La ricerca
6 euro
Aprile 2012 Anno 1 - n. 0 Nuova Serie
SAPERI
SCUOLA 앫 Tecnologie
© Hulton Getty/Getty Images
didattiche 앫 Diversità culturale 앫 Disagio scolastico 앫 Normativa adozioni 앫 Scuola e cittadinanza
L’attualità di Dante
DOSSIER Il confronto fra generazioni
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La ricerca, 1963 - 1996
La ricerca
Nel prossimo numero
Nuove tecnologie didattiche Periodico quadrimestrale Cultura, dialogo, idee, informazione Le pratiche didattiche esistenti e consolidate sono Anno 1, Numero 0 Nuova Serie, aprile 2012
sempre più arricchite dall’inserimento di oggetti tec nologici di rilevanza in classe. La comunità professio inasce la storica rivista di Loescher, “La ricerca”, periodico d’informazione e discussione didattica naleCorda degli insegnanti è pronta a sperimentare nuov per la scuola media e superiore, diretto (a suo tempo) da Maria Costa. Editore scenari lavorativi per gestire al meglio e senza timore Loescher Editore, dopo anni di sospensione, ha deciso oggi di rilanciarne la pubblicazione con lo stesso Loescher Editore nuove tecnologie. Come sappiamo, grazie alle loro spirito e la medesima ambizione che l’avevano animata allora: crearele uno strumento capace di offrire alla Casa Editrice e ai suoi Autori l’occasione di continuare il dialogo culturale, didattico, educativo che prende le mosse potenzialità intrinseche, le nuove tecnologie, in qual Direttore responsabile dalla progettazione dei libri di testo e si esaurisce, per ora, con la loroche adozione; interloquire direttamente modo, mutano l’ambiente di apprendimento, sti Martina Pasotti e con franchezza con il proprio pubblico, fatto di professionisti esigenti, ma anche di studenti e genitori, disponibili molano tante domande necessarie per attivare e al confronto e pronti all’elogio come alla critica severa. In totale libertà di spirito e autonomia di giudizio. scambiare nuovi punti di vista. Direttore editoriale L’attenzione è rivolta verso coloro che non si lasciano Ubaldo Nicola Invidia di un nuovo strumento d intimorire dalla scopertaSandro Direttore editoriale di Loescher Editore lavoro, ma che al contrario sono pronti a raccogliere Redazione la sfida con entusiasmo per migliorare ed enfatizzare Bruno Corzino, Sandro Invidia, Elena de Leo (attraverso il contributo imponente delle tecnologie Francesca Nicola, Martina Pasotti dell’informazione e della comunicazione) l’attività di dattica quotidiana. In questa prospettiva, saranno pre Grafica e impaginazione sentate in rassegna le principali tecnologie diffuse adv_rivista.indd 2 15/03/12 14:49 Michele Magnani in attesa di autorizzazione.
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EDITORIALE
Lettera del direttore Alcune buone ragioni, non solo didattiche, per una nuova rivista nella scuola.
Care colleghe e cari colleghi, mi rivolgo a voi così perché sono anch’io un insegnante, di storia e filosofia in un liceo scientifico. Conosco però il mondo della scuola anche da un altro punto di vista, essendo ormai da molti anni direttore di “Diogene”, una rivista di filosofia che ha trovato i suoi lettori soprattutto fra gli insegnanti e gli studenti. Ebbene, forse perché osservo il nostro mondo da una duplice angolazione, mi sono convinto di appartenere a una categoria un po’ schizofrenica. Da una parte pronta a lamentarsi, e con ragione, se è vero che di anno in anno il livello culturale generale si abbassa sempre più, dall’altra pronta a lavorare comunque con passione, insegnando, in aula, e impegnandosi, fuori dalla scuola, in un approfondimento disciplinare spesso solitario e a volte “disperato”, perché privo di qualsiasi supporto istituzionale. Non voglio però qui incensare la categoria. Anzi; vedo con ammirazione e un pizzico d’invidia che miei colleghi, insegnanti di filosofia, all’estero si sono organizzati in libere associazioni professionali, luoghi di mutuo “sostegno didattico”, di approfondimento disciplinare, di circolazione di newsletter settoriali e, perché no?, anche di rivendicazione di un adeguato riconoscimento sociale ed economico. In Spagna questi “filosofi associati” sono circa 600, quasi altrettanti nel piccolo Portogallo e in Francia ancor di più. In Italia invece tutti i tentativi di costruire un’analoga associazione sono fino ad ora sempre falliti. Mi chiedo, vi chiedo: perché? Forse perché siamo noi insegnanti italiani, di filosofia ma non solo, i primi a non credere all’alto valore culturale e sociale di ciò che facciamo quotidianamente? A non avere esatta cognizione del senso profondo del nostro ruolo e del compito che ci è stato affidato dalla società? È rimuginando tali pensieri che ho accettato di dirigere questa nuova rivista. Due cose mi hanno convinto. La prima è la decisione di farla ora, nell’idea
