DIR. EDITORIALE
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REDAZIONE
4 MM DI ABBONDANZ A PER L A PIEGA
4 M M D I A B B O N DA N Z A P E R L A P I EGA
hans keilson Ebreo tedesco nato a Berlino nel 1909, Hans Keilson ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1934. Fuggito in Olanda, durante la Seconda guerra mondiale ha partecipato alla resistenza. Successivamente si è dedicato alla psicoanalisi, impegnando l’intera sua vita nella cura dei bambini colpiti dal trauma della guerra e della deportazione. Nel 2008 ha ricevuto il WeltLiteratur Preis. Vive, centunenne, con sua moglie a Bussum, nei dintorni di Amsterdam.
Racconterò tutto e non tacerò nulla, di quel che riguarda il mio Da quando è diventato il mio, comprendo il suo destino in modo
r omanzo
più profondo, più grande di quanto avessi mai pensato. Non racconterò nulla del dolore che a causa sua è disceso su di noi. L’ora della morte non è quella della resa dei conti.
hans keilson la mor te dell’avver sar io
Foto © Jürgen Bauer
ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO G R A P H I C D E S I G N E R : nadia morelli
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la morte dell’avversario
nemico e me. Quando penso alla sua morte, ricordo la mia vita.
I n s o v raccoperta : J anni s K ounelli s , Senza titolo ( R o s a n e r a ) , 1 9 6 6 M ilano , M u s eo del N o v ecento © P h oto s er v ice E lecta / L uca C arr à s u conce s s ione del M u s eo del N o v ecento © J anni s K ounelli s - b y S I A E 2 0 11
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CARTA: Patinata Lucida - Garda Gloss - gr 130 - PROFILO DI STAMPA: COATED FROGA39 - DIMENSIONE: 145x223 mm - RIFILATO: 140x215 mm
La pubblicazione di questo libro segna la scoperta di uno scrittore ancora inedito in Italia, ma altrove considerato uno dei più grandi del Novecento. Un autore che il “New York Times”, appena un anno fa, non ha esitato a definire un “genio”. E di cui il “Time” ha scritto: “Ciò che fa di Keilson un autore unico fra quanti si sono occupati del nazismo è la profondità con cui riesce a penetrare sia nella mente del persecutore che in quella del perseguitato”. Niente di più vero. Dopo aver letto questo libro, chiunque si renderà conto di essersi confrontato con una pietra miliare della letteratura mondiale, e di non aver mai letto prima un romanzo capace di raccontare con tanta lucidità e tanto vigore narrativo la duplice, contraddittoria, ambigua reazione degli ebrei all’avvento del nazismo. Scritto da Keilson mentre viveva in clandestinità in Olanda e pubblicato per la prima volta nel 1947, La morte dell’avvversario è l’autoritratto di un giovane che sente di non potersi sottrarre al fascino di un anonimo avversario che sta conquistando il potere nella Germania degli anni Trenta. È un sentimento che avverte nascere dentro di sé dal momento in cui, bambino, ascolta di nascosto le preoccupate conversazioni dei genitori su un controverso leader politico chiamato B. che ha iniziato la sua scalata al potere. Giunto alla convinzione che avere un nemico è indispensabile alla propria sopravvivenza, quando finalmente ascolta i discorsi di B. il protagonista, ormai adulto, rimane abbagliato da quelle parole e comincia a capire chi è davvero il suo avversario. Capisce soprattutto che B. ha bisogno di lui tanto quanto lui ha bisogno di B. Ci sono odio e disprezzo, nel suo animo, ma anche un forte senso di superiorità e una sinistra fascinazione. Da questa profonda, spaventosamente lucida riflessione, mossa da un bisogno insaziabile di verità, nasce un racconto sconvolgente non tanto per l’evocazione dei crimini commessi da Hitler, quanto per la capacità di comprendere, da parte del perseguitato, le ragioni che animano il suo persecutore e le proprie reazioni, cercando una logica anche dove essa sembra non esistere.
