Somos mujeres, construyendo otros mundos

Page 1

S O M O S M U J E R E S

Construyendo otros mundos MUJER

CIHUATL

MUJERANTS

CUNHANTÃ

MUJER

IXOJKUÑA

EMAKUMEA

MUJER

ZOMO IXOJ WARMI JIN ZOMO

MUJER IXOJ IMRA’A

MUJER

ANTS MUJER

CIHUATL

WARMI

MUJER

IXOJ

MUNADILA IMRA’A WARMI

IXOJ IMRA’A

EMAKUMEA

MUJERIMRA’A CIHUATL IMRA’A CUNHANTÃ MUJER IXOJ MUJER

EMAKUMEA

IMRA’A

IMRA’A

ZOMO

MUJER

IXOJ

EMAKUMEA

IXOJ

MUJER

CIHUATL

IMRA’A

IXOJ

WARMI

WARMI

IMRA’A IXOJ MUNADILA

IXOJ

ZOMO IMRA’A

CUNHANTÃ

WARMI CUNHANTÃ

MUNADILA

MUJER

JIN

EMAKUMEA MUNADILA

IMRA’A

MUNADILA WARMI

IXOJANTS

WARMI

CIHUATL

CUNHANTÃ

CUNHANTÃ

MUNADILA

CUNHANTÃ CUNHANTÃ

MUNADILA

WARMI

JIN

IMRA’A

MUNADILA

CUNHANTÃ

WARMI

ZOMO

WARMI KUÑA JIN

MUJER

IXOJ

IMRA’A ZOMO

CUNHANTÃ

CIHUATL

WARMI

MUNADILA KUÑA

WARMI

IMRA’A

IMRA’A JIN ZOMO ANTS ZOMO JIN

ANTS

MUNADILA

ANTS

MUNADILA

CIHUATLWARMI IXOJ

ZOMO

CIHUATL

CUNHANTÃ

WARMI

MUJER

ANTS

IXOJ

MUJER

IMRA’A

MUJER JIN IXOJ ZOMO

MUJER

CIHUATL

WARMI

ANTS ZOMO JIN IXOJ MUNADILA WARMI

CIHUATL

ZOMO

WARMI IMRA’A

MUJER

ZOMO MUNADILA

KUÑA

KUÑA

JIN ANTS MUJER

ANTS MUJER

CUNHANTÃ EMAKUMEA MUJER

KUÑA

CUNHANTÃ

MUJER

MUJER

KUÑA

IXOJ

MUNADILA

WARMI

IMRA’A

CIHUATL

IXOJ

ZOMO IMRA’A WARMI MUNADILA

EMAKUMEA

IMRA’A

MUJER

KUÑA

MUJER

ZOMO

ANTS

IMRA’A

CIHUATL ZOMO JIN EMAKUMEA IXOJ CUNHANTÃ ANTS WARMI KUÑA MUNADILA

JIN ANTS

MUJER

ANTS

IMRA’A

ANTS

KUÑA

ZOMO KUÑA JIN IXOJ

WARMI

JIN

CIHUATL MUNADILA KUÑA

ANTS

IMRA’A

IMRA’A

MUJER

JIN

IXOJ

EMAKUMEA

EMAKUMEA

KUÑA CUNHANTÃ

CUNHANTÃ

ZOMO JIN KUÑA

IXOJ ZOMO

IXOJ

WARMIMUNADILA JIN

MUJER IXOJ

ANTSIXOJ

WARMI

CUNHANTÃ

IMRA’A

ZOMO

EMAKUMEA CIHUATL ANTS

ANTS

CIHUATL



Somos Mujeres Construyendo otros mundos

Dedicato a Berta, Estela, Francesca, Juana, Julia, LĂ­, Lolita, Lorena, Maria, Marielle, Nora e a mille altre donne in cammino.

Settembre 2019, stampato in proprio. Coordinamento opuscolo Maria Teresa Messidoro Grafica Viola Hajagos


PREMESSA

L’idea di questo opuscolo nasce al termine del seminario di 5 giorni che si è svolto con Raúl Zibechi, a fine giugno di quest’anno, sulle colline di Bagno a Ripoli (FI). Un seminario incentrato sulla situazione attuale dell’America Latina, con particolare attenzione ai nuovi soggetti storici delle lotte antisistemiche ed antipatriarcali. Nella giornata dedicata al ruolo delle donne, alcune delle partecipanti hanno condiviso con tutto il gruppo, a partire dalla propria esperienza diretta ed indiretta, alcune situazioni esistenti oggi nel continente latinoamericano e non solo, di cui le donne sono protagoniste. Abbiamo dunque pensato di raccoglierle in un testo, mantenendo volutamente stili ed approcci differenti, perché questa è la bellezza e la ricchezza delle esperienze al femminile e femministe che oggi noi viviamo e rivendichiamo. Pola Ferrari ci immerge immediatamente nella realtà latinoamericana, portandoci in Argentina ed Uruguay, dove il dolore si è trasformato in grido; Patrizia Peinetti ci accompagna nel cammino delle carovane migranti, che diventa uno spazio altro di potere trasformatore; Maria Teresa Messidoro ci avvicina al mondo del femminismo comunitario in Guatemala, da Lorena Cabral a Lolita Chávez; in un’intervista, Sandra Carpi racconta delle poco note esperienze di matriarcato oggi esistenti al mondo. Completano l’opuscolo uno scritto di Karla Lara, femminista, cantautrice e insurrecta, come lei stessa si definisce, per raccontarci di questi 41 mesi senza Berta, un manifesto che ci aggiorna impietoso sul numero di femminicidi nei diversi stati latinoamericani nel primo semestre 2019, ed una breve ma incisiva canzone sarda sulla Madre Terra (l’esperienza sarda di soprusi e di lotte ci ha accompagnato, grazie a Salvatore Panu, per tutto il seminario di giugno).


Dal Chiapas una istantanea del secondo incontro delle Reti di Resistenza e Rebeldiìa di appoggio all’EZLN, in cui è nata la rete di donne La Caracola. Infine, a conclusione del testo, proponiamo l’elenco di come si traduce la parola “mujer” in differenti lingue, proprie di popoli che in America Latina come in altre parti del mondo lottano per la propria determinazione. E’ la lista di nomi che ha dato origine alla copertina: se siete un gruppo di donne e state condividendo collettivamente la lettura di questo opuscolo, provate a leggerla tutte insieme, ad alte voce, magari anche abbracciandovi. Sarà una esperienza potente, che vi darà più forza e più voglia di lottare, sapendo che niente è invincibile, nemmeno il patriarcato.


