DIR. EDITORIALE
ART DIRECTOR
EDITOR
GRAFICO
UFF. TECNICO
REDAZIONE
4 MM DI ABBONDANZ A PER L A PIEGA
4 M M D I A B B O N DA N Z A P E R L A P I EGA
LX I AIO BUO PREMIO NOBEL PER LA PACE 2010
Liu Xiaobo, critico letterario e scrittore, è stato docente universitario. Nel 2010 ha vinto il premio Nobel per la pace per il suo impegno a difesa dei diritti umani. Nel 2009 è stato condannato a undici anni di carcere per aver partecipato alla stesura di Carta 08, manifesto che chiede l’introduzione di riforme democratiche in Cina.
LIU XIAOBO MONOLOGHI DEL GIORNO DEL GIUDIZIO
l’oppressione del governo sulla società civile, è nel progressivo diffondersi di questi movimenti «dal basso» che Liu Xiaobo ripone le sue speranze – o meglio le sue certezze – di un futuro democratico anche per la Cina.
UN PESANTE ATTO D’ACCUSA E UN PROFONDO GESTO D’AMORE DI UN GRANDE INTELLETTUALE CINESE NEI CONFRONTI DEL PROPRIO PAESE
MONOLOGHI DEL GIORNO DEL GIUDIZIO
ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO GRAPHIC DESIGNER: CRISTINA BA ZZONI
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Prefazione di Federico Rampini
In sovraccoperta: Ritratto di Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace 2010, proiettato sulla facciata del Grand Hotel di Oslo Foto © Olycom
20,00
PANTONE XXX C
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CARTA: Patinata Lucida - Garda Gloss - gr 130 - PROFILO DI STAMPA: COATED FROGA39
Nel 2009 la Corte popolare di Pechino ha processato e condannato alcuni intellettuali e giornalisti per aver partecipato alla stesura e alla diffusione di Carta 08, un manifesto civile volto a promuovere importanti riforme politiche e a sostenere la causa della difesa dei diritti umani. Un anno dopo l’ispiratore e primo firmatario del documento, Liu Xiaobo, è stato insignito del premio Nobel per la pace, ma non ha potuto ritirarlo perché rinchiuso in prigione, dove dovrà rimanere per altri dieci anni. Il suo nome e l’immagine della sedia vuota nella sala della premiazione di Oslo hanno fatto il giro del mondo. Sfidando ancora una volta la censura di Pechino, in questa raccolta di saggi e poesie Liu Xiaobo ci offre un vasto e sconvolgente spaccato della Cina di oggi. I cittadini del paese che ambisce al ruolo di prima potenza economica mondiale vengono descritti, infatti, come cinici, ossessionati dal successo economico e personale, o come fanatici nazionalisti, coraggiosi nell’aggredire verbalmente i dissidenti e codardi nel difendere le vittime dei soprusi commessi dai funzionari statali. Nelle sue pagine si svela il bluff di un benessere frutto di un mero incremento del prodotto interno lordo e causa di palesi disuguaglianze, e si smaschera un regime che ottiene la complicità della gente grazie alla retorica dell’amore per la patria e alla forza «persuasoria» del denaro. Eppure, nonostante l’attuale vittoria delle forze illiberali, agli occhi di Liu Xiaobo sono evidenti le crepe che faranno implodere il sistema autoritario cinese. Ovunque nel paese stanno crescendo la disillusione giovanile, lo scollamento tra realtà concreta e ideologia politica, la rabbia contro la prepotenza dei burocrati. Sempre più persone denunciano le ingiustizie subite e lottano per i propri diritti, mentre l’inarrestabile diffusione di Internet si sta rivelando un decisivo fattore di aggregazione su grandi temi di interesse comune. Malgrado la ridotta libertà d’espressione e
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Peculiarità della politica cinese
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Panorama spirituale dell’epoca post-totalitaria