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Hans Keilson
La morte dell’avversario Romanzo Traduzione di Margherita Carbonaro
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La morte dell’avversario di Hans Keilson Collezione Scrittori italiani e stranieri ISBN 978-88-04-61022-9 First published 1959 by Verlag Georg Westermann, Braunschweig © 2005 S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt am Main © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale Der Tod des Widersachers I edizione aprile 2011
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Gli appunti qui pubblicati mi furono consegnati qualche tempo fa ad Amsterdam, al termine della guerra, da un avvocato olandese. Lui stesso, così mi disse, li aveva ricevuti due anni e mezzo all’incirca dopo lo scoppio della guerra da un suo cliente, un uomo sulla trentina che gli aveva chiesto talvolta qualche consiglio in merito a semplici questioni professionali, come avviene nella pratica quotidiana di un avvocato. Fra loro non si era mai instaurata una particolare confidenza che avrebbe potuto spiegare perché l’uomo avesse consegnato a lui, il suo consulente legale, un fascio di fogli scritti prima di scomparire per qualche tempo dalla scena e di mettersi al sicuro, non senza aver precedentemente dichiarato che quei fogli non avrebbero costituito un pericolo per l’attuale proprietario e che avrebbero potuto essere conservati ovunque. Tuttavia l’avvocato aveva ritenuto meglio seppellirli insieme a oggetti propri e a quelli di altri clienti sotto la sua casa, dove avevano superato la guerra. Ma se la maggior parte degli scritti seppelliti aveva potuto essere recuperata dai rispettivi proprietari, quegli appunti erano rimasti invece nel suo scrittoio. «Ecco» disse porgendomi il fascio di carte. Erano piene di macchie, sgualcite, la scrittura parzialmente sbiadita, come se fossero rimaste a lungo nell’acqua. 7
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«Sono scritti in tedesco» dissi sorpreso. «Legga» rispose lui brevemente. «Quindi non sono di un olandese» dissi. «No. Legga e mi dica che cosa ne pensa.» Cominciai a chiedere informazioni sull’autore, ma lui scansava ogni risposta. Sapevo che parlava un ottimo tedesco e mi chiesi se non fosse stato lui a scriverli. Feci qualche cauta domanda. Lui rise e si limitò a dire: «Legga, se vuole». «E poi?» chiesi ancora. «Non lo so. Forse le viene in mente qualcosa.» «Non è un falso?» «No, no» si affrettò a rispondere, «controlli lei. Queste carte contengono appunti che vanno interpretati di certo come un tentativo da parte dell’autore di far chiarezza su questioni molto personali riguardanti il suo destino. Ma innanzitutto legga, poi potremo parlarne. Era un perseguitato.» «Lo eravamo tutti.» «Me li riporterà?» Chiuse il cassetto dal quale li aveva presi. Lo guardai, avrei voluto fare ancora qualche domanda. Ma era impaziente. Lasciai stare. «C’è fretta?» chiesi soltanto. «No» rispose. «Può trovarmi qui nel mio ufficio.» Ci salutammo. Qualche giorno dopo mi chiamò per avere l’indirizzo di un conoscente comune che si era rifatto vivo all’improvviso. Glielo diedi. «E allora?» chiese. «Non ho ancora avuto tempo» risposi. «Non c’è fretta. Ci vediamo?» «Glieli riporto!» dissi. «Va bene» rispose, e rise. Nei giorni seguenti li lessi.
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Da giorni e settimane non penso ormai ad altro che alla morte. Ogni mattina mi alzo presto dopo una notte senza sogni, sebbene in genere io dorma con piacere e a lungo. Percepisco le mie forze, vigorose e pronte dentro di me, come non mi succedeva da tempo. Saluto il giorno che mi riporta il pensiero della morte. A ogni respiro penetra in me, sempre più a fondo, fin nel punto più segreto del mio corpo, e lo pervade completamente. È la morte a guidare la mia penna, la morte! Dio solo sa quale esperienza vissuta ha deposto i pensieri della morte come piccole uova nel mio cervello, dove hanno covato inavvertiti e sono maturati finché un giorno si sono schiusi presentandosi alla mia coscienza. Aha, ho pensato quando il pensiero è affiorato in me per la prima volta, eccolo, e l’ho salutato come si saluta un vecchio conoscente che ha preso il treno successivo rispetto a quello previsto. In realtà non l’avevo aspettato poi tanto, arrivava comunque troppo presto, e a sorpresa. Non l’avevo neppure invocato. Un tempo, sentendo altri parlare dei loro pensieri di morte – e la gente ama soffermarsi più di tutto su ciò che chiama il suo momento estremo – balenò in me: E tu, come te la vedi con la morte, dimmi, come ti regoli con lei? E fumavo la mia sigaretta con l’animo in pace, bevevo il mio tè zuccherato, ascoltavo i rac9
