Delphine de Vigan, "Niente si oppone alla notte"

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DIR. EDITORIALE

ART DIRECTOR

EDITOR

GRAFICO

REDAZIONE

UFF. TECNICO

2 M M di A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A

F oto © H annah A s s ouline / O p ale / L U Z p hoto

2 M M di A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A

«non pensate sia un libro che mette tristezza. niente si oppone alla notte

nificante. purificatore, come tutte le tragedie» Le Nouvel Observateur

colare, l’eco instancabile dei morti, e il risonare del disastro. Oggi so pure che illustra, come tante altre famiglie, il potere devastante della parola, e quello del silenzio.

delphine de vigan

La mia famiglia incarna quel che la gioia ha di più chiassoso, di più spetta-

niente si oppone alla nott e

Delphine de Vigan (Boulogne-Billancourt 1966) è l’autrice del romanzo Gli effetti secondari dei sogni, Prix des Libraires in Francia nel 2008 e bestseller da quasi mezzo milione di copie, tradotto in più di venti lingue. Un successo ripetuto da questo Niente si oppone alla notte, che ha conquistato nuovamente in un sol colpo il cuore dei lettori e la critica francese. Nel 2010 ha pubblicato Le ore sotterranee. Vive a Parigi.

delphine de vigan niente si oppone alla notte

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO PROGET TO GRAFICO: MARCELLO DOLCINI G R A P H I C D E S I G N E R : s u s anna to s atti

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DIMENSIONE: 156x233 mm

BROSSURA

scoppia di salute. è to-

PANTONE 129 U

PANTONE BLACK U

Nel 2008, a sessantun anni, Lucile si toglie la vita. A scoprirla è sua figlia Delphine, l’autrice di questo libro. Un mattino di gennaio è entrata nel suo appartamento e l’ha trovata così, distesa sul letto, senza vita. Perché? Non è una domanda a cui si possa dare risposta, e Delphine de Vigan, già affermata scrittrice, per molto tempo resiste all’idea di dedicarle un libro. Ma c’è una “luce segreta venuta dal nero” a sedurla e a farle riprendere la penna in mano. Con la certezza che “la scrittura non può nulla. Tutt’al più permette di porre le domande e interrogare la memoria”. Lucile era una donna bellissima, ammirata e desiderata, che portava in sé da sempre una ferita profonda. “Il suo dolore ha fatto parte della nostra infanzia e, più tardi, della nostra vita adulta, il dolore di Lucile fa indubbiamente parte del nostro essere, mio e di mia sorella. Eppure, ogni tentativo di spiegazione è votato alla sconfitta.” Ma questa morte esige almeno di avvicinarlo, quel dolore, di esplorarne i contorni, i recessi segreti, l’ombra che proietta. È dunque per combattere il potere distruttivo del silenzio che Delphine inizia a scavare nella memoria familiare, a partire dai nonni un po’ bohème e anticonformisti e dai loro nove figli, per ricomporre il quadro di una “famiglia che ha suscitato lungo tutta la sua storia numerosi commenti” e ha proiettato intorno a sé un’inconsueta fascinazione. Una famiglia “allegra e devastata” in cui la tragedia si è insinuata presto e si è riprodotta con inusitata acrimonia, alternandosi a momenti di sublime felicità. Una famiglia in cui ci si è amati, ci si è detestati, ci si è ritrovati, un nucleo anche un po’ bislacco che Delphine interroga, inquieta e appassionata, per arrivare a scoprire il coraggio e l’amore che stavano dietro il sorriso d’oscura dolcezza di sua madre. E renderle così l’omaggio più bello: un ricordo di carta e un destino di personaggio. Chi ha letto e amato Gli effetti secondari dei sogni ritroverà in questo libro la sensibilità, la grazia e lo stile ineguagliabili di Delphine de Vigan. Perché Niente si oppone alla notte è un libro “scritto in punta di penna”, per citare un critico francese, “quasi a non voler bucare il foglio bianco della storia”.

