Le finaliste del concorso "What women write"

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COSA SCRIVONO LE DONNE: CONCORSO PROMOSSO DA EDIZIONI MONDADORI E DONNA MODERNA

I brani dei romanzi finalisti scelti dalla giuria


Se sapessi, saprei, invece non so

DICEMBRE 09

di Sandra Cattapan Ho bisogno di saperlo. Conto le piastrelle. Sono nella vasca con l’acqua troppo calda e la schiuma che sa di eucalipto e conto le piastrelle. Non è per noia, è che ho bisogno di sapere quante sono. Di essere sicura di una cosa, anche se sono solo le piastrelle. Sedici per otto. Conto solo quelle della parete davanti a me. Non importa quante sono le altre, mi basta sapere che queste sono centoventotto, otto tagliate sul lato destro, il resto intere. Una scheggiata ma quasi non si vede. Sopra due finestre, e da qui si vede solo il cielo. Che, per la puzza di eucalipto, mi sembra più verde che azzurro. [...] Abito qui da quattro giorni. Al terzo piano, l’ultimo, sopra di me solo il tetto. [...] Faccio sempre le scale anche perché non c’è l’ascensore e se ci fosse prenderei comunque le scale. È come per la vasca con l’ascensore. Non mi hanno chiesto se lo volevo. Ma mi fa bene sapere che comunque non l’avrei voluto. Un bell’appartamento. Se fai il primo gradino col piede sinistro arrivi davanti alla porta col destro. Sempre. Fa bene sapere queste cose. Se volessi arrivare col sinistro basterebbe che facessi due gradini con un passo o che iniziassi col destro. Potrei anche cambiare idea a metà strada, basta decidersi prima dell’ultimo gradino. Se vuoi qualcosa devi sapere cosa fare per arrivarci. Comunque non mi serve arrivare col destro. Ho solo fatto il conto per saperlo. Perché ho deciso che devo sapere. Sapere anche solo una cosa ogni giorno ma saperla, saperla. Lo faccio per non impazzire. Perché a non sapere le cose uno diventa matto sul serio. Non ha detto niente quando se ne è andato. È lì che ho cominciato a non sapere, a sapere di non sapere. Non succede nella vita come nei film. Non ha detto ti lascio perché non ti amo più, non ha detto me ne vado a vivere da solo, non ha detto me ne vado a vivere con un’altra, non ha detto vado a comprare le sigarette, non ha detto vaffanculo. Ha solo chiuso la porta.


Il mare non è mio

LE FINALISTE

di Elena Marengo Per tanti anni, almeno sei, ho odiato la pinzetta di metallo che mi dovevo mettere sul naso. La dovevo schiacciare così forte, che se qualcuno per scherzo mi avesse tappato la bocca, sarei morta dopo pochi minuti. Mi ricordo che un giorno la dimenticai a casa. E scoprii, con sorpresa, che l’acqua che entra nelle narici dopo due rotazioni avvitate con la testa in giù e quattro capriole consecutive all’indietro con le gambe all’aria è più fastidiosa di una pinzetta di metallo schiacciata sul naso. [...] Vedevo le mie compagne asciugarsi i capelli, le sentivo chiacchierare e proferire numeri, e le ascoltavo in disparte. Io non potevo unirmi a quelle discussioni, io avevo perso il conto dopo il primo giro, e non potevo conoscere quel numero, preciso e sempre approssimato all’eccesso, delle vasche percorse in avanti e indietro e poi ancora in avanti. «Voi fate nuoto sincronizzato, e il numero di vasche è solo una preparazione all’arte del sincronismo» ci gridava l’allenatrice dal bordo della vasca, mimando i movimenti che avremmo dovuto fare nell’acqua, «voi siete le prime sincronette d’Italia, e lo siete anche se non esiste ancora una società che vi possa riconoscere. Voi dovete nuotare, allenarvi e ricercare la perfezione. Non dovete contare, qui non vince chi fa più vasche, ma chi si destreggia meglio nell’acqua.» Amavo nuotare a rana, quand’ero piccola, mi piaceva stare sott’acqua e muovermi in silenzio, per poi sbucare con la testa per un attimo e tornare subito sotto, con braccia e piedi pronti a dare la spinta. Volevo emulare chi nell’acqua ci vive e depone le uova sulle spiagge così affollate che qualche volontario deve svegliarsi prima dell’alba per andare a proteggerle. A quel tempo non sapevo ancora distinguere i rettili dagli anfibi, e continuavo a nuotare a rana, una rana speciale, corazzata come una tartaruga che depone le uova sulle spiagge siciliane il giorno di ferragosto. [...] A quel tempo la piscina era lontana, gli allenamenti faticosi, le compagne noiose. E io riuscivo a nuotare, fare le capriole e tuffarmi dal trampolino più alto. Ora, invece, che non mi devo più mettere la cuffia, la pinzetta e il costume della squadra, nero, accollato, con i bordi rossi e una stella sul petto, ora che posso conciarmi come voglio, che devo fare solo tre passi per raggiungere l’acqua e, volendo, potrei nuotare anche senza costume, non riesco a fare il bagno in piscina. Ora che tutto è a mia disposizione, non ci sono spogliatoi da spartire, vocii, donne che mi scrutano per rincuorarsi che anche il loro corpo non è perfetto, corsie sempre


DICEMBRE 09

occupate, schiamazzi rimbombanti e schizzi che mi confondono, non riesco a tuffarmi. Nemmeno a sdraiarmi sui bordi, a sedermi a leggere o a stare al sole. Non mi vergogno di mostrare il mio corpo, non temo che il sole mi rovini la pelle, non ho paura di affogare. Io, non lo so perchĂŠ, non riesco a fare il bagno in piscina.


