Licia Troisi, "L'infanzia di Talitha"

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IL SOGNO DI TALITHA GLI ANNI PERDUTI


alitha si gettò a terra e iniziò a urlare. La sua reazione fu talmente improvvisa che lasciò tutti di stucco, dalle attendenti femtite alle sacerdotesse del tempio. Perfino sua sorella Lebitha, che la conosceva meglio di chiunque altro, rimase sconcertata. Talitha si mise a battere piedi e pugni sul pavimento, il volto rigato dalle lacrime. Le donne raccolte nella camera da letto si guardarono allibite. Prima che potessero reagire, Talitha aveva guadagnato il lembo della veste di sua sorella e ci si era aggrappata con entrambe le mani, continuando a strillare. «Su, contessina, vi prego» disse una schiava. Provò a toccarla, ma Talitha si divincolò con violenza. «Vi scongiuro, non fate così» mormorò la schiava, ma più provava a farla ragionare, più Talitha si stringeva alle vesti della sorella. La Piccola Madre iniziò a battere ritmicamente il piede a terra, segno che stava perdendo la pazienza. Fu una seconda schiava a cogliere quel gesto e, con la prontezza tipica di chi ha come unico destino servire, capì che c’era una sola cosa da fare. Megassa spalancò le porte e il silenzio scese immediato nella stanza. Le schiave chinarono il capo. Andò diretto verso le figlie, e senza indugi afferrò Talitha per un braccio. Le diede uno strattone, e lei strillò di dolore.

«Padre, non fatele del male» protestò Lebitha. Megassa le scoccò un’occhiata di fuoco. Era un uomo dall’aspetto comune, ma il suo portamento era fiero, e i lineamenti erano induriti da una perenne maschera di severità. «Non abbiamo tempo per i capricci» disse. Stava per dare un altro strattone alla bambina, quando Lebitha lo fermò sfiorandogli una mano. Megassa fremette appena. Non capitava quasi mai che qualcuno lo toccasse, e le sue figlie certo non si erano mai permesse. «Vi prego, lasciate che le parli da sola» disse Lebitha. Talitha sembrò cogliere la gravità del momento, perché si azzittì di colpo. Megassa esitò, poi guardò le schiave. «Voi, fuori!» tuonò. Le schiave si affrettarono a obbedire. Quando furono uscite, Megassa si rivolse con deferenza alle sacerdotesse. «Vogliate perdonarmi, la piccola è molto viziata. Non ho tempo di dedicarmi personalmente alla sua educazione.» La Piccola Madre alzò gli occhi al cielo, come per dire che capiva fin troppo bene. «Attenderemo» disse. Le due sacerdotesse la precedettero aprendole la porta. Uscì piano, con studiata solennità. L’ultimo ad andarsene fu Megassa. «La tua partenza è prevista per mezzogiorno» disse alla figlia maggiore. «Quindi vedi di sbrigarti. La porta si richiuse con un tonfo alle sue spalle. Rimasta sola con la sorella, Talitha mollò la presa. Era seduta a terra, le gambe divaricate che spuntavano magre dall’orlo della camicia da notte. Lebitha si chinò fino alla sua altezza, accovacciandosi a terra. Si somigliavano molto. Stessi occhi verde scuro, schiarito appena intorno alla pupilla, stessi capelli mossi, dal rosso vivace e acceso, stesso volto affilato dall’incarnato ocra tipico dei Talariti. Soltanto, Talitha aveva una spruzzata di efelidi attorno al naso, una caratteristica che Lebitha aveva perso crescendo. Avevano sei anni di differenza, ma nessuno conosceva la contessina quanto la sorella. Quando face-