La caratteristica più rilevante dell’epoca post-totalitaria è che, anche durante una crisi di legittimità, chi è al potere vuole preservare a tutti i costi il dispotismo, in un momento in cui invece la sua efficacia politica diminuisce di giorno in giorno. La gente, infatti, non dà più credibilità al sistema dispotico e a poco a poco emerge e si espande spontaneamente una società civile che, pur essendo ancora incapace di trasformare subito il sistema esistente, è sempre più pluralista sul piano economico e morale, e sta erodendo la rigida centralizzazione politica in modo costante, come una goccia che scava la roccia. In particolare, a livello spirituale, la Cina post-totalitaria è entrata nell’era del «cinismo»: non si crede più in nulla, parole e azioni si smentiscono a vicenda, si dice ciò che non si pensa. Gli uomini (inclusi gli alti funzionari e i membri del partito) non credono più nelle cantilene di chi governa e hanno sostituito la lealtà e la fiducia con la totale dedizione al profitto. Imprecare in privato, lamentarsi, prendere in giro e ridicolizzare «il grande, l’onorevole e il giusto»1 e i suoi cortigiani sono diventati gli argomenti preferiti per farsi quattro risate tra amici, ma, nelle occasioni ufficiali, la difesa degli interessi acquisiti e la forza della coercizione fanno sì che la stragrande maggioranza delle persone voglia ancora cantare le lodi e conquistare la benevolenza dei potenti con i toni del «Renmin Ribao» (Giornale del popolo). Usare mille parole per ingraziarsi pubblicamente qualcuno, pronunciate a una velocità che ricorda l’insultarsi in privato, sembra essere diventato l’atteggiamento abituale dei cinesi.
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Tra i giovani e i meno giovani che hanno raggiunto il successo all’interno del sistema è comparso un «fenomeno da militanti clandestini»: nelle occasioni ufficiali ripetono a pappagallo un copione, giacché non possono assolutamente perdere alcuna opportunità di avanzamento di carriera, ma nei banchetti privati la musica cambia, e così ti dicono: «Anche se io sono al potere e tu all’opposizione, in realtà le nostre opinioni sono in fondo identiche, sono diversi solo i modi di esprimerle: tu urli da fuori, io mino il sistema dall’interno…». Possono raccontarti informazioni riservate e analizzare le tendenze della situazione politica, descriverti ogni singola caratteristica specifica di chi prende le decisioni al livello più alto, indicarti la persona che ha le maggiori probabilità di diventare il Chiang Ching-kuo2 della Repubblica popolare cinese. Possono persino uscirsene con espressioni stupefacenti come «strategie per un’evoluzione politica pacifica».3 Ritengono che la forza motrice più potente di questo processo sia costituita da gruppi illuminati interni al sistema, formalmente sottomessi a un sovrano ma in realtà leali a un altro, e che quanto più le loro cariche sono importanti e la maschera che indossano per camuffarsi realistica, tanto maggiore sarà il successo delle loro azioni all’interno, compiute in collaborazione con forze che attaccano dall’esterno. La loro argomentazione unanime è la seguente: le persone che all’interno del sistema hanno idee proprie sono parecchie e i loro passi avanti verso la riforma politica sono molto più lunghi di quelli di chi fa opposizione dall’esterno. Ogni volta che chiacchiero con loro, trovo che abbiano la tenacia di Gorbaciov nel sopportare il peso dell’umiliazione pur di portare a termine un compito importante, nonché una sufficiente intelligenza politica. Tuttavia, forse perché da bambino ho visto troppi film rivoluzionari, spesso me li immagino come spie dalle mille risorse infiltrate nel campo nemico. Questo fenomeno non è assolutamente limitato ai funzionari, ma è presente ovunque, nel mondo dell’informazione, dell’istruzione, della cultura e dell’economia. Gli amici che, dopo i fatti di Tian’anmen, si sono arricchiti buttandosi negli affari mi invitano periodicamente ai loro sontuosi banchetti, durante i quali si fanno vanto di grandi cose e, con solenni giuramenti,