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Scrittori italiani e stranieri

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Delphine de Vigan

Niente si oppone alla notte romanzo

Traduzione di Marco Bellini

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Dello stesso autore in edizione Mondadori Gli effetti secondari dei sogni Le ore sotterranee

www.librimondadori.it

Niente si oppone alla notte di Delphine de Vigan Collezione Scrittori italiani e stranieri ISBN 978-88-04-62116-4 © 2011 Editions Jean-Claude Lattès © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale Rien ne s’oppose à la nuit I edizione marzo 2012

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Niente si oppone alla notte

A Margot

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Un giorno stavo dipingendo, il nero aveva invaso tutta la superficie della tela, informe, senza contrasti né trasparenze. In questo eccesso ho visto in un certo senso la negazione del nero. La diversa trama della tessitura rifletteva più o meno debolmente la luce e dal buio emanava una luminosità, una luce pittorica, il cui singolare potere emozionale animava il mio desiderio di dipingere. Il mio strumento non era più il nero, ma questa luce segreta venuta dal nero. pierre soulages

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prima parte

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Mia madre era blu, quando l’ho trovata in casa sua quel mattino di gennaio, di un blu pallido misto a cenere, e con le mani stranamente più scure del viso, come se fossero macchiate d’inchiostro sulle falangi. Mia madre era morta da diversi giorni. Ignoro quanti secondi o minuti mi ci sono voluti per capirlo, nonostante l’evidenza della situazione (mia madre era distesa sul letto e non rispondeva ad alcuna sollecitazione), un tempo lunghissimo, scomposto e febbrile, fino al grido che mi è uscito dai polmoni, come dopo parecchi minuti di apnea. Ancora oggi, più di due anni dopo, rimane per me un mistero in base a quale meccanismo il mio cervello abbia potuto tenere così lontana da sé la percezione del corpo di mia madre, soprattutto del suo odore, come abbia potuto impiegare tanto tempo ad accettare l’informazione che giaceva lì, di fronte a lui. Non è il solo interrogativo che la sua morte mi ha lasciato. Quattro o cinque settimane dopo, in uno stato di annebbiamento di rara opacità, ricevevo il premio dei librai per un romanzo, uno dei cui personaggi era una madre chiusa e lontana da tutto che, dopo anni di silenzio, riscopriva l’uso della parola. Alla mia, avevo donato il libro prima che uscisse, evidentemente fiera di essere venuta a capo di un nuovo romanzo, per quanto fossi consapevole di rigirare il coltello nella piaga, anche mediante l’immaginazione. 11

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Non ho alcun ricordo del luogo in cui mi venne consegnato il premio, né della cerimonia in quanto tale. Credo che fossi ancora in preda al terrore: eppure, sorridevo. Qualche anno prima, al padre dei miei figli che mi rimproverava di vivere in una perenne “fuga in avanti” (si riferiva alla mia esasperante capacità di fare buon viso in ogni circostanza), avevo risposto pomposamente che ero “nella vita”. Sorridevo anche alla cena che venne data in mio onore, durante la quale la mia unica preoccupazione fu quella di stare in piedi, poi seduta, e non crollare di colpo sul piatto, in una specie di tuffo simile a quello che, all’età di dodici anni, mi aveva fatto cadere di testa in una piscina vuota. Ricordo la dimensione fisica, o meglio atletica, di quello sforzo, resistere, sì, anche se nessuno ci cascava. Mi sembrava che fosse meglio contenere il dolore, trattenerlo, farlo tacere, fino al momento in cui mi fossi ritrovata finalmente sola, piuttosto che lasciarmi andare a ciò che non poteva essere altro che un lungo ululato o, peggio ancora, un rantolo, che mi avrebbe sicuramente fatto stramazzare a terra. Nel corso degli ultimi mesi, le vicende che mi riguardavano si erano fatte singolarmente precipitose e la vita, ancora una volta, fissava l’asticella troppo in alto. Così, finché durava la caduta, potevo o fare buon viso o farvi fronte (a costo di fingere), nient’altro, mi sembrava. Quanto a questo, so da molto tempo che è meglio stare in piedi piuttosto che sdraiati ed è preferibile evitare di guardare in basso. Nei mesi seguenti, ho scritto un altro libro per il quale prendevo appunti da diverso tempo. Con il senno di poi, ignoro come sia stato possibile; è stato solo perché non c’era nient’altro, una volta che i miei figli erano andati a scuola e io mi ritrovavo nel vuoto, nient’altro che la sedia davanti al computer acceso, voglio dire nessun altro posto dove sedermi, dove posarmi. Dopo undici anni passati nella stessa azienda – e un lungo braccio di ferro che mi aveva sfinito –, ero appena stata licenziata, consapevole di provare per questo una certa vertigine, quando ho scoperto Lucile in casa sua, 12