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va i capricci, solo lei sapeva calmarla. Con tutti gli altri Talitha era insopportabile, una creaturina selvatica e dispettosa. «Ne abbiamo già parlato» disse Lebitha con dolcezza. «Devo andare al monastero e né tu né io possiamo farci nulla. È destino che accada. Ma non sarà così terribile, vedrai. C’è gente che cambia paese quando scopre di avere una forte Risonanza. Io invece non dovrò nemmeno lasciare la città, ma solo spostarmi un po’ più in alto, nel monastero. Tornerò a trovarti, dormirò con voi, e quando sarò ordinata sacerdotessa, tra tre anni, potrò farti visita quando mi pare.» Talitha scosse la testa. «Ma non staremo più insieme tutto il giorno, non potremo più giocare ai guerrieri, non mi leggerai più le storie di Beata, e io resterò sola!» Talitha scoppiò in lacrime, ma non c’era più traccia di capriccio nel suo pianto. Lebitha le mise una mano su una spalla, e quando vide che continuava a piangere l’attirò a sé, stringendosela al petto. Odorava di buono, di fiori e di bosco. «Io non ti lascerò mai sola» le sussurrò baciandole i capelli. «Non basteranno tutte le sacerdotesse di questo mondo a tenermi lontana da te.» La guardò con intensità negli occhi. «Ci sarò sempre, anche se saremo lontane.» Talitha annuì con poca convinzione, gli occhi gonfi di lacrime. «Mi prometti che adesso farai la brava?» disse Lebitha. Talitha sfuggì il suo sguardo, ma Lebitha la scosse e la costrinse a guardarla. «Me lo prometti?» «Sì…» disse piano Talitha. «E mi prometti che quando andrò via non farai scenate e comincerai a contare i giorni che ci restano alla prossima volta che ci vedremo?» «Va bene» concesse Talitha. «Posso far entrare tutti gli altri adesso?» disse Lebitha con un sorriso. «Solo se poi posso restare un altro po’ con te, fino a quando te ne vai» disse Talitha tirando su col naso.

Lebitha la strinse a sé e respirò di nuovo il suo dolce odore di bambina. Già le mancava, più di quanto fosse in grado di dire. Non le importava niente di suo padre, o di sua madre, non le importava della vita che si sarebbe lasciata alle spalle, dei sogni, delle speranze che avrebbe sacrificato andando in monastero per compiacere le mire di suo padre. Talitha era sempre stata l’unica cosa che contasse. Riusciva a staccarsi da lei solo perché sapeva che in qualche modo quel che stava facendo l’avrebbe salvata. Lei, almeno, sarebbe stata libera.

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a Piccola Madre iniziò a recitare le preghiere di purificazione, mentre le schiave sfilavano l’abito a Lebitha. La litania aveva un incedere ipnotico e la mente di Lebitha si svuotò di ogni pensiero. Il suo corpo già non le apparteneva più, se mai era stato suo. In fin dei conti, si disse, si trattava solo di cambiare padrone. Fino a quel momento era stata esclusiva proprietà di suo padre; ora invece sarebbe appartenuta al Monastero dell’Estate. Le misero indosso la veste gialla delle novizie, le strinsero in vita la cintura rossa, del colore delle sacerdotesse di Alya. Poi si sedette e le acconciarono i capelli in una crocchia morbida, che metteva in evidenza le sue piccole orecchie appuntite. La cantilena si arrestò mentre le schiave le sistemavano le forcine sul capo. Agli occhi della dea ora era pura. Si abbandonò al tocco delle mani di Anyas, la sua attendente femtita. Alle sacerdotesse era permesso condurre con sé un servo, uomo o donna che fosse, ma lei aveva deciso di non avvalersi di quella facoltà. Anyas era cresciuta a palazzo, apparteneva a quel luogo più ancora che alla sua famiglia, e lì si era costruita una vita: aveva un figlio che avrebbe dovuto abbandonare se mai l’avesse seguita al monastero, e lei non voleva imporle un sacrificio del genere. Così, quella sarebbe stata l’ultima volta che le avrebbe acconciato i capelli. Lebitha chiuse gli occhi assaporando ogni gesto di Anyas. Era stata come una madre per lei, in quei quattordici anni.

