â ALEX, PERCHĂ NON SEI VENUTO? NON DIRMI CHE NON ESISTI, TI PREGO. â JENNY, IO SONO SUL MOLO. SONO QUI! â ANCHE IO. ESATTAMENTE DOVE DICI DI ESSERE TU.
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Art director: Fernando Ambrosi Graphic designer: Stefano Moro
ĂĹ 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Pubblicato per accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency Illustrazione di copertina di Roberto Oleotto
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Alex Loria era pronto per il canestro decisivo. La maglia giallo-blu impregnata di sudore, i capelli biondi a caschetto che cadevano sulla fronte e lo sguardo di chi sapeva che avrebbe segnato. Era il capitano. Aveva guadagnato due tiri liberi allâultimo minuto. Il primo era entrato. Ferro-tabellone-ferro-canestro. Mancava un solo punto. Non poteva fallire. Alex si asciugò le mani sui pantaloncini e fissò lâarbitro mentre gli passava la palla. Una rapida occhiata glaciale allâautore del fallo, un ragazzo che frequentava la scuola di fronte alla sua, poi tornò a concentrarsi sul tiro libero. â Infiliamo questo canestro e vinciamo la partita, dai Alex⌠â sussurrò a se stesso per incitarsi mentre col capo chino faceva rimbalzare il pallone. I compagni rimasero in silenzio, tesi e pronti a saltare. I tre consueti rimbalzi scaramantici fecero eco nella palestra della scuola. Era solo unâamichevole, non câerano gli striscioni tenuti dai genitori sugli spalti e i bambini con i pop-corn a bordo campo. Ma nessuno voleva perdere, specialmente il capitano. Allâim-
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provviso, quella sensazione di vuoto. Le gambe molli. Un brivido lungo la schiena. La vista annebbiata. Mentre compagni e avversari osservavano stupiti la scena, Alex cadde in ginocchio, appoggiò una mano sul pavimento sintetico del campo e cominciò ad ansimare. Lo sentiva. Stava per succedere ancora. â Vuoi venire a tavola? â gridò Clara dalla cucina. â Un secondo, mamma! â Sono venti minuti che dici âun secondoâ, muoviti! Jenny Graver sbuffò e scosse la testa, mentre col mouse cominciava a chiudere le varie applicazioni in uso sul suo MacBookPro. Alzò gli occhi verso lâorologio a muro. Le otto e un quarto. Il tono di voce della madre sembrava non ammettere ulteriore ritardo. Jenny si alzò e incrociò il suo stesso sguardo nello specchio sopra la scrivania. I capelli castani mossi cadevano sulle spalle larghe da nuotatrice professionista. Nonostante i sedici anni di etĂ , Jenny vantava giĂ un ricco palmares di medaglie, tutte appese alle pareti del corridoio, al primo piano della villetta dei Graver. Le sue vittorie erano lâorgoglio del padre Roger, ex campione di nuoto, ai suoi tempi molto conosciuto a Melbourne. Jenny si lasciò la porta della camera alle spalle, poi attraversò il corridoio per andare in bagno a lavarsi le mani. Un profumo invitante di arrosto saliva su per le scale. A un tratto, quel brivido. Ormai lo conosceva fin troppo bene. La vista si annebbiò, la ragazza fece due passi in avanti e cercò di appoggiarsi ai bordi del lavandino per tenersi
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in piedi. SentĂŹ il corpo cedere improvvisamente come se, escluse le braccia, tutti i muscoli non fossero piĂš capaci di rispondere ad alcun ordine del cervello. Stava per succedere ancora. â Dove sei? La voce rimbombava, perforandole le meningi. Silenzio. Qualche lamento in lontananza, sinistro e inquietante come un pianto che echeggia dal fondo di un abisso. â Dimmi dove vivi⌠â Mel⌠â Jenny cercò di rispondere, ma la parola restò incompleta. â Riesco a sentirti⌠Ho bisogno di sapere dove sei. Ogni sillaba proferita da Alex era come un ago piantato nella testa. Il dolore era lancinante. La risposta arrivò accompagnata da un groviglio di grida e risate infantili. Tutto ruotava nella testa come in un vortice, un miscuglio di emozioni indistinguibili. Ma quel nome vi era passato attraverso ed era giunto a destinazione. â Melbourne. â Ti troverò â fu lâultima sentenza della voce maschile, prima che tutto diventasse nero.