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così blu e immobile. Allora, la vertigine si è trasformata in terrore, e il terrore in nebbia. Ho scritto ogni giorno, sono la sola a sapere quanto quel libro che non ha nulla a che vedere con mia madre sia tuttavia impregnato della sua morte e dello stato d’animo nel quale mi ha lasciata. Poi, il libro è stato pubblicato, senza che ci fosse più mia madre a lasciarmi sulla segreteria telefonica i messaggi più comici del mondo riguardo alle mie performance televisive. Una sera di quel medesimo inverno, mentre stavamo tornando da un appuntamento con il dentista e camminavamo fianco a fianco lungo lo stretto marciapiede di rue de la Folie Méricourt, mio figlio mi ha chiesto, a bruciapelo, senza che nulla, nella conversazione precedente, potesse spingerlo a porre questa domanda: «Nonna... si è suicidata, in qualche modo?» Ancora oggi, quando ci penso, questa domanda mi sconvolge, non per il senso ma per la forma, quell’“in qualche modo” sulla bocca di un bambino di nove anni, una delicatezza nei miei confronti, una maniera di tastare il terreno, muoversi in punta di piedi. Ma forse era, da parte sua, una vera domanda: tenuto conto delle circostanze, la morte di Lucile doveva essere considerata un suicidio? Il giorno in cui ho trovato mia madre in casa sua, non sono riuscita ad andare a prendere i miei figli. Sono rimasti dal padre. Il giorno dopo, ho annunciato loro la morte della nonna, credo di aver detto qualcosa come «Nonna è morta» e, in risposta alle domande che mi ponevano: «Ha deciso di addormentarsi» (eppure ho letto Françoise Dolto). Poche settimane dopo, mio figlio mi richiamava all’ordine: pane al pane e vino al vino. Nonna si era suicidata, certo, ammazzata, aveva calato il sipario, dichiarato forfait, staccato la spina, aveva detto stop, basta, terminado, e aveva ottime ragioni per farlo. Non so più quando mi è venuta l’idea di scrivere “su” mia madre, “riguardo” a lei, o “a partire” da lei, so quanto abbia respinto questa idea, l’abbia tenuta a distanza, il più a lungo possibile, 13

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stilando la lista dei tantissimi autori che avevano già scritto sulla propria, dai più lontani ai più recenti, per dimostrare a me stessa quanto il terreno fosse minato e l’argomento sfruttato, ho scacciato le frasi che mi venivano sul far del mattino o fra le pieghe di un ricordo, altrettanti incipit di possibili romanzi di cui non volevo udire la prima parola, ho redatto la lista degli ostacoli che avrei sicuramente incontrato come degli enormi rischi che avrei corso a mettere in cantiere un lavoro come quello. Mia madre rappresentava un campo troppo vasto, troppo cupo e troppo disperato: in una parola, troppo pericoloso. Ho lasciato che mia sorella recuperasse le lettere, le carte e gli scritti di Lucile, e li mettesse in un baule che presto avrebbe portato giù in cantina. Non avevo il posto. Non ne avevo la forza. Poi, ho imparato a pensare a Lucile senza che mi si mozzasse il respiro: il suo modo di camminare, il seno chino in avanti, la borsetta a tracolla stretta all’anca, quel modo di tenere la sigaretta, schiacciata fra le dita, di scagliarsi a testa bassa sul vagone della metropolitana, il tremore delle mani, la precisione del suo vocabolario, le risate brevi, che sembravano stupire lei per prima, le varie tonalità della sua voce sotto l’impressione di una emozione, di cui, talvolta, il volto non lasciava trasparire nulla. Ho pensato che non dovevo assolutamente dimenticare il suo humour britannico, surreale, né la sua singolare propensione alla fantasia. Ho pensato che Lucile era stata innamorata, di volta in volta, di Marcello Mastroianni (precisava: «Calcolatene una mezza dozzina»), Joshka Schidlow (un critico teatrale di “Télérama” che non aveva mai visto ma di cui lodava lo stile e l’intelligenza), un uomo d’affari di nome Édouard, di cui noi non abbiamo mai scoperto la vera identità, di Graham, un autentico barbone del quattordicesimo arrondissement, violinista a tempo perso e morto assassinato. Non sto parlando degli uomini che hanno “effettivamente” con14