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conti degli altri e mi sentivo bene. Non mi veniva in mente nient’altro. In ogni caso ero quel che si dice un osservatore neutrale. La morte – benvenuta, pensavo, oppure al diavolo –, mio Dio, non so proprio che farci. Sono ancora sano, facendo gli scongiuri, sono giovane e mi sento bene e non spero di essere in qualche modo già destinato. Tutto ciò è cambiato da quando penso alla morte. E non faccio altro che starmene seduto e pensare alla morte. Ne sono così ricolmo che se mi mozzassero la testa dal tronco, il mio stomaco o l’articolazione del ginocchio destro si assumerebbe il compito di pensare a lei e, ci scommetto, la porterebbe felicemente a termine. Tanto sono ricolmo della morte, tanto ne sono sazio. Raccontare com’è entrata nella mia mente, in me? Non me lo ricordo e preferisco non districare la matassa, lasciare i fili là dove si sono annodati. Sarebbe lo stesso che voler rispondere secondo scienza e coscienza alla domanda del medico, quando si è presentato per la prima volta il dolore al braccio: un martedì, me lo ricordo bene, stavo attraversando il Mercato dei cavalli e ho incontrato un conoscente. Mi raccontò di avvertire ogni tanto una fitta lieve al braccio, in alto, vicino all’articolazione. Dolore reumatico, forse, dico io. Chi sa mai cosa sarà. E continuando a camminare avverto anch’io ogni tanto una fitta sottile e lieve lungo il braccio, fino alla spalla, eccola di nuovo, lieve come dev’esserlo forse il primo sobbalzo del bambino che la madre percepisce nel suo ventre. E invece no, non lo sa nessuno, e chi venisse a raccontarmelo sarebbe un folle, o uno stupido chi ci credesse. Non so dire come la morte è penetrata in me, so dire però com’è stato quando l’ho avvertita. Come quando dolori atroci ti guastano di notte il sonno che ristora. Solo che non era un dolore. Qualcosa di completamente diverso mi colmava, molto più inebriante di quanto possa esserlo un dolore. Quasi da cadere in deliquio. 10
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Qui devo specificare quale fosse il genere di pensiero della morte che mi assaliva. Non era il pensiero della mia stessa morte ad afferrarmi, il pensiero che un giorno, presto o in un futuro più distante, sarei morto. Sotto il cielo eterno della notte è lontano da me un pensiero così sciocco, e spero di non dover mai lasciarmene gravare. Il pensiero della propria morte – mi lascia freddo, impassibile, per il momento non può scuotermi. Non credo che un uomo serio si soffermerà mai sul pensiero della propria morte. Non è affar mio, dirà, la mia morte non è affar mio, e pensarci significa sminuire la propria vita, che può essere grande se si desidera con forza che lo sia, significa segnare i limiti ai quali deve piegarsi volontariamente. Un uomo come me – e non sono l’unico, lo so e questo mi consola – vive e lavora e incomincia la sua quotidiana opera pensando che così andrà avanti, eterna e ininterrotta, in nome di Dio e di tutti i giusti, fino alla fine dei tempi. È stato il pensiero della morte del mio nemico ad attraversarmi e a farmi rabbrividire come in una gelida notte. La morte del mio nemico – la penso con tutta la beatitudine che un pensiero può avere per chi lo percepisce come qualcosa di vivo. La morte del mio nemico – io la penso e la vivo con la gravità e la solennità che può avere il pensiero rivolto a un nemico a cui fortemente teniamo. La morte del mio nemico – in ogni ora del giorno una parte dei miei pensieri vi è consacrata. Sono i momenti più belli durante il giorno, senza contare le serate e le notti in cui nessun altro pensiero mi domina se non questo. La morte del mio nemico – benedetto sia il pensiero della morte del mio nemico. Bisogna rivolgere lentamente alla sua morte il proprio desiderio, come la sposa allo sposo, così dicono gli uomini che traggono un singolare piacere nell’associare le questioni della morte e quelle dell’amore. Bisogna abituarsi a essa lentamente, per dimostrarsene all’altezza e degni. Solo chi l’ha imparato può preten11
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dere di aver dato compiutamente forma alla propria vita. Ma ho visti molti che si erano abituati lentamente e con dolore alla propria morte, e la morte del loro nemico li ha tuttavia sconvolti. Ho visto poche persone capaci di affrontare la morte del proprio nemico. Da quando il pensiero mi ha afferrato, la mia vita ha spiccato il volo verso una meta. Non l’avevo mai cercata, né pensavo che potesse essermi riservata. Ah, quant’è stata meschina la mia vita, fin quando ho scoperto quale meta possa essere riservata a un uomo sulla terra. Cosa significano tutti gli altri obiettivi che gli uomini si scelgono illudendosi che la felicità, l’amore, l’odio possano mascherare loro lo scialbo residuo di un corpo senza vita. Nessuna menzogna, per quanto nobile, può spegnere l’incendio che la morte scatena negli animi veramente festosi nell’ora del riconoscimento. Un fragore nell’aria, come quando un albero vecchio e forte viene