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spiegano che guadagnare con imprese private non è qualcosa di fine a se stesso, ma serve a ottenere grandi risultati in futuro. Ed enumerano tutti i significati sociali dell’ingresso nel libero mercato: 1) la partecipazione in prima persona ai processi di privatizzazione e di mercatizzazione fornisce il fondamentale supporto economico alla futura democratizzazione politica; 2) l’accumulazione di risorse economiche consente di aiutare gli amici in difficoltà e di far tornare nell’arena politica le opposizioni attualmente fuori dal sistema (adorano ripetere: non si può fare la rivoluzione senza soldi, per avere successo bisogna guadagnare bene, creare una solida base economica); 3) infine, cosa più importante di tutte a loro avviso, la rivoluzione dei ricchi sarà senz’altro quella meno costosa, perché il mercato ha insegnato loro a calcolare accuratamente costi e profitti, e non potrebbero assolutamente condurre una rivoluzione dagli alti costi e dai bassi profitti. Se i ricchi scendono in politica, è bassissima la probabilità di una rivoluzione violenta, mentre è altissima quella di un’evoluzione pacifica e graduale del sistema. Perciò non guardano con favore, ma neppure disprezzano, le teorie delle «Tre rappresentanze»4 e dei «Nuovi tre princìpi del popolo».5 La ragione è che queste teorie sono in generale migliori della teoria della rivoluzione di Mao Zedong, e soprattutto dei Quattro princìpi fondamentali,6 anzi c’è chi ritiene che costituiscano il primo passo verso l’umanizzazione del regime comunista e che sono buone, così come ricoprire una parola d’ordine dura con la veste sentimentale della cultura popolare è sempre meglio che usare slogan al vetriolo. L’aspetto più triste del processo di corruzione di così tanti giovani è che questo cinico modello di vita sta permeando un’intera generazione. Le purghe successive ai fatti di Tian’anmen hanno espulso dal Partito comunista cinese (pcc) molte persone, e ancor più ne sono uscite di propria iniziativa, mentre il numero di coloro che intendevano entrarvi si è gradualmente ridotto. Dopo una decina d’anni di amnesia forzata e di seduzione da parte del denaro, il numero dei giovani che chiedono di iscriversi è lentamente risalito. Per dimostrare la forza di attrazione del
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partito nei confronti delle nuove generazioni, ogni anno in occasione dell’anniversario della fondazione del pcc l’attuale regime fa pubblicare dagli uffici di propaganda notizie sul netto incremento del numero di domande di iscrizione tra i giovani, in particolare tra gli studenti. In base a quanto riferito dalla televisione di Stato, tale numero ha raggiunto il 60 per cento del totale degli studenti. Questo dato, guarda caso, corrisponde a quello di un sondaggio diffuso dai media, secondo il quale la percentuale dei giovani che sostengono il partito ha toccato il 65 per cento. Riguardo ai motivi per cui ci si iscrive e si sostiene il partito, i giornalisti enfatizzano il passaggio dall’idealismo al realismo: non si parla né di obiettivi del pcc, né di ambiziose ideologie comuniste e men che meno di spirito di lotta, ma, dopo lunghe perifrasi, vengono sottolineati i grandi risultati raggiunti dal partito, a partire da «il popolo cinese si è alzato in piedi», prima frase del discorso di proclamazione della Repubblica popolare cinese pronunciato da Mao il 1° ottobre 1949, e da «il popolo cinese si è arricchito», sotto la leadership di Deng, fino alle ultime parole d’ordine delle Tre rappresentanze e dei Nuovi tre princìpi del popolo. Una propaganda di questo genere si fonda sull’idea di comunicare alle masse che la politica di Riforma e apertura adottata dal pcc ha conseguito il notevole risultato di aumentare il potere della Cina, incrementare il prestigio nazionale e arricchire i cittadini, ed è per questo che ha sempre più presa sugli studenti. La gente potrebbe nutrire dubbi rispetto ai dati pubblicati dal governo, dubbi che, però, probabilmente in gran parte si dileguano se si ha una qualche conoscenza dei giovani d’oggi. Per la generazione post 4 giugno,7 impregnata di pragmatismo e benessere, le cose veramente importanti non hanno nulla a che vedere con le idee profonde, con la nobiltà della dignità umana, con la lucidità politica, con valori che vanno al di là del risultato concreto. I giovani adottano un atteggiamento pragmatico e opportunista riguardo alla vita: i loro obiettivi fondamentali sono centrati sulla carriera, sulla ricchezza, sui viaggi all’estero, e i loro interessi sono seguire la moda, spendere tanto ed essere cool come le star, drogati di sesso e videogiochi online. Questo perché il piccolo ambiente familiare e il grande