Il talento per la lentezza

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di Silvia Longo GIANNA TORINO, 20 OTTOBRE. SABATO SERA Ho telefonato per dirle: «Vado a Napoli, giovedì prossimo. Impegni di lavoro. Vieni con me». Ha nicchiato: «Mi prendi alla sprovvista. Non so se...» Ho aggiunto: «Andiamo con il treno, in notturna. Vedrai, ti piacerà». Ha risposto: «Non è una buona idea». Ho insistito: «Devi soltanto salire, nient’altro. Del biglietto mi occupo io. Sarò già a bordo ad aspettarti». Ha riso, ma senza divertirsi: «Già. Il difficile non è prendere il treno, ma quello che viene dopo». Ok, ho pensato, non ha tutti i torti. Il vagone-ristorante, ammesso che sia ancora aperto a quell’ora, propone un menu senza originalità: insalate e tramezzini preconfezionati. Parole di circostanza, educate, pure un po’ complici. Sempre che l’atmosfera lo consenta. [...] Adesso, me l’immagino, starà pensando che l’Intercity Torino-Napoli non è l’Orient Express dei tempi d’oro, quando nel confort delle eleganti carrozze si scialavano conversazioni d’alto bordo, piacevolmente annoiate. E passioni segrete. E delitti, anche. Ma è probabile che questo sia luogo comune della letteratura, quella che lei consuma senza ritegno. Anche quando l’ho conosciuta, lo scorso giugno, il primo dettaglio che ho notato non sono state le tette, bensì il libro che leggeva. Dostoevskij in spiaggia. Stava distesa sul telo a un paio di metri da me, e cambiava spesso posizione, come se non riuscisse a trovare quella giusta. O forse voleva solo ottenere un’abbronzatura uniforme. Supina, con le gambe flesse e il libro tenuto alto a schermarsi gli occhi. Poi prona, appoggiata sui gomiti, le punte dei piedi intente a scavare due piccole buche nella sabbia con movimento circolare. Infine si era girata su un fianco, e quello era stato il momento in cui avevo potuto vederle bene il volto, sotto la visiera del cappellino da tennis. Un ovale aggraziato, labbra non troppo carnose ma ben disegnate, ciglia lunghe, zigomi alti. Due trecce brune fermate da elastici turchese, stesso colore del bikini, pelle arrossata dal primo sole, fianchi e gambe snelli, da ragazzina. Una catenella d’oro, fine poco più di un capello, a cingerle la caviglia destra, sottolineandone la sottigliezza. [...]


DICEMBRE 09

A volte funziona. Che se guardi fisso una persona, questa si accorge di te. Così l’ho guardata. Tanto, e forte. A un certo punto ha alzato gli occhi, hanno incontrato i miei. Ha accennato un sorriso, senza nemmeno mostrare i denti, giusto un abbozzo. Non ho più certezza, però, se questo sorriso ci sia stato davvero, o se l’abbia immaginato io in quell’istante, per trovare l’ardire di parlarle. O magari me lo sto inventando proprio adesso, così da costruirmi un ricordo speciale di quel momento. Perché quello è stato il nostro momento perfetto.


Fragole a novembre

LE FINALISTE

di Cecilia Mazzeo Ho quattordici anni, porto gli occhiali più per nascondermi che per vedere. Ho solo un lieve astigmatismo, una piuma di nebbia che stanca lo sguardo, per il resto direi che vedo fin troppo bene. Vedo oltre le spalle dell’ultimo della fila, anche se io guardo avanti. Sempre avanti. Porto il cerchietto e portare il cerchietto oggi sa tanto di cintura di castità, ma non trovo il coraggio di toglierlo. Le abitudini, si sa, sono dure da estirpare, e poi così i capelli mi stanno a posto e non mi sbavano sulla faccia in mille riccioli scomposti. Occhiali e cerchietto sono la mia divisa: una specie di mina antiuomo, dico io. Le mie compagne, invece, sembrano già donne stropicciate. Sanno di fumo, hanno quintali di rimmel sulle ciglia, i jeans a zampa d’elefante, gli anfibi o le All Star e il bomber. Che sia grigio, verde, nero o blu non importa. Ma bomber deve essere. Anche io ho un paio di All Star, sono fucsia, ma fanno puzzare i piedi in un modo terribile, sanno di plastica e di muschio. Le metto quel tanto che basta per far capire che le ho. [...] La scuola è ricominciata da un mese circa. Fortunatamente l’aria si sta riempiendo di freddo e le strade sono tappeti di foglie secche, sminuzzate. Briciole di foglie da far scricchiolare sotto ai piedi. È un bel rumore lo scricchilio, mi collega al mondo in modo lieve. Cosa che non fa, invece, il camion del rusco. È nato senza tatto nei pensieri di chi l’ha creato. Manca di un senso. Saranno cento o poco più i passi che mi separano dall’abitacolo della cultura, ma a me sembra ogni mattina una distanza eterna. Faccio fatica. Fatica vera. Mi sembra di essere nata spompa. A volte mi sento inquinata, intossicata, con un peso morto dentro. Forse sono le delusioni che ingoio o le sigarette rifiutate. Forse chi fuma ingerisce nicotina ma spurga l’anima. In ogni anello di fumo se ne va un pensiero cattivo.