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diviso la sua vita. Ho pensato che mia madre aveva gustato una gallina lessa con Claude Monet e Immanuel Kant, nel corso della stessa serata in una lontana periferia da cui era rientrata con il treno regionale, e si era vista privare per anni del libretto di assegni per aver distribuito denaro lungo la strada. Ho pensato che mia madre aveva avuto il controllo del sistema informatico dell’azienda dove lavorava come di tutta la rete ferroviaria regionale e ballato sui tavoli dei caffè. Non so più in quale momento ho capitolato, forse il giorno in cui ho capito quanto la scrittura, la mia scrittura, fosse legata a lei, alle sue fantasie, a quei momenti deliranti in cui la vita le era diventata così insopportabile che aveva rischiato di sfuggirle di mano, in cui il suo dolore aveva potuto esprimersi solo tramite l’invenzione. Allora ho chiesto ai suoi fratelli e alle sue sorelle di parlarmi di lei, di raccontarmi. Li ho registrati, loro e anche altri che avevano conosciuto Lucile e la nostra famiglia, così allegra e devastata. Ho archiviato ore di parole in formato digitale sul computer, ore cariche di ricordi, silenzi, lacrime e sospiri, risate e confidenze. Ho chiesto a mia sorella di recuperare dalla cantina le lettere, gli scritti, i disegni, ho cercato, frugato, raschiato, dissotterrato, riesumato. Ho passato ore a leggere e rileggere, guardare filmati, fotografie, ho posto da capo le stesse domande, e altre ancora. E poi, come decine di autori prima di me, ho cercato di scrivere mia madre.

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Lucile osservava i fratelli da più di un’ora, il salto da terra al masso, dal masso all’albero, dall’albero a terra, in un balletto disordinato che seguiva a fatica, ora raccolti in cerchio intorno a ciò che aveva intuito essere un insetto ma che non poteva vedere, subito raggiunti dalle sorelle, agitate e premurose, che cercavano di farsi spazio in mezzo al gruppo. Alla vista della bestiola, le femmine si misero a strillare, “sembra che le sgozzino” aveva pensato Lucile, tanto le loro grida erano stridule, soprattutto quelle di Lisbeth, che saltava come un capretto mentre Justine chiamava Lucile più forte che poteva perché venisse subito a vedere. Nell’abito di crespo di seta chiaro, le gambe incrociate in modo che non si sgualcisse nulla, i calzini tirati senza una piega sulle caviglie, Lucile non aveva alcuna intenzione di muoversi. Seduta sulla panchina, non perdeva di vista nemmeno per un attimo la scena che le si svolgeva dinanzi, ma per nulla al mondo avrebbe ridotto la distanza che la separava dai fratelli e dalle sorelle, ai quali d’altra parte si erano aggiunti altri bambini attirati dagli strilli. Ogni giovedì, Liane, la loro madre, spediva tutti al giardinetto pubblico, senza alcuna eccezione, dando ai più grandi come compito quello di sorvegliare i più piccoli e per unica consegna quella di non tornare prima che fossero passate due ore. In una baraonda infernale, la banda di fratelli e sorelle lasciava l’appartamento di rue de Maubeuge, scendeva i cinque piani, attraversava rue Lamartine, poi rue de Rochechouart, pri16

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ma di entrare nel giardinetto pubblico, trionfante e vistosa, perché nessuno poteva ignorare quei bambini che solo pochi mesi separavano gli uni dagli altri, i loro capelli così biondi che sembravano bianchi, gli occhi chiari e i loro giochi scatenati. Nel frattempo, Liane si stendeva sul primo letto libero e dormiva di un sonno di piombo, due ore di silenzio per rifarsi delle gravidanze, dei parti e dei ripetuti allattamenti, delle notti interrotte dai pianti e dagli incubi, dei bucati e dei pannolini sporchi, dei pasti che si susseguivano senza interruzione. Lucile si sedeva sempre sulla stessa panchina, un po’ in disparte, ma abbastanza vicina al punto strategico costituito dai trapezi e dalle altalene, ideale per avere una vista d’insieme. Ogni tanto, accettava di giocare con gli altri, qualche volta restava lì, «a mettere ordine nella sua testa», spiegava, ma non precisava mai cosa, o, al limite, con un gesto vago indicava tutt’intorno a sé. Lucile “metteva in ordine” gli strilli, le risate, i pianti, gli andirivieni, il chiasso e il moto perpetuo in cui viveva. In ogni caso, Liane era di nuovo incinta, presto sarebbero stati in sette, poi sicuramente in otto e forse più. Ogni tanto, Lucile si domandava se vi fosse un limite alla fecondità di sua madre, se il suo ventre potesse riempirsi e vuotarsi così, all’infinito, e sfornare quei neonati rosei e lisci che Liane divorava di baci e risate. Ma forse le donne erano soggette a un numero di figli limitato, che Liane avrebbe presto raggiunto, e che, finalmente, avrebbe lasciato il suo corpo inoperoso. I piedi nel vuoto, seduta nel centro esatto della panchina, Lucile pensava al bambino che stava per arrivare, la cui nascita era prevista per il mese di novembre. Un bambino nero. Perché tutte le sere, prima di addormentarsi nella camera delle femmine che conteneva già tre letti, Lucile sognava una sorellina di un nero perfetto, irrimediabile, paffuta e lucente come un budino, che i fratelli e le sorelle non avrebbero osato avvicinare, una sorellina che nessuno avrebbe capito perché piangeva, che avrebbe urlato senza tregua fino a che i genitori alla fine non le avessero ceduto. Lucile avrebbe preso il neonato sotto la sua protezione e nel suo letto, e sarebbe stata la 17