Trasformare il dolore in grido Di Pola Ferrari. “Sono donne, si stancheranno, ritorneranno a casa a piangere, lasciale camminare...” Questo dicevano delle Madri de Plaza de Mayo in Argentina, quando in piena dittatura militare incominciarono a percorrere la piazza centrale di Buenos Aires. Anni più tardi, Estela Carlotto ammette: “Ci lasciarono camminare. Il loro machismo li ingannò. La forza della donna è tremenda, A volte mi chiedo quali madri hanno avuto per poter pensare che eravamo deboli. Si sbagliarono di grosso”*. Sono Pola Ferrari, donna, femminista e madre. Sono nata in Uruguay nella decade della dittatura latinoamericana. Anni di silenzi, di uniformi militari, di assenze. Nell’aprile del 1977 quattordici donne si insediarono di fronte alla Casa Rosada (la casa del Governo dell’Argentina) sfidando il potere. Alcune “matte”, alcune “madri” incominciarono a camminare per reclamare i propri figli desaparecidos, conoscere chi fu responsabile di questi crimini ed ottenere il loro processo. Tutte donne, donne sole, donne attraversate dal tremendo dolore di aver perso i propri figli, le proprie figlie, con i propri affetti nelle mani del terrorismo di stato. “Gli uomini avevano paura che noi fossimo protagoniste, però contemporaneamente erano gelosi del nostro passare dalla vita privata a quella pubblica. Mio marito inizialmente si irritava, fino a quando non si abituò. Ha dovuto abituarsi. Le Madri erano le protagoniste di questa storia. Loro, gli uomini, erano l’appoggio” ** Nora Cortiñas riconosce il ruolo da protagonista delle donne madri nella lotta contro l’autoritarismo, nella lotta per sapere la verità, per condannare i colpevoli.


Alerta Feminista, Montevideo, novembre 2017. Foto Colectivo Catalejo.

“Oggi i fazzoletti bianchi sono simbolo di dignità e di lotta. Sono un faro per il movimento popolare. L’esempio delle Madri di Plaza de Mayo è servito come riferimento per altre donne, per altre donne vittime di tratta o del grilletto facile, in lungo e in largo dell’America Latina. Per altre donne lottatrici. “A partire dal dolore qui siamo una volta e ci saremo mille volte, fino a quando non saremo libere. Nessuna aggressione senza risposta. Nessuna morta in più, nessuna donna in meno”: questo si legge in coro nell’ultima mobilitazione per denunciare un nuovo femminidio in Uruguay nel giugno del 2019. La Coordinadora de Feminismos de Uruguay è riuscita ad organizzare il dolore privato in lotta collettiva. Ha ottenuto che ciascuna delle partecipanti alle manifestazioni si relazioni orizzontalmente con le altre donne leggendo in maniera collettiva il documento finale dell’evento. Nessuna aggressione senza risposta. Tutte le volte in cui ammazzano una donna, usciamo in strada, per denunciare ciò che è successo, per reclamare giustizia, per trasformare il nostro dolore in lotta. Camminando per le strade, dando visibilità alla violenza ed ai crimini del potere patriarcale, noi ci fondiamo nel momento finale della marcia in un unico grande “abbraccio conchiglia”, che esorcizza le paure, unisce i nostri corpi e ci fa sentire forti.


Il movimento delle donne in America Latina si mostra forte e imponente. E’ una marea che occupa le strade, le piazze, i parchi. Le lotte per l’aborto, contro il modello produttivo, in difesa della vita, dell’acqua, della terra, la battaglia permanente per decolonizzare i nostri corpi ed il nostro pensiero e per rivendicare vita non si fanno aspettare. Perchè i nostri corpi esattamente come nell’epoca della colonia continuano ad essere territori di battaglia e di conquista. Sono passati cinque secoli. Adesso la sfida è creare. Creare nuovi spazi di relazioni non coloniali, di relazioni non patriarcali, spazi di libertà. Mettere in discussione tutto, le pratiche patriarcali, il linguaggio, il nostro modo di fare. Mettere in discussione il patriarcato, mettere in discussione il capitalismo. Le compagne zapatiste ci mostrano un cammino. Perchè non c’è libertà nel patriarcato, nè per le donne come per gli uomini. Perchè non c’è patriarcato senza capitalismo. Li dove siamo dobbiamo seminare semi ribelli che distruggano la monocoltura e possano germogliare molteplici frutti doversi. Collaudare l’autonomia delle nostre vite. Recupoerare i nostri saperi, le nostre lingue, i nostri cereali. Sunie è una parola in lingua Gurmukhi che potremmo tradurre come ascolto profondo. Sviluppando l’ascolto e proteggendo i nostri spazi potremo incominciare a costruire veri spazi di emancipazione. *Intervista di Victoria Ginzberg a Estela Carlotto, Taty Almeida y Nora Cortiñas, Pagina 12, 26/3/2018 **Idem


La “Caravana mesoamericana de Madres en busqueda de sus familiares desaparecidos” come spazio altro dal potere trasformatore. Di Patrizia Peinetti In Messico c’è un cammino di morte che parte dal rio Suchiate al confine col Guatemala ed arriva al confine con gli Stati Uniti. E’ un cammino che segue la ferrovia, sopra un treno, denominato la Bestia, dove i migranti salgono per sfuggire alla miseria e alle violenze delle bande criminali dei narcotrafficanti le maras. Lasciano la loro terra, i loro cari in Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua alla ricerca del sogno americano. Salgono sul tetto coi loro bambini, le mogli; alle intemperie, senza cibo e acqua. Non possono addormentarsi perché rischiano di cadere. A questi pericoli si aggiungono gli assalti dei narcotrafficanti o delle forze dell’ordine che li rapiscono per poi chiedere un riscatto alle famiglie; molte ragazze finiscono nella tratta e in questo calvario molti scompaiono. I migranti sono diventati merce per arricchirsi : in pochi anni il Messico si è trasformato in un ossario fosforescente, come ha scritto Sergio González Rodríguez. Sono migliaia i migranti morti o “desaparecidos” negli ultimi 10 anni, centinaia le fosse comuni. I muri non sono riusciti a trattenere questo esodo biblico, e nulla ha potuto trattenere le madri che con ostinazione cercano i loro figli scomparsi. Da 14 anni con la collaborazione del Movimiento Migrante Mesoamericano organizzano la “Caravana mesoamericana de Madres en busqueda de sus familiares desaparecidos” Sono madri povere, molte non hanno studiato, arrivano da luoghi remoti dei paesi centroamericani, hanno già familiari scomparsi durante i conflitti armati ed ora una nuova violenza si abbatte su di loro Attraversano il Messico con le foto dei figli, le espongono nelle piazze, nelle carceri, li cercano nelle “cantinas”, luoghi di prostituzione, nelle piantagioni.


