Benjamin Mee, "La mia vita è uno zoo"

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Benjamin Mee

La mia vita Ăˆ uno zoo Traduzione di Berta Smiths-Jacob

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Le immagini dell’inserto fotografico sono di proprietà dell’autore a eccezione delle fotografie a pagina 4, 5, 6 (tranne l’immagine in alto), 7 (l’immagine in basso) e 8: Will Walker/Dartmoor Zoological Park; a pagina 6 (l’immagine in alto) e 7 (l’immagine in alto): Barry Turner © 2008.

La mia vita è uno zoo di Benjamin Mee Collezione Ingrandimenti ISBN 978-88-04-61774-7 © 2008 Benjamin Mee © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale We Bought a Zoo I edizione maggio 2012

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Prologo

Mia mamma e io arrivammo per la prima volta al Dartmoor Wildlife Park – nel Devon – in veste di nuovi proprietari verso le sei del pomeriggio del 20 ottobre 2006, e scendemmo dalla macchina salutati dai richiami dei lupi che ululavano nell’oscurità nebbiosa. Per accoglierci, mio fratello Duncan aveva acceso tutte le luci della casa e ogni finestra ci dava il benvenuto splendendo nella foschia, mentre lui emergeva dalla porta d’ingresso per stringermi in un abbraccio “stritolaossa” degno di un orso. Con la mamma fu più delicato. Eravamo in ritardo di un giorno, passato a Leicester con gli avvocati per via di un ultimo documento che non era stato spedito in tempo e che, alla fine, era arrivato con una moto lanciata sulla m1. Duncan aveva organizzato il trasloco di mamma dal Surrey con tre furgoni e otto uomini che non potevano aspettare perché il giorno successivo dovevano fare un altro lavoro. Il ritardo aveva comportato un’agitata sosta sul viale dello zoo, con l’avvocato del precedente proprietario che concedeva a Duncan di far scaricare il contenuto dei furgoni, ma solo in due stanze (una era la fetida cucina sul fronte della casa) fino a quando la documentazione non fosse stata completa. Fu così che tutti e tre, stupiti, ci aprimmo un varco fra traballanti pile di scatoloni e raggiungemmo la cucina con il pavimento di pietra che, essendo relativamente sgombra, ave9

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vamo pensato potesse essere trasformata in un buon centro operativo. Un enorme tavolo a cavalletti, che per vent’anni era rimasto parcheggiato nel garage dei miei genitori, trovò, finalmente, la collocazione che meritava e così era stato montato in una stanza degna della sua stazza. È ancora lì e funge da tavolo da pranzo, ma quella prima sera il suo valore simbolico fu enorme. La dispensa era stata invasa da scatoloni e tappeti che Duncan era riuscito a sistemare là dentro così, mentre lui sbloccava un tombino, fuori, io presi la macchina e andai in un takeaway cinese che avevo adocchiato poco prima sulla a38. Poi ci sedemmo a gustare il nostro primo pasto insieme nella nuova casa. Eravamo un po’ scossi, anche se euforici, e ridemmo un sacco, quella notte, in quella casa fredda, buia e caotica. Provammo anche un eccessivo sollievo nel sapere che, almeno, abitavamo vicino a un buon ristorante cinese. Quella notte, con mamma al sicuro a letto, Duncan e io uscimmo nel parco immerso nella foschia, per cercare di fare il punto della situazione. Ovunque si posasse il cono di luce della torcia, incrociavamo occhi di diverse grandezze che ci fissavano, e non avendo ancora un’idea chiara della pianta dello zoo, il mistero di quali animali si nascondessero esattamente dietro quegli sguardi rendeva l’atmosfera ancor più elettrizzante. Sapevamo però dov’erano le tigri e così ci dirigemmo verso uno dei recinti segnalati da alcuni paletti danneggiati per dare un’occhiata al lavoro che ci aspettava. Non essendoci alcuna tigre in vista, scavalcammo la prima barriera di protezione e iniziammo a guardare, alla luce della torcia, la base dei paletti di legno della struttura che reggeva il reticolato. Ci abbassammo e iniziammo a studiare attentamente la situazione, incidendo e grattando gli strati di legno marcio fino a trovare la parte più dura che, in questo caso, grazie al cielo, era appena sotto la superficie. Concludemmo che non era in condizioni così terribili, ma quando ci alzammo, constatammo con orrore che tutte e tre le tigri presenti nel recinto non soltanto erano a poco più di un 10