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sola, lei che pure odiava le bambole, a potersene occupare. Il bambino nero d’ora in avanti si sarebbe chiamato Max, come il marito della signora Estoquet, la maestra, che era camionista. Il bambino nero le sarebbe appartenuto senza alcuna limitazione, le avrebbe obbedito in ogni circostanza e l’avrebbe protetta. Gli strilli di Justine scossero Lucile dai suoi pensieri. Milo aveva dato fuoco all’insetto, che era avvampato in meno di un secondo. Justine si era rifugiata fra le gambe di Lucile, il corpicino scosso dai singhiozzi, la testa appoggiata sulle ginocchia. Mentre accarezzava i capelli della sorella, Lucile intravide il filo di moccio verde che le colava sull’abito. Non era la giornata giusta. Con fare deciso, sollevò il viso di Justine e le ordinò di andare a soffiarsi il naso. La piccola voleva mostrarle il cadavere, Lucile finì per alzarsi. Della bestiola rimaneva solo un po’ di cenere e un mozzicone di carapace accartocciato. Con il piede, Lucile li coprì con la sabbia, poi sollevò la gamba e si sputò nella mano per strofinarsi il sandalo. Estrasse di tasca un fazzoletto di carta, asciugò le lacrime e il naso di Justine, prima di prenderle il viso tra le mani e darle un bacio, un bacio sonoro come quelli di Liane, le labbra bene incollate sulle guance rotonde. Justine, il cui pannolino si era slacciato, corse a raggiungere gli altri. Si erano già lanciati in un nuovo gioco, raccolti questa volta intorno a Barthélémy, che, a voce alta, impartiva le istruzioni. Lucile riprese posto sulla panchina. Guardava i fratelli e le sorelle sparpagliarsi, poi unirsi a grappolo per separarsi nuovamente, le sembrava di contemplare una piovra o una medusa, o, a pensarci bene, un animale vischioso a più teste come non ne sono mai esistiti. In quell’essere proteiforme, cui non sapeva dare un nome – al quale, tuttavia, era certa di appartenere, come ogni anello appartiene al verme anche quando se ne distacca –, c’era qualcosa che la soverchiava e la opprimeva. Di tutti, Lucile era sempre stata la più silenziosa. E quando Barthélémy o Lisbeth bussavano alla porta del bagno dove si rifugiava 18