Di Patrizia Peinetti

Sfilano paese per paese con striscioni gridando, “Las madres otra vez”. Si formano capannelli, si trovano piste di ricerca, la gente collabora, molti hanno un parente scomparso e ben capiscono il loro dolore. Per venire alla Carovana hanno lasciato a casa i mariti spesso violenti che non volevano che partissero, come non vogliono che continuino a piangere o parlino dei figli. Cercando i figli scoprono di avere dei diritti e trovano la forza di separarsi da un rapporto malsano. In 14 anni di Carovana hanno trovato 300 figli vivi. Ogni incontro si trasforma in un rito collettivo, le madri pettinano quella fortunata, le tingono le unghie, la circondano di tenerezza e insieme attorniano la coppia che si abbraccia cantando una canzone. E poi tutte insieme li avvolgono in un abbraccio comune. La Carovana è uno spazio per loro, possono piangere, ma c’è sempre chi grida “No estas sola” quandoquando ciò accade, le altre donne presenti l’accarezzano e l’abbracciano. È uno spazio catartico e di trasformazione; imparano a lottare, a resistere, a non mollare: “Hijo escucha tu madre está en la lucha“ (figlio ascolta tua madre è nella lotta). Quando tornano a casa non sono più le stesse. Il viaggio alla ricerca del figlio si trasforma nella costruzione di uno spazio altro, quello che spesso noi stessi sogniamo, di speranza, di resistenza al male, di cura reciproca, di umanità profonda che contagia anche gli altri partecipanti, un insegnamento per tutti noi. E sono le donne a costruirlo.


Dall’altro lato dell’oceano, in Italia parte ogni anno un’altra Carovana, non di madri, ma di persone che percorrono tutta l’Italia alla ricerca di qualcosa di altro rispetto alla politica. Dei luoghi di violenza e di lotte e resistenze, di buone pratiche nei confronti dei migranti e di costruzione di umanità. Si chiama CarovaneMigranti, un plurale che segna il cammino parallelo con la Carovana delle Madri Mesoamericane, che ha deciso di portare nel bacino Mediterraneo la loro voce. In questi anni ha costruito una rete di relazioni, di spazi comuni, di lotte condivise; ha percorso fisicamente il territorio per vederlo. Riace e Sutera con i loro bei progetti, Brescia e la Terra dei fuochi per i reati ambientali, le terre del caporalato e dello sfruttamento, da Saluzzo a Rosarno, da Nardò a Canelli. Lo scorso anno si è spostata in Tunisia per unire la ricerca dei figli scomparsi delle madri tunisine a quella delle madri centroamericane, per ascoltare la narrazione dell’altro, e se anche lo Stato italiano e tunisino non ascolta il loro grido di dolore “Fn auledna” (dove sono i nostri figli), ci sono altri esseri umani che lo fanno ed altre madri che possono capirle e lottare con loro.

Madri di continenti diversi che non si capiscono hanno pianto insieme, si sono abbracciate e forse riusciremo a portarle in Messico alla prossima Carovana. Anche per loro in famiglia non c’è spazio per la tristezza e l’ascolto e anche loro si sono trasformate dopo la Carovana spagnola (Caravana Abriendo Fronteras) a cui hanno partecipato quest’anno.


Queste Carovane europee pur avendo al loro interno non solo donne hanno comunque una modalità femminile di conoscenza, che coinvolge non solo la mente, ma anche gli occhi, il cuore, le emozioni. Questo tipo di conoscenza, teorizzato dalle donne indigene Nasa, è molto più completo e coinvolgente di quello tradizionale, crea comunità empatiche in resistenza, i risultati sono sorprendenti, il coinvolgimento emotivo fa si che chi partecipa ad una Carovana difficilmente abbandoni il gruppo e la lotta. La comunità si allarga e non può fare a meno di nessuno. In spazi di morte, e nei vuoti prodotti dagli Stati si costruiscono piccole isole di altri mondi, si semina vita e umanità. La Carovana è diventata lo strumento principale di questo percorso, è un sentiero non lineare che a volte prende deviazioni non previste, di cui spesso non si conosce la meta ma la si trova a posteriori. E’ la vita a guidarla nei suoi sentieri nascosti. Questo stesso scritto è il frutto di questo cammino.


Femminismo comunitario in Guatemala Di Maria Teresa Messidoro “Nominare è riconoscere, ed il conoscere è lottare”

Così si esprime Lorena Cabral, femminista comunitaria guatemalteca, o meglio della terra di Iximulev, il nome del Guatemala in lingua xinca. Lorena, a quindici anni fugge dal proprio villaggio, dove ha subito una dolorosa violenza in famiglia; in città si laurea in psicologia e decide quindi di ritornare a casa, dove, dopo un processo di iniziazione, grazie alla saggia abuela Mama Toya, scopre il femminismo comunitario (vedere in Francesca Gargallo Celentani, Feminismos desde Abya Yala, ideas y proposiciones de las mujeres de 607 pueblos en nuestra america, Città del Messico 2014, pagg 158-161, sono pagine poetiche, bellissime).

E attraverso Mama Toya, Lorena recupera la lingua xinca, ponendosi in contatto con le ayajili kajpugili, le donne guida spirituali del suo popolo. Ma non c’è pace per Lorena: nel 2006, il Consejo de los Ancianos del suo villaggio l’accusano di essere indottrinata dalle donne bianche e le chiedono, come pegno di fedeltà alla proprie tradizioni di avere un secondo figlio, perché uno è troppo poco. Lorena non accetta e scappa via per la seconda volta, questa volta con la figlia. Da questo momento, nonostante sia lontana da casa e dagli affetti, approfondisce sempre di più l’esperienza del femminismo comunitario, che vive in prima persona.