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Clara Graver si sfilò i guanti da cucina e corse al piano di sopra della villetta subito dopo aver sentito il tonfo dovuto alla caduta a peso morto di Jenny. SalĂŹ per le scale affannata, rischiando di inciampare, e quando fu di fronte alla porta socchiusa le diede un colpo con la mano aperta e la spalancò. Sua figlia era stesa per terra, la bava alla bocca e un rivolo di sangue che colava dalle labbra. â Jenny! â urlò inginocchiandosi accanto al corpo privo di sensi. Gli occhi della ragazza erano sbarrati. Lo sguardo perso nel vuoto. â Amore mio⌠sono qui. Guardami. Con un paio di buffetti sulle guance Clara riuscĂŹ a risvegliare la figlia. Una tecnica semplice ma efficace, ormai divenuta consuetudine. Roger salĂŹ i gradini a due a due e arrivò di corsa in bagno. Guardò prima la moglie, poi la figlia che stava pian piano riprendendo conoscenza. â Come sta?
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Clara non gli rispose, si limitò a stringersi nelle spalle. â Ă successo ancora? â la incalzò lui, anche se conosceva perfettamente la risposta a quella domanda. Jenny mise a fuoco lentamente lo sguardo preoccupato del padre, poi lo rassicurò. â Sto bene. â Hai battuto la testa? â No, credo di no. Roger le si avvicinò e le poggiò una mano sulla nuca. Le dita si sporcarono di rosso. â Questo è sangue, Jennifer â il tono di voce di Roger non comunicava preoccupazione, piuttosto rassegnazione. â Oh, mio Dio! â esclamò Clara. â Stai tranquilla, è superficiale â la rassicurò lui mentre Jenny si massaggiava la testa. â Ce la fai ad alzarti in piedi? â le domandò Clara porgendo una mano alla figlia. Jenny piegò il busto in avanti e una fitta di dolore le penetrò dal lato destro della fronte. Quindi si alzò. â Adesso ti metti tranquilla sul letto e io ti preparo una tisana â disse con tono affettuoso la madre, stirando le labbra in un sorriso forzato. Roger scosse la testa. â Dio santo, Clara, quandâè che accetterai il fatto che con le tue tisane non cureremo di certo nostra figlia? Il dottor Coleman aveva detto che⌠â Non mi importa cosa ha detto il dottor Coleman! â Se tu solo prendessi in considerazione la terapia⌠â Ne abbiamo giĂ parlato, la risposta è no! â lo interruppe lei risoluta. â Jenny sta⌠Jenny starĂ benissimo.
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Nel frattempo la ragazza si era spostata verso la finestra e ora stava lĂŹ, lo sguardo perso nel vuoto. Oltre la tenda ricamata a mano da sua nonna si intravedevano i tetti delle villette a schiera di Blyth Street. Il litigio tra i suoi genitori era un copione che Jenny conosceva bene. Gli svenimenti erano iniziati quattro anni prima. Lei aveva da poco festeggiato il suo dodicesimo compleanno e stava giocando con i regali portati da amici e parenti. Sua madre stava spolverando i mobili della sala quando lei, in piedi davanti alla televisione, era crollata a terra come un peso morto. Era riuscita a dire solo âmammaâ nellâistante in cui aveva sentito la testa diventare pesante e la vista annebbiarsi allâimprovviso. Lâultima immagine che aveva distinto prima di svenire era la laurea di sua madre, incorniciata e appesa alla parete della sala: Clara Mancinelli, dottoressa in Lettere con la votazione di centodieci e lode. In basso, accanto alla firma del rettore, câera il timbro dellâUniversitĂ La Sapienza di Roma. La pergamena era datata 8 Maggio 1996. Esattamente una settimana prima che Clara conoscesse Roger, in vacanza nella capitale con un amico, e decidesse di cambiare il corso del proprio destino, seguendolo in Australia. Spesso sua mamma amava ricordare che se non fosse entrata in quel caffè dellâEur per un urgente bisogno di andare alla toilette, lei e Roger non si sarebbero conosciuti. E Jenny non sarebbe mai nata. Tutti gli accertamenti medici ai quali Jenny era stata sottoposta non avevano dato alcun esito preoccupante. La bambina non aveva problemi di pressione nĂŠ di cuore, era in perfetta salute e i suoi risultati sportivi ne davano am-