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per leggere o sfuggire al chiasso, con voce ferma che dissuadeva ogni tentativo di recidiva, ordinava: «Silenzio!». La madre di Lucile comparve all’ingresso del giardinetto pubblico, sul sentiero di sabbia, le braccia alzate, luminosa e bella. Liane captava la luce in modo inspiegabile. Forse per via dei capelli così chiari e del sorriso così largo. Forse per via della fiducia che nutriva nella vita, quel modo di rischiare tutto senza risparmiare nulla. I bambini le corsero incontro, Milo le si gettò fra le braccia e si aggrappò ai vestiti. Liane scoppiò a ridere e, con la sua voce melodiosa, ripeté più volte: «I miei piccoli re». Era venuta a prendere Lucile per accompagnarla dal fotografo. A quella notizia, esplosero grida di entusiasmo o di protesta – eppure, l’appuntamento era fissato da diversi giorni –, un baccano infernale, in mezzo al quale Liane si complimentò con Lucile per l’abito immacolato e riuscì a impartire alcune istruzioni alla figlia maggiore. Lisbeth doveva mettere i quattro piccoli nella vasca, accendere il fuoco sotto le patate e aspettare il ritorno del padre. Lucile prese la mano della madre e insieme si diressero verso la metropolitana. Da qualche mese faceva la modella. Aveva sfilato per le collezioni di Virginie e L’Empereur, due marchi di alta moda per bambini, posato per diverse campagne pubblicitarie ed era comparsa sulle pagine di moda di svariati giornali. L’anno prima, Liane aveva confidato a Lisbeth che il pranzo di Natale e tutti i regali erano stati pagati grazie alle foto apparse su “Marie-Claire” e “Mon Tricot”, due servizi di cui Lucile era stata la vedette. Anche i fratelli e le sorelle facevano ogni tanto qualche seduta, ma, fra tutti, Lucile era la più richiesta. A lei piacevano le fotografie. Pochi mesi prima, immensi poster di un’azienda tessile avevano tappezzato i muri della metropolitana, sui quali compariva in primo piano il suo viso con i capelli tirati indietro, un pullover rosso e il pollice alzato, accompagnato dallo slogan “Intexa, è così”. Contemporaneamente, tutti i suoi compagni di classe, nonché gli alunni di tut19

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te le scuole di Parigi, avevano ricevuto un sottomano, sul quale era stampato il volto di Lucile. A Lucile piacevano le fotografie, ma quel che le piaceva più di ogni altra cosa era il tempo passato con sua madre. Il tragitto di andata e ritorno nella metropolitana, l’attesa fra uno scatto e l’altro, la brioche al cioccolato acquistata all’uscita nel primo forno che incontravano, quel tempo rubato dedicato solo a lei, in cui nessun altro bambino poteva rivendicare il diritto di tenere la mano di Liane. Lucile sapeva che presto quei momenti non ci sarebbero stati più, perché Liane prevedeva che alla ripresa delle lezioni Lisbeth sarebbe stata abbastanza grande per accompagnare la sorella alle sedute dal fotografo oppure che lei stessa ci andasse da sola. Lucile aveva infilato il primo vestito, un abito attillato a righine bianche e blu, sotto il quale era stato fissato un volant bianco che sporgeva di qualche centimetro. Quando girava su se stessa, l’abito si apriva a corolla, denudandole le ginocchia. La parrucchiera le aveva pettinato i capelli con cura, poi li aveva schiacciati sul lato servendosi di un fermacapelli a forma di cuore. Lucile contemplava i sandali neri di vernice che aveva appena infilato, così perfettamente lucidi e senza scalfitture, i sandali dei suoi sogni, capaci di far crepare d’invidia le sorelle. Con un po’ di fortuna, avrebbe potuto tenerseli. Per la prima serie di scatti, Lucile doveva posare seduta, reggendo fra le braccia una gabbietta per uccellini. Quando assunse la posa, l’assistente le si avvicinò per sistemarle il volant dell’abito. Lucile non riusciva a distogliere lo sguardo dall’uccellino. «Da quanto tempo è morto?» chiese. Il fotografo, assorbito dalle regolazioni, non sembrava aver sentito. Lucile si guardò intorno, decisa a captare lo sguardo di qualcuno che potesse risponderle. Si avvicinò un assistente sui vent’anni. «Sicuramente, da parecchio tempo.» «Quanto?» «Non so, un anno, due...» «È morto in questa posizione?» 20

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«Non necessariamente. È il compito del signore che se ne occupa quello di metterlo nella posizione che ritiene migliore.» «È un imbalsamatore?» «Sì, esatto.» «Cosa ci mette dentro?» «Paglia, credo, e sicuramente altre cose ancora.» Il fotografo chiese silenzio, la seduta stava per avere inizio. Ma Lucile continuava a osservare l’uccellino da sotto, alla ricerca di un orifizio. «Da dove infilano le cose?» Liane ordinò a Lucile di tacere. Su richiesta della stilista, Lucile indossò in seguito una tenuta da sci fatta a maglia (posò, con i bastoni in mano, davanti a un fondale di cartone chiaro), un completo da tennis, la cui gonna bianca plissettata avrebbe fatto sognare qualunque sua amica, e, infine, un costume da bagno composto da reggiseno, pantaloncini e una cuffia di plastica che trovò ridicola. Ma Lucile era di una bellezza che nulla poteva oscurare. Ovunque passasse attirava lo sguardo, suscitava ammirazione. Se ne lodavano i tratti regolari, le lunghe ciglia, gli occhi, il cui colore variava dal verde al blu passando per tutte le sfumature di metallo, il sorriso timido o disinvolto, i capelli biondi. A lungo, l’attenzione che le era riservata l’aveva messa a disagio, per via della sensazione che qualcosa di appiccicoso le fosse incollato al corpo, ma, all’età di sette anni, Lucile aveva eretto le mura di un territorio appartato che apparteneva a lei sola, un territorio dove il rumore e lo sguardo degli altri non esistevano. Le pose si succedevano in un silenzio concentrato, al ritmo dei cambiamenti di scena e di luce. Lucile passava dal camerino al set e dal set al camerino, assumeva la posa, scimmiottava il movimento, ripeteva gli stessi gesti dieci, venti volte, senza il minimo cenno di fatica o d’impazienza. Lucile era brava, di una bravura esemplare. 21