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metro da noi, pronte a balzare, ma che ci stavano fissando. Come se fossimo stati la loro cena. Fu bellissimo. Tutte e tre le bestie – e che bestie! – si erano avvicinate a portata di zampa senza che ce ne accorgessimo. Ciascun esemplare era più grande di noi due messi insieme, eppure si erano mossi silenziosamente. Se quella fosse stata la giungla o, se proprio vogliamo essere precisi, la tundra siberiana, la prima cosa della quale ci saremmo accorti sarebbe stata un enorme paio di fauci sul collo. Le tigri possiedono speciali sensori sulla parte anteriore dei loro canini – lunghi ben cinque centimetri – capaci di individuare il pulsare dell’aorta. Il primo morso è per afferrarvi, poi individuano il battito con i denti, li riposizionano e li affondano nel punto esatto. Mentre le tigri ci squadravano con i loro occhi di ghiaccio, noi restavamo lì, sbigottiti. Infine, uno di quegli immensi felini tutto muscoli, rendendosi conto che, date le circostanze sfavorevoli (nella fattispecie, la recinzione che ci divideva), si trattava di una semplice “prova costumi”, sbadigliò, con grande scintillio di canini curvi come sciabole, e distolse lo sguardo. Quanto a noi, eravamo sempre più sbigottiti. Mentre tornavamo a casa, passando davanti alle varie gabbie, i lupi iniziarono il loro agitato coro notturno, accompagnati dai versi dei gufi – ce n’erano una quindicina nel giardino zoologico –, dal grido stridulo di un’aquila e dal richiamo notturno di allerta dei cercopitechi verdi. Ecco come sarebbe stata la nostra vita, da quel momento in poi, ci dicemmo. Ora dovevamo programmare i passi successivi. Arrivare all’obiettivo era stato un viaggio incredibile. Oltre che un nuovo inizio, la nostra decisione segnò la fine di una lunga e tortuosa strada che aveva coinvolto tutta la famiglia. La mia parte della storia comincia in Francia.

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All’inizio…

Giugno, 2004. L’Ancienne Bergerie. La vita era bella. Mia moglie Katherine e io avevamo fatto il passo decisivo per la nostra nuova esistenza vendendo l’appartamento a Londra e acquistando due fantastici granai in pietra arenaria nella calda Francia del Sud, dove vivevamo di baguette, formaggio e vino. Il villaggio dove ci eravamo stabiliti si trovava tra Nîmes e Avignone, nella Linguadoca, la Provenza dei poveri, la zona con il minor tasso di piovosità di tutta la Francia. Scrivevo una colonna sul fai da te per il “Guardian”, altre due per la rivista “Grand Designs” e, nel frattempo, mi dedicavo a un libro sull’umorismo negli animali, un progetto cullato a lungo e che, secondo me, richiedeva un sacco di tempo da trascorrere in un ambiente favorevole. E quel posto lo era. I nostri due figli, Ella e Milo, bilingui e cotti dal sole, se la spassavano circondati da gattini dentro un ampio giardino recintato, andavano insieme a caccia di enormi cavallette, saltellavano tra l’erba secca e gli steli di grano, spuntati, probabilmente, da qualche seme caduto dai rimorchi quando i granai appartenevano a una fattoria in attività. Il nostro colossale cane, Leon, se ne stava sdraiato sulla soglia di un grande cancello arrugginito, osservandoci con l’occhio benevolmente vigile di un animale selezionato per questo scopo e ansimando con gioia nello svolgimento del suo lavoro. 13

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Era fantastico. Iniziavamo davvero a sentirci a casa. I nostri miseri sessantacinque metri quadrati nel cuore di Londra si erano trasformati nei milleduecento di Francia meridionale rurale, anche se organizzati un po’ meno bene e non così vicino a Marks & Spencer, alla South Bank o al British Museum. In compenso, l’estate durava da marzo a novembre e il vino locale, che da Tesco si comprava a otto sterline, lì lo pagavamo tre euro e cinquanta direttamente dal produttore. Be’, si doveva fare, perché era parte della cultura locale. Grigliate di trote appena pescate e gustose salsicce dei monti Cevenne dal nostro Nord, bicchieri di fresco rosé con ghiaccio che si scioglieva in fretta nell’opprimente calura dell’Europa del Sud. Idilliaco. Questo ambiente perfetto era stato conquistato dopo quasi dieci anni di contorsionismi per raggiungere una posizione, professionale e finanziaria, che mi avrebbe permesso di vivere come un contadino nel granaio di un villaggio pieno di altri veri contadini che si guadagnavano da vivere onestamente con l’agricoltura. Io ero l’inglese eccentrico; loro il divertito popolo della campagna francese, tollerante, cortese ma, inevitabilmente, portato al giudizio. Katherine, che avevo sposato in aprile, dopo nove anni insieme (avevo aspettato che perdesse le speranze) era la beniamina del paese. Bella, attenta, gentile e graziosa faceva di tutto per adattarsi alla vita del villaggio. Si impegnò a imparare da subito la lingua, che aveva già studiato con ottimo profitto, diventando bravissima tanto nel francese colloquiale locale quanto in quello parigino e burocratico. Era in grado di prendere bonariamente in giro il proprietario della galleria d’arte del vicino paese di Uzès sul modulo giusto delle tasse da compilare per l’acquisto di una scultura di Elisabeth Frink – che una volta aveva incontrato e intervistato – e si lamentava con le mamme del villaggio sulle complessità del sistema sanitario. Il mio francese, invece – livello di partenza 0 del corso per principianti – raggiunse a stento la sufficienza. In verità cercavo di non impegnare la mente in altro che non fosse 14