Libera il minotauro

DICEMBRE 09

di Laura Lorenza Sciolla Quello che è certo è che di tempo ne ho perso molto. Me ne rendo tragicamente conto adesso, mentre sono quasi nuda accanto a un ragazzo che, ahimè, ha almeno la metà dei miei anni. È l’uomo più peloso che abbia mai visto: un essere fra l’uomo e l’animale. Ha la chioma rossa, riccia, spugnosa. Su petto e spalle gli cresce un vello ramato, sempre più folto man mano che scende a sud. Chissà che groviglio giace compresso nel costume rosso, unico suo indumento oltre a una cuffia di lattice e a un paio di ciabatte vetuste, contrastanti con quelle trendy degli altri allievi del corso di subacquea. Siamo in fila sul bordo della piscina. Davanti a noi, l’istruttore – che si distingue per una maglietta con la scritta GRUPPO SUB e il disegno di un pesce deformati dal pancione. «Hai le ciabatte uguali alle mie!» sussurro al giovane irsuto. Con aria cupa, volge verso di me lo sguardo che fino a quel momento ha tenuto incollato ai sederi delle fanciulle del nuoto sincronizzato, in coda verso gli spogliatoi femminili. A quelli maschili, invece, si stanno dirigendo i ragazzi della pallanuoto, sui cui muscoli sono indirizzati gli sguardi delle signore. Nessuno guarda l’istruttore, che da alcuni minuti cerca di attirare la nostra attenzione. [...] Accanto a me, mia nipote Alessia sfoggia il corpo perfetto con noncuranza preadolescenziale. Benché magra, è convinta di essere grassa; dà per scontate la pelle di pesca, la rotondità del volto, la baldanza del seno. Tutte le creme, i massaggi e i trattamenti estetici del mondo non mi restituiranno mai un corpo come il suo. Che da giovane non mi sono mai accorta di avere, occupata com’ero a vederne solo i difetti: proprio come fa adesso Alessia. «Hai visto che figo?» le sussurro, indicando il villoso. «Figo?! Fa cagare!» risponde a voce alta. Il ragazzo sobbalza. Chissà se, invecchiando, diventerà ancora più peloso. Magari si trasformerà in un animale, un mostro degli abissi assetato di sangue e sesso. A quel pensiero, sono scossa da un sommovimento ormonale di inaspettata violenza. Entro nella cabina: è lì che mi aspetta. Apro la bocca per chiedere: “Come hai fatto a entrare nello spogliatoio delle donne?”, ma lui me la chiude con un bacio. Con la lingua gli acchiappo la lingua e la stringo contro il palato,


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succhiando con tutte le mie forze. Succhio e risucchio e cerco di strappare quel pezzo di carne turgido e incredibilmente peloso. È una pianura algosa, con peli che mi scendono fino in gola e mi fanno tossire, tossire... Non riesco a smettere di tossire: devo avere inghiottito un capello. Caspita, sono così inibita che non so far sesso nemmeno in sogno. O forse non era un capello ma un ragno. Ho letto sul giornale che nelle case ci sono moltissimi ragni. Più di quelli che vediamo. Di giorno stanno nascosti, ma di notte, mentre dormiamo, escono dalle tane e passeggiano sui nostri corpi, entrano negli orifizi, si cibano di umori e secrezioni. Al telegiornale ho sentito la storia di una donna che aveva sempre male a un orecchio: l’otorino le scoprì un ragno morto nel condotto uditivo. Ma saranno solo i ragni a popolare le nostre abitazioni quando le crediamo deserte? Ci sono scarafaggi, mosche, cimici, vespe muratrici... per non parlare dei milioni, miliardi di acari che brulicano in letti, tende, tappeti: mangiano le particelle di pelle che ci cadono di dosso e poi cagano, cagano, cagano. Se non scuotessimo la polvere dai materassi, saremmo sommersi dai loro escrementi. A onor dei quali bisogna ammettere che sono inodori. Il pensiero dei nostri invisibili compagni non suscita ribrezzo in me, anzi. Mi piace la loro presenza silenziosa – con l’eccezione delle cimici che ronzano in modo insopportabile –, la loro partecipazione discreta, senza pretese. Dormire con loro è molto meglio che dormire con un uomo. Occupano meno spazio e hanno meno pretese.


Single o zitella?

DICEMBRE 09

di Sandra Granchielli Sono una donna senza un uomo. Cioè, senza un uomo fisso. Teoricamente sarei una single, ma single è un termine abbastanza impegnativo, rimanda a immagini di donne scintillanti che affrontano il mondo in tacchi a spillo. Sei una single se vivi a New York o a Londra o a Parigi, al massimo a Milano; sei nel consiglio di amministrazione di una grande azienda, o fai l’avvocato di successo, o l’architetto di tendenza, o magari fai la scrittrice di bestseller che riesca a vivere, e bene, con quello che guadagna dai suoi libri. Ovviamente hai un appartamento in centro, ben arredato, magari un loft, e indossi vestiti bellissimi, firmatissimi e costosissimi; esci tutte le sere e frequenti i meglio locali e la meglio gente della città e ti svegli ogni mattina sempre fresca come una rosa pure se hai dormito solo tre ore. Io faccio la maestra; vivo con i miei genitori in un paesino di mille anime, due bar, cinque parrucchiere e settantasei bambini che conosco uno per uno; non mi posso permettere i vestiti che vorrei; quando indosso i tacchi devo valutare attentamente il tempo che passerò in piedi e quello in cui resterò seduta e il giorno dopo quasi sicuramente avrò mal di schiena; per raggiungere un locale decente devo farmi quaranta chilometri fra le colline abruzzesi e il più delle volte alle mie poche residue superstiti amiche single non va di uscire. E se dormo meno di sette ore per notte, al mattino non mi si può guardare. Più che single direi zittella. [...] Credevo che sarebbe durata per sempre. E mi sbagliavo, of course. Dopo un anno che stavamo insieme Giunluigi smise di fare progetti matrimoniali. Cominciarono a sparire anche le poesie; i bigliettini e i regalini diventarono insopportabilmente banali. E Gianluigi smise di sorridere. Quando, per il nostro secondo anniversario, mi regalò una magnifica rosa rossa a gambo lungo, fu chiaro che qualcosa non andava. Affrontai il problema di petto una sera a cena. «Amore», avevamo questa simpatica abitudine di chiamarmi amore, «Amore, c’è qualcosa che non va?» «Amore, perché mi fai questa domanda?» “Le tue carezze, amore, sono diventate pacche sulle spalle, amore! Non ricordo più l’ultima volta che mi hai detto che sono bella, amore! Se


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indosso la minigonna, amore, sai dirmi solo che ho le gambe troppo bianche e che dovrei fare ginnastica! Quando ieri mi sono avvicinata per leccarti, amore, mi hai fermata dicendomi che ti eri appena lavato! Se mi siedo a cavalcioni su di te, AMORE, invece di mettermi le mani addosso, mi dici che sono pesante! I CUORICINI CON CUI INDICO SULLA MIA AGENDA I GIORNI IN CUI FACCIAMO L’AMORE, AMORE, SONO DIVENTATI PIÙ RARI DEI PANDA GIGANTI CINESI, AMOREEEEEE!” Avrei voluto urlare. Ma mi limitai a sussurrare, mortificata: «Niente, amore, ti vedo un po’ triste, tutto qui.» [...] Il giorno dopo Gianluigi mi lasciò per telefono. Passò una settimana e tornò in lacrime da me chiedendomi perdono. Quindi continuò a lasciarmi e a prendermi a settimane alterne per circa tre mesi. E continuava imperterrito a chiamarmi “amore”. «Perdonami amo’, ma io non ti amo più, amo’»... quando l’abitudine toglie ogni significato alle parole.