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«Quanti anni ha tuo figlio, Anyas?» chiese piano. «Nove quest’anno, mia signora.» «Ha già iniziato il servizio?» Non tutti i Femtiti cominciavano a lavorare alla stessa età. In genere, in una famiglia potente e antica come la loro i bambini femtiti potevano permettersi di rimanere inoperosi anche fino a dieci anni. «Quest’anno, mia signora. Dà una mano in cucina» rispose Anyas. Le sue abili dita sistemarono le ultime forcine. Lebitha sentì i suoi polpastrelli indugiare appena sul collo, in una carezza leggera e furtiva, il suo modo di dirle addio. Si guardò allo specchio. Quell’acconciatura le donava, ed era un bene: la regola prevedeva che non si sarebbe sciolta i capelli fino all’ordinazione sacerdotale. Sospirò, poi guardò la Piccola Madre attraverso lo specchio. «C’è un’ultima cosa che debbo fare, prima di andare.» La Piccola Madre scrollò le spalle. Per lei tutta quella cerimonia non doveva avere più molto significato: ogni anno vedeva centinaia di novizie, sebbene andasse a conoscere solo quelle delle famiglie più nobili e facoltose. «Sia» disse. «Ma che sia cosa rapida.» Poi lo sguardo della Piccola Madre tornò a vagare nel vuoto. Diventerò anch’io come lei, vecchia e annoiata pensò Lebitha. Un giorno sarò Piccola Madre, se i progetti di mio padre andranno a buon fine, e anch’io guarderò le novizie come ora lei sta guardando me. Lebitha sorrise alla schiava. «Voglio parlare con tuo figlio» disse. Sembrava più grande della sua età. Era curiosamente alto e magro, l’incarnato pallido anche per un Femtita. Gli occhi allungati tipici della sua razza erano di un oro purissimo, accesi da una sorta di luce interiore. Aveva i capelli verde chiaro, lisci e lunghi fino alle spalle, un taglio insolito per un Femtita. Erano i Talariti a imporre i

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capelli corti agli schiavi: per praticità, si diceva. Una forma ulteriore di umiliazione, pensava Lebitha. Indossava la veste degli schiavi: brache di tela e una casacca ampia coi colori della casata, stretta in vita da una cintura di corda. Stava davanti a lei, le mani in grembo, l’aria colpevole. Teneva lo sguardo basso, come chi si attendeva una punizione da un momento all’altro. Lebitha provò immediata simpatia per lui. «Come ti chiami?» «Saiph» disse il bambino a voce bassissima, tanto che Lebitha dovette sforzarsi per capire. Anyas lo spinse avanti con dolcezza. «Su, non sei qui per essere punito.» «Mi hanno detto che lavori in cucina.» Saiph annuì. «E cosa fai?» «Aiuto il cuoco. Pulisco le radici.» «E ti piace?» Saiph parve ponderare a lungo la risposta giusta da dare, perché nessuno chiedeva mai a un Femtita cosa pensasse del suo lavoro. «È un buon lavoro» disse infine. «E fare quel che fa tua madre, ti piacerebbe?» Saiph rimase spiazzato, e così Anyas, che lanciò uno sguardo confuso a Lebitha. «Quel che fa mia madre?» «Sì. Curare una persona della mia famiglia, starle vicino. Farle compagnia.» Lebitha sorrise incoraggiante. Saiph si torse le mani. «A me piace tutto quel che piace alla mia signora.» Lebitha si alzò e gli andò vicino chinandosi alla sua altezza. «Immagino tu conosca mia sorella. Vorrei che tu fossi il suo attendente.» «Vi ringrazio immensamente per l’onore che mi concedete, mia signora…» iniziò Anyas, ma Lebitha la fermò alzando un dito.

«Lei non ha bisogno di qualcuno che la vesta o le acconci i capelli» continuò senza togliere gli occhi da quelli del bambino. «Lei ha bisogno di qualcuno che abbia cura di lei in un altro senso. Vorrei che tu diventassi suo amico.» Saiph la guardò confuso: un Femtita non poteva essere amico di un Talarita. Era qualcosa che semplicemente non poteva succedere, come l’acqua che prendeva fuoco. Rimase impalato, con la bocca aperta. «Mi hai capito?» disse Lebitha. Saiph annuì, più per abitudine che per altro. «Sì, mia signora» disse. Lebitha sorrise. «Sai, Talitha è un po’… complicata, ma è buona. Promettimi che non ti farai scoraggiare dalle sue stranezze, e che le starai vicino.» «Sì, mia signora» disse Saiph, stavolta più convinto. Lebitha si tirò su e guardò Anyas. «A mio padre lo dirò io. Da domani stesso puoi mandarlo da mia sorella.» Anyas chinò il capo. Lebitha guardò di nuovo la Piccola Madre. Aveva assistito alla scena impassibile, la bocca piegata in una smorfia indecifrabile, di vago disgusto. «Ora possiamo andare» disse Lebitha.