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il mio libro, per non allungare ulteriormente il ritardo nei tempi di consegna. Andavo a dormire quando i contadini si alzavano e interagivo di rado se non per disturbarli con alcune elementari domande, formulate in maniera orribile, sul fai da te. Tutti preferivano lei. Questo idillio però non fu raggiunto senza pagare uno scotto. Avevamo dovuto vendere il nostro amato appartamento, formato scatola da scarpe, a Londra, per comprare i due bellissimi granai, fatiscenti, con pavimenti di terra battuta, disseminati di cacca di pecore. Senz’acqua o elettricità era impossibile trasferirci immediatamente così, nella settimana in cui ci dovevamo occupare delle pratiche burocratiche, cercammo una sistemazione provvisoria nel villaggio, passando da una deliziosa casetta in pietra naturale, il cui prezzo si era triplicato all’inizio della stagione estiva, a una meno desiderabile proprietà sulla strada principale. La nuova casa non era ammobiliata e noi non avevamo mobili, essendo arrivati in Francia circa due anni prima con l’intenzione di restarci soltanto sei mesi. A essere onesti quello fu un periodo stressante. Così, quando Katherine iniziò ad avere mal di testa e a prendere le cose con calma, invece di essere efficiente come sempre, una specie di ciclone che sbrigava pratiche, imballava, divideva e catalogava, attribuii la cosa alla stanchezza. “Va’ dal dottore o a casa dai tuoi, se non puoi essere d’aiuto” le dicevo, comprensivo. Avrei dovuto capire che si trattava di qualcosa di serio quando, il giorno in cui eravamo a fare shopping (una delle sue attività preferite) per comprare i mobili della stanza dei bambini, non se la sentì di continuare e in macchina, sulla via del ritorno, strascicava le parole. Ci assalì l’ansia. Alcune telefonate ad amici che soffrivano di emicranie però ci rassicurarono, perché tutti questi sintomi erano normali in una patologia spesso legata allo stress. Alla fine, Katherine si decise ad andare dal dottore e io mi aspettavo che tornasse a casa con la prescrizione di un antidolorifico specifico. Invece mi telefonò dicendomi che il 15

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medico voleva che facesse una risonanza al cervello, quella sera stessa. Non ero ancora particolarmente preoccupato: i francesi, si sa, sono ipocondriaci. Se vai dal dottore con il naso che cola, lui ti prescriverà un sacco di medicinali, tra cui anche le supposte. Una risonanza al cervello mi sembrava la tipica reazione francese; era seccante, ma andava fatta. Katherine si mise d’accordo con la nostra amica Georgia per farsi portare all’ospedale locale, distante una trentina di chilometri da casa, mentre io mi accingevo ad attendere il suo ritorno. Poi ricevetti la telefonata che nessuno si aspetta mai. Georgia, tra i singhiozzi, mi disse che la situazione era seria. “Hanno trovato qualcosa” continuava a ripetere. “Devi venire.” Sulle prime, credetti che fosse uno scherzo di cattivo gusto, ma l’emozione nella sua voce era vera. Sotto shock, chiesi a una vicina di occuparsi dei bambini, presi in prestito la sua Honda Civic incredibilmente sgangherata e partii per un viaggio ignoto, lungo buie strade di campagna. Con un faro che non funzionava, senza la terza e la retromarcia e con freni poco affidabili, ero consapevole che avrei potuto avere un incidente e farmi molto male, se non fossi stato cauto. Presi male una curva, dovetti scendere e spingere l’auto sulla carreggiata, ma arrivai sano e salvo all’ospedale dove abbandonai il veicolo decrepito nel parcheggio deserto. Dentro, consolai Georgia che piangeva e feci del mio meglio per rassicurare Katherine, che appariva pallida e sconvolta. Speravo ancora che fosse stato commesso un errore, che esistesse una spiegazione semplice che non era stata presa in considerazione e che avrebbe chiarito ogni cosa. Quando però chiesi di vedere il referto, notai l’inconfutabile presenza di una massa nera grande quanto una pallina da golf situata minacciosamente nel lobo parietale sinistro. Anni prima mi ero laureato in psicologia e dunque sapevo qualcosa al riguardo, così iniziai ad arrovellarmi per cercare disperatamente di trovare una spiegazione che giustificasse quello che vedevo. Inutile. Non ce n’erano. Trascorremmo la notte in ospedale, tentando di risolle16