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ambiente sociale li hanno immersi, prima ancora che avessero una vita indipendente, in un mondo contaminato dall’ideologia del privilegio e dalla ricerca del puro profitto. Dal punto di vista del contesto sociale, l’indottrinamento del partito ha mutilato la storia, creando un vuoto nella memoria delle giovani generazioni. Benché i cinesi, dopo la presa del potere da parte dei comunisti, abbiano sperimentato calamità inimmaginabili, le nuove generazioni non ne portano alcun ricordo scolpito nel cuore. Non sanno nulla delle repressioni istituzionali, delle leggi marziali, hanno solo l’esperienza diretta del «mettere i soldi al di sopra di tutto», del «se hai potere hai soldi», sono indotti da coloro che li circondano a «fare le cose con le buone o con le cattive», e ai loro occhi le persone di successo sono quelle che si sono arricchite in un sol giorno e ogni genere di pop star. Per questo mostrano una profonda intolleranza verso le narrazioni delle miserie della storia e degli aspetti bui del presente, e ritengono che non ci sia la minima necessità di parlare sempre di Movimento contro la destra (1957), del Grande balzo in avanti (1958), della Rivoluzione culturale (1966-1976), dei fatti di Tian’anmen (1989), né di mettersi sempre a criticare il governo e a denunciare i lati bui della società. Sono in grado di dimostrare i grandi progressi della Cina con la loro vita agiata e tutto il materiale fornito dal governo… Eroi nei confronti dei paesi stranieri e codardi nel proprio, sono del tutto privi di coscienza morale. Nel contesto familiare i giovani d’oggi sono in gran parte figli unici, per cui sono il centro della famiglia e vengono comunemente chiamati «piccoli imperatori». Sin da bambini godono di una vita in cui ci sono solo loro, non conoscono la preoccupazione di procurarsi cibo e vestiti, non hanno sperimentato le difficoltà affrontate dai poveri e dalle generazioni dei loro padri. Hanno coltivato, quindi, la mentalità egocentrica per la quale «è tutto mio» e mancano di sentimenti di empatia nei confronti degli altri. A maggior ragione, una volta superato l’esame di ammissione all’università, diventano i pupilli di casa e rappresentano l’orgoglio dei genitori. Così, viziati dalla famiglia e immersi in un egocentrismo assoluto, sono indotti dalla società a rivaleggiare in ricchezze e onori, e a godersi la vita praticando
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uno shopping selvaggio. La maggior parte dei ragazzi di campagna, ammessi all’università con i voti migliori, sono interessati non a trovare un modo per aiutare i contadini a cambiare un destino di discriminazione e uscire dalla povertà, ma solo a diventare uomini di successo, a occupare buone posizioni, così da scrollarsi definitivamente di dosso il loro destino di contadini. E va da sé che la maggior parte degli studenti che vengono dalla campagna la pensino così. In anni recenti, in Cina il fanatismo nazionalista tra la gente comune ha addirittura superato quello del governo. Anzi, si può dire che il nazionalismo sia l’unica passione sociale dei giovani d’oggi. In particolare, i sentimenti anti-America, antiGiappone e anti-indipendentismo di Taiwan sono diventati lo spazio dove le giovani generazioni esprimono il loro interesse per la nazione, oltre che forme di odio etnico. Episodi come la collisione tra due veicoli sino-americani,8 la compravendita di prestazioni sessuali a Zhu Hai,9 il cosiddetto «incidente di umiliazione cinese»,10 l’omaggio del primo ministro giapponese Junichiro Koizumi al santuario Yasukuni in onore dei soldati nipponici caduti in Cina durante la guerra di resistenza, il caso della cinese Zhao Yan picchiata per un equivoco dalla polizia americana, e le varie partite giocate dalla nazionale di calcio cinese contro quella giapponese nella Coppa delle nazioni asiatiche hanno suscitato una crescente ondata d’indignazione pubblica nei giovani patrioti, che hanno fatto di queste vicende un vero e proprio dramma. Le espressioni patriottiche sul web sono diventate sempre più