I cinque assi portanti del femminismo comunitario sono il corpo, lo spazio, il tempo, l’organizzazione e la memoria; tutto ruota intorno al territorio, territorio corpo e territorio terra. Il territorio corpo è un territorio con memoria corporale e memoria storica, pertanto “il primo luogo da enunciare, il luogo che deve essere sanato, emancipato, liberato, il luogo necessario per rivendicare e recuperare l’allegria” (Francesca Gargallo, ibidem, pag 153) Se il territorio corpo è al centro del femminismo comunitario, ciò significa che la prima azione da compiere è mettere in discussione il sistema patriarcale, neoliberista e coloniale oggi esistente, ma riconoscendo che, seppure in forme diverse, anche l’antica struttura sociale indigena non era esente dal patriarcato. Occorre dunque decolonizzare i femminismi, non fossilizzarsi sulle rivendicazioni per l’uguaglianza di genere, ma combattere prima di tutto la concezione patriarcale che permea tutta la società. Il secondo elemento è il territorio terra, la propria terra in cui è nati, in cui si vive, in cui ci si sente in sintonia con l’aria, l’acqua, gli altri esseri naturali, la terra stessa. “Il nostro territorio non è una cosa, né un insieme di cose utilizzabili e sfruttabili, non è nemmeno un insieme di risorse: il nostro territorio, con le sue montagne, le sue selve, i suoi fiumi e la sua umidità, con i suoi luoghi sacri dove vivono i nahuales nostri precursori, con le sue terre nere, rosse e arenose, è un ente vivo che ci dà la vita, ci fornisce aria ed acqua, ci cura, ci fornisce alimentazione e salute, ci offre conoscenze ed energie; ci dà anche una storia, un passato, un presente ed un futuro; ci dà identità e cultura, autonomia e libertà. Quindi, insieme al territorio esiste la vita ed insieme alla vita c’è la dignità; insieme al territorio c’è la nostra autodeterminazione come popolo” (Jesus González Pazos e Mugarik Gabe, Transnacionales, oligarquía y criminalización de la protesta social. El caso Guatemala, Euskal Herria 2017, pag.13)

Diventa quindi automatico essere in prima fila contro le devastazioni e il saccheggio perpetrato dalle multinazionali, come defensoras e sanadoras.


Pagando un prezzo alto, molto alto: dati ufficiali dicono che nel periodo 2012-2017 sono state compiute 300 azioni repressive, dalle minacce di morte alle violenze, contro donne schieratesi apertamente nella lotta in difesa del territorio terra. Due esempi emblematici per tutte: Maria Choc Choc e Lolita Chávez. Guardando una delle poche fotografie pubbliche di Maria Coc Choc, si riconosce il tipico traje (vestito) della sua etnia guatemalteca, con il huipil ricamato a mano chissà da quali sapienti mani femminili della sua famiglia. Maria ha lo sguardo fiero, non appartiene agli indigeni ed indigene che temono gli “invasori” bianchi, quasi sempre maschi, portatori di violenza e distruzione nel suo paese dall’eterna primavera, il bellissimo Guatemala. Come riporta un pignolo articolo di cronaca locale, alle 13,33 di mercoledì 17 gennaio 2018, Maria Magdalena Cuc Choc, maya q’eqchi e riconosciuta defensora della terra è stata arrestata da una pattuglia della Policia Nacional Civil (PNC) di Puerto Barrios, capitale della regione di Izabal, in Guatemala, mentre usciva dal Tribunale di Giustizia dopo aver compiuto il suo lavoro di traduttrice dall’ idioma q’eqchi allo spagnolo durante una udienza pubblica di un processo. Maria Cuc Choc è stata accusata con altri appartenenti alla comunità indigena Chabil’ Ch’och’ di usurpazione aggravata, minacce e detenzione illegale dai rappresentanti della Società LISBAL, proprietaria dell’azienda Isabel a Livingston, Izabal. In realtà è la Società LISBAL colpevole di aver estromesso violentemente dalla propria terra centinaia di famiglie indigene che lì vivevano pacificamente da secoli.


Perché proprio Maria è stata arrestata in questo modo? Perché, madre di quattro figli, maestra elementare, traduttrice ufficiale presso le aule giudiziarie, ha una storia personale di “ribellione” alla sopraffazione ed ai soprusi: come sua sorella Angelixa tradizionalmente è una delle riconosciute difensore del territorio, è stata moglie del professore Adolfo Ich Chamán, autorità comunitaria assassinata nel 2009 su ordine della Compañía Guatemalteca de Níquel CGN. Maria aveva anche accompagnato il caso delle undici donne violate da forze di sicurezza dello Stato guatemalteco, durante lo sgombero realizzato dall’industria CGN – HUDBAY MINERALS INC. Y HMI NICKEL nel 2011; è lunga la lista delle sue coraggiose prese di posizione pubbliche contro i nuovi usurpatori della madre terra e delle sue apparizioni a fianco di giornalisti, autorità comunitarie e donne continuamente denunciate e minacciate da industrie ed esercito. Non appena saputo del suo arresto, la Red de Sanadoras ancestrales del feminismo comunitario territorial ha emesso un comunicato in cui si dichiara che la cattura di Maria dimostra una volta di più che i diritti umani per le popolazioni indigene esistono solo sulla carta, mentre il neoliberismo dilagante crea parallelamente delle leggi che attaccano di fatto il concetto della difesa del territorio corpo terra. Fortunatamente, Maria viene scarcerata, dopo aver pagato una cauzione di circa 700 dollari; le sue prime parole sono state “ Nessuno può farmi star zitta, nessun articolo della Costituzione ci riuscirà” Anche nella storia di Aura Lolita Chávez Ixcaquic, portavoce del Consiglio delle Popolazioni Ki’che (Cpk), si riflette la realtà di numerose leader indigene che ogni anno vengono assassinate e perseguitate per il loro impegno politico. La vita di Lolita Chávez è dedicata alla lotta per il suo popolo e questo ha significato affrontare nel tempo una crescente minaccia alla sua incolumità fisica. In sei occasioni ha subito attentati destinati a ucciderla, è scampata alle pallottole quando hanno sparato al suo mezzo di trasporto o all’attacco della sua delegazione con machete, coltelli e bastoni.


