Io mi chiamo Li'

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Io mi chiamo Li’ di Maria Teresa Messidoro

Storia di una donna Ixil del Guatemala


Foto di copertina Li’ To’m - 2019 In questo altare dedicato agli antenati ci sono i simboli della cosmovisione Ixil, i fiori rappresentano i punti cardinali: il rosso è l’alba, il nero o viola il tramonto, l’oscurità e il colore dei capelli il bianco l’aria, le ossa e la pace, il giallo i semi e il colore della pelle


Io mi chiamo Li’ dedicato a Lorena Cabral, Aura Cumes e Lolita Chavez, ma soprattutto a Li’, che mi ha incoraggiato a scrivere la sua storia

Stampato in proprio - Dicembre 2019 Grafica Viola Hajagos



Io mi chiamo Li’ To’m, nella vostra lingua Maria Toma. Ho trentun’anni e sono soltera (nubile), algo raro per il mio popolo. La mia terra è il Guatemala, dove regna sempre un’eterna primavera: nell’antica lingua nahuatl era chiamata Quauhtlemallan, cioò luogo di molti alberi. Io sono nata nella regione del Quichè e per questo parlo, oltre allo spagnolo, la lingua ixil.. Nella mia lingua, il “concetto” che esprime il Guatemala è Tx’ava’il ixi’m. La lingua che ci caratterizza, come dice il nostro fratello Ollantay Itzamná, è la forma in cui si esprime la nostra cultura. Una cultura che quella dominante ha cercato di sopprimere o di ridicolizzare: per noi, ad esempio, la comandrona è colei che ci aiuta a far nascere nuovi esseri umani. Per la cultura bianca, invece, comandrona è sinonimo di chismosa (pettegola), o alcahueta (ruffiana). Ma le nostre madri e nonne, che aiutano a venire al mondo non sono niente di ciò! Il patriarcato ha coniato questi termini per riferirsi alle medicine poco “moderne”, con l’intenzione di svilirle, di annullare le conoscenze differenti dalle proprie e ridicolizzare chi ne è portatore, o portatrice. Questa cultura dominante è, per noi, sinonimo di dominazione coloniale che si perpetua ancor oggi.

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Il mio popolo vive in questa regione, nella Sierra de los Cuchumatanes da duemilacinquecento anni, insieme ai popoli Mam e Q’anjob’al. Il nostro territorio è bellissimo, con le sue montagne che raggiungono i tremila metri di altezza ed una estesa biodiversità che amiamo e conserviamo con cura. Apparteniamo alla grande famiglia Maya, che insieme ai Xinca ed ai Garifuna caratterizza il nostro paese plurinacional. Le nostre comunità ixiles sono una testimonianza viva dell’identità e dei valori maya, anche se siamo ormai meno di duecentomila persone, colpite durante il conflitto armato interno guatemalteco da ben centotredici massacri, operazioni di tierra arrasada (terra bruciata) e un massiccio genocidio, perpetrato dallo stato e dalle forze armate. Un conflitto iniziato nei primi anni 60 del secolo scorso e terminato soltanto con gli Accordi di pace nel 1996. Io ho poco più di trent’anni vi dicevo, sono nata il 30 ottobre del 1988; la mia data di nascita è importante per determinare il mio nawal. Il mio nawal nel calendario maya è “IQ”, che significa vento, e luna. E’ il nawal dell’aria e della luna, dello spirito dell’essere umano. Il mio nawal allontana le energie negative e le malattie. E’ il vento che pulisce la nostra casa ed il nostro corpo. E’ il nawal delle persone che vanno e vengono da un luogo all’altro come il vento.

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I miei genitori si chiamano Domingo Toma Marroquín e Magdalena Toma Ramos. Mia mamma, che ha cinquant’anni e ha messo al mondo nove figli, ancor oggi sa utilizzare il telaio per tessere i huipil tradizionali della nostra etnia; fortunatamente anch’io so ancora farlo, intrecciando i fili per dare vita, nelle stoffe che creo, le conoscenze ed il pensiero della mia gente. Purtroppo le grandi ditte vengono a casa nostra, copiano i nostri disegni e poi li riproducono industrialmente, creando così quelli che noi chiamiamo i huipil sublimados: non sono più i nostri originali, senza il valore delle tradizioni tramandate da madre in figlia. In più le donne perdono il proprio lavoro, non riuscendo a competere con i loro prezzi e così la nostra economia familiare fracassa.