esacerbate e violente, sono comparse durissime dichiarazioni di condanna e la fiera affermazione di essere pronti a dare la vita per la patria. Ma neppure il rinvigorimento di questi sentimenti patriottici tra i giovani può porre un freno al loro opportunistico stile di vita, e non mi riferisco al generale silenzio sulle atrocità del governo, ma all’inerzia della maggior parte di loro di fronte a veri e propri atti di violenza. La narcosi dell’empatia e la mancanza di senso di giustizia sono diventate un’epidemia sociale: nessuno si cura delle persone anziane che si sentono male per strada, nessuno aiuta donne e bambini che in campagna mettono un piede in fallo e cadono in acqua. Criminali comuni com-
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piono atti di violenza e stupri su mezzi di trasporto pubblici pieni di giovani, senza che nessuno abbia il coraggio di muovere un dito. Teppistelli trascinano per chilometri due ragazzine in giro per le strade della città, e la gente intorno guarda la scena senza offrire aiuto. Notizie come queste, che fanno accapponare la pelle, sono frequenti sui media cinesi, e compaiono persino in appositi programmi trasmessi dalla televisione di Stato. Il nazionalismo delle nuove generazioni cinesi è questo: essere eroi a parole contro i paesi stranieri e codardi nei fatti in patria. La studentessa cinese che rivolse domande molto patriottiche e di sentimenti nient’affatto amichevoli a Bill Clinton in una conferenza tenuta qualche tempo fa all’Università di Pechino, dopo la laurea ha sposato un americano. Questo racconto un po’ romanzato è naturalmente diventato una notizia che ha tenuto banco per un certo periodo. La cosa che più fa riflettere è che, rispetto a questa contraddizione tra parole a azioni, non c’è stata alcuna sofferenza a livello psicologico o una qualche autoanalisi. In tanti si sono messi a insultare la ragazza, salvo poi, con ancor maggiore naturalezza, andare a studiare negli Stati Uniti. Questi giovani sono pieni d’indignazione quando lanciano le loro offese, ma follemente felici quando salgono su un volo diretto a Boston. Qualche giorno fa ho visto sul web un post firmato da un certo «leonphoenix»11 che esordiva così: «Mi piacciono i prodotti, i kolossal, la libertà degli Stati Uniti, invidio il loro benessere e la loro forza, ma passo la maggior parte del tempo a urlare, insieme a molti altri, “Abbasso gli yankee!”. È l’inevitabile, istintiva reazione di chi appartiene a gruppi piccoli e deboli». Questo «netizen» ha raccontato in forma anonima la vera essenza del «patriottismo» cinico. Non sorprende che alcuni professori universitari di orientamento liberale dichiarino che, durante tutti gli anni Novanta, tra gli studenti la dottrina ideologica ha ottenuto grandissimi risultati. Con lo stesso cinismo i giovani trattano la questione dell’ingresso nel partito. Il numero di studenti che ne hanno fatto richiesta sarà anche molto aumentato in questi ultimi anni, ma incontrarne uno solo che creda davvero nel comunismo è una rarità, tanto quanto trovare un solo giovane di questa generazione che abbia il coraggio di dire no alla brutalità del siste-
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ma e agli atti di violenza che accadono accanto a lui. Non so se la studentessa che si è sposata con un americano sia iscritta al pcc. Se non lo fosse, i suoi comportamenti non basterebbero a farla diventare un prototipo dello stile di vita di questi giovani; se lo fosse, allora il suo modo di comportarsi durante gli anni di studio e quello dopo la laurea rappresenterebbero il paradigma dell’atteggiamento dei giovani cinesi verso la vita: sviluppare in modo sfrenato e abnorme la logica dell’homo œconomicus, ovverosia vivere in modo da cercare di massimizzare i profitti individuali. Detto in termini gentili, si tratta del risveglio della logica del profitto individuale o, in termini meno gentili, questa generazione pensa solo al tornaconto personale. I giovani si impegnano per entrare nel partito, ma non credono nel comunismo; sono imbevuti di patriottismo anti-usa, ma indulgono a ogni moda importata dagli Stati