TZK´AT​- RED DE SANADORAS ANCESTRALES DEL FEMINISMO COMUNITARIO TERRITORIAL DESDE IXIMULEW-GUATEMALA

IXIMULEW KAB´LAJUJ IX Guatemala, 18 de enero 2018

Tzk´at Red de Sanadoras Ancestrales del Feminismo Comunitario desde Iximulew- Guatemala con la energía vital de las ancestras que convocan la defensa de los cuerpos este día en el calendario maya, Ix energia da Jaguara, de las mujeres que caminan con mujeres, de las sanadoras, de las que convocan la liberación de las mujeres con la palabra, con sus saberes y su clarividencia, las que tejen con su energía de selva y sabidurías la Red de la Vida. Este día nos pronunciamos, porque acuerpamos a la hermana defensora de la vida Maria Cuc Choc capturada por fuerzas del estado de Guatemala en contubernio con empresas depredadoras, el dia de ayer 17 de enero de 2018. Para la Red de Sanadoras Ancestrales la captura de María muestra una vez más que el reconocimiento de la vida, sus derechos humanos e indígenas en papel, se neoliberalizan porque se da paralelamente a la creación de leyes que atacan el corazón de la defensa del territorio cuerpo tierra. La lógica colonial del estado y su democracia es incoherente porque; como es posible decir o pensar que se vive bajo un estado de Derecho mientras se violentan y traumatizan comunidades enteras, a sus niñas y niños al criminalizar y judicializar a Defensoras ancestrales de los pueblos, ríos, montañas y autonomía alimentaria? La captura de María busca la paralización de la búsqueda de justicia y la defensa de la vida que el pueblo Q´eqchi´ del Estor Izabal ha sostenido de manera contundente ante las problemáticas mineras y de hidroeléctricas. Maria ha luchado incansablemente por su comunidad por Guatemala y por la humanidad. Como traductora del idioma Maya Q´eqchi´ al castellano colonial, ha puesto sus saberes lingüísticos al servicio comunitario y en defensa de la vida. Demandamos su libertad inmediata. Condenamos esta persecución patriarcal racista capitalista y neoliberal depredadora porque !Vivas y libres nos queremos! LIKI TUYUHAKI NA ALTEPET KWERPO NARU !RECUPERACIÓN Y DEFENSA DE TERRITORIO C ​ UERPO​-T ​ IERRA!


Rappresentante del «Consiglio dei Popoli Ki’ches, in difesa della vita, della natura, della madre terra e del territorio», Lolita è uno dei volti noti dell’organo di autogoverno che le comunità del millenario popolo Maya Ki’che si sono date per frenare lo sfruttamento del territorio da parte di diverse imprese multinazionali. Lolita ha ottenuto la protezione della Commissione Interamericana dei diritti umani e attualmente vive in Europa, in un luogo nascosto, per sfuggire alle continue minacce di morte che riceve ogni giorno. In una intervista rilasciata poco tempo fa al quotidiano Il Manifesto, Lolita sostiene che “La cosmovisione Maya Ki’che è anti-neoliberale, anti-capitalista, anti-razzista e anti-patriarcale. Come ci hanno insegnato gli antenati, parliamo di cosmoscimiento: la conoscenza è legata alla vita, non solo quella umana ma quella dell’universo. Non c’è nessuna esistenza che valga più di un’altra, il micro si relaziona con il macro, ogni elemento è legato a tutti gli altri. Quando parliamo di territorio, per esempio, noi non difendiamo la madre terra solo in quanto tale, ma anche per la sua storia. La mia cosmovisione è vincolata con la storia, la memoria, il sangue e il ventre, che si intrecciano tra il presente, il passato e il futuro. È una cosmovisione molto profonda, che però non è compatibile con i modelli di sviluppo che dominano il mondo, come il modello capitalista, perché per noi le relazioni non si basano sul denaro ma sulla vita, nel senso che ciascuno esiste in quanto vive, non in base a quanto denaro ha”.


Ecco come descrive cos’è per lei il femminismo comunitario: “Crediamo che ci sia bisogno di lottare contro il patriarcato, perché abbiamo vissuto la violenza e la tortura applicate ai popoli originari e anche ai nostri corpi, quindi diciamo che il nostro corpo è il nostro primo territorio da difendere. Però, allo stesso tempo, non possiamo rimanere ancorate solamente al corpo o all’individualismo e non possiamo rimanere zitte davanti all’avanzare del modello estrattivista. Perché in quel caso sarebbe un tradimento a un popolo millenario che durante la sua storia ha sempre lottato per l’esistenza di tutti gli esseri viventi. È molto importante lottare contro le multiple oppressioni. Per esempio, i femminismi separatisti generano molte divisioni e molta debolezza nei territori, dove noi invece dobbiamo generare la forza collettiva che si costruisce necessariamente in comunità. E la comunità si costruisce con la partecipazione dei bambini, delle bambine, degli uomini, delle donne, degli anziani e delle anziane” (vedi Il Manifesto «Estrattivismo e repressione, la lotta indigena è globale» Gianpaolo Contestabile e Susanna de Guio 10.08.19)

di

Se vogliamo che il femminismo comunitario continui ad essere uno strumento di affermazione politica dell’emancipazione etnica di molte donne, come forma di trasgressione e rebeldia sociale, noi abbiamo il compito di non tacere ed essere al fianco di Lorena, Maria, Lolita, perché non ci sia un’altra Berta.


Honduras. Tornando sul Río Blanco, 41 mesi senza giustizia, abbiamo incontrato la Berta che si moltitplica. Di Karla Lara, femminista, cantante, insurrecta.

Porto il verde dipingendo i ricordi, siamo stati due giorni nelle montagne di Intibucá fino a La Tejera sul Río Blanco e poi fino a Culatón e la Vega del Achotal. Una si ferma perchè non riesce a camminare al passo delle compagne che dirigono la camminata, abbiamo impiegato il doppio del tempo rispetto a loro per arrivare a destinazione, però siamo arrivate e ad ogni fermata per prendere aria, si respira davvero la montagna, agitata una, tranquilla l’altra, verdi di tutte le tonalità immaginabili, un immenso orizzonte verde, come la speranza di Berta che si è moltiplicata 41 mesi dopo la sua assenza. Berta nelle parole e nelle azioni decise dalla gente, nella chiarezza politica che le lotte si fanno con i corpi che affinano le idee dell’appartenenza, della memoria ancestrale, delle cose che si devono ricordare e quelle che ci tocca disimparare. Lì tra cani smilzi e maiali ciccioni, galline che covano, gatti cacciatori e anatre docili, chi cerca di convivere con loro, torna a sentire che la vita trascende l’essere umano, che ci sono altri esseri che respirano. Liberamente tradotto dall’articolo del 2 agosto 2019 di Karla Lara sul sito web del Copinh https://copinh.org/2019/08/volver-a-rio-blanco/


Il fiume ruggisce o canta, gli uccellini portano allegria, le nubi si oscurano nell’augurio che la pioggia faccia crescere il mais là dove le multinazionali hanno distrutto la piantagione comunitaria delle terre recuperate; la montagna silenziosa assume il ruolo di resistere all’uomo bianco o all’indigeno colonizzato che l’ha monetizzata. Tutto ciò che lì vive parla, racconta di lei, delle orme che ha lasciato nella storia del popolo Lenca, segnala un prima e un dopo Berta: Berta continua a vivere ora, ora che il COPINH è Berta e che Berta continua ad essere il COPINH.