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Quando la seduta fu terminata, mentre lei si rivestiva, la stilista propose a Liane un nuovo servizio fotografico per “Jardin des Modes”, previsto dopo l’estate. Liane accettò. «E il fratellino, quello che era venuto una volta con Lucile, poco più piccolo di lei?» «Antonin? Ha da poco compiuto sei anni.» «Le assomiglia molto, no?» «È quello che dicono, sì.» «Venite con lui, faremo un servizio con tutti e due.» Nella metropolitana, Lucile prese la mano della madre e non la lasciò per tutto il tragitto. Quando entrarono in casa, la tavola era già apparecchiata. Georges, il padre di Lucile, era arrivato e stava leggendo il giornale. I bambini spuntarono come un sol uomo, Lisbeth, Barthélémy, Antonin, Milo e Justine, vestiti tutti con lo stesso pigiama di spugna che Liane aveva acquistato all’inizio dell’inverno, in promozione e in sei esemplari, e con ai piedi le identiche pantofole di lusso, a suola tripla, regalo del dottor Baramian. Qualche mese prima, seccato per il rumore che proveniva dal piano di sopra durante le sue visite e convinto che i figli di Liane e Georges camminassero con gli zoccoli ai piedi, il dottor Baramian aveva spedito la segretaria a prendere loro le misure. Fece poi recapitare, a stretto giro, un paio di pantofole ciascuno. In realtà, al di là dell’agitazione generale, si era scoperto che, fra tutti, il più chiassoso era Milo, perché si spostava sul vasino a grande velocità – vasino, gambe, vasino, gambe… Commossa dalla gentilezza del dottore, Liane aveva cercato di neutralizzare il proprio figlio piazzandolo, sempre sul vasino, in cima a un comò. Milo si era rotto la clavicola e il baccano era continuato. Liane spedì Lucile sotto la doccia, mentre gli altri si mettevano a tavola. Da qualche tempo, aveva rinunciato a far recitare ai figli la 22

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preghiera della cena. Le pagliacciate di Barthélémy – che, con la voce fuori campo, faceva eco alla preghiera della madre, iniziando ogni sera con un «Santa Maria merda... di Dio» che provocava l’ilarità generale – avevano avuto ragione della sua pazienza. Stavano finendo la zuppa, quando Lucile si sedette a tavola, i piedi nudi e i capelli bagnati. «Allora, bellezza, hai fatto le foto?» Il modo con cui Georges guardava la figlia sembrava improntato allo stupore. Lucile aveva un che di cupo che gli assomigliava. Fin da quando era piccolina, Lucile lo intrigava. Quel suo modo d’isolarsi, astrarsi, di stare seduta solo su un lato della sedia, come se aspettasse qualcuno, di parlare con parsimonia, quel suo modo di non compromettersi, come aveva talvolta pensato. Ma Lucile, lui lo sapeva, non perdeva nulla, non un suono, non un’immagine. Captava tutto. Assorbiva tutto. Come gli altri figli, lei voleva piacergli, aspettava il suo sorriso, il suo assenso, i suoi complimenti. Come gli altri, aspettava il ritorno del padre e qualche volta, quando Liane la incoraggiava, raccontava la propria giornata. Ma Lucile, più di tutti gli altri, era unita a lui. E Georges non poteva staccare lo sguardo da lei, incantato. Anni dopo, la madre avrebbe raccontato quell’attrazione che Lucile esercitava sulle persone, quel misto di bellezza e assenza, quel suo modo di sostenere lo sguardo, persa nei suoi pensieri. Anni dopo, quando anche Lucile sarebbe morta, molto prima di diventare una vecchia signora, avremmo ritrovato tra i suoi effetti personali le immagini pubblicitarie di una bambina sorridente e spontanea. Anni dopo, quando si sarebbe trattato di sgomberare il suo appartamento, avremmo scoperto in fondo a un cassetto un intero rullino di fotografie del cadavere del padre, ripreso da lei stessa sotto ogni angolatura, nel suo abito beige od ocra, color vomito.