Donne donne un po’ streghe un po’ madonne

DICEMBRE 09

di Caterina Crosa Alle otto del mattino, un venerdì santo freddo e triste, Nunzio Capone, conosciuto come marito di Oratina a cammesara, si era accasciato senza vita nel salone da barbiere di Ciro, l’amico di sempre. Ciro, per i benpensanti era Cirina a vuttagghiese, ma le malelingue avevano coniato ben altri soprannomi, alludendo alla camminata ancheggiante, alla voce modulata in falsetto, alle mani sempre profumate, agli occhi languidi che si perdevano dietro ai ragazzi che giocavano a pallone. Nunzio aveva concluso la sua vita terrena fra le braccia dell’amico ed era stato per lui un trapasso indolore, senza falsi pentimenti e spreco di viatico. Nei suoi cinquant’anni di vita, poco aveva combinato di buono, anche se di mestieri ne aveva esercitati tanti, tutti quelli che lo portavano in mezzo alla gente a fare baldoria; era un cuore contento e sapeva ridere della malasorte, agghindandosi con collane di aglio e diavolicchi. E improvvisava la vita ogni mattina. [...] Si era fatta avanti Oratina, lei e Nunzio erano soli, nella penombra della stanza c’erano gli odori della cucina, le mele profumavano sopra all’armadio, le candele tremolavano mandando un sentore di rosmarino bruciato che si confondeva con l’incenso. Con le mani piccole, sciupate dalla fatica, si era allisciata la gonna e aveva appoggiato i piedi sopra uno sgabello, si era poi sistemata il cuscino dietro la schiena per la comodità dell’appoggio E aveva cominciato a parlare, dapprima con voce sommessa, come se le parole stentassero a farsi sentire, poi con tono più sicuro. Nessuno l’avrebbe zittita con malgarbo. «Nunzio mio, come sei bello così vestito, pari un signore, hai l’aria di uno che nella vita ha mangiato bene e dormito meglio, te ne sei andato dopo aver visto i tuoi figli cresciuti nel rispetto della fede e dell’onestà del lavoro, e questo ti è bastato per morire contento. Abbiamo tante cose da dirci, Nunzio mio, tante cose rimaste in fondo al cuore per tutti questi anni: siamo stati insieme, uniti nella buona e nella cattiva sorte, ma con te vicino, io mi ricordo solo di quelle buone. Mi ricordo delle sere che non tornavi, io ti aspettavo dietro la finestra con la luce spenta per vedere meglio la strada e mi addormentavo sulla sedia. Stavo così finché non sentivo la chiave nella toppa. Eri troppo fatto di vino per accorgerti di me e te ne andavi a coricarti nel tuo letto vestito, io venivo a spogliarti e ringraziavo la Madonna che ti aveva protetto dai


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cattivi incontri; tua madre, santa donna, dormiva dalla sua parte, col rosario in mano, sulle labbra socchiuse nel sibilo del sonno le briciole dell’ultimo tarallo. Tu ti accucciavi sotto le sue braccia, ridevi come un bambino e le baciavi la bocca che sapeva di rosolio. Io mi coricavo nel mio letto, vicino alla macchina da lavoro, nella stanza dove cucivo i cappelli per le signore; era piena di nastri colorati, di piume, di rose, anche le cantanti del teatro d’Ayala venivano a cerarmi in una gara d’eleganza con le signore del borgo.»


Le cene del ventaglio

DICEMBRE 09

di Maria Concetta Distefano «Ti sventagli anche tu? Direi che ci siamo, no? Sei del ’57, se non erro! Perciò starai per entrare anche tu in menopausa, immagino... Come va a caldane?» [...] Quasi afferrando al volo un pensiero sortole all’improvviso, aggiunse d’un fiato: «Ire, perché non fondiamo un bel Fan Club, un bel Club del Ventaglio? Insomma, ci conosciamo tutte noi vecchie amiche del giro, sarebbe carino vederci una volta al mese in un momento tutto nostro sventagliarci all’unisono...» La proposta di Teresa, detta Tere, riecheggiò nella mente di Irene per qualche minuto. Già, perché non provare a riunirsi, con la scusa dei ventagli, una o due volte al mese in casa dell’una o dell’altra per pianificare uscite e gite, visite a mostre e musei, cinema e spettacoli, e parlare un po’ di loro in una specie di organizzazione post femminista dove i maschi potevano solo brillare per la loro assenza? Le venne il dubbio che l’organizzazione, più che post femminista, avrebbe potuto essere post femminile, ma lo scacciò dalla testa con un gesto della mano. Innanzitutto non voleva certo rafforzare l’immagine del tota mulier in utero e inoltre non era ancora da buttar via, anzi nessuna di loro lo era... [...] Adriana rimase ancora un attimo sulla soglia, gettò un rapido sguardo a se stessa riflessa nello specchio e... ok, va bene, sembrava un po’ Olivia di Braccio di Ferro... vabbè, ok, avrebbe dovuto comprarsi dei vestiti nuovi e andare dal parrucchiere per mitigare l’effetto aureola beatificante dei capelli ma... in fondo lei non considerava importanti quelle cose e voleva dare il buon esempio a Chiara... Per quanto Chiara sembrava sbattersene degli esempi e, a dispetto delle letture giuste, dei film d’autore, delle musiche doc, stava diventando una preadolescente in tutto e per tutto simile alle migliaia che ogni mattina invadevano strade, autobus e scuole; stava inesorabilmente entrando nel branco e non voleva saperne di discorsi sulla personalità, sull’autonomia del pensiero e del comportamento... e, insomma, la stava facendo sclerare! Adriana si rese conto che cominciava a pensare come un’adolescente e si impose di scendere... Sì, tutto quel flusso di pensieri la stava sommergendo, la stava caricando d’ansia e questo non avrebbe certo giovato alla tiroide, al calo degli ormoni femminili, alle tachicardie. Chiuse la porta con un tonfo. Scendere! «Scendere! Ho bisogno di scendere!» s’impose a voce alta. «L’ascensore l’ho appena chiamato io.» La voce alle sue spalle la fece sussultare. E questo... e questo esemplare maschile niente male da dove spuntava?