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varci a vicenda il morale. Il mattino seguente, un elicottero portò Katherine a Montpellier, l’unità neurologica locale (e probabilmente la migliore di tutta la Francia). Dopo quella nottata insieme, vederla caricare in elicottero con tanto di codice rosso verso un lontano ospedale fu un duro colpo. Fu mentre inseguivo l’elicottero sull’autoroute che avvertii i contraccolpi dello shock. Nel mio cervello frullavano pensieri caotici, cercavo di riprendere il controllo della situazione, ma era difficilissimo concentrarmi sulla guida. Rallentai e arrivai un’ora dopo al parcheggio dell’enorme complesso ospedaliero Gui de Chauliac dove non trovai neppure un buco. Finii per parcheggiare in maniera creativa, à la française, lungo un pezzo di cordolo. Un custode sventolò con disapprovazione un dito nella mia direzione, ma lo superai con indifferenza, animato da un unico, disperato obiettivo: trovare Katherine. Se in quel momento avesse cercato di fermarmi, penso che gli avrei rotto un braccio e lo avrei spedito dritto in radiologia. Per quanto mi riguardava, stavo andando al reparto neurologico del quinto piano e niente avrebbe potuto intralciare il mio cammino. In quell’istante mi resi conto che nessuno dovrebbe mai sottovalutare la confusione emotiva della gente che entra in un ospedale. Le regole ordinarie non sono più valide; la mia priorità era concentrata su dove trovare Katherine e capire cosa sarebbe accaduto dopo. Trovai mia moglie seduta su un letto a rotelle, con addosso un camice giallo da ospedale. Era sconvolta e confusa. Aveva un’aria vulnerabile, ma nobile, e collaborava stoicamente a qualsiasi cosa le si chiedesse. Alla fine, ci comunicarono che l’operazione era stata fissata dopo qualche giorno. Nel frattempo, le avrebbero somministrato elevate dosi di steroidi per ridurre l’infiammazione intorno al tumore in modo da poterlo rimuovere con maggiore facilità. Vederla su quel lettino, con quel camice aperto sulla schiena, mentre si guardava intorno con confusa dignità intanto che la spingevano lungo i corridoi, fu probabilmente il momento peggiore. I problemi logistici erano stati ri17

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solti, eravamo nel posto giusto, i bambini erano in buone mani; adesso non ci restava che aspettare tre giorni e adattarci alla nuova realtà. Trascorsi la maggior parte del mio tempo in ospedale con Katherine o al telefono, nell’atrio, a lanciare bombe su amici e parenti. Le chiamate seguivano tutte lo stesso schema: gioviale incredulità, seguita da shock e, spesso, da lacrime. Al terzo giorno ero diventato un veterano e accompagnavo io stesso la gente attraverso le varie fasi mentre davo loro la notizia. Finalmente arrivò il tanto atteso venerdì e Katherine fu preparata per l’operazione. Mi fu permesso di accompagnarla fino alla sala d’attesa proprio fuori della camera operatoria stessa. Era tutto tipicamente francese: bellissimo. Il sole inondava di luce un atrio moderno, dove le foglie rosse e marroni di alcuni alberi ne catturavano i raggi e li riflettevano come vetrate istoriate. Non avevamo molto da dirci. Salutai Katherine con un bacio senza sapere se l’avrei rivista o, comunque, in che condizioni l’avrei rivista. All’ultimo momento chiesi al chirurgo di assistere all’operazione. Avendo scritto, in passato, articoli medici, ero già entrato in una sala operatoria e volevo solo capire con esattezza cosa stava succedendo a mia moglie. Lungi dal mostrarsi perplesso, il medico sembrò contento. Trattandosi di uno dei migliori neurochirurghi della Francia, ero ragionevolmente convinto che soffrisse di una forma acuta della sindrome di Asperger. Per la prima – e unica volta – mi guardò negli occhi e sorrise come per dire: “Allora anche a lei piacciono i tumori, eh?” e, eccitato, mi presentò alla sua équipe. L’anestesista si mostrò molto meno colpito dalla mia idea e piuttosto contrariato, tanto che desistetti. Non volevo essere d’intralcio, per nessuna ragione al mondo. Il chirurgo, deluso, riprese la sua aria di composta efficienza. L’operazione fu un successo su tutti i fronti e quando, poche ore dopo, andai a trovare Katherine in rianimazione, la trovai cosciente e sorridente. Ma il chirurgo mi disse che l’aspetto del tessuto rimosso non gli piaceva affatto. Mi mise in guardia con un “Si riformerà”. In quel momento 18