Uniti, e, cosa più strana di tutte, non ritengono assolutamente di doversi preoccupare che, così facendo, si autocontraddicono, e ancor meno avvertono una qualche remora morale, anzi si sentono bene, credono che qualunque loro scelta sia geniale se ne ricavano un profitto. È tra gli studenti universitari restii a seguire la corrente che si registra il più alto numero di persone che lottano energicamente per entrare nel partito, ma a muoverli non è un ideale in cui credono, bensì sono le ambizioni personali. Perché nella Cina governata dal pcc, qualunque cosa tu faccia dopo gli studi, devi cercare in tutti i modi di avere successo, e a tale scopo essere iscritti al partito è meglio che non esserlo. Diversi sondaggi sulle scelte lavorative degli studenti hanno dimostrato che l’occupazione da loro preferita è quella di funzionari negli uffici governativi o di partito. Le motivazioni che li inducono a entrare nel partito non sono assolutamente stereotipate, ma sono basate su argomenti convincenti ed estremamente pragmatici. Durante una discussione uno studente universitario mi disse, livido di rabbia: «In Cina, se vuoi ottenere qualcosa devi entrare nel partito, solo così avrai l’opportunità di fare carriera, di avere un gran potere nelle mani, e solo se hai potere puoi fare qualcosa. Cosa c’è di male nell’entrare nel partito? Cosa c’è di
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sbagliato nell’arricchirsi o nel fare carriera? Se sei riuscito a ottenere una vita dignitosa per te e la tua famiglia, allora sarai in grado di dare alla società un contributo maggiore di quello che può dare una persona qualsiasi». Il modo di vivere del pcc assomiglia a quello di questi giovani. Apparentemente costoro hanno ben poco in comune con la predica dell’ideologia comunista, ma se hai qualche familiarità con i protagonisti della storia dell’ascesa al potere dei comunisti, ti accorgi, al primo sguardo, che il modo di vivere «lottando per il potere, conquistando il potere, esercitando il potere e preservandolo» ha un’identità sostanziale e intrinseca con quello degli studenti. Si tratta delle opportunistiche parole d’ordine «il profitto prima di tutto» e «il fine giustifica ogni mezzo». Perciò, «nascondere le proprie capacità», «aspettare un’occasione migliore», «umiliarsi pur di realizzare il proprio sogno», «adulare chi può darti qualcosa», «diventare qualcuno richiede di non avere scrupoli» e altre simili perle di saggezza sono diventati gli emblemi del loro comportamento. Inoltre, questa saggezza del vivere in modo cinico, senza nessun limite morale che trascenda l’esperienza, pervade tutta la storia millenaria. Non c’è nulla di nuovo. Il tramonto degli ideali comunisti della cosiddetta «era maoista» nell’epoca della pragmatica teoria di Deng, secondo la quale «non importa se il gatto è rosso o nero, basta che acchiappi il topo», è considerato uno dei principali elementi di diversità tra i due periodi, ma in realtà le strategie di sopravvivenza di Mao e il suo modo di comportarsi ruotavano intorno a lotte di potere, e anche quando gli ideali resistevano, e c’era un certo grado di moralità e giustizia, parole altisonanti quali «liberare il mondo intero» non hanno trattenuto Mao dal perseguitare e uccidere con ogni mezzo, e addirittura dal minacciare di sacrificare un terzo dell’umanità per un mondo tutto rosso. In altre parole, sia che si tratti di studenti che si prodigano per entrare nel partito o di intellettuali famosi, di funzionari dell’apparato statale o di imprenditori, quasi nessuno di loro sostiene moralmente le istituzioni esistenti, ma i loro comportamenti reali favoriscono di fatto la stabilizzazione del sistema attuale.
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Liu Xiaobo, critico letterario e scrittore, è stato docente universitario. Nel 2010 ha vinto il premio Nobel per la pace per il suo impegno a difesa dei diritti umani. Nel 2009 è stato condannato a undici anni di carcere per aver partecipato alla stesura di Carta 08, manifesto che chiede l’introduzione di riforme democratiche in Cina.
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