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«Sono il suo nuovo, provvisorio dirimpettaio. Mi chiamo Eric Tommasini.» «Io... sono Adriana Baldini.» Si strinsero la mano e Adriana trovò che quella di lui era forte, calda e asciutta proprio come si aspettava che dovesse essere la mano di un figo così. Va bene, da Virginia Woolf era scivolata a Liala, ma tutto sommato la cosa non le dispiaceva affatto. Un po’ di sana letteratura rosa non l’avrebbe certo ammazzata per una volta, no? L’ascensore arrivò, vi entrarono e, insieme, scesero al pianterreno.


La lettrice di nuvole

DICEMBRE 09

di Antonella Gramone STRATOCUMULI Rue Thérèse Mi chiamo Michelle. Abito in una città del Nord della Francia, un po’ più grande, un po’ più famosa, un po’ più inquieta di tante altre. La mia casa è vecchia, niente di particolare. Ma ha grandi finestre da cui scrutare il cielo. Per me è fondamentale vedere bene il cielo. Sono una lettrice di nuvole. Come si leggono le nuvole, voi mi chiederete? Per prima cosa le osservo a lungo, per capirne la personalità... Le nuvole vanno e vengono, si ammalano e ridono, sono gravide di pioggia, trafitte dalla speranza di un raggio di sole... come le persone, come i sogni delle persone. Vanno curate quando si ammalano, prese in giro quando diventano troppo vanitose, messe in riga quando si disperdono troppo. Ci sono nuvole più espansive e altre più introverse. A volte litigano fra di loro, e anche il cielo diventa saturo della loro aggressività e si incupisce. Non è un temporale in arrivo, credetemi, quando vedete tutto scuro lassù in alto: il più delle volte sono due nubi di malumore che si sono prese a cazzotti fra di loro. Ognuno ha le sue nuvole preferite. Io, per esempio, confesso la mia debolezza per i cirri... I cirri sono le nuvole più vanitose: delle gran ricciolone, che passano il tempo a scuotersi le belle ciocche; forse un po’ mi somigliano, chissà. I nembostrati, invece, non mi piacciono un granché: sono un po’ noiosi, capaci di passare un pomeriggio intero a girovagare a vuoto nel cielo e poi, verso sera, quando la gente ha fretta di rientrare dal lavoro o di uscire a divertirsi, ecco che si danno una scossa e fanno piovere per ore. Capire le nuvole vuol dire capire il mondo. Le nuvole sono piccoli frammenti di emozioni sospese sopra le nostre teste: capricciose, volubili, sfilacciate, cupe o lievi come i nostri umori, come i nostri amori. I miei vicini di casa qui a Parigi, ad esempio, sono una coppia male assortita: lei, Martine, è un cumulonembo temporalesco, sempre pronta a esplodere da un momento all’altro. Lui, Fabius, è un altostrato, come una nuvolaglia che non si capisce mai bene se porterà a qualche precipitazione o se farà bel tempo. Martine è impetuosa, i cumulonembi hanno spesso la forma di un’incudine, e batte e ribatte stizzosa: «E adesso Fabius, cosa facciamo? Usciamo, mangiamo a casa, andiamo a trovare tua mamma a Poissy?»; mentre Fabius temporeggia, vago e lento, finché Martine esplode, e allora


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è pioggia e grandine per tutti. Sapete allora cosa faccio? Accendo veloce due coni d’incenso e un bastoncino al profumo di lavanda e apro la mia porta d’ingresso, così gli effluvi vanno in direzione della loro casa e disperdono i vapori acquei negativi di Martine e scuotono un po’ le coltri di Fabius... Funziona, credetemi.


DICEMBRE 09

Trentotto chilometri da Charlize di Michela Ricco “Ho trovato una villa con le piantagioni di arance.” Leggendo le lettere di mio padre, chissà cosa si era immaginata mia madre? Quando varcammo il Gate, agli arrivi dell’aeroporto di Johannesburg, vidi mio padre, con la barba incolta da giorni e capì che da quel momento la mia vita non sarebbe più stata la stessa. [...] Poi c’erano anche le canzoncine, di cui una particolarmente infestante per la mia materia celebrale. Veniva cantata in coro da bambine lentigginose, con le trecce bionde, abitini rosa, calzini in pizzo di cotone fino alle ginocchia e pochette in vernice oro contenente lucidalabbra al gusto fragola della linea cosmetica Tinkerbell (Campanellino per le per bambine) e una caramella rossa per i momenti di calo glicemico. Col senno di poi, erano davvero inquietanti, ma quando hai cinque anni e sei un emigrante, loro sono l’immagine della perfezione alla quale vorresti assomigliare... [...] Studiavo i miei nuovi vicini di casa domandandomi in che paese strano mi avessero portata i miei genitori. In questo paese non c’erano più parenti serpenti, e fuori dalla finestra non si vedevano altri appartamenti della periferia milanese, ma distese infinite di erba lunga, gialla e secca come la paglia. Mio padre, partito mesi prima in avanscoperta, scriveva nelle sue lettere: “Ho trovato una villa con le piantagioni di arance”. Nel giardino della nostra prima casa, c’era una sola piantina nana, con un’arancia di numero. La casa era completamente isolata, senza riscaldamento, bianca, dentro e fuori. Sembrava di essere al manicomio e mia madre piangeva in continuazione. Per non perdere il senno del tutto, mancando anche radio e televisione, mi leggeva favole tutto il giorno. Le mie migliori amiche erano mamma, Biancaneve e Cenerentola.