abbattuto, una freccia lanciata nell’azzurro scintillante dell’inverno – il mio animo è in festa, il mio nemico entra nella regione bianca della sua morte. Lui che in vita sapeva di essere il mio nemico, come io ero il suo, voglio che nell’ora della sua morte sappia che il mio pensiero riguardo alla sua morte è degno della nostra ostilità. A essa non rinuncio, neppure un poco. Rimane il nostro indistruttibile possesso, fin nell’ultima sua ora su questa terra. Ha colmato la nostra vita e perfino nella morte io le resto debitore. È stato un lungo cammino, quello che ha portato il mio nemico alla sua fine. Un cammino di vittoria in vittoria, verso i trionfi, l’orbita di un immortale. Ha attraversato anche bassure, paludi e acquitrini, dove covano e germogliano brame nascoste, in un tanfo di muffa gravido di malattia e perfidia – la vita di un mortale, come la mia. Oggi ha patito il suo trionfo più grande: è entrato nella regione bianca della sua morte. Ma un tragitto ancora più lungo è stato per me quello che ha 12
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condotto al momento in cui, libero da tutti i motivi meschini di cui odio e vendetta fin troppo volentieri si servono, io l’ho incontrato sul suo ultimo cammino. Una scintilla di odio e di vendetta vive ancora adesso nei miei pensieri, una traccia di malignità li solca. Avrei voluto saper estirpare anche quest’ultima traccia dai miei pensieri, le diramazioni e le radici più voluttuose di una rabbia e di un piacere maligno: io sono quello che sta seduto e aspetta, e lui incede nella sua morte, lo sentite?, incede nella sua morte! Non si possono scavare via le rughe dal viso, come si tagliano le parti marce di una mela, bisogna portarle e sapere che si portano, visibili ogni giorno come in uno specchio quando ci si lava, non si possono tagliare via con il coltello, appartengono al viso. Ma nonostante tutto è un’attesa festosa, piena di gioia e di tristezza e di ricordo e di congedo e di un definitivo addio. Non auspicavo a lui la morte così come si desidera qualcosa di male per qualcuno, o come quando si cerca di levarsi di dosso i propri avversari, augurandogli la morte. Ma quanto sbagliano gli uomini che credono di vedere nella morte una specie di punizione. Anch’io, devo confessarlo, sono caduto a lungo in questo errore. Pari al mio odio era la forza con cui desideravo vendicarmi. Vendicare non solo me stesso, la mia personale sventura, allora, quando la sentivo ancora grande e un possesso esclusivo che lui mi aveva imposto, ma vendicare anche gli altri del mio popolo che avevano sofferto quanto me. Per fortuna riconobbi in tempo l’insensatezza di questo pensiero. E che lo riconoscessi, anche questo lo devo al mio nemico. Il mio nemico – lo chiamerò B. – entrò nella mia vita, me lo ricordo, sono passati circa vent’anni da allora. A quel tempo sapevo solo oscuramente cosa significasse essere nemico, e ancora meno cosa significasse ave13
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re un nemico. Bisogna crescere incontro al proprio nemico, come al migliore amico. Spesso sentivo mio padre parlarne con mia madre, per lo più in quel tono sussurrante e pieno di mistero che hanno gli adulti quando non vogliono farsi sentire da noi bambini. C’era una nuova specie di intimità nelle loro parole. Parlavano per nascondere qualcosa. Ma con l’orecchio così affinato, i bambini imparano i segreti e le paure dei grandi, e a contatto con questi crescono. Mio padre diceva: «Se mai B. arriverà al potere, Dio abbia misericordia di noi! Allora sì che ne vedremo.» Mia madre rispondeva, più pacata: «Chissà, forse an drà diversamente. Non è poi un così grand’uomo». Ho ancora negli occhi l’immagine di loro due seduti a parlare. Mio padre sta su uno sgabello basso in cucina, un uomo piccolo e tarchiato, un po’ pingue, e appoggia i gomiti sul bordo della credenza che riempie l’intera parete. La testa rotonda è china di lato, le dita aperte ne sostengono il peso. Ha parlato, ma la testa abbassata di lato fa pensare che stia tendendo ancora l’orecchio per cogliere un qualche messaggio. Ascolta con attenzione. Ma il messaggio che ha udito dev’essere sgradevole. Mentre parla e ascolta il suo viso esprime afflizione, tormento, come se al suo interno fosse disceso profondamente un velo nero che lo ricopre e insieme fa da sfondo a ogni cosa, e sopra e davanti è teso l’altro viso, quello esteriore, muscoli, pelle, peli, sul quale scorre il movimento, a tratti ancora un sorriso, e però ogni volta che lo si osserva si sa che dietro, sul fondo dove si è formato, proveniente dal suo interno c’è afflizione, tormento. Sua moglie, mia madre, appoggiata al tavolo di fronte a lui si china leggermente in avanti nello stretto spazio vuoto che lascia aperto un varco fra di loro e che una mosca riempie con il suo ronzio errabon14