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pia dimostrazione. Aveva vinto per due anni di seguito la medaglia dâoro del torneo provinciale ed era stata anche selezionata per partecipare alle Olimpiadi Scolastiche, per la gioia di Roger che la allenava personalmente quattro pomeriggi a settimana al Melbourne Sports & Aquatic Centre. Da allora episodi di quel tipo si erano verificati sempre piĂš di frequente. Alcune volte avevano le caratteristiche di un attacco epilettico, altre volte sembravano semplici svenimenti. A sentire i medici che Clara consultava, non câerano i presupposti per una cura contro lâepilessia. La passione della donna per i fiori di Bach e lâomeopatia andava contro la visione tradizionale di Roger, ma fino a quel momento lâaveva spuntata lei. Niente farmaci, nessuna terapia. Negli anni successivi, Jenny imparò a convivere con quello che chiamava âlâattaccoâ. Le era capitato nelle situazioni piĂš disparate. Durante la gita scolastica a Brisbane, quando era svenuta nella hall dellâalbergo mentre lâinsegnante faceva lâappello e decideva le coppie per sistemare i ragazzi nelle stanze. Al cinema, quando neanche le sue amiche si erano accorte che, mentre loro guardavano il film, Jenny si era accasciata sulla sedia con la testa piegata verso sinistra e le braccia penzolanti. E poi in pizzeria, quando Roger lâaveva portata a festeggiare la sua prima medaglia dâoro, e al Burger King, dove la squadra di nuoto si ritrovava il venerdĂŹ con il coach. Per non parlare di tutte le volte che le era capitato a casa, sul letto o in una qualsiasi stanza della villetta in Blyth Street. Per fortuna, lo pensava spesso, lâattacco non si era mai verificato in piscina. Avrebbe rischiato la vita. Quello che i genitori non sapevano, che non avevano mai saputo, era ciò che accadeva durante gli svenimenti.
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Il medico della scuola diede una pacca sulla spalla ad Alex e lo fece alzare dopo una breve visita. Lo studio, ricavato in fondo al corridoio dellâultimo piano, accanto alla biblioteca, era unâanonima stanzetta dotata di scrivania, lettino e mobiletto per i medicinali. Tutto color bianco, tutto freddo e poco accogliente come il tono sarcastico e lâaria di superioritĂ del dottore. â Capitano, ricordati che siamo a un passo dai play-off. â Me lo ricordo bene â disse Alex fissando il medico sicuro di sĂŠ. â Il campionato ti stressa troppo? â insistette lâuomo â o il problema sono i compiti? â Non mi stressa nulla â tagliò corto il ragazzo, ma sapeva bene che non era cosĂŹ. â Posso andare? Ad aspettarlo fuori dallâinfermeria câera Teo, lâallenatore della squadra di basket. Era appoggiato con la schiena al muro del corridoio, tra le mani una biografia di Michael Jordan, il campione di pallacanestro che era solito citare come esempio di sportivo perfetto.
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Alex lo ignorò e imboccò il corridoio, ma lâuomo gli stette dietro. â Alex, fermati. â Che câè? Va tutto bene. â Non va tutto bene. Se siamo ridotti cosĂŹ non posso metterti in campo nei play-off. Alex lo fissò e per un attimo si concentrò sulla parola âsiamoâ. Era unâabitudine del coach. Pensava sempre alla squadra. Se un ragazzo aveva un problema, riguardava tutti quanti. â Faccia come crede. â Tu sei il capitano, i tuoi compagni hanno bisogno di te. Ma se mi crolli in un momento decisivo e metti a rischio anche la tua salute⌠abbiamo un problema. â Allora trovatevi un nuovo capitano. Io non so cosa farci. I medici dicono che non ho niente che non va. â Non è quello che dicono i tuoi genitori, però. Alex si fermò e fissò lâallenatore, che sostenne il suo sguardo con occhi decisi. â I miei genitori sono troppo apprensivi. â Secondo me invece sei tu che mi nascondi qualcosa. Alex, porca miseria, sei il migliore, ma io non posso rischiare che⌠che succeda quello che è successo oggi, magari durante la finale. â Allora mi lasci fuori, cosĂŹ non ci arriveremo neanche alla finale. Alex scese di corsa le scale e finalmente uscĂŹ allâaria aperta. Mentre percorreva viale Porpora tirando su il colletto della giacca per difendersi dallâaria fredda e pungente di Milano, i pensieri rimbalzavano sulle pareti della testa senza dargli tregua.
