construisce bateaux et pêche. Petit village...» L’uomo lo guardò ancora con quell’espressione impenetrabile. «Anche noi qui lo chiamiamo guzzu, gozzo. Gourse, luzzu, gareb... ma pensa te! Quasi la stessa cosa. Vieni, vieni dài! Entra... su, guardala pure e dimmi se al tuo Paese ne hai visti di fatti così bene! Io dico di no...» Il ragazzo prese coraggio e si fece avanti. Entrò e l’odore diventò più forte. 15
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Si avvicinò alla barca e appoggiò la mano al fasciame di pino. Risentì il profumo di resina che aveva annusato anni prima, quando, poco più che bambino, suo padre lo aveva portato con sé al lavoro per la prima volta: nella stagione morta, riparava le barche degli altri pescatori. Mohamed non aveva mai più smesso, con la variante di accompagnare il padre e il nonno a pesca durante la buona stagione. Nella sua vita ne aveva costruita qualcuna, di barca, e riparate molte... ma le mani su una bella come quella non le aveva mai messe. La guardò con attenzione in ogni dettaglio: il vecchio aveva ragione, era veramente molto bella. Di così perfette non ne aveva viste mai. Ogni parte era levigata e trattata con minio rosso mentre quelle costruite al suo Paese erano solo rozzamente sgrossate, spesso con le parti asimmetriche, quasi mai pitturate, a parte qualche scarsa mano di intrugli che si facevano con quello che si riusciva a trovare nella speranza di allungare la vita al legno. Era lunga più o meno cinque metri, una dimensione sufficiente a portare tre o quattro pescatori al largo e fare una buona pesca senza pericolo. Una buona barca. Ma non era finita. Solo l’ossatura era stata terminata e mancavano ancora alcune tavole del fasciame oltre a molti dettagli di allestimento. Non aveva ponte ed era del tutto aperta, come del resto quelle delle sue parti. I banchi dei rematori servi16
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vano a rinforzarla trasversalmente, come dei grossi bagli, e a fare da appoggio per quanto doveva essere imbarcato. Mentre Mohamed la stava osservando, toccandola, il vecchio ruppe il silenzio e avvicinandosi alle sue spalle ora la accarezzava con un sorriso soddisfatto. «È bella, eh? Non è vero?» Lui fece di sì con la testa. «Come ti chiami?» gli chiese senza smettere di accarezzare il legno. «Mohamed.» «E quanti anni hai?» «Vingt-deux» e fece segno con le dita per essere sicuro che l’uomo avesse capito bene. L’altro distolse gli occhi dalla barca e prese a fissarlo: vide le rughe precoci, le mani rovinate e i denti scuri e cariati... di anni quel ragazzo ne dimostrava almeno dieci di più, ma non stava mentendo. No, non diceva storie. Si ricordò allora di certe facce che si vedevano in giro alla fine della guerra. La miseria porta sempre lo stesso volto e gli stessi stracci. I tempi e i posti cambiano, la miseria no. «Hai mangiato?» gli chiese secco. Il ragazzo scrollò la testa. «Vieni qui.» Andò sul banco da falegname, dove aveva posato un pacchetto di carta oleata. Lo aprì, prese un grosso pezzo di focaccia e glielo porse. 17
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Mohamed non si mosse ma l’uomo tese ancora il braccio e ripeté il gesto quasi mettendogli in mano l’involto: «Dài prendila! È come il pane... è calda del forno, è buona sai? Pochi sanno fare la focaccia come la fa la Jolanda». Il tono era sempre lo stesso, solamente l’espressione del viso ora era meno dura, anche se comunque difficile da decifrare. Lui la accettò ringraziando con un cenno del capo e iniziò a mangiare: era davvero buona. Masticava lentamente mentre l’altro lo osservava in silenzio. Poi il vecchio prese un ferro dal banco e si avviò verso la barca. «Se hai bisogno del cesso è là in fondo alla bottega. È alla turca. Mi raccomando, tira la catena.»