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do, e lo guarda dall’alto, lui così piccolo sul suo sgabello, più piccolo di un bambino perché è un adulto. Così si è chinata innumerevoli volte su tutto quel che è più piccolo e debole, e senza che lei se ne accorga il suo corpo cade da sé in questo inclinarsi, sebbene appaia ancora dritto e giovane. Sa che lui non ascolta quel che le parole di lei gli comunicano, nulla di ciò che dall’esterno vi rimbalza penetra questa cortina, e però sa che il suo chinarsi nello spazio vuoto lo raggiunge. Lui che con il suo lavoro frantuma il tempo in molti piccoli segmenti e fa sì che il movimento si coaguli in una pausa senza respiro, fino ad arrestarsi, come un campo a maggese, e però in questo raggelarsi cerca ancora di catturare qualcosa di ciò che si muove, lui vuole animare il movimento nella sua sospensione, sente il movimento verso di sé e vi legge e coglie ciò che gli altri colgono dalle parole. Era salito dalla sua camera oscura, dove le lastre vengono lavate in grandi recipienti di vetro fino a farvi sorgere l’immagine, e si era diretto a spron battuto in cucina, che aveva trovato vuota. Si era seduto sullo sgabello più basso, sua moglie l’aveva sentito salire ed entrare. Lo raggiunse. La cucina è il posto più disadorno di tutta la casa, piena di mobili dipinti di verde, levigati e lucidi per il tanto strofinare. Sopra il portasciugamani è appesa una tendina bianca con ricami azzurri, e intorno al bordo dell’asta c’è una guarnizione di pizzi bianchi. Tutto è freddo, come se fosse stato leccato. Un paralume bianco pende basso al centro, sospeso a un filo marrone. Dietro la schiena dell’uomo una lunga tenda color giallo sbiadito nasconde due assi di legno, stipate di scarpe, e vecchi giornali sono posati sul pavimento in un angolo. In quell’istante il bambino, che aveva sentito le voci attraverso la porta chiusa, entrò nella stanza. Sono voci che esprimono ancora qualcosa di ciò che sta dietro 15
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alle parole e il bambino, curioso, viene attratto da loro in cucina. Per un bambino la cucina è un luogo di piacere e di dolci segreti, di sorprese gradevoli in cui ama infilare le dita per potersele leccare, ma non è un luogo per discorsi seri. Dell’inizio del loro discorso non so nulla, e non sono soltanto le parole che ricordo poiché in esse, per la prima volta a quanto io ne sappia, venne pronunciato il nome che non avrei più dimenticato. Ma spesso le parole sono del tutto irrilevanti. Anche quando le si è dimenticate ci si ricorda dell’intera scena, due persone in una cucina nuda e tirata a lucido, l’una seduta col capo appoggiato alla mano aperta, l’altra in piedi, e in mezzo a loro uno spazio stretto e vuoto in cui è sospeso un corpo di donna. E ci si ricorda anche di ciò che li accomuna, che inesorabilmente li invade, l’uno già tutto teso ad attenderlo, proteso, come se gli fuggisse incontro per cercarvi un riparo, e l’altro che vi si oppone, ancora ribelle, pronto ad accoglierlo: l’inarrestabile sciagura. Essa è in tutta la scena, come si offre nella sua compattezza ma anche in ogni dettaglio, nella piega della tenda sbiadita davanti alla quale è seduto il padre, nella mosca che gira intorno alla lampada e con il suo volo ronzante misura lo spazio vuoto fra i due. È anche nel pavimento di legno lucido e levigato, e nelle porte chiuse della credenza e nell’interruttore accanto alla porta. La sciagura inarrestabile è in tutto e di qualunque cosa ci si ricordi singolarmente, di questa o di quella, l’una suscita insieme a sé l’altra e si addensa nel tutto, entrato in profondità nel ricordo e che ancora vi resta. Non è angoscia, ma qualcosa di più forte e controllato dell’angoscia, quando si accende dentro di te. Puoi sentirlo infatti avvicinarsi a te lentamente e gravarti sulle spalle. Puoi opporre resistenza, morderlo e puntellarti per contrastarlo. È reale quanto l’interruttore e la mosca e i vecchi giornali nell’angolo dietro la tenda. 16
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Tutto ciò fu un’impressione di pochi secondi, nel momento in cui entrai. Il discorso proseguì ancora con qualche frase. Mio padre mi guardò con aria indagatrice, come se riflettesse seriamente su di me. L’oscurità scomparve dai suoi occhi. La mamma si appoggiò all’indietro e mi guardò ridendo. «Non siamo ancora a questo punto» disse. «E chissà.» Lui prese di tasca un flessibile per lo scatto e cominciò a giocarci. «Oggi ho fotografato un cane e un gatto» disse. «Sì» esclamai allegro. «Andavano d’accordo?» «No» rispose lui, divertito. «E allora come hai fatto a fotografarli?» chiesi. «Adesso te lo racconto. Una donna viene nel mio studio. Tiene al guinzaglio un alano, bello e grande, e appeso all’altro braccio ha un cestino col manico e dentro c’è un gatto cincillà. “Questi sono Bützi e Hützi” dice. “Glieli porto per farli fotografare. Sono