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Continuò a rimuginare fino a quando non fu di fronte al portone di casa. Non avrebbe mai potuto perdere la fase finale della stagione. Era il miglior marcatore del torneo, era il capitano, aveva dato il massimo fino a quel momento. Ma se il mister avesse deciso di farlo fuori, il suo parere sarebbe servito a poco. SalĂŹ al primo piano. Una signora che abitava nellâappartamento accanto al suo lo salutò, lui si limitò a un sorriso formale e a un cenno del capo. â Non ne posso piÚ⌠â bisbigliò mentre girava le chiavi nella serratura della porta blindata. La casa lo accolse silenziosa come sempre. A quellâora i genitori erano al lavoro. Sul mobile, accanto allâingresso, sua madre aveva lasciato un biglietto, come dâabitudine. Diceva: Vicino al microonde câè una torta salata. Mi raccomando studia! Baci, mamma. Alex passò oltre senza guardare. Appena fu in camera lasciò cadere lo zaino accanto alla scrivania, si tolse la giacca e si sedette sul bordo del letto. Per fortuna, pensò, non aveva battuto la testa. Ultimamente riusciva a prevedere lâarrivo dellâattacco e mettersi prima in ginocchio, per rendere la caduta meno pericolosa. Era un piccolo espediente e non ci aveva dato troppo peso, anche perchĂŠ non risolveva il problema. Al massimo avrebbe potuto evitargli di spaccarsi la testa, un giorno o lâaltro. Si lasciò andare con la schiena sul letto e portò le mani dietro la nuca, gli occhi socchiusi. Le prime volte, gli avvolgeva la testa solo un fastidioso rumore indistinto. Col tempo aveva imparato a riconoscere alcuni suoni. Quello piĂš gradevole era lo scroscio delle onde
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sugli scogli. Altri somigliavano a rintocchi di campana, un frastuono continuo e odioso. Questo accadeva durante il primo anno di svenimenti, quando Alex aveva dodici anni. In seguito câera stata unâevoluzione: durante gli attacchi nella sua mente prendevano forma alcune immagini. Erano molto confuse, si sovrapponevano e pareva impossibile ricondurle ad alcunchĂŠ di reale. Niente che avesse a che fare con la sua vita o con qualche ricordo di tempi lontani. In una delle visioni piĂš vive e ricorrenti, Alex si trovava sdraiato su un letto. Era circondato da pareti bianche, lâarredamento della stanza era quasi inesistente. Riusciva a scorgere solo un crocifisso appeso al muro di fronte, un vaso di fiori sopra un tavolino alla sua destra e una finestra con la tapparella chiusa. Provava a muovere le mani, ma sembravano bloccate da qualcosa. Un laccio, forse. Era senza dubbio il peggiore dei suoi incubi. A un certo punto tutto diventava buio e iniziava un accavallarsi di lamenti. Voci indistinte, echi di tormenti senza fine. Unâaltra immagine che tornava piuttosto spesso nei primi anni era quella di una mano. Era piuttosto piccola e paffutella. Alex la afferrava. Provava a tirarla a sĂŠ, senza riuscirvi. Allora si limitava a sfiorarla. Non poteva vedere oltre, scorgere un lineamento, un contorno definito. Appena cercava di farlo, la piccola mano si dissolveva, si sgretolava e scivolava via come sabbia tra le dita. Tra le tante immagini che si erano alternate nella sua testa in quei quattro anni di attacchi, ricordava bene quella di una spiaggia. Talvolta vedeva in lontananza una bambina, sempre la stessa.