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Fin da piccola, nel mio piccolo paese, San Juan Cotzal, K’usal in ixil, vendevo come ambulante angurie, ananas, arance, mani salato o dolce; un giorno di lavoro mi rendeva 5 quetzales, mezzo dollaro per capirci. Ma dopo tre mesi presi la decisione di dialogare con la mia datrice di lavoro e le chiesi se poteva aumentarmi un poco la paga, perché quei soldi erano troppo pochi. E così iniziai a ricevere 10 quetzales ogni giorno. Noi utilizziamo ancora una moneta nazionale, che raffigura il nostro uccello sacro, il quetzal; una leggenda del mio paese racconta che il quetzal era solito cantare in modo armonioso prima della conquista spagnola: da allora è rimasto in silenzio e tornerà a cantare soltanto quando la nostra terra sarà veramente libera. Ed ora sicuramente non lo è. Siamo completamente inseriti in un modello che non ci rappresenta, in uno stato ancora nelle mani dei potenti capitali imprenditoriali, a braccetto con il potere militare ed il narcotraffico. Ed il “nuovo” presidente Alejandro Giammattei, che sostituisce l’ex comico Jimmy Morales, non è per niente nuovo per noi: avevamo riposto un pizzico di speranza nella Comisión Internacional Contra la Impunidad en Guatemala (CICIG) della ONU, per trovare finalmente giustizia per i trent’anni di un genocidio perpetrato contro di noi,

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ma sembra che Gianmattei ne confermerà la chiusura e la definitiva espulsione dal paese. D’altra parte, Gianmattei è stato eletto con poco meno di duemilioni di voti, mi hanno detto, ma noi siamo diciassette milioni, in stragrande maggioranza indigeni, e noi non ci possiamo riconoscere in lui, bianco, razzista, e machista. Ma ritorniamo alla mia storia. Più di una volta ho dovuto migrare verso i paesi vicini, fino ad arrivare alla capitale, Ciudad de Guatemala, per cercare lavoro nelle case private come domestica o come niñera; altre volte, sono arrivata fino alla costa del sud per partecipare alla raccolta del caffè, un lavoro molto pesante, soprattutto per le donne. La vita da “collaboratrice domestica”, come forse direste voi, è tutt’altro che facile e semplice: quello domestico è uno dei lavori più vulnerabili in Guatemala, è una forma di schiavitù moderna. In più, come dice mi pare una antropologa del nostro paese, Aura Cumes, vale questa analogia: “las mujeres indigenas son sirvientas y las sirvientas son indigenas”. Aura, di origine maya kakchinquel, lo afferma chiaramente: è dal tempo della colonia che ci siamo o ci hanno trasformati e trasformate in servitori; è la colonizzazione che continua ancor oggi che pone i bianchi come padroni e noi indigeni rimaniamo nella condizione di servitù. Per questo, più della metà delle collaboratrici domestiche sono indigene.

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I dati ufficiali ci ricordano che praticamente la totalità delle lavoratrici domestiche sono senza contratto di lavoro; le statistiche del 2014 in realtà affermavano che il 98,9% era in queste condizioni, ma quell’uno per cento è assolutamente ridicolo, quasi una casualità, e non modifica la realtà. Per non ricordare che il 13% delle sirvientas sono minorenni: ecco di nuovo una percentuale, non mi piace esprimerlo così, è meglio scrivere che più di quarantamila bambine e adolescenti in Guatemala lavorano nelle case di famiglie della classe media. E se soltanto un esiguo numero delle ragazze e delle donne che lavorano in case altrui presenta delle denunce per maltrattamenti, sfruttamento, molestie e violenze subite, la situazione è sicuramente diversa: stipendi miserabili, pasti indecenti, stanze insalubri, insulti razzisti, licenziamenti improvvisi senza saldare quanto ancora si dovrebbe pagare per il lavoro svolto, fino ai veri e propri abusi sessuali, spesso compiute su bambine indifese. Quasi la metà delle lavoratrici è stata vittima di un episodio di violenza. Mi fanno sorridere quegli atteggiamenti maternalistas delle padrone: “Yo la casé a mi empleada, le hice su fiestecita, le dí su regalito …” (io ho fatto sposare la mia domestica, le ho fatto anche una festicciola, le ho dato un regalino…). Tutti questi diminutivi non sono altro che una dimostrazione che non trattano la propria impiegata come una persona pari a loro, è e rimane sempre una sirvienta.