A la Tejera la antenna costruita artigianalmente della radio comunitaria “La Voz del Gualcarque” suona canzoni che non vengono trasmesse nelle radio commerciali e le persone ascoltano le loro stesse voci strappando e recuperando il rispetto, perché nelle radio razziste gli indios sono sinonimo di bruti, le donne di puttane e lesbiche, unici termini usati dal patriarcato per definire chi appartiene alle popolazioni originarie. Nella loro radio che attraversa le montagne, le indigene lenca come le leader Rosalina e María Santos raccontano alla gente come procede la lotta, denunciano le aggressioni, cospirano, parlano del silenzio che non tornerà ad essere il loro, come quello degli antenati saggi e generosi come Lucío o Felipe con la loro voce calma e posata, di un tempo passato e di un ricordo di oggi.


Tutto ritorna ad essere possibile tornando dalla camminata verso il Río Blanco ed essendosi bagnata nelle acque sacre del Río Gualcarque, forse perché si torna a sentire come sentivi quando c’era ancora Berta, con fretta, a tarda notte, con l’urgenza con cui ci invitava ad accompagnarla, come sempre, anche quando elegante e bella, ritirò l’ultimo premio ricevuto, il Goldman, “non c’è più tempo”, e vorrei davvero che il tempo ce la restituisse. Che potesse riapparire e che lei stessa ci possa spiegare, ma sarà il ricordo a farlo, che contnua intatto tra i suoi fratelli e sorelle del COPINH, la sua famiglia allargata che siamo il popolo, che continuiamo lottando perché sia fatta giustizia. Cantiamo per lei, scriviamo il suo nome, disegniamo il suo volto, l’abbiamo colorata nell’incontro con Melissa Cardoza che racconta la sua storia, la leggiamo nel libro di Claudia Korol, la pensiamo quando Victor Fernández narra la causa e il processo giudiziario, la torniamo a sentire quando vediamo Rosalina, così diversa nella fragilità della sua figura, che ci dice che fu Berta a insegnarle a spaventare la paura. Porto il verde nei ricordi, il verde del río a cui ci ha fatte arrivare Bertita, il fiume che scorre, il río che canta, il río che continua a chiamarci, a 41 mesi da quando ci hai lasciati e iniziamo a capire che il tempo, la forma, la distanza hanno dimensioni che anche tu ci stai insegnando a percepire, anche se ancora non le capiamo.

Berta Càceres Honduras 3 marzo 2016. All’alba, Berta Càceres, leader indigena è assassinata nella sua abitazione di La Esperanza. Per anni ha ricevuto costanti persecuzioni e minacce per la sua instancabile attività di contrasto ai progetti di sfruttamento ed estrazione nei territori ancestrali indigeni. Berta era militante e attivista del Copinh (Consiglio civico popolare degli indigeni dell’Honduras), un movimento centrato sulla dignità umana, su una visione di giustizia sociale ed economica antipatriarcale, anticapitalista, antiperialista e antirazzista e sul rispetto dell’ambiente. Un movimento scomodo e continuamente criminalizzato. Accusato dal governo di sabotaggio e terrorismo. Minacciato dagli squadroni della morte al soldo delle compagnie private per scoraggiare il dissenso. Dai paramilitari e da Los Tigres, corpo alle dirette dipendenze dello Stato e finanziato dagli USA.


Raccolta di dati sui femminicidi nel primo semestre 2019 in America Latina.


Intervista a Sandra Carpi D. Una tua breve presentazione R. Mi chiamo Sandra Capri e dai tempi dell’università mi sono interessata a un’alternativa valida a questo nostro modo di vivere. Nel 2004 ho partecipato a Bologna a un convegno sulla cultura della Dea (http://www.armoniedonnebologna.it/convegni/dopo-la-dea/), organizzato dall’associazione Armonie, che divulgava le teorie di Marija Gimbutas e soprattutto apriva lo scenario della Spiritualità femminile allora quasi assente nel nostro paese. Lì ho conosciuto due socie di Armonie, Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocchi, che per diverse esperienze si interessavano a questi temi e abbiamo cominciato ad approfondire. Appena un anno dopo, nel 2005, sempre a Bologna Vicki Noble presentava il suo libro La Dea Doppia (ed. Venexia) in occasione del convegno Libri di Donne, libri di Dee http://www.armoniedonnebologna.it/convegni/libri-di-donne-libri-di-dee/ e apriva la nostra ricerca sulle culture matriarcali. Nello stesso anno ho partecipato al 2nd World Congress Matriarchal Studies http://www.second-congress-matriarchal-studies.com/ dove ho conosciuto varie studiose e ricercatrici. In seguito le abbiamo contattate e abbiamo organizzato a Bologna nel 2009, 2011 e 2014 tre convegni per diffondere gli Studi matriarcali moderni e la conoscenza delle società incentrate sulla donna, ancora esistenti in varie parti del mondo. D. Quali sono secondo te le caratteristiche comuni alle esperienze delle società matriarcali esistenti oggi ? R. Si tratta di società che ancora hanno al centro le madri e le figlie/i figli, quindi matrilinearità (il nome dei figli è quello del clan delle madri), matrifocalità (si abita con le madri) e gestione materna delle proprietà comuni che viene passata alla figlia o nipote che le succede come matriarca. Si tratta di società pacifiche, dove non esiste lo stupro e la violenza contro donne e bambini, dove questi ultimi vivono protetti dal clan materno e non sono soggetti a minacce esterne né a quel disagio destabilizzante costituito dalla tensione dei divorzi così problematici nelle nostre società.


Il legame di sangue passa attraverso la famiglia della madre per femmine e maschi e il padre biologico ha i suoi parenti nel suo clan di origine. In pratica conta solo la paternità sociale condivisa, che salvaguarda l’equivalenza tra i generi secondo il principio della cura/rispetto per le/i figli e le/gli anziani. L’economia è principalmente un’economia del dono che sancisce la maggior importanza della relazione e della collaborazione tra i membri della società, piuttosto che quella del denaro. L’accumulo di ricchezze perciò è considerato pericoloso e vengono messi in atto diversi e frequenti meccanismi di ridistribuzione che evidenziano la grande consapevolezza che queste società hanno della nefasta influenza sociale del potere e del dominio. Allo stesso modo, le decisioni politiche si prendono attraverso il consenso, partendo dalla più piccola unità sociale (il clan) per arrivare a territori anche molto vasti (regioni) con diverse tappe di confronto intermedi. Gli uomini fungono da ambasciatori tra i gruppi che si riuniscono per trovare un consenso e non possono prendere decisioni. Solo le donne eventualmente possono farlo quando la situazione incontra uno stallo davvero spropositato. D. Una sintetica mappa delle società matriarcali esistenti oggi R. È doverosa una premessa: le società matriarcali ancora esistenti lo sono proporzionalmente al loro isolamento, nel senso che meno hanno suscitato l’interesse dei colonizzatori patriarcali, occidentali e non, (soprattutto lo sfruttamento di persone, risorse e territori) e più sono riuscite a preservare la loro organizzazione sociale e la loro cultura. I Moso dello Yunnan cinese sono l’esempio più “integro” di una società matriarcale di una certa consistenza, anche se purtroppo si stanno contaminando sempre più velocemente. Poi i Bemba e i Lapula delle foreste dell’Africa centrale, gli indiani Cuna “isolati” al largo di Panamá e gli abitanti delle Isole Trobriand della Melanesia sono in pericolo. I Minangkabau di Sumatra, circa 4 milioni di persone, invece rappresentano un importante esempio di permanenze matriarcali che sono riuscite ad attenuare gli effetti dell’islamizzazione prima e dei colonizzatori occidentali poi, preservando i valori di cura, le cerimonie in onore dei cicli della natura e la venerazione di antenate mitiche divinizzate.