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a processione attraversò la città di Messe tra due ali di folla. Talariti di basso rango, per lo più, e schiavi. I nobili erano su un palco a parte, ai piedi del Talareth. In genere nessuno si mobilitava per l’ingresso in monastero di una novizia, ma questa volta si trattava della figlia del conte di Messe, capitale del Regno dell’Estate, nonché probabile prossima Piccola Madre. Era un evento cui persino il re aveva deciso di presenziare. Il corteo si mosse lento tra le vie tortuose della città. Era una splendida giornata, e una luce ambrata filtrava attraverso la cupola del Talareth, l’immenso albero che con la sua chioma racchiudeva alla propria ombra la città. Vicino all’ingresso del palazzo reale il corteo si fermò. Il tronco del Talareth era lì, a pochi passi. Si diceva che quello di Messe fosse il più grande di tutta Talaria. La Piccola Madre si inginocchiò davanti all’albero. «Padre di Messe, accogli tra noi questa novizia che a te si vota. Rendi saldo il suo cuore, alimenta la sua fede, proteggi oggi la sua ascesa perché possa un giorno tornare alla terra dei suoi avi.» «Mira ci custodisca» risposero i presenti a una voce. Lebitha si fece avanti. «Padre di Messe, accogli il mio giuramento» disse con solennità appoggiando una mano al tronco. «Giuro di votarmi anima e corpo alle divine arti delle caste ancelle della dea Alya e di offrire il mio cuore a Mira, madre di Alya

e di tutti gli dei. Giuro di custodire la fiamma della Pietra dell’Aria, perché mai ci manchi la sostanza che consente la vita, e di apprendere la sapienza della cura del Talareth, finché la morte non mi riporti alla terra dei miei avi.» «Mira ci custodisca» risposero tutti. La Piccola Madre si fece avanti e le mise al collo il ciondolo di Pietra dell’Aria. Era di un grigio metallico, dalla forma allungata, sorretto da un semplice filo d’oro. Lebitha lo prese tra le mani e si concentrò un istante: la pietra pulsò e si accese di riflessi azzurri. Eccola, la prova definitiva: la Risonanza, la capacità di alcuni Talariti di accedere ai poteri segreti della Pietra e di attivarla. La folla esplose in un applauso, e Lebitha finalmente si concesse un singhiozzo liberatorio. Era quasi finita, non restava che una cosa da fare. Lungo il tronco del Talareth, appena visibile, si srotolava una sottile scala di metallo, che si avvolgeva a spirale fino ai rami più alti. In tutte le città di Talaria, i monasteri si trovavano sul Talareth, e in essi veniva custodita la Pietra che teneva in vita la città. Fu la Piccola Madre a fare strada. Iniziò l’ascesa con passo regale, e Lebitha la seguì. La folla rimase lì assiepata finché il piccolo corteo di sacerdotesse non ebbe raggiunto il secondo livello della spirale. Poi, lentamente, ognuno tornò alle proprie incombenze. Non Talitha. Seguì sua sorella con lo sguardo finché le riuscì di vederla. Una figura gialla che avanzava sicura, salendo inesorabilmente quella scalinata infinita che l’avrebbe condotta lontano. E più la vedeva rimpicciolirsi, più qualcosa in lei andava in frantumi. «Contessina, vostro padre si adirerà» la chiamò Anyas dolcemente. «Ancora un po’» disse lei. Anyas la prese delicatamente per un braccio. Lebitha era ormai una sagoma indistinta contro la mole del Talareth.