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Ho di nuovo divagato un po’, ma volevo farvi capire cosa succede ancora oggi in Guatemala. Torniamo alla mia adolescenza. Con i soldi risparmiati sono riuscita a studiare fino alla terza elementare ed ho anche iniziato a far parte della squadra di básquet-bol dell’istituto, grazie alla mia maestra, che ringrazio per avermi presa in considerazione anche per le attività sportive, importanti per la nostra salute.

Nel 2007 poco alla volta la mia vita cambia: incomincio a partecipare a varie organizzazioni, e mi autoformo in temi diversi, come i diritti delle donne, partecipazione cittadina, salute riproduttiva, sovranità alimentare, primo soccorso; inzio anche a prestare il mio contributo come volontaria in diverse organizzazioni.

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Nel 2008 entro a far parte della Oficina Municipal de Planificación di San Juan Cotzal, acquisendo esperienza sulle necessità delle famiglie e delle piccole comunità locali; negli anni 2009 e 2010 lavoro nella Institución Fundación Guillermo Toriello, dove prendo coscienza di essere una donna soggetto di diritti ed inizio a lavorare per l’uguaglianza di genere. Nel 2011 riprendo gli studi e l’anno dopo mi diplomo come Auxiliar de enfermería, facendo pratica in diversi ospedali della regione. Dopo aver lavorato in programmi di salute, soprattutto per combattere la contaminazione ambientale, creando coscienza nei giovani e nelle donne, riesco a conseguire il Bachillerato por Madurez, il diploma riservato alle persone maggiorenni che non hanno potuto studiare prima. E così posso realizzare il mio sogno di iscrivermi all’Università, ma non in una Università qualsiasi: dal 2014 al 2017, studio come tecnica in Sviluppo Comunitario nell’Università Ixil, con una tesi sul ruolo delle donne nell’agricoltura contadina ixil, ed in che modo possono contribuire all’economia familiare e al buen vivir, il tichajil per noi

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Cos’è l’Università Ixil, vi chiederete. E’ un’esperienza nata ufficialmente nell’anno 12 Ee del Calendario Maya, il 2011 nel vostro, ma in realtà abbiamo iniziato a costruirla anni prima quando, a partire dagli accordi di pace, le comunità indigene, grazie al lavoro delle proprie autorità , hanno scelto di rafforzare la propria identità attraverso la pratica della spiritualità e dei nostri valori, riconoscendo e rispettando le nostre autorità ancestrali. Contemporaneamente è cresciuta la difesa dei beni naturali di fronte al continuo saccheggio e violazione de diritti della nostra madre terra da parte soprattutto delle grandi multinazionali idroelettriche. Per questo, come popolo ixil iniziammo un processo di ricostruzione sociale comunitaria, attraverso la riscoperta delle nostre autorità, il rafforzamento dei gruppi di donne e giovani, la promozione dei valori maya, il recupero dell’agricoltura biologica, lo studio e la messa in pratica del pensiero maya ixil, utile per poter cambiare concretamente la dura realtà del nostro popolo e degli altri popoli originari del Guatemala. Nella presentazione dell’Università si legge: “L’università Ixil si propone di trovare la strada per lo studio, la formazione e la pratica trasformatrice dei e delle giovani a partire dal pensiero maya, in un mondo che cambia continuamente”.