LE FINALISTE

Il destino dell’onda di Camilla Jagna Ugolini Mecca Lasciò solo un biglietto. “Me ne vado per un po’”. Era tipica di Bianca, questa provocazione all’amore. Voleva verificare se qualcuno era disposto a tutto per lei. Io ero quel qualcuno. Ero pronta a cercarla fino ai confini del mondo e delle possibilità, fino alle Colonne d’Ercole. L’avrei cercata ovunque, perfino dentro gli Inferi. Finché ne avessi avuto la forza. Un foglio a quadretti, strappato di fretta da un notes. Faceva capolino quasi distrattamente, bloccato com’era dalla terrina della frutta, al centro del tavolo. Stavo seduta a fissarlo, quasi ipnotizzata. Anna, la ragazza con cui vivevo, era in piedi, appoggiata alla credenza azzurrina anni Cinquanta, unica macchia di colore nella cucina immacolata. «E dove vorresti andare?» mi contestò, come era suo solito. «Non farlo, è un salto nel buio... Lei lo farebbe per te?» Non lo sapevo e non era questo il punto. Anna era seria, affidabile, efficiente fino ai minimi dettagli. Bastava però che non si deragliasse, altrimenti tutti i suoi teoremi sarebbero crollati. Non si spostava di un millimetro rispetto a ciò che aveva previsto. Diffidare sempre e non rischiare mai, questo era il suo motto. Lo odiavo.


DICEMBRE 09

Una notte, invece di Maria Di Piazza TINA Per cena ho preparato lo sfincione; a Palermo è tradizione mangiarlo la sera della vigilia dell’Immacolata, il 7 dicembre, e poi si fa la prima giocata delle feste, con i tavolini ricoperti di panno verde e le tessere della tombola e le carte del Mercante in Fiera, e il giorno dopo si cominciano a comprare i regali di Natale. [...] All’ora di cena, con la tavola apparecchiata, lo sfincione che lo guardavo dal vetro del forno ed era perfetto, bello lievitato, con il pangrattato – la mollica atturrata, si chiama da noi – messo sopra, i pezzi di caciocavallo conficcati nella pasta e ormai semisciolti, quando stavo per chiamare Luna per chiederle se potevo dire a Evelina di servire in tavola, ho notato che Daniele, suo marito, non era ancora tornato. Ma come? Una sera di festa, una cena che neanche al ristorante, e lui non si è ancora ritirato a casa? Che situazione, c’è da diventare pazzi. Io l’ho detto a Luna, che un giorno di questi me ne torno al paese, a Scillato, dai miei genitori, e se la sbriga lei con questa gabbia di matti; lei ha fatto la scena e mi ha detto ma no, Tina, non mi fare questo torto, non mi dire così, come faremmo senza di te?, ma tanto lo sa benissimo che non me ne vado. Primo, perché il lavoro è lavoro e loro di me hanno bisogno, chissà come si ridurrebbero se non ci fossi io a gestire le loro vite, e poi sono fatta così, se prendo un impegno non sono capace di lasciarlo a metà. E, secondo, perché non ho nessuna intenzione di tornare a vendere assorbenti e cerniere lampo e quaderni a righe nell’emporio-merceria dei miei genitori.


LE FINALISTE

Ora si può ricominciare di Camilla Mannocchi Sono passati circa due mesi dalla rottura di Luca con Vale, ma a lei ancora non è passata, così stiamo insieme praticamente tutti i giorni. Il mio obiettivo è distrarla dai brutti pensieri. La porto ovunque: al cinema, a fare shopping, a mangiare fuori, al luna park. I miei protestano un po’, ma capiscono che Vale ha bisogno di me più che mai e non fanno troppe storie. Ma tutti i miei sforzi non servono a nulla: Vale non rifiuta i miei inviti, sorride, dice che va tutto bene, ma io so che non è affatto così. La conosco troppo bene. E non so proprio che fare. Tutto questo stress non mi fa stare tranquilla, non dormo bene, mi faccio mille domande. A volte vorrei avere un interruttore nel cervello, così, quando ho talmente tanti dubbi che non riesco neanche a capirli bene, quando mi sento così stressata che vorrei urlare, sfogarmi in qualche modo ma non so come, quando sento che sto veramente per crollare, potrei semplicemente spegnermi. Fermare il tempo. E tirare un sospiro di sollievo. Nonostante ciò cerco di mascherare tutto a tutti (non voglio che qualcuno si preoccupi per me), non mi viene molto bene, perché mamma mi vede tutta strana mentre corro in camera mia, e mi viene dietro. Si siede sul mio letto e sta zitta. «Va tutto bene?» Lei dice tre parole e io sputo fuori tutti i miei tormenti: «No, mamma, no! Vale è triste e io non riesco a far nulla per questo, da quando si è lasciata con Luca non mangia più, non studia, se non fosse per me starebbe tutto il giorno a letto a macerarsi nello sconforto. Ormai il nostro essere amiche ruota tutto attorno a lei: ascoltarla, consolarla, distrarla, incoraggiarla, divertirla, all’infinito, e io non riesco a dirle più nulla di me, di quanto sono felice che Giacomo non ha più una ragazza, di quanto spero si accorga di me, di quanto vorrei non parlare più di Luca che ormai detesto più che mai perché ha rovinato la vita di Vale e la mia, e ce l’ho con Vale perché dovrebbe smetterla di pensare a Luca e ritornare a vivere, e odio me stessa più di tutti perché mi sento egoista a pensare a queste cose e orrenda perché Giac non mi degna di uno sguardo e cretina perché non riesco a risollevare l’umore di Vale!!» Scoppio a piangere come una fontana, però mi sento comunque meglio di prima. Mamma non mi ha mai interrotto, e ha continuato tutto il tempo ad accarezzarmi i cappelli. Alla fine fa: «Tesoro, su, non fare così. Non è assolutamente colpa tua se


DICEMBRE 09

Valentina non ritorna allegra nonostante tutto quello che fai: non è facile risollevarsi dopo una delusione d’amore; tu ti stai comportando da vera amica, non sei affatto cretina. Qui l’unico cretino è il suo ragazzo, e tu lo sai e lo so anch’io, ma devi capire che ora se ne deve accorgere Valentina, e non sarà facile, le ci vorrà tempo e dovrà farlo da sola, e da buona amica tu le dovrai comunque stare vicino come fai adesso. E non devi sentirti male: è normale che fare la parte della perfetta “spalla su cui piangere” tutti i giorni non è facile, anzi, e avresti tutte le ragioni di stufarti, e invece non ti lamenti mai, e quindi come potresti essere egoista?».