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l primo giorno senza Lebitha sorse identico a tutti quelli che l’avevano preceduto. Ancora caldo, come sempre nel Regno dell’Estate. Era la zona più asciutta di Talaria, e quando scoppiava qualche acquazzone la pioggia toccava terra in gocce finissime, filtrate dalla chioma del Talareth. Le foglie dell’immenso albero erano lucide e color verde scuro nella parte rivolta ai soli, opache e biancastre sull’altro lato. La gente del Regno dell’Autunno e del Regno dell’Inverno avrebbe pagato per vivere in quelle zone, e in particolare a Messe, che si trovava nella posizione ideale: dolcemente adagiata in una conca naturale accanto ai Colli di Navaria e lambita dal fiume Eal, dominava una regione in cui l’aria era mite e le piogge infrequenti. Il clima perfetto. Lebitha lo odiava. Svegliarsi al mattino con tutta quella luce la innervosiva. Quando si annoiava, e non capitava di rado, sognava i panorami innevati e le foglie ingiallite degli altri regni. Lì uno aveva tutto il diritto di sentirsi triste, di tanto in tanto. Più ancora la innervosiva Kolya, la serva che entrava nella sua stanza, le strillava un “buongiorno!” con voce squillante e spalancava le imposte. La luce entrava a fiotti e la calciava giù dal letto. Anche quella mattina il rituale non cambiò. Kolya entrò cinguettando, aprì le finestre e andò dritta verso di lei.

«Contessina, è una splendida giornata! Su, su, fuori dal letto!» Talitha si tirò le lenzuola fin sopra la testa. Ma la luce filtrava comunque, insopportabilmente gaia, inutilmente vivida. A cosa serviva una giornata di sole senza Lebitha con cui dividerla? «Vattene!» strillò. «Non vi capisco» disse Kolya sedendosi sul letto. «Se siete sveglia, perché fate tutte queste storie per alzarvi?» «Vattene e basta!» Kolya si tirò su sospirando. In fin dei conti, quella pantomima si replicava ogni mattina. Ma quel giorno fu peggio del solito. Kolya riuscì a strapparle di mano le lenzuola, ma poi dovette rincorrerla per tutta la stanza per farla mettere a sedere e pettinarle i capelli. «No, no e no!» strillava Talitha. In cuor suo aveva un piano preciso: starsene chiusa lì dentro fino a quando sua sorella non fosse tornata. Kolya, stremata, decise di giocarsi la carta definitiva. «Chiamo vostro padre, se non vi sedete subito.» Talitha si bloccò, in piedi sul letto. «Forza, venite giù» disse Kolya. Talitha rimase ferma ancora qualche istante e si morse il labbro con forza, fino a farlo sbiancare. «Vi fate male, così. Scendete, avanti.» Talitha si considerava una bambina coraggiosa. Certo, c’erano i mostri, quelli che Cetus, la compagna crudele che sottraeva materia e nutrimento a Mira, lassù in cielo, mandava ogni notte nella sua stanza a tormentarla. Ma per il resto non temeva niente. Niente tranne suo padre. Bastava il suono della sua voce o il rumore dei suoi passi, a volte. In verità non aveva mai assaggiato la sua collera. Ma l’aveva visto prendersela con gli schiavi, e tanto le era bastato. Si sedette alla toletta, accanto alla finestra. Lasciò che Kolya le pettinasse i lunghi capelli mossi. Formavano am-

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pie volute intorno al suo viso. In genere li teneva sciolti, ma Kolya la mattina provava sempre a raccoglierli in qualche acconciatura elaborata. Un’ora dopo, era già bell’e disfatta. «Sapete, da adesso in poi non sarà compito mio starvi dietro tutto il giorno» disse Kolya mentre le separava i capelli in due code. «Ahi! Mi fai male!» strillò lei. «Eh già, ho finito di penare con voi.» «Meglio se te ne vai» disse Talitha guardandola attraverso lo specchio. «So cavarmela da sola.» «Vi piacerebbe, eh?» disse Kolya, e tirò con più forza i capelli. Talitha scosse la testa, e col movimento disfece la coda. Kolya riprese l’opera con più vigore. «Eh no, mia cara, verrà qualcun altro.» «E chi?» fece Talitha. «Vedrete» disse Kolya. Lo trovò nella propria stanza quando rientrò dalle lezioni del mattino. Un Femtita smunto e pallido che doveva avere qualche anno più di lei. Talitha si irrigidì non appena lo vide. «Che ci fai qui? Questa è la mia stanza.» Il ragazzino alzò lo sguardo e Talitha per un istante smise il broncio. Aveva occhi come non ne aveva mai visti. Tutti i Femtiti avevano grandi occhi a mandorla, color oro, ma questi erano diversi. L’oro dell’iride era purissimo, splendente. Che bello se avessi occhi così… si sorprese a pensare. Poi si ricordò che quello era uno schiavo, e rimise il broncio. «E tu chi sei?» disse. «Mi chiamo Saiph e sono il vostro attendente.» Talitha lo squadrò da capo a piedi. «Io non voglio un attendente» disse secca. Il ragazzino rimase immobile, le mani lungo i fianchi, lo sguardo basso.