D. Descrivi una di queste società matriarcali R. La società a forte permanenza matriarcale interessante è quella delle donne della città di Juchitán, in Messico. Anche se non si può definire propriamente “integra” dal punto di vista matriarcale, è una società che grazie alla solidarietà e alla sapienza delle donne ha saputo arginare la minaccia economica di un patriarcato sempre più aggressivo. Di fronte allo sconvolgimento degli effetti del mercato che varie aziende e multinazionali hanno portato all’economia locale, le donne di Juchitán hanno potenziato la loro posizione-guida nella famiglia e nella società, fornendo un’alternativa economica in grado di contrastare un inevitabile sfruttamento del lavoro indigeno. Si sono organizzate per creare un’economia dove la divisione del lavoro venisse rispettata: pur producendo soprattutto cibo: oltre alle donne coltivatrici molte donne si occupano di trasformare gli alimenti, e altre della loro conservazione. Molte le donne impegnate nei commerci, che vendono i prodotti delle altre perché le juchiteche nascono come venditrici al mercato, potendosi spostarsi liberamente per lo status di cui godevano. In questo modo sono riuscite a dare importanza e centralità al lavoro della casalinga che da noi è totalmente nascosto, se non disprezzato, e hanno mantenuto il ruolo di guida che avevano sempre ricoperto nel condurre la loro società. I loro uomini, grati per la sussistenza messa a disposizione che permette loro di non svendersi nel lavoro retribuito, consegnano alle donne i loro ricavi e lasciano nelle loro mani la gestione economica. La città di Juchitán inoltre è famosa per i suoi festival, volti al mantenimento dell’uguaglianza sociale (è segno di onore distribuire ai meno fortunati il surplus) e la città è diventata ultimamente meta di molte transessuali per il carattere dei suoi abitanti, aperto verso le diversità e festoso nei confronti della vita. Anche se anche li la morsa del patriarcato diventa sempre più inesorabile, rimane comunque un bell’esempio delle variegate soluzioni che società coese e libere dall’imposizione di ruoli femminili e maschili possono mettere in atto.


Donne trobriandesi durante la locale festa dell’igname sfilano con i tuberi raccolti.

Bibliografia. Goettner-Abendroth Heide, Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo (2013), Ed. Venexia. L’autrice dal 1986 studia le culture e le società matriarcali. Il sito della sua scuola è https://www.hagia.de. Lì potete trovare diversi testi tradotti in italiano. Rosati Freeman Francesca, Benvenuti nel paese delle donne (2010), XL Edizioni. Ha prodotto con Pio d’Emilia anche il documentario “Nu Guo. In nome della madre” (2014). Sito web: http://www.francescarosatifreeman.com/ita/lib.html.

Vaughan Geneviève, Per-donare. Una critica femminista dello scambio (2005), Meltemi; Le radici materne dell’economia del dono (2017), Wanda. Sito web dell’Economia del dono http://economiadeldono.org/. Quelli elencati sono alcuni dei testi base riguardo il matriarcato. La bibliografia è in continuo aggiornamento, dato che si avvale soprattutto di studi femministi e indigeni in pubblicazione, per lo più in lingua inglese. Potete leggere vari documenti delle maggiori studiose mondali tradotti sui seguenti siti: Le Matriarcali: https://lematriarcali.wordpress.com/, Armonie: http://www.armoniedonnebologna.it


Sono la caracola A Guadalupe Tepeyac nasce “La Caracola”, Rete di Ribellione e Resistenza Antipatriarcale e Anticoloniale.

Di Viola Hajagos A Guadalupe Tepeyac (Municipio Autónomo Rebelde Zapatista San Pedro de Michoacán) durante il 2° incontro delle Reti di Resistenza e Rebeldía, dal 26 al 30 de dicembre 2018, le donne presenti si sono organizzate per dare una forma alle preoccupazioni, alle proposte e alle esigenze emerse nelle discussioni collettive in questo spazio politico. Sono state giornate intense di scambi, confronti ed ascolto. Tre giorni insieme a centinaia di persone provenienti dalle varie Reti di Appoggio all’EZLN internazionali e messicane. Collettivi e reti miste che da anni o da tempi recenti hanno camminato ispirandosi e sostenendo il progetto zapatista uscito allo scoperto nel 1994. Un 35esimo anniversario del Levantamiento Zapatista in cui la crisi, l’emergenza, l’attacco alle comunità è ancora attuale nonostante il cambio di governo. Treni, gasdotti, grandi opere, depredazione di terre, disboscamento, colonizzazione manu militari incombono quotidianamente sulle comunità zapatiste come in tutto il Messico. Durante la plenaria, prima degli interventi de@ mediator@ dei 5 tavoli è salita una delegazione di compagne. Un momento emozionante e forte in cui un silenzio intenso accoglieva queste parole dure e forti quanto le esigenze delle donne che cercano nella rebeldìa un altro mondo e che si ritrovano nelle dinamiche patriarcali nella società, nel lavoro, in famiglia, nel tempo libero, così come negli spazi di lotta. Una lettera letta coralmente, passandosi il microfono di mano in mano. Le compagne hanno parlato a nome di tutte e sulla pelle si sentiva che sì, partendo dalla nostra presenza nel territorio liberato in cui i e le compas zapatist@ ci hanno accolt@, ascoltat@ per giorni e dato cibo, riparo e amore, anche noi dobbiamo esporci e lottare a partire da dentro, di fianco e insieme a chi si ribella con noi, senza paura di denunciare e sottolineare le contraddizioni di ogni luogo in cui camminiamo e ci esprimiamo.