LE FINALISTE

La tenuta è impazzita di Giusi India Il giorno previsto per l’arrivo di Stefano decisi di andare a correre. Non ne avevo voglia, ma era l’unico modo per contrastare i pasti succulenti e interminabili della tenuta. Il mio difficile rapporto con la bilancia mi costringeva a sforzi sovrumani. Mi aspettava anche una vacanza al mare. La sola idea di mettere addosso un bikini mi motivava a proseguire. Denti stretti, qualche salita di troppo. Era una mattina molto calda e facevo fatica. Odiavo i miei tre chili in più, sparsi qua e là, che mi sembrava oscillassero flaccidi a ogni saltello. Io cercavo di scacciarli a ogni costo, durante tutto l’anno. Loro, ogni tanto, mi facevano uno scherzo, scomparendo per qualche settimana. Ero perennemente a dieta, anche mentre assaporavo, colpevole, un gelato al pistacchio o una pizza traboccante d’olio. Da questo punto di vista le giornate alla tenuta erano uno strazio. Cibo a volontà, a ogni ora. Matilde e le gemelle che mi passavano davanti filiformi. Mia madre che, come tutte le madri incoscienti, antiche e meridionali, m’incitava a mangiare. Mi fermai lungo il tragitto a comprare il giornale. Lo sfogliai avidamente, per strada, sotto il sole, arrossata e sudata. Lessi l’articolo di Luca e capii che non era ancora partito. Non sta granché bene, pensai. Aveva scritto cose un po’ banali, troppi virgolettati, dichiarazioni di politici interpellati sull’argomento del giorno messe assieme svogliatamente. Parole infilate come perline in un laccio, legate dalle sue solite frasi, assolutamente riconoscibili. Un attacco e una chiusa a effetto. Tutto là. Oramai avevo imparato a capire il suo umore da qualche virgola in più o in meno, dal tenore della narrazione. Se scriveva dei “pezzi”, degli articoli di spessore, dei prodigi giornalistici, stava in gran forma, gli girava bene. [...] Luca correva dietro a scatole perfette, senza falle, ricamate e sontuose, precise. Aveva una volitività imbrigliata dalle sue idee raffinate, senza occhi per le schegge, per le linee sghembe, per le cose incompiute, inadeguate. Luca ti guardava col suo fare da esteta e nella sua mente riordinava ogni piccolezza, mi diceva che mi stava bene il rosso scarlatto, della stessa tonalità di quella maglia che avevo addosso una sera di due anni prima. «Non mi piace dove metti la mano sinistra quando mangi» mi aveva detto un giorno, di botto, tra una chiacchiera e una risata. E io mi ero convinta di avere qualcosa che non andava.


DICEMBRE 09

Gli indesiderati effetti della cioccolata di Laura Sebastianutti Da quando la nonna è morta, la mamma viene un po’ troppo spesso in cimitero. Prima si preoccupava solo delle feste comandate, tanto per dare dignità alla tomba del nonno quando il camposanto era più affollato. Per il resto, si arrangiava con fiori finti, che fanno figura e non hanno bisogno di manutenzione. Degli altri nonni si prende cura la zia, che era la loro nuora e che ha una passione per fiori, abbellimenti e cerimonie, dai matrimoni ai funerali. Ma mamma no. Non è quel tipo di donna. Non “corre su” in cimitero a ogni rintocco di campana, come tante donnette di paese. Almeno non fino a oggi. Lei è il tipo di persona che ti incalza dicendo, soprattutto quando è arrabbiata, “e poi non venite ogni cinque minuti in cimitero a piangermi, quando sarò morta!”. Invece lei lo fa. Non riesce a staccarsi da quella madre con cui ha avuto da ridire fino all’ultimo, e adesso anche da quel padre che ha contestato tutta la vita. Che ti succede, mamma? Oggi è una giornata calda, ma il cielo è terso. Non c’è afa, per fortuna. Tuttavia, conviene fare gli offici cimiteriali verso sera, quando il sole è già basso sull’orizzonte e la temperatura tende a mitigarsi. “Andiamo in cimitero”, mi dice caricando in auto piante e fiori come se dovessimo allestire un giardino. Ha premura, persino. Vuole andare là dove ha lasciato sua madre poche settimane fa. Anche se la scusa, oggi, è la cura della tomba del padre. Se io soffro, ed erano “solo” i miei nonni, figuriamoci lei. Il cimitero, orientato nord-sud, è sul costone della collina, sicché gli appezzamenti con le tombe, circondati - come ogni cimitero dai tempi della rivoluzione cimiteriale di Napoleone - dalle muraglie alte dei loculi, sono come a terrazzamenti. Il più vecchio in alto, quello successivo, dove stiamo andando, appena sotto, la parte più recente un gradino ancora più in giù e la nuovissima a lato di queste tre, verso nord. E’ lindo, pulito, curatissimo. Il becchino – che è pure brutto chiamare così – lo tiene veramente come se fosse casa sua. E come ogni necroforo che si rispetti, altrimenti schiatta, è sempre di buon umore. Ma a quest’ora non c’è più e per dire la verità sono in pochi, persi tra steli di granito e vecchie lapidi, i visitatori. Meglio. Il silenzio, il bisogno di solitudine, la voglia di riflettere ti inducono a sperare di non incontrare gente con cui è necessario fare chiacchiere, tanto per dire una cosa, come se ti incontrassi per le strade del paese il giorno di sagra. Almeno per me. Per mia madre no: è sempre pronta a far caciara, a raccontare del come e del dove, a spiegare l’inspiegabile. Perché non c’è molto da dire quando un cuore cede e ti dicono che non ci sono speranze.