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però ero così sollevato che mia moglie fosse sopravvissuta all’intervento che relegai quelle parole in un cantuccio della mente e diedi ai parenti la buona notizia, informandoli che Katherine avrebbe dovuto fare la chemio e la radioterapia. Mia moglie riceveva le visite, incluse quelle dei bambini, sugli immacolati prati disseminati di palme e di pini, fuori del reparto. All’inizio, lo faceva sulla sedia a rotelle, poi però cominciò a mettersi sull’erba chiazzata dal sole, la testa bendata in un fazzoletto di seta dai colori tenui, bella e rilassata come sempre, come l’ospite di un picnic. I nostri cari amici Phil e Karen stavano facendo una vacanza a Bergerac, a sette ore di macchina, in direzione nord, ma vennero a trovarci e fu molto emozionante vedere i nostri figli giocare con i loro, come se niente fosse successo, in quel paesaggio altrimenti idilliaco. Dopo aver passato giorni e giorni a intontirmi su Internet, l’inevitabilità della recidiva del tumore era chiarissima. La British e l’American Medical Association, e qualunque altra organizzazione per la ricerca sul cancro, avevano un unico messaggio per una persona a cui era stato diagnosticato un glioblastoma di quarto grado: “Ci dispiace”. Andai a pescare i contatti che avevo nel campo medico sperando di ricevere notizie positive che magari non erano ancora state pubblicate, ma non ne trovai. La sopravvivenza mediana – il tempo medio di sopravvivenza statisticamente più frequente – è di nove/dieci mesi dalla diagnosi. La media è leggermente diversa, ma il 50 per cento sopravvive un anno. Dopo tre anni è vivo solo il 3 per cento dei malati di tale cancro. Le prospettive non erano rosee. Era un duro colpo, soprattutto perché Katherine si stava riprendendo egregiamente dalla craniotomia subita per la rimozione del tumore (con un raro tasso di escissione del 100 per cento) e l’eccellente sistema sanitario francese l’aveva subito inserita nei programmi di radio e chemioterapia. I pazienti con maggiore probabilità di sopravvivenza, in queste condizioni, sono le donne giovani, forti e mental19

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mente attive: Katherine in persona! E nonostante i funesti presagi, la ricerca sembrava promettere molti sviluppi prima della recidiva. Quando mia moglie fu dimessa dall’ospedale, ci ritrovammo in una casa vuota, ma piena di tutto e con l’intero paese incredibilmente supportivo. Trovammo i genitori, i fratelli e le sorelle di Katherine e durante il primo giorno qualcuno bussò alla finestra. Era Pascal, il nostro vicino, che, senza tante cerimonie, ci passò dalla finestra un tavolo da pranzo e sei sedie, seguiti da una pentola con del cibo caldo. Tentammo di tornare alla normalità e allestimmo un ufficio nella soffitta polverosa dove lavoravamo sulla programmazione delle cure di Katherine e sul libro tratto dai miei articoli sul fai da te, di cui mia moglie era decisa a seguire la progettazione grafica. Nel frattempo, a meno di cento metri da noi, sulla strada, c’erano i nostri granai, un cantiere aperto come la fine di un sogno che, se lo avessimo voluto, ci avrebbe facilmente tenuti impegnati per un decennio. C’era solo un piccolo dettaglio: mancavano i soldi. Però, francamente, in quel momento ero più interessato a garantire a Katherine la migliore qualità di vita possibile e ad approfittare del poco tempo che, secondo i medici, le restava. Io non volevo crederci e vivevamo di mese in mese, tra una risonanza e un’analisi del sangue, con la speranza che, timidamente, cresceva a ogni risultato negativo. Katherine era più felice se lavorava e se sapeva che i bambini erano contenti. Con la sua vivace efficienza mise in piedi il suo ufficio, un piano sotto il mio, e iniziò ad attaccare alle pareti progetti, campionari di colori e illustrazioni varie. Si occupava anche di altro: sbrigava alcune faccende, portava i bambini a scuola, restava in contatto con tutte le persone che la chiamavano per sostenerla e che, occasionalmente, passavano a trovarci. Io continuavo a scrivere i miei articoli e a fare ricerche per il mio libro sugli animali. Quelle ricerche procedevano a rilento a causa della connessione a Internet che funzionava a singhiozzo: era tenuta insieme da un giro di nastro isolante e soggetta al “servi20

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zio” capriccioso di France Telecom, che, con il debito societario più elevato d’Europa, fa apparire cordiale ed efficiente persino la British Telecom. Considerato che i bambini andavano pazzi per i granai, decidemmo di andarci ad abitare a qualunque costo il prima possibile, così investimmo i nostri ultimi risparmi nella costruzione di una piccola casetta di legno – anche se più grande del nostro ex appartamento londinese – sul retro del capace magazzino. Essendo l’impresa ben al di sopra delle mie limitate conoscenze del fai da te e difficile da capire per l’amabile gente del posto, tanto attaccata alla tradizione del pranzo, chiamammo un aiuto speciale che si presentò sotto forma di Karsan, un nostro amico costruttore angloindiano di Londra. Karsan è un vero asso nel suo lavoro. La prima cosa che fece fu misurare a passi il terreno, poi chiese di essere accompagnato in una falegnameria. Lavorando duramente per trenta giorni, mise in piedi una casa vivibile con due stanze da letto e dotata di acqua corrente, elettricità e di un bagno perfettamente funzionante; il tutto, mentre io lo intralciavo con la mia presenza. Avevo una discreta esperienza nel settore delle costruzioni e da quattro anni scrivevo articoli sul fai da te. Ero dunque certo che Karsan sarebbe rimasto impressionato dalla mia vasta conoscenza, dalla mia etica del lavoro e dall’infinita varietà di attrezzi in mio possesso. Non fu così. “Non li hai mai usati” osservò. “Be’, un po’ sì” replicai. “Se qualcuno si presentasse da me con questi attrezzi, lo manderei via” mi rispose. “Lavoro da solo. C’è qualcuno, nel paese, che possa darmi una mano?” chiese. “Ehm… lo faccio io, Karsan” gli dissi. E così passai giorni a sollevare e a segare travi, secondo le sue indicazioni e a fare del mio meglio per imparare qualcosa da questo pluritalentuoso e turbinante mastro costruttore. Ammetto di aver dovuto prendermi, qualche volta, un paio d’ore per stare dietro al mio lavoro di scrittura… i giornali nazionali non sono affatto propensi a ricevere gli articoli in ritardo e scuse del tipo: “Ho dovu21