gli animali più bravi del mondo, vivono insieme già da un anno. Sono i nostri bambini, ma vanno d’accordo più di due fratelli. Mio marito desidera per il suo compleanno una foto di entrambi, sdraiati pacificamente l’uno accanto all’altro. Voglio regalargliela per ricordo, capisce.» «Quale ricordo?» lo interruppi. «Be’, del fatto che cani e gatti vivono pacifici in quella casa.» «Tu e le tue storie» disse ridendo mia madre e sollevò minacciosamente il dito. «Ma è una storia vera» si difese lui. «Vera o no» proseguì lei divertita. «Ma in realtà non andavano d’accordo» dissi intromettendomi all’improvviso, «o almeno l’hai affermato all’inizio, e allora…» «Non mi avete lasciato finire di parlare.» E continuò: «La donna tira fuori il gatto dal cestino e lo posa a terra. Il cane si mette seduto sulle zampe posteriori, si rialza e vaga lemme lemme per lo studio. Il gattino scivola di 17
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soppiatto sotto il tavolo e incomincia a leccarsi. Intanto io tratto con la signora, discutiamo la grandezza e il numero delle stampe. Lei ne ordina tantissime, come se volesse regalarne una copia per ricordo all’intera famiglia e a tutti i suoi amici. Ci accordiamo sul prezzo. Dentro di me penso alla composizione dell’immagine. Dev’essere una foto semplice. “Magari un tavolino con dietro dei fiori?” chiedo. “Ma sì” risponde la donna, e subito dopo: “Anzi no, meglio di no, devono esserci solo loro due nella foto, e i fiori non farebbero che disturbare”. Io avvicino una sedia bassa, vi stendo sopra una stoffa giallognola, la donna fa uscire il gattino da sotto il tavolo, lo solleva e lo piazza sulla sedia, questo si mette a far le fusa, il cane arriva trotterellando e a un suo comando si siede di nuovo sulle zampe posteriori. Io aggiusto le mie lampade, accendo l’illuminazione sul soffitto, sistemo due piccoli riflettori per mettere il gruppo nella luce giusta. La donna sta accanto agli animali e gli parla per farli star buoni. Intanto il gattino è saltato giù, il cane sta fermo al suo posto e guarda con aria interessata. “Bützi, qui” chiama la donna. Bützi si avvicina guardingo e viene sollevato di nuovo e deposto sulla sedia, resta tranquillo un istante, tende il piccolo collo, guarda verso l’alto e sembra che stia reggendo in equilibrio i baffi tra il naso e il labbro superiore, socchiude gli occhi, guarda irrequieto a destra e a sinistra, poi salta giù un’altra volta. In quell’istante la donna esclama: “Ah, dimenticavo il collarino”, e fruga nella borsa. “Sempre che non l’abbia scordato” mormora. “No, eccolo, Bützi vieni qui, qui, che ti metto il tuo collarino, devi essere bella adesso che ti fanno la fotografia.” Il gattino è seduto di nuovo sotto il tavolo e sguscia fuori con sussiego, con quel suo passo esitante e guardingo. La donna si china e allaccia il collare. Poi solleva di nuovo il gattino sulla sedia e nel preciso istante in cui le sue mani lasciano il corpo dell’animale questo dà segno di vo18
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ler saltare giù un’altra volta. “Ma Bützi” esclama la donna un po’ irritata, e bloccandolo leggermente con le mani sulla sedia si gira e mi chiede se ci vuole ancora molto, visibilmente nervosa e ormai non più tanto sicura del buon esito di quella messa in scena che si era ripromessa di ottenere. “Io sono pronto” ho detto. “Solo questo cavo, ecco.” “Tutta questa luce la innervosisce” esclama la donna.» Mio padre interruppe il racconto e mi guardò con aria beffarda. «Anche le madri devono sempre minimizzare il comportamento dei figli che prima hanno dipinto come un concentrato di virtù, quando questi fanno un po’ i capricci – non è così?» Teneva il capo rotondo chino di lato, gli occhi semichiusi guardavano intorno a sé. Taceva, quasi si aspettasse un applauso. Amava compiacersi ogni tanto di simili considerazioni generali che mascherava come constatazioni oggettivamente valide, mentre a noi era chiara la sua allusione. Ma con il passare degli anni mia madre aveva imparato a lasciar correre. Anche lei taceva, come stregata dalla sua storia, e aspettava il proseguimento. «Allora» continuò riprendendo la postura di prima, «mentre la donna difende il suo gattino io vedo che è arrossita, e vedo poi che si è messa tutta in ghingheri, come se dovesse entrare pure lei nell’immagine. “Non vuole prendere in braccio il gattino?” chiedo. Lei indugia a rispondere e dice soltanto: “Lei pensa? E cosa costerebbe?” “Certo” dico io, “così suo marito ha tutto quel che ama in un’immagine sola, e non le costerebbe un centesimo di più.” La donna esita ancora, si allontana lentamente dalla sedia, riflette, guarda gli animali, mi guarda e tace. Intanto Bützi è sempre sulla sedia, io controllo la prima messa a fuoco. “Eh no” dice, “solo gli animali, com’è nella realtà.” A quel punto ci si mette l’alano – per tutto il tempo era rimasto seduto, comodo e tranquillo, guardando il gattino che fa19