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Non è un’università tradizionale, come potete immaginare, anche se ha una struttura ben precisa. La formazione dura tre anni, ciascuno corrisponde ad un livello, che dura nove mesi, da marzo a novembre. Ogni livello comprende lo sviluppo di 14 sessioni di presenza in aula, cinque ore in giorni fissi ogni mese, 14 lavori di indagine sul campo, partecipazioni a rotazione nelle comunità di origine degli alunni, letture e 2 valutazioni, una intermedia a luglio ed una finale a novembre. Gli ambiti dello studio sono lo sviluppo del territorio, la gestione delle risorse e preservazione dell’ambiente, storia e cultura ixil. I formatori e facilitatori sono insegnanti dell’organizzazione Fundamaya, ma soprattutto le autorità e gli esperti delle comunità coinvolte del territorio; analogamente, la valutazione del percorso universitario si basa sicuramente sulla frequenza e puntualità, sulla completezza delle ricerche effettuate nel campo, ma anche sulla partecipazione nelle attività comunitarie. Io mi sono iscritta con molto entusiasmo nel 2 Chee (2014) e dopo tre anni mi sono diplomata in Tecnica nello sviluppo rurale comunitario, con una tesi sul ruolo delle donne nell’agricoltura contadina ixil nella comunità indigena La Bendición, una piccola frazione di San Juan Cotzal.

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Quando si fondò la comunità, dieci anni fa, le venne dato il nome Jaq’vintav, che significa “ai piedi del monte sacro”. Se volete saperlo, nella mia lingua ixil, il titolo della mia tesi si traduce così: TAQ’ON Q’U IXO TI’ CHIKOB’EEM TU JAQVINTAV. Ho scelto di intervistare nove persone: una comandrona, quattro donne contadine della comunità individuata, un’altra contadina che vive però nel centro urbano e tre uomini, un alcalde (sindaco) comunitario, un facilitatore, un esponente del consejo municipal, profondamente machista a dire il vero. Attraverso le interviste realizzate e la documentazione raccolta, ho cercato di cogliere quali sono i problemi che vivono le donne contadine ixil, e sono veramente tanti. Eccone alcuni: sicuramente la fame, la mancanza di un lavoro dignitoso, la presenza di prodotti delle multinazionali, a base chimica, che hanno spodestato i nostri originari; più specificatamente come donne, l’impossibilità di possedere la terra, nemmeno in seguito ad una eredità o ad una donazione, il non accesso a finanziamenti in quanto lavoratrici della campagna.

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Continuiamo a subire un’impronta machista e patriarcale, senza poter godere dei nostri diritti politici, sociali, culturali ed ambientali. Grazie a questo studio, ho imparato che bisognerebbe favorire il recupero dei nostri semi nativi, creare una scuola agro ecologica che parta dalle nostre conoscenze ancestrali, riscattare e rafforzare la sicurezza e la sovranità alimentare, sia a livello locale che in forma più ampia; come donne, dovremmo, a partire dalla nostra forza collettiva, ottenere maggior potere, senza essere costrette a relegarci nel lavoro domestico. Non voglio annoiarvi con la mia tesi, solamente dirvi che mi è sembrato corretto partire dalla Terra, il pianeta in cui abitiamo, che si trova nel sistema solare: per noi è fondamentale, per lavorare, per seminare, per mangiare, per vivere; dobbiamo valorizzare allora la nostra madre tierra perché dà la vita a noi, in quanto essere umani, e a tutto ciò che ci circonda. Per noi è fondamentale il Tichajiil, il Buen vivir: che significa una buona vita ed una buona salute, ma anche essere organizzati, tranquilli e contenti, poter intercambiar come fratelli e sorelle le proprie esperienze, godere di una alimentazione nutriente, lavorare una terra fertile, aver accesso alle sorgenti d’acqua, che per noi è sacra, possedere in comune conoscenze, pensieri e linguaggi; non c’è spazio nel nostro buen vivir per la fame o sete, malattie o furti, le norme sono rispettate da tutti, la comunità vive in armonia, ci si aiuta a vicenda, ci si dà una mano sempre.