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to farmi prestare la betoniera da Monsieur Roget e fare da interprete a Karsan dal venditore di materiali edili” di sicuro non avrebbero retto, a mio parere. “Sono solo” continuava a lamentarsi Karsan. Così, prima della fine del mese riuscii, finalmente, a convincere ad aiutarci un muratore locale che, nelle tre ore della pausa pranzo e quando non aveva altri impegni, lavorò duramente negli ultimi quindici giorni. Anche la nostra affascinante amica Georgia, del circolo delle mamme inglesi, conosciuta appena dopo il nostro trasferimento, fu di grande aiuto e colpì Karsan per le sue conoscenze di idraulica, i tacchi alti e le magliette scollate. Diventarono grandi amici e Karsan iniziò a parlare di trasferirsi “qui dove si guida come in India”, con Georgia come segretaria tuttofare. Chissà perché, l’idea fu bocciata dalla moglie di Karsan. Quando la casetta di legno fu terminata, la gente del posto stentò a crederlo. Qualcuno esclamò persino: “Sacré bleu!”. Alcuni stavano lavorando da anni alle proprie abitazioni, che sorgevano su fazzoletti di terreno tutto intorno al villaggio e sui quali si stavano espandendo le nuove generazioni. Di rado, tuttavia, se ne vedevano di finite, a parte quelle per le vacanze commissionate dagli espatriati olandesi, tedeschi e inglesi che spesso usavano manodopera straniera o controllavano meticolosamente i muratori locali fino allo sfinimento e alla conclusione del lavoro. Questo equilibrio vita/lavoro, con l’accento posto decisamente sulla prima, era la cosa più divertente del fatto di vivere in questa regione e si adattava alla perfezione alla mia natura “lenta”; era però anche gratificante mostrare un progetto completato alla maniera inglese, portato avanti con quattordici ore di lavoro giornaliero e un veloce panino al formaggio accompagnato da una tazza di tè a pranzo. Salutammo riconoscenti Karsan e ci trasferimmo nella nostra nuova casa, sul retro di un grande granaio aperto, con vista sull’altro, in un giardino recintato dove i bambini avrebbero potuto giocare in tutta sicurezza con il cane, Leon, e i gatti e dove il muro posteriore era a un tiro di frisbee. Era la nostra pri22

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ma vera casa da quando erano nati i nostri figli ed eravamo contenti di avere un nostro spazio dove poter lavorare. Ovunque si posasse l’occhio c’era una marea di cose da fare. Entro l’estate successiva, però, riuscimmo a completare molti lavori e a installare una linea adsl. Katherine, poi, iniziò a coltivare il suo orticello, dove crescevano deliziosi pomodori ciliegino e lamponi. Dai rami del fico del vicino i frutti cadevano direttamente nel nostro giardino, l’aglio selvatico spuntava tra le siepi che delimitavano le vigne, i meloni spesso restavano abbandonati nei campi, dandoci la possibilità di godere di un’apparentemente infinita fornitura di succulenti prodotti locali. Ogni giorno passeggiavo con Leon per i sentieri polverosi, inariditi dal sole, che serpeggiavano per la campagna, accompagnato dal canto delle cicale, e mi tornavano in mente ricordi dell’infanzia a Corfù, dove avevo trascorso parecchie estati. Là gli ulivi crescevano sparsi, qui in file ordinate, ma lo stile di vita era lo stesso, anche se adesso io ero adulto e avevo una famiglia mia. Era surreale che, considerata la malattia di Katherine, tutto fosse così perfetto proprio quando la situazione era disastrosa. Ci gettammo a capofitto a godere la vita e questo per me significava osservare la fauna locale con i bambini. Naturalmente, gli uccelli erano molto diversi da quelli inglesi, più colorati e più abituati a passare tempo nell’Africa del Nord rispetto alla loro scialba controparte di oltremanica, il cui piumaggio era più adatto all’autunno perenne che alle vivide tinte di Marrakech. A venti minuti di distanza c’era la Camargue che, con le sue risaie e le sue saline, è calda abbastanza per accogliere tutto l’anno un’intera colonia di fenicotteri; io però non avevo intenzione di interessarmi agli uccelli. Una volta avevo partecipato a un “tour della natura” a Mull che in realtà altro non era se non una gita di bird-watching di pennuti rari. Le divertenti lontre furono ignorate per accerchiare un cespuglio intorno al quale restammo in attesa di qualcosa chiamato codirosso, un passero rossiccio, la cui visi23