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DIR. EDITORIALE

ART DIRECTOR

EDITOR

GRAFICO

REDAZIONE

UFF. TECNICO

2 M M di A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A

F oto © H annah A s s ouline / O p ale / L U Z p hoto

2 M M di A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A

«non pensate sia un libro che mette tristezza. niente si oppone alla notte

nificante. purificatore, come tutte le tragedie» Le Nouvel Observateur

colare, l’eco instancabile dei morti, e il risonare del disastro. Oggi so pure che illustra, come tante altre famiglie, il potere devastante della parola, e quello del silenzio.

delphine de vigan

La mia famiglia incarna quel che la gioia ha di più chiassoso, di più spetta-

niente si oppone alla nott e

Delphine de Vigan (Boulogne-Billancourt 1966) è l’autrice del romanzo Gli effetti secondari dei sogni, Prix des Libraires in Francia nel 2008 e bestseller da quasi mezzo milione di copie, tradotto in più di venti lingue. Un successo ripetuto da questo Niente si oppone alla notte, che ha conquistato nuovamente in un sol colpo il cuore dei lettori e la critica francese. Nel 2010 ha pubblicato Le ore sotterranee. Vive a Parigi.

delphine de vigan niente si oppone alla notte

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO PROGET TO GRAFICO: MARCELLO DOLCINI G R A P H I C D E S I G N E R : s u s anna to s atti

d

18,00

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DIMENSIONE: 156x233 mm

BROSSURA

scoppia di salute. è to-

PANTONE 129 U

PANTONE BLACK U

Nel 2008, a sessantun anni, Lucile si toglie la vita. A scoprirla è sua figlia Delphine, l’autrice di questo libro. Un mattino di gennaio è entrata nel suo appartamento e l’ha trovata così, distesa sul letto, senza vita. Perché? Non è una domanda a cui si possa dare risposta, e Delphine de Vigan, già affermata scrittrice, per molto tempo resiste all’idea di dedicarle un libro. Ma c’è una “luce segreta venuta dal nero” a sedurla e a farle riprendere la penna in mano. Con la certezza che “la scrittura non può nulla. Tutt’al più permette di porre le domande e interrogare la memoria”. Lucile era una donna bellissima, ammirata e desiderata, che portava in sé da sempre una ferita profonda. “Il suo dolore ha fatto parte della nostra infanzia e, più tardi, della nostra vita adulta, il dolore di Lucile fa indubbiamente parte del nostro essere, mio e di mia sorella. Eppure, ogni tentativo di spiegazione è votato alla sconfitta.” Ma questa morte esige almeno di avvicinarlo, quel dolore, di esplorarne i contorni, i recessi segreti, l’ombra che proietta. È dunque per combattere il potere distruttivo del silenzio che Delphine inizia a scavare nella memoria familiare, a partire dai nonni un po’ bohème e anticonformisti e dai loro nove figli, per ricomporre il quadro di una “famiglia che ha suscitato lungo tutta la sua storia numerosi commenti” e ha proiettato intorno a sé un’inconsueta fascinazione. Una famiglia “allegra e devastata” in cui la tragedia si è insinuata presto e si è riprodotta con inusitata acrimonia, alternandosi a momenti di sublime felicità. Una famiglia in cui ci si è amati, ci si è detestati, ci si è ritrovati, un nucleo anche un po’ bislacco che Delphine interroga, inquieta e appassionata, per arrivare a scoprire il coraggio e l’amore che stavano dietro il sorriso d’oscura dolcezza di sua madre. E renderle così l’omaggio più bello: un ricordo di carta e un destino di personaggio. Chi ha letto e amato Gli effetti secondari dei sogni ritroverà in questo libro la sensibilità, la grazia e lo stile ineguagliabili di Delphine de Vigan. Perché Niente si oppone alla notte è un libro “scritto in punta di penna”, per citare un critico francese, “quasi a non voler bucare il foglio bianco della storia”.

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