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Allora, valorizzare la madre tierra significa anche dare valore, nuovo ruolo e nuovo protagonismo a ciascuna delle donne che qui vivono. A doña Marta ad esempio. Doña Marta ha sessanta anni e sei figli, quattro hembras, femmine, e due varones, maschi. Da sempre lavora nell’agricoltura e vende due volte alla settimana al mercato i suoi prodotti. Guadagna centodieci quetzales settimanalmente e con questi soldi compra zucchero, sale, pollo e altri tipi di carne, pane, patate, e quando riesce alcuni capi di vestiario; ma questi centodieci quetzales non bastano certamente per coprire le spese necessarie per sopravvivere. Sulla tavola di Doña Marta però non manca mai la frutta: banane, arance, nespole, mele cotogne, limoni, malanga, güisquil. Nemmeno la verdura: pomodori rossi e quelli verdi e piccoli, noi li chiamiamo miltomates, avocado, carote, rafano, cavolfiori, coriandolo, lechiguilla;

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a doña Marta piace molto la pacaya, quelle curiose strisce sottili verdi che incuriosiscono tanto i bambini quando le vedono e che sono fondamentali nella nostra cucina, quella tipica chapina. Prima bisogna cuocere la papaya in acqua calda, anzi tiepida per evitare che diventi troppo amara, poi la impaniamo nell’uovo e la friggiamo in olio; ed eccola pronta per essere servita, un piatto che non manca mai sulla tavola, ad esempio, il primo di novembre. E devo ricordarvi che la palma di pacaya è anche ornamentale, utilizzata come decorazione nelle nostre feste, come Natale o il primo dell’anno o nel dia de la indipendencia, 15 settembre. La pacaya appartiene veramente alla nostra cultura ed è così importante che quando dobbiamo indicare una persona che ha grandi responsabilità o deve realizzare un lavoro importante si dice “que gran pacaya la que le tocó a Fulano” Ecco, ho divagato di nuovo, perdonatemi. Qual è il sogno più grande di doña Marta? Lei mi dice senza esitare che mai smetterà di essere campesina perché soltanto con questo lavoro può portare in tavola per sé e per la propria famiglia un cibo sano, oltre a permettersi di guadagnare qualcosa.

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Ed allora, il suo sogno è quello di riuscire a trasmettere la propria esperienza ed il proprio sapere a figli e nipoti. Ed il suo sogno non è così strano se è anche quello di doña Teresa; doña Catarina, che condivide questo pensiero, aggiunge anche che le donne siano in grado di riscattare in agricoltura le pratiche ancestrali ed in questo modo la forza delle donne.

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Una volta laureata, ho scelto di continuare a lavorare in comunità: adesso sono una dei componenti del Consejo Ixil, insieme ad altre due donne e due uomini; siamo molto contenti perché il lavoro dell’Università Ixil funziona ed attira sempre nuovi iscritti: in questo momento 8 miei compaesani, 5 ragazze e 2 ragazzi, sono iscritti all’Università, mentre il prossimo febbraio si diplomeranno altri tredici giovani. E poi, ogni settimana, come volontaria, gestisco una trasmissione locale di TV Canal 36, Tilchajil K’usal, in cui si cerca di analizzare ed informare correttamente su ciò che succede nella mia terra; ad ottobre ad esempio, abbiamo documentato il viaggio di molti abitanti di San Juan Cotzal che lasciano le proprie famiglie per sei mesi