LE FINALISTE

Quel centimetro nascosto di cuore di Maria Simeone “Non affidarti troppo all’apparenza delle cose.” (Virgilio) Moro, alto, fisico da atleta, denti bianchi e occhi scuri, un sorriso che illumina ogni cosa quando entra in una stanza: questo è mio figlio. Non sono la classica madre che elogia a destra e a manca il proprio ragazzo, ma la sua bellezza è inconfutabilmente evidente, fuori come nell’anima... del resto l’ho cresciuto io. Sì perché, modestamente, non me la cavo affatto male; sto parlando di qualità interiori, ovviamente, qualità delle quali posso vantarmi, visti i risultati. Infatti, dal trambusto di questo imprevedibile viaggio chiamato vita, tra scossoni, cadute libere e scivolate, ho imparato a non aspettarmi troppo dalle belle giornate di sole, a fidarmi solo di chi è capace di sorridere con gli occhi e, soprattutto, a rialzarmi anche quando mi sentivo umiliata e sapevo che sarei caduta ancora. Dalla mia esperienza ho dedotto come la sorte sia, in realtà, non una facile giustificazione agli eventi incomprensibili in cui incappiamo, bensì un’entità astratta, annoiata della propria immortalità, il cui unico diversivo all’eternità sia quello di suddividere gli essere umani in “insiemi”: le persone vengono così raggruppate su diversi livelli di una scala d’ingrandimento che va dalla “sfortuna più nera” all’estremo apice, l’élite, il livello in cui la vita viene sospinta da tiepide brezze marine profumate di incensi. Io credo di essere finita nel mezzo, sul gradino di quelli per i quali “poteva andare meglio, ma anche peggio” e così mi sono temprata in modo tale da poter dire un giorno, alla fine della strada: poteva andare meglio ma è stato, comunque, un bellissimo viaggio. Mio figlio è ancora giovane e ha tutto il tempo per decidere se prendere la vita di petto o lasciare alla vita l’incombenza di gestire lui. Vorrei non perdesse, lungo il cammino, il meglio del suo essere, la sua sensibilità, il raro dono di saper ascoltare... e ovviamente, il suo fascino! Spero solo non si lasci divorare dalla donna sbagliata. [...] Noi madri viviamo con una spada di Damocle sulla testa: non saremo mai serene sino a quando non sapremo chi sarà quella, come sarà e se sarà capace di amare il nostro ragazzo almeno la metà di quanto lo amiamo noi... Ps: non saremo mai veramente convinte di poter essere superate.


DICEMBRE 09

Magica Viola di Piera Bianco Viola sorseggiava tè alla menta, e si sentiva strana, osservata, alzava gli occhi dal piatto e sempre incontrava gli occhi di Amir, seduto di fronte a lei. Occhi che parevano bruciare, un fuoco profondo che le causava una vertigine dimenticata, lui sussurrò il suo nome: «Viola, vieni, dammi la mano. Vieni a danzare con me intorno al falò». Lei si alzò senza parlare, lo seguì, sentiva farfalle nel petto, udiva la musica scandita dai suonatori di tamburi di altre carovane fermate a riposare per la notte nell’oasi. Lui le pose le mani sui fianchi e la guidò nei primi passi, poi lei si staccò e cominciò a danzare, dimentica di tutto, si sentiva libera, il suo corpo si muoveva in armonia con il suono, lei avvertiva il distacco da ogni cosa, si sentiva aria, si sentiva sabbia. Amir la fissava incantato, vedeva intorno al suo corpo una strana luminosità, muovendosi nella danza Viola spargeva intorno scie di luce. Si erano avvicinati tutti quelli del campo, attirati dall’insolito spettacolo. Lei danzava inconsapevole e sensuale, poi richiamò Amir con un piccolo gesto della mano e lui si avvicinò per danzare accanto a lei, entrò nel suo cerchio magico e si sentì perduto.


LE FINALISTE

Infedele di Raffaella Arpiani «Vedi, se tu desideri passare una domenica con il tuo ragazzo, a te sembra naturale che lui debba capirlo da solo. Perché sono tre domeniche che non vi vedete e perché tu avresti davvero voglia di stare tutto il pomeriggio arrotolata vicino a lui davanti al camino, parlando delle cose che ti sono successe durante la settimana. Giusto?» Rita Applauso annuiva con gli occhi. «Ecco, questo significa che tu non gli hai detto espressamente che vuoi passare la domenica insieme a lui. E, credimi, un uomo certe cose non può capirle. Probabilmente è l’unica cosa che vuole anche lui: baciarti tutto il santo giorno. Ma ha già preso un impegno con i suoi amici e adesso non può bidonarli. È questione di fiducia tra uomini, sei tu che devi capirlo. Se una donna davanti a una mela inizia a pensare ad Adamo ed Eva, alla prima volta che si sono baciati, alla volta in cui stando insieme hanno generato Caino e Abele, al peccato, alla tentazione, al Trentino Alto Adige, a panorami incontaminati che adesso per colpa dell’inquinamento potrebbero essere persi per sempre» che due coglioni! Si annoiava da solo, «a quando invecchieremo e a come sarà bello essere ancora vicini tra ventidue anni, ecco, un uomo davanti a una mela, ragiona Ramones.» «Ramones? Cosa stai dicendo?» E Rita rideva. Punto assegnato. «Hai presente quel gruppo punk della metà degli anni Settanta, tutto Oh oh ooh. Hey, oh, let’s go? Ecco la loro musica è semplice, lineare, non fa una piega. Dentro non ci trovi nessuna sorpresa, non c’è tempo per pensare e per riflettere. La mela ha un buon sapore e non ha nessun verme dentro. Inizia in un modo e finisce in un modo, senza stupirti. Magari non ti emoziona più di tanto, ma è onesta, onestissima. E diretta. Divertente, gioiosa, magari a tratti irriverente. Ma resta la stessa dall’inizio alla fine. Con un unico giro di basso ripetuto e le chitarre spiegate come una lezione di prima elementare. Non ti tradisce perché non ti promette niente. Hai capito adesso? Davanti a una mela, il tuo ragazzo ragiona Ramones: vede una mela. Se dice che domenica non può, significa che non può. E basta.»



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