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ta, a quanto pareva, era fuori stagione. È proprio vero che le vie della pazzia sono infinite! Molto più affascinante, e spesso impossibile da evitare, era la popolazione degli insetti, che saltava, strisciava e si riproduceva ovunque. Grilli della grandezza di topi spiccavano balzi nell’erba alta, intrattenendo i gatti e i bambini che li catturavano per ragioni opposte: i primi per divorarli, i secondi per dare loro da mangiare. Di notte, scarabei dall’aspetto esotico e in via di estinzione attraversavano con passo pesante il mio cammino come piccoli carri armati, esibendo con fierezza i loro inutili corni, simili più ai triceratopi che agli “eleganti” rinoceronti. Queste divertenti bestiole soggiornavano da noi qualche giorno, e si muovevano tintinnando in una boccia di vetro contenente terra, frammenti di legno e, di solito, foglie di tarassaco, per vedere se riuscivamo a riprodurre il loro ambiente naturale. Non erano però buoni animali da compagnia e, invariabilmente, li liberavo, di notte, al sicuro in un vigneto. Altre prede notturne includevano grossi rospi, sempre liberati al fiume su una specie di zattera in quella che era ormai diventata una consolidata cerimonia pomeridiana e un porcospino trasportato a casa su due bastoni, alloggiato in una latta e nutrito con vermi, fino alla fuga, avvenuta tre giorni dopo la cattura. Fu solo allora che scoprii che queste simpatiche creature, puzzolenti e infestate di pulci, possono trasmettere la rabbia. Forse però la preda più inquietante fu un serpente sconosciuto, lungo quasi un metro, trasportato anch’esso con il sistema dei bastoni, e ospitato per la notte in un vaso sospeso in aria nel soggiorno, chiuso da un coperchio con tanto di fori per l’aria. “Che ne pensi del serpente?” chiesi orgoglioso a Katherine, il mattino seguente. “Quale serpente?” fu la sua risposta. Il vaso era vuoto. Il rettile era fuggito attraverso uno dei buchi ed era caduto sul pavimento proprio vicino al divano letto su cui dormivamo a quel tempo, prima di infilarsi sotto la porta. Così almeno speravo. Katherine non si mostrò per nien24

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te divertita e da allora decisi di stare più attento a quello che portavo a casa. Non tutta la fauna locale era innocua. Le vipere (vipères, in francese) sono molto diffuse e, nel caso venissero avvistate, la procedura prevede di chiamare i vigili del fuoco, i pompiers, che quando arrivano sul posto “imitano le majorette, agitando bastoni nella direzione dei rettili, fino a quando non scappano”, secondo Georgia, che è stata una testimone oculare. Una volta vidi una vipère sotto una pietra in giardino, indossai un paio di guanti spessi, battei e rivoltai ogni sasso con cautela. Di tanto in tanto, la nostra vita era invasa da vespe mandarinia che ci svolazzavano intorno come malevoli elicotteri: la gente locale afferma che tre loro punture potrebbero uccidere un uomo. La mia sempre più sfogliata enciclopedia sugli insetti e gli animali diceva solo che sono “potenzialmente pericolose per gli esseri umani”. A ogni buon conto, tutte le volte che ne vedevo una, adottavo diligentemente l’intera procedura pompier. La creatura che però mi faceva più impressione era lo scorpione. Una notte, ne apparve uno sul muro del mio ufficio. La sua vista mi fece schizzare l’adrenalina e scatenò il panico a livelli che credevo raggiungibili solo nella giungla. Possibile che non ci fosse un posto sicuro? Quanti di questi cosi c’erano in giro? E se ne avessi trovato uno anche nella stanza dei bambini? Una ricerca su Internet rivelava che in Algeria, negli ultimi dieci anni, gli scorpioni avevano causato la morte di cinquantasette persone. L’Algeria è un’ex colonia francese. Molto vicina. Per fortuna, questo scorpione – marrone scuro e della grandezza del polpastrello del pollice di un uomo – non era quello incriminato e, in realtà, aveva un pungiglione più simile a quello di un’ape. Questo spavento, che mi fece capire in maniera definitiva che non ero a Londra e che avevo potenzialmente esposto la mia famiglia al pericolo, ispirò la mia prima (e ultima) poesia in circa vent’anni, sfortunatamente troppo scurrile per essere riprodotta qui. E poi ci fu il cinghiale. Lungi dall’essere superato dagli 25