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per raggiungere la costa del sur, per lavorare duro e con una pessima paga nella zafra, il taglio e la raccolta della canna da zucchero. Ufficialmente Guatemala è il secondo esportatore di zucchero in America latina ed il quarto a livello mondiale, ma a quale prezzo umano ed ambientale? Dico questo perché nel nostro paese è molto alta la percentuale di zucchero per ettaro ottenuto, ma a quale prezzo per la terra? Vi ho raccontato la mia storia non perché voglio essere famosa, no. Voglio raccontarvela per condividere un pezzo di storia della mia terra. Che non potete ignorare, perché tra le multinazionali che hanno dato vita ai progetti idroelettrici Palo Viejo I e II, proprio nel mio paese San Juan de Cotzal, c’è l’Enel Green Power, che opera in Guatemala dal 1999 sotto il nome di Conexión Energética Centroamericana; la vostra multinazionale está verdaderamente en el ajo, cioè ha veramente le mani in pasta, dato che ha iniziato a costruire le dighe Bella Vista I e II a Chajul, mentre nella zona di Quetzaltenango è proprietaria delle Centrali di Monte Cristo e El Canadá. In tutti questi progetti idroelettrici le nostre comunità indigene sono state messe ai margini, non consultate come invece sarebbe previsto legalmente, ed ogni volta che hanno provato ad apporsi, sono state represse duramente, con minacce, aggressioni ed anche assassini.

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Ho saputo che nel mese di luglio di quest’anno, la Red rompiendo el Silencio ha presentato formalmente alle autorità competenti del Guatemala una lettera, firmata da una sessantina di organizzazioni nazionali ed internazionali, per richiedere protezione ad un avvocato della popolazione Xinca Quelvin Jimenez e attraverso di lui a tutte le comunità indigene in resistenza pacifica contro la miniera Escobal. Questa miniera invece è proprietà della multinazionale canadese Pan American. E se volete saperlo, oltre a ditte italiane, canadesi e colombiane, c’è la presenza massiccia di imprese spagnole, come la Cobra-ACS, il cui proprietario è Florentino Pérez, che voi conoscete invece per essere il presidente del Real Madrid. Se scorrete le pagine del sito di Movimiento Mesoamericano contra el Modelo Exctractivo Minero, M4, vi accorgerete che i popoli guatemaltechi non si arrendono facilmente: “Minera canadiense admite violación de derechos humanos, precedente muy importante en Guatemala, agosto 2019”. Comunicato della Central de Organizaciones Indígenas Campesinas Ch’orti’ Nuevo Día, luglio 2019: “Nuevas Amenazas y Próximos Pasos: Resistencia a la Mina Escobal en Guatemala.” La lista potrebbe continuare, ma non voglio annoiarvi, cercate voi stessi e riflettete su ciò che stiamo facendo e perché. 19


Una nostra amiga, Claudia Karol, giornalista e femminista argentina, ha scritto in un suo testo: â€œâ€Ś prendersi cura della vita e delle sementi, prendersi cura della memoria e dei territori, implica anche, necessariamente , cuidar (prendersi cura) delle cuidadorasâ€? Vero no?

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Link

https://lamula.pe/2012/04/30/el-quetzal-volvera-a-cantar-cuando-latierra-sea-verdaderamente-libre/malcolmallison/ http://www.resumenlatinoamericano.org/2019/08/13/guatemala-gia mmattei-presidente-y-la-continuidad-del-pacto-de-corruptos/ http://www.resumenlatinoamericano.org/2019/09/16/265996/ http://www.rebelion.org/noticia.php?id=258983&titular=a-mi-madr e-no-la-llames-comadronahttps://nomada.gt/identidades/guatemala-urbana/guatemala-el-paisde-las-trabajadoras-indigenas-que-sufren-por-la-impunidad/ http://www.labottegadelbarbieri.org/guatemala-ancora-terra-bruciat a-nel-paese-dei-maya-per-colpa-delle-dighe/ http://www.labottegadelbarbieri.org/le-miniere-si-mangiano-guatem ala-ed-el-salvador/ https://www.grain.org/es/article/5563-somos-tierra-semilla-rebeldiamujeres-tierra-y-territorios-en-america-latina https://movimientom4.org/




La storia di Li’ è la storia semplice di una donna guatemalteca. Una storia vera, contemporanea, tutt’uno con la madre terra, i fiumi ed i boschi, che ci regalano vita. Una vita per cui vale la pena lottare.

Associazione Lisanga, culture in movimento Via San Michele 28, 10094 Giaveno. www.lisanga.org pagina fb www.facebook.com/lisangagiaveno


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