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ceva le bizze –, spalanca le fauci e sbadiglia, si alza, fa qualche giro in tondo e si riaccovaccia, ma volgendo stavolta il dorso alla macchina. Bützi osserva stupita. “Hützi” esclama la donna dall’angolo dove ha preso posto rassegnata e corre furibonda verso gli animali, afferra il cane per il collare e con uno strattone lo gira verso l’obiettivo. Il suo nervosismo è tale che pure gli animali sembrano esserne contagiati. Bützi è saltata di nuovo sotto il tavolo e Hützi si è avvolto nelle pieghe di una tenda. Quando Bützi salta sopra un riflettore in disuso, Hützi si piazza davanti alla grande finestra e guarda fuori, mentre la padrona cerca invano di riconquistarsi con lusinghe e minacce la benevolenza degli animali. È tutto uno strisciare e un trottare, un saltare e un correre per lo studio, una protesta muta e dignitosa degli animali che non vogliono esibire quella loro pace domestica contro natura. E in mezzo c’è la donna concitata e smarrita che suda in preda all’offesa e alla delusione, accaldata per via delle lampade da migliaia di candele, e che continua a rompere il silenzio con le sue esclamazioni: “Oh, Hützi”, “Vieni qui, Bützi”, “Ah no”, “Vieni qui al tuo posto”, “Vieni dalla tua mamma”, e poi l’assicurazione che a casa vivono così pacificamente insieme. “Devono essere le lampade a metterli in agitazione, non ci sono abituati, e adesso mi tocca pensare a un altro regalo per mio marito!”» «Se avessi dato del latte al gattino» dissi, «avresti potuto fotografarli, ma così… che peccato!» «E invece li ho fotografati» disse mio padre con sguardo eloquente. «Sì?» esclamai esultante. «Racconta come ci sei riu scito.» «Vieni» disse. «Ti faccio vedere cosa ho fatto.» «Dopo puoi farlo vedere anche a me» disse mia madre e scomparve. Attraversammo lo studio, dove c’erano ancora la sedia e gli strumenti. La luce era spenta. 20
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Come la luce artificiale è diversa dalla luce del giorno, così l’oscurità della camera oscura è diversa da quella della notte. Sei appena passato per una stanza luminosa, dove la luce si riversa da ogni lato, e adesso sei in una camera oscura, ma fuori è giorno. Quant’è buio qui dentro, ti dici, forse per farti anche un po’ di coraggio nell’oscurità. Chissà quali pensieri sorgono dentro di te in una simile stanza chiusa, al buio, mentre non ti abbandona la consapevolezza che fuori c’è il chiarore, la luce, il giorno. Se però alla sera passi da un locale illuminato in un’altra stanza dove regna l’oscurità, allora è completamente diverso, e alla sera tu sei un altro. Ma adesso dal nero puoi ritornare in ogni istante di là, nel chiarore, se solo lo vuoi. E invece no, l’hai deciso tu spontaneamente e rimani. Fuori è giorno. Sei entrato e i tuoi occhi sono accecati da tanta oscurità. Entra profondamente nei nuclei pigmentali dei tuoi occhi, fa male, un istante appena, poi li serri e aspetti che fra i coni e i bastoncelli all’interno si stabilisca un diverso accordo. Entrambi sono in te, l’oscurità e il chiarore, nel profondo della retina li possiedi e puoi trasceglierli dallo stesso pozzo, a seconda di dove ti trovi, nel chiarore o nell’oscurità. Quando poi li riapri nella camera oscura, i tuoi occhi vedono un puntino ardente in un angolo della stanza, è rosso. All’inizio non l’avevi visto in tutta quell’oscurità, ma adesso lo vedi. È lì, tranquillamente sospeso nel nero ed emana solo un piccolo bagliore opaco. Non è luce che illumina, rende soltanto più profonda e visibile l’oscurità, e tu la afferri col buio nei tuoi occhi e te la porti dietro, nel corpo e nelle mani, così come lei ti porta con sé e ti avverte che in ogni istante può essere pronunciata la parola creatrice. Silenzio e oscurità, e il battito del cuore. «Vieni qui» dice mio padre, e nelle miti tenebre lo vedo tirar fuori una lastra scura da una grossa bacinella con del liquido, dove le gocce ricadono scivolando dalla lastra che lui tiene contro la lampadina ros21
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sa. Vedo anche la sua sagoma distaccarsi leggermente dall’oscurità, quasi ritagliata, tanto che posso riconoscere i suoi movimenti mentre lava la lastra. Dopo un lungo silenzio sento la sua voce, mi sembra più profonda e piena. Una paura colma di attesa monta in me ogni volta che sono qui solo con lui, solo in una maniera diversa rispetto a quando siedo insieme a lui in una stanza inondata dalla luce del giorno. Poiché nell’oscurità si genera l’azione di ciascuno, puoi portarla al chiarore e poi di nuovo nell’oscurità, ma nell’oscurità viene generata. «Questo è un cane» dico con voce smorzata. «Questo è Hützi» dice lui. «E questo?» Mi mostra un’altra lastra. «Bützi!» esclamo. «Allora sei riuscito a fotografarli!» «Ma