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Nellâultimo anno erano comparsi altri dettagli. Il volto si confondeva nellâimmagine annebbiata, ma gli occhi spiccavano e si distinguevano in maniera precisa. Erano scuri, cosĂŹ intensi da penetrare nella sua memoria. Tornavano ogni notte. Non ricordava quante volte li avesse incontrati e ricordati al risveglio, ma doveva essere successo almeno per un mese di fila. Poi erano iniziate le voci. Lo svenimento era sempre preceduto da un brivido lungo la schiena e da un senso di intorpidimento di tutti gli arti. Ma un giorno Alex aveva sentito una voce che cercava di trovare spazio tra la miriade di rumori e grida a cui ormai aveva fatto lâabitudine. Era una voce femminile, giovane, ma non si capiva cosa dicesse. Poi Alex aveva iniziato ad annotare su un diario le parole che gli sembrava di aver compreso. La prima era stata âaiutoâ. Lui aveva cercato di rispondere ma, nonostante si fosse sforzato di emettere dei suoni, non vi era riuscito. A quanto dicevano i suoi genitori, era capitato che mentre era incosciente farfugliasse qualcosa. Domande come âchi sei?â o âdove sei?â. Il ragazzo aveva deciso di non informare nessuno, mamma e papĂ compresi, di quello che sentiva o vedeva durante gli attacchi. Non avrebbe saputo spiegarne il motivo, ma sentiva che il contenuto di quelle esperienze doveva essere protetto, custodito. Era il suo unico segreto. Lâepisodio piĂš significativo si era verificato tre mesi prima. Alex era appena rincasato dagli allenamenti di basket. Mancava poco al ritorno dei genitori dal lavoro. Lo sveni-
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mento era avvenuto in camera e, nei secondi di brivido che precedevano lâattacco, Alex aveva fatto in tempo a mettersi sul letto. Il consueto miscuglio di immagini e suoni si era presentato sullo schermo della sua mente dando vita a un caleidoscopio di sensazioni. Dopo i primi, confusi istanti Alex aveva scorto in lontananza il viso della ragazza. Gli occhi erano lâunico particolare che emergeva nitidamente nella visione, come dâabitudine. La voce però era piĂš chiara. â Esisti veramente? Per un attimo aveva indugiato, si era chiesto se avesse sentito sul serio quella domanda, cosĂŹ chiara e precisa. Non era mai accaduta una cosa simile, e lui era allo stesso tempo emozionato e spaventato. â SĂŹ. â Come ti chiami? Lâeco di quelle poche parole rimbombava nella sua testa e lo trasportava in una dimensione fantastica, donandogli un immediato senso di piacere e completezza. â Alex. E tu? Un groviglio di grida strazianti risuonava in lontananza. â Jenny. La ragazza poi era svanita, risucchiata in una spirale di immagini confuse. Nel diario di Alex quel giorno era sottolineato ed evidenziato. Era il 27 luglio del 2014. Aveva sentito la presenza dellâaltra persona. Aveva percepito qualcosa di terribilmente reale. Non si trattava di un sogno, ne era sicuro, nĂŠ di unâallucinazione o una visione.
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Alex aveva comunicato con una ragazza che era lÄ fuori, da qualche parte nel mondo. Non aveva idea di come fosse possibile ma ne era convinto: Jenny esisteva. E con tutta probabilitÄ stava facendo i conti con gli stessi pensieri.
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Secondo la teoria del Multiverso, esistono infiniti mondi come infinite sono
Un esordio folgorante in cui la fantascienza incontra la favola dando alla luce un mondo visionario di affascinante complessitĂ .
le possibilitĂ della nostra esistenza. Si suppone che queste realtĂ non siano in contatto tra loro. Alex vive a Milano. Jenny vive a Melbourne. Un filo sottile unisce da sempre le loro vite: un dialogo telepatico che si verifica senza preavviso, in uno stato di incoscienza. Fino a quando non decidono di incontrarsi e scoprono una veritĂ che cambierĂ totalmente le loro esistenze, distruggendo ogni certezza sul mondo in cui vivono.
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â ALEX, PERCHĂ NON SEI VENUTO? NON DIRMI CHE NON ESISTI, TI PREGO. â JENNY, IO SONO SUL MOLO. SONO QUI! â ANCHE IO. ESATTAMENTE DOVE DICI DI ESSERE TU.
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