Traduzione della lettera aperta della Rete “La Caracola”, 30/12/2018, Guadalupe Tepeyac “Ci rivolgiamo a tutt@ le/i/u ribelli qui presenti, alle compagne e compagni dell’EZLN, al CNI e al CIG, alle reti di appoggio, alle/agli aderenti a La Sexta*, a tutte e tutti i collettivi e individui qui presenti e alle/ai ribelli in qualsiasi parte del mondo. Siamo qui presenti in nome di tutte le assenti private della vita, in questa lettera aperta invochiamo la forza delle Comandantas e ripartiamo dall’accordo preso durante il primo incontro internazionale di donne in lotta, e l’accordo è vivere, perché ci stanno ammazzando. Siamo donne e identità dissidenti appartenenti ai 5 tavoli organizzati di fronte ad un’emergenza. Denunciamo e ripudiamo la violenza patriarcale sistematica percepita e invisibilizzata negli spazi all’interno dell’incontro e nelle sfere politiche delle sinistre ribelli. Consideriamo urgente la reale trasversalità della lotta antipatriarcale in tutti i nostri spazi di costruzione e decostruzione della nostra pratica politica. Consideriamo il patriarcato un sistema di dominazione, di depredazione, di devastazione, di privazione, di morte che dà origine al sistema capitalista, su cui si fonda la falsa supremazia dell’uomo sulla natura, sulla donna, sulle dissidenze e sull’infanzia. È una struttura che attraversa tutti gli aspetti della vita pubblica e privata e che affligge le nostre relazioni personali e politiche.


Non possiamo continuare a dirci anticapitalist@ senza un reale posizionamento antipatriarcale. Denunciamo la mancanza di pratiche antipatriarcali sia sul piano politico, sia su quello personale. Denunciamo l’invisibilizzazione e il silenziamento delle nostre parole, del nostro sentire, delle nostre lotte ed esigenze. […] È responsabilità delle persone che appartengono alle Reti di Appoggio, ai collettivi e individui che siamo stati convocat@ a questo incontro […] soprattutto per la nostra condizione privilegiata di esserci format@ in istituzioni pubbliche o private o in spazi politici di pensiero critico che sono stati sostenuti grazie allo sfruttamento di tutt@ gli e le oppress@ e in particolare dalla tripla oppressione della donna intesa come riproduttiva, domestica e lavorativa; è quindi un nostro obbligo abbandonare il nostro privilegio per smantellare il sistema patriarcale. Per cui esigiamo un impegno politico a tutte le Reti di Appoggio di agire seguendo questo orientamento. Esigiamo l’estinzione della transfobia, della lesbofobia, della omofobia e di tutte le forme di disprezzo, repressione e oppressione verso qualsiasi espressione della diversità sessuale. […] Esigiamo muoverci per i luoghi che vogliamo, vivere nella forma che ci fa sentire vive e non sopravvissute, se la tua lotta è per la vita dovrai difendere la lotta delle donne, perché il nostro dolore e la nostra rabbia è un dolore che reclama vita. Non si tratta del fatto che tu sia d’accordo o meno con l’espressione del nostro dolore, ma che il dolore della vita ci attraversa in varie forme e si tratta di muoverti.


Sono la caracola, oggi sono venuta a rinascere nella selva, io mi chiamo con il nome di ogni donna e non c’è nome che verrà e non voglio dire che nacqui da la sexta*, ma sì, che le devo la vita allo stesso modo in cui la devo alle cadute per darmi un nome, per darmi la lotta e le non cadute per darmi forza, perché so che stare qui essendo chi sono è essere, allo stesso modo di lasciare indietro chi sono stata, perché un sistema mi attacca e non gli importa il mio nome e l’amore che possa generare, ma a me sì, importano i mie nomi, ciascuno di loro, con accenti, con silenzi e persino con errori di ortografia. E non riposerò fino a quando avrò dato una casa al mio corpo, fino a non aver pronunciato ciascuno dei miei nomi. Per tutte le morte per femminicidio Presenti! Per tutte le morte per aborto clandestino Presenti! Per tutte le vittime di transfobia, lesbofobia, e altre dissidenze Presenti! Per tutte le vittime di commercio e sfruttamento sessuale Presenti! Per tutte le vittime che lottano per il territorio e una vita dignitosa Presenti! Per tutte le vittime di violenza sessuale Presenti! Per tutte le vittime in situazione di migrazione Presenti! Per tutte le vittime della deportazione Presenti! Per tutte le prigioniere politiche Presenti! Per tutte le prigioniere desaparecidas Adesso e sempre, per tutte quelle che verranno, perché abbiamo deciso di vivere e esigiamo Ni una menos. Dalle montagne del Sudest Messicano, La Rete di Ribellione e Resistenza Antipatriarcale e Anticoloniale La Caracola. Mai più una lotta senza di noi.


WARMI

Quechua

CIHUATL

Nauhatl CUNHANTÃ donna resistente in Tupi Guarani IMRA’A

Palestinese

ZOMO

Mapuche

IXOJ

Ixil JIN

Kurdo Guaranì

KUÑA

Ysotsil e Tseltal Donna resistente Palestinese

ANTS MUNADILA


Canzone sarda alla donna amata, alla madre, alla Madre Terra Bedda, li me’ iltù So cunsacrati a te, la me’ matrona. No aggju altu più: Aggju lu cori e tu sei la patrona. La 'ita è in brazzi toi: Tu la cumandi e fanni lu chi voi. invincibile, nemmeno il patriarcato.

Bella, le mie virtù son consacrate a te, la mia matrona. Non ho nient'altro di più, ho il cuore e tu ne sei la padrona. La vita è nelle tue braccia, tu la comandi e fanne ciò che vuoi.


Beatriz Aurora, http://www.nemizapata.com/

LisangĂ , culture in movimento. 338.82.45.587

lisanga.cim@tiscali.it www.lisanga.org @lisangagiaveno



Le donne, secondo Raúl Zibechi, insieme ai popoli indigeni e agli afrodiscendenti, sono i soggetti principali delle attuali lotte antisistemiche e antipatriarcali in America Latina. Questo piccolo opuscolo vuole essere un contributo di Lisangà al percorso comune di donne e uomini per conoscere, comprendere e appropriarsi dei percorsi, strumenti ed obiettivi di alcune delle realtà al femminile e femministe oggi esistenti nel continente latinoamericano.

Lisangà culture in movimento è una associazione di volontariato della provincia di Torino, che da più di quindici anni lavora con l’America Latina, in particolare con El Salvador, dove sostiene la comunità rurale autogestita di San Francisco Echeverría.

S O M O S M U J E R E S


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.