ognuno per sé.» «Non andavano d’accordo» dico. «E adesso?» «Li metto tutti e due su una lastra e ne faccio una stampa. E sulla foto Hützi e Bützi siedono insieme pacifici, come fanno a casa. Questo è il regalo di compleanno.» Le due lastre fotografiche sono di nuovo nella grande bacinella di vetro. Guardo mio padre e mi sembra che nell’oscurità sia divenuto più chiaro. Riconosco i tratti del suo viso carnoso, sul quale aleggia un leggero trionfo. Non è più un’ombra, è ritornato una figura. E dico: «In realtà non è affatto vero, perché qui non sono rimasti seduti accanto». Nel contempo sento sorgere in me un senso di ammirazione per lui, benché le mie parole sembrino contenere solo critica. «Com’è possibile?» dice lui con stupore. «Si chiama effetto speciale.» «Ma non è vero» ripeto io testardamente. «Tu lo fai e ti pare molto divertente, ma in realtà è un imbroglio!» «Macché!» È indispettito. «Proprio questo è l’effetto. Ancora non capisci.» Nello stanzino è tornata l’oscurità. Ha spento la lampadina rossa. «Vieni!» 22
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Mi sento afferrato per le spalle e vengo sospinto brancolante nell’oscurità, lungo pareti immerse nel buio, attraverso corridoi tortuosi dove un pulviscolo di luce ricade dall’esterno. Poi una tenda nera viene spinta di lato, gli anelli scivolano chiari sulla sbarra di ferro e noi ci ritroviamo esposti alla luce piena e chiara del giorno. Sento di dover riparare a qualcosa e chiedo con voce spenta: «Posso esserci anch’io quando lo fai?». Lui non mi guarda, lancia un’occhiata oltre la grande finestra dello studio nel giardinetto davanti all’edificio e dice con rabbia: «No!». «Allora Dio abbia misericordia di noi.» Le parole di mio padre mi accompagnarono ancora a lungo. «Allora Dio abbia misericordia di noi…» Chi era quell’uomo che rendeva necessaria per noi la misericordia di Dio e di cui mio padre parlava solo con voce tremante? Un giorno volli chiedergli spiegazioni e lo interrogai senza tanti preamboli. Questa volta lui accolse con calma la mia domanda. «B. è il nostro nemico» disse e mi guardò pensieroso. «Il nostro nemico» dissi incredulo. «Ma che storie ti metti sempre a raccontare!» esclamò mia madre dalla stanza accanto. La sua voce tremava. «Lui me l’ha chiesto e io rispondo» esclamò mio padre di rimando. «Non dimenticarti che è ancora un bambino!» «Ma lo capirà» disse. «Non è vero?» Mia madre tacque. «Il nostro nemico?» ripetei incredulo. «Sì, il nemico tuo, il mio e anche quello di tanti altri!» Rise forte e pensai che stesse ridendo di me. Gli angoli della sua bocca pendevano all’ingiù. Mi guardò sprezzante. «Adesso basta!» risuonò nuovamente la voce dalla stanza accanto. «Perché?» 23
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«Non devi rispondere per forza a ogni sua domanda! E tu vai giù in strada a giocare» aggiunse. Continuai a fissarlo. «Anche il mio?» chiesi. «Ma non lo conosco, e invece lui mi conosce?» «Certo, è anche il tuo nemico. Ho paura che impareremo a conoscerlo.» «Ma perché?» chiesi ancora. «Che cosa abbiamo fatto?» «Noi siamo…» rispose mio padre. Silenzio. Mia madre entrò nella stanza. Cosa avesse a che fare quella risposta con la mia domanda a quel tempo in sostanza non lo capii mai, per quanto profonde e ragionate fossero le spiegazioni che in seguito mi capitò di sentire. Tutto mi sembrava piuttosto un vaneggiamento. Non chiesi mai conto a mio padre sulla questione della misericordia di Dio. Anche nelle sue parole avvertivo infatti la sua rabbia e tutta l’amarezza con cui cercava di minimizzare un grande pericolo. Inutilmente. Che B. fosse un nemico potente e potesse diventarlo ancora di più, tanto che solo Dio con la sua misericordia poteva contrastarlo, l’avevo capito già allora. Ma una cosa non capivo. Proprio come non sapevo chi fosse colui di cui mio padre parlava come del nostro nemico, non sapevo nemmeno chi fosse Dio, della cui misericordia mio padre ugualmente parlava. Non conoscevo nessuno dei due. Eppure tutti e due c’erano. «Ma non siamo ancora arrivati a questo punto» aggiunse mio padre con un sorriso più dolce, per calmarmi, interpretando correttamente il mio mutismo. E però a me sembrava che con le sue parole volesse più che altro placare se stesso. Questo accadde quando avevo dieci anni e da allora una doppia ombra fu sospesa sulla mia giovinezza, che le parole di mio padre avevano evocato. Allora non po24
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tevo presagire fin dove si sarebbe innalzata. Percepivo solo l’elemento estraneo che era entrato all’improvviso nella mia vita, senza che potessi descriverlo con le parole. La mia innocenza infantile era intaccata. Una leggera incrinatura che con gli anni si aprÏ e divenne una ferita che penetrava in profondo nella carne, senza piÚ richiudersi.
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