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doppio riscatto. Una fiaba moderna che è un inno alla vita, alla possibilità di un dialogo tra mondi lontani, all’autenticità dei sentimenti che ci rendono uomini e fratelli.
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Il Bianca scivolava veloce e inclinato sulle onde appena formate. Il solo rumore era quello del vento e lo sciabordio dell’acqua sotto il bompresso. La barca lasciava dietro a sé una scia di schiuma allegra e pulita che si richiudeva come una cicatrice immediatamente dopo il suo passare, come a sigillare una vecchia ferita. Controllò ancora una volta che tutto a bordo fosse in ordine perché di sicuro il vecchio gli avrebbe detto di fare così. L’uomo gli aveva insegnato tante cose che d’ora in poi gli sarebbero tornate utili. Cose che lui, a sua volta, avrebbe potuto un giorno insegnare a qualcuno. Era solo questione di tempo...
La storia senza tempo dell’amicizia tra un vecchio e un ragazzo, nati in due terre lontane ma uniti dallo stesso mare.
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Cavanna L’uomo che non contava i giorni
Alberto Cavanna è nato a Savona nel 1961. Figlio d’arte – la sua famiglia ha per oltre quattro generazioni operato nel campo della lavorazione del legno a bordo –, dall’età di quindici anni ha avuto l’occasione di lavorare per molti cantieri intervenendo su importanti barche, navi e sugli ultimi velieri in legno. Ha esordito con il romanzo Bacicio do Tin (Mursia 2004), cui sono seguiti Da bosco e da riviera (Rizzoli 2008) e la raccolta di racconti A piccoli colpi di remo (Arte Navale 2011) finalista al Premio Bancarella 2011. Si dedica inoltre all’arte della pittura.
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ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO P R O G E T T O G R A F I C O : andrea geremia in copertina : foto © R amon A zofra E la b orazione immagine : marcello dolcini F O T O dell’ autore : © B A S S O C A N N A R S A
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Dalla luce accecante delle coste tunisine alla penombra umida di uno scantinato nel carruggio di un paesino ligure: è lunga la strada che porta il ventenne Mohamed lontano dalla propria terra alla ricerca di un nuovo mattino, con un doloroso segreto custodito nel cuore. Il tempo è un lusso da dimenticare per chi è costretto a badare quotidianamente alla sopravvivenza, e Mohamed, dopo aver chiuso i ricordi in una giara senza fondo, si affida all’urgenza dei propri bisogni più essenziali. Ma la fortuna lo assiste quando una notte, sfinito dalla fatica, improvvisa un giaciglio e si addormenta fuori dal magazzino del vecchio Cristoforo, un carpentiere in pensione dai modi bruschi e un po’ sgarbati. Vinta l’iniziale diffidenza, tra i due nasce un sentimento elementare e fortissimo di vicinanza, come se l’età e le distanze non fossero nulla rispetto alla loro essenza comune: è il mare che – con il suo linguaggio universale, con i suoi gesti antichissimi –, anziché separarli, li unisce. I giorni trascorrono, uno simile all’altro, sospesi in un tempo uguale che, ciascuno per le sue ragioni, né Mohamed né il vecchio vogliono misurare: piano piano, il ragazzo dimostra al “baccan” (padrone) – come chiama il suo ospite – di conoscere le parole e i gesti dell’arte navale: insieme si mettono all’opera per finire di costruire il gozzo che il vecchio da solo stentava a portare a termine. Il silenzio del lavoro quotidiano, i suoi rituali sapienti, le pause a base di focaccia scandiscono quelle ore nascoste agli occhi del mondo, riconsegnando ai due uomini qualcosa che entrambi pensavano di aver smarrito per sempre. Con voce asciutta e scarna, simile ai ciottoli levigati della sua terra, Alberto Cavanna ci racconta una storia struggente di amicizia e di solidarietà, in cui il mare è il vero protagonista. È la storia di due solitudini che s’incontrano originando un
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