Talitha attraversò la stanza e si gettò sul letto, a pancia all’aria. «Dovrei condurvi nel salone per il pranzo» disse Saiph. «Vacci tu, io non ho fame.» Saiph tacque qualche secondo. «Sono certo che qualcuno si arrabbierà, se non andremo a mangiare» insistette. «Si arrabbino, che m’importa.» Tacquero ancora, Talitha sdraiata su un fianco, verso la finestra. Poi, dopo un po’, sentì un fruscio lieve. Curiosa, si girò appena. Saiph si era seduto al centro della stanza, le gambe incrociate, le mani appoggiate ai piedi. La guardava. «Puoi fissarmi fino a domani, tanto non mi muovo.» «Come volete» disse Saiph. Resistettero mezz’ora. Poi Talitha sentì un nuovo fruscio, e il rumore della porta che si apriva e si chiudeva delicatamente. Non riusciva a crederci. Per un po’ rimase immobile, quasi senza respirare. Poi si tirò su e si guardò intorno. Non c’era. Se n’era proprio andato. Talitha rise, saltellando sul letto, finché cadde supina. Non l’aveva mai vinta: che si trattasse di alzarsi dal letto, coricarsi la sera, mangiare o assistere a quelle stupide lezioni tutto il giorno, non riusciva mai a fare quel che voleva. Ma stavolta aveva vinto lei, su tutta la linea. Ed era una sensazione nuova e bella. Fissò il soffitto con un mezzo sorriso. Conosceva quell’affresco; Mira, nelle vesti di una splendida donna vestita di una semplice tunica bianca, che sconfiggeva Cetus, sotto le spoglie di un omuncolo deforme. Non le era mai piaciuto quel disegno, ma - come per un sacco di cose nella sua vita - non poteva farci molto. Poi, un rumore lieve. Talitha scattò di nuovo a sedere, giusto in tempo per vedere Saiph entrare, in mano un piatto coperto da un coprivivande di metallo. Il ragazzino arrossì all’istante. Chiuse la porta, si se-

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dette al centro della stanza, quindi scoprì il piatto: dentro c’era un pugno di riso accanto ad alcuni uccelli di mare in umido immersi in una salsa ambrata. Saiph inalò a fondo il profumo del piatto, poi, con un sottile mugolio di piacere, cominciò a mangiare con un cucchiaio di legno. Talitha era senza parole. Uno schiavo non poteva comportarsi così. Un Femtita non poteva mettersi a mangiare se il suo padrone aveva espressamente detto di non volerlo fare. «Scusatemi, mia signora, ma avevo troppa fame per aspettarvi.» Talitha era sconcertata. «I Femtiti non provano dolore. Come fai ad avere fame?» disse. «Avete detto bene» disse lui deglutendo. «Noi non proviamo dolore, ma sentiamo il caldo e il freddo, e patiamo anche la fame. Ne volete?» e allungò il piatto verso di lei. Talitha rimase immobile, i pugni stretti. Poi, un suono ruppe il silenzio. Il suo stomaco aveva emesso un brontolio. Avvampò di vergogna e allungò la mano verso il piatto. «Dovrei farti punire» disse a bocca piena. Finalmente Saiph osò alzare lo sguardo. La contessina mangiava a quattro ganasce. «Invece non lo dirò a mio padre.» «Vi ringrazio molto» disse Saiph chinando il capo. «E sai perché?» continuò Talitha. Saiph non riusciva proprio a immaginarlo. Talitha sorrise con cattiveria: «Perché sono buona. Sono una brava padroncina. E perché così mi sei in debito» aggiunse in un sussurro. «Come desiderate» disse Saiph mesto. Aveva l’impressione che non avrebbe rivisto le sue amate cucine per molto, molto tempo.

© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano “I Regni di Nashira” e il relativo logo sono un marchio registrato dalla Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.


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