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insetti, dai rettili e dagli artropodi, l’ordine dei mammiferi offrì un intrattenimento speciale, una sera, mentre stavo portando a spasso il cane. Ero stranamente uscito a fare una corsetta e mi trovavo di poco dietro Leon. A un tratto lo vidi tra i filari di una vigna, a circa venticinque metri da me. Mi avvicinai e notai, con stupore, che nonostante il chiarore lunare, il suo manto aveva assunto una colorazione scura, mentre poco prima era apparso della tipica tonalità castano-rossiccia. Inoltre, anche se Leon è un grande cane arruffato di circa cinquanta chili, quello che mi stava davanti sembrava più pesante e più “tondeggiante”. E grugniva, grugniva come un grosso, enorme maiale. Iniziai a pensare che non si trattasse di Leon, ma di un sanglier, un cinghiale selvatico, noto per la sua abitudine di gironzolare per vigneti nelle ore notturne e capace di fare un buco nella rete di recinzione, lasciando impressa la sua sagoma senza neppure rallentare. Io ero armato di un guinzaglio per cani, di una matita (in caso d’ispirazione) e di una torcia da testa, spenta. Quando il cinghiale si voltò e iniziò a battere le zampe sul terreno, sentii che era arrivato il momento di decidere, alla svelta, se accendere o no la torcia da testa. O mi avrebbe caricato o sarebbe scappato. La luce si accese con uno scatto e il mostro grugnente con calma fece dietro front per poi trotterellare verso i filari, più irritato che impaurito. Dopo di che arrivò Leon, come la cavalleria – lenta e inutile – e gli corse dietro. Di solito, Leon si ostinava a cacciare conigli immaginari al minimo accenno di fruscio proveniente dalla vegetazione, ma in questa occasione si affrettò a tornare subito indietro, mostrando totale indifferenza sul fatto che qualcosa non quadrava e restandomi incollato ai polpacci per tutta la via del ritorno. Davvero molto saggio. Il giorno seguente, portai i bambini a cercare le tracce del cinghiale e sgranarono gli occhi quando trovammo e fotografammo le sue orme stampate sulla morbida terra grigiastra e le mostrammo agli arguti contadini riuniti al bar del paese, il Caffè dell’Universo. “Il était gros” conclu26

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sero, sbellicandosi dalle risate e riempiendo l’aria di sbuffi di pastis quando mimai loro il mio spavento. Così, serpenti inclusi, questa vita era più vicina all’Eden di quanto credevo possibile. Con l’adsl finalmente installata e i pipistrelli che svolazzavano intorno al mio ufficio improvvisato nel granaio vuoto, il mio libro finalmente iniziava a prendere forma e la cura di Katherine sembrava efficace e ci dava speranza. Cosa avrebbe potuto portarci via da quest’angolo di semiparadiso duramente conquistato? La mia famiglia decise di comprare uno zoo, ovvio.

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DIR. EDITORIALE

ART DIRECTOR

EDITOR

GRAFICO

REDAZIONE

UFF. TECNICO

4 MM DI ABBONDANZ A PER L A PIEGA

4 M M D I A B B O N DA N Z A P E R L A P I EGA

Benjamin Mee

Benjamin Mee è un giornalista freelance e il proprietario del Dartmoor Zoological Park.

Benjamin Mee LA MIA VITA È UNO ZOO

Una famiglia. Uno zoo in rovina. 200 animali selvatici e un uomo che ha avuto il coraggio di non ingabbiare i suoi sogni.

LA MIA VITA

è uno ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO GRAPHIC DESIGNER:MANUELE SCALIA

17,00

COP_Mee_La mia vita è uno ZOO.indd 1

DIMENSIONE: 145x223 mm - RIFILATO: 140x215 mm

PANTONE 463 C

CARTONATO

È una follia eppure il giornalista Benjamin Mee l’ha fatto davvero: ha venduto tutto per uno zoo in rovina nella campagna inglese. E da un giorno all’altro ha cambiato completamente la sua vita e ci si è trasferito con tutta la famiglia, nonna ottantenne compresa. Solo che, di zoo e di animali, Benjamin non ne sa proprio niente. Bisogna al più presto affrontare il problema di Ronnie, un tapiro con la congiuntivite cronica che ha un disperato bisogno di una fidanzata, i mille tentativi di fuga di Sovereign, il giaguaro, e i continui litigi tra le due sorelle tigri che all’improvviso sembrano non sopportarsi più. Occorre rifare le recinzioni, aggiustare le tubature, scacciare via i topi e pagare i creditori. E tutto deve essere risolto per la nuova apertura al pubblico in primavera. Ne va della vita dell’intera famiglia. Ma proprio quando Benjamin sembra avere sotto controllo la situazione, il destino lo mette davanti a una prova ancora più dura: la moglie si ammala di cancro. E ancora una volta è proprio lo zoo ad aiutarlo perché: “Mandare avanti il parco è come partecipare al ciclo della vita. Alcuni esseri nascono, altri muoiono. Ma per quanto la cosa potesse essere devastante per me, per i bambini, o per la mamma, la vita continua. Niente si può fermare”. La mia vita è uno zoo è una storia vera, un magico viaggio nei misteri del regno animale, un incredibile racconto di come la forza, l’amore e l’entusiasmo di una famiglia permettono di superare qualsiasi difficoltà.

ZOO

In sovraccoperta: Film artwork © 2011 Twentieth Century Fox Film Corporation. All Rights Reserved

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