(personale) che, nonostante non ce ne rendiamo ancora ben conto, l’Italia si è avviata negli ultimi mesi lungo un percorso senza ritorno di miglioramento degli standard sociali, civili, etici e politici. Un’evoluzione che potrà avere successo solo se sarà accompagnato dal rinnovato impegno civile di ogni singolo italiano. A partire, e in un modo specialissimo, da noi professori. Perché se si tratta di favorire una piccola “rivoluzione culturale”, e il conseguente cambiamento di costumi, gli insegnanti sono naturaliter in prima linea. La seconda è la decisione dell’editore di non intasare ulteriormente gli scaffali delle sale docenti con una nuova rivista scritta in “didattichese”. Certo si parlerà, in un’apposita sezione, anche dei problemi della scuola. In questo numero, ad esempio, si affrontano le questioni del disagio scolastico, dell’integrazione multiculturale, delle nuove tecnologie didattiche, delle esperienze di formazione alla cittadinanza, del “problema” dell’adozione dei libri di testo. Ma lo si farà solo dopo aver affrontato grandi temi che connettono la scuola alla società, sia riportando eventi culturali di grande rilievo (una “riattualizzazione” di Dante, in questo numero, in collaborazione con l’Accademia della Crusca) sia documentando questioni di scottante attualità, rispetto alle quali la scuola dovrebbe essere un vero cantiere di analisi e proposte. Cominciamo con il tema del confronto fra le diverse generazioni, una questione che oggi si pone in termini del tutto nuovi rispetto al passato recente, assumendo in Italia una particolare rilevanza data l’entità del debito pubblico lasciato ai giovani “in eredità” dalla mia generazione. Va detto, infine, che desideriamo fare una rivista non a senso unico ma in qualche modo “interattiva” nonostante il supporto cartaceo. Aspettiamo i vostri commenti, proposte tematiche, racconti di esperienze didattiche interessanti, positive o negative che siano. Le valuteremo “da collega a collega”.
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Scrivete quindi a: laricerca@loescher.it
Ubaldo Nicola 3
La ricerca
Nel prossimo numero Nuove tecnologie didattiche Le pratiche didattiche esistenti e consolidate sono sempre più arricchite dall’inserimento di oggetti tecnologici di rilevanza in classe. La comunità professionale degli insegnanti è pronta a sperimentare nuovi scenari lavorativi per gestire al meglio e senza timore le nuove tecnologie. Come sappiamo, grazie alle loro potenzialità intrinseche, le nuove tecnologie, in qualche modo, mutano l’ambiente di apprendimento, stimolano tante domande necessarie per attivare e scambiare nuovi punti di vista. L’attenzione è rivolta verso coloro che non si lasciano intimorire dalla scoperta di un nuovo strumento di lavoro, ma che al contrario sono pronti a raccogliere la sfida con entusiasmo per migliorare ed enfatizzare (attraverso il contributo imponente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione) l’attività didattica quotidiana. In questa prospettiva, saranno presentate in rassegna le principali tecnologie diffuse massicciamente nelle scuole, a partire dalla LIM (lavagna interattiva multimediale), al netbook (computer a misura di bambino) e al digital table (ultimo ritrovato tecnologico ancora in fase di sperimentazione in pochissime realtà scolastiche). Mettendo in evidenza attraverso “le buone pratiche d’uso” che cosa si può fare in classe; per un lavoro didattico sinergico capace di trarre il maggior beneficio dai moderni oggetti tecnologici.
Periodico quadrimestrale
Anno 1, Numero 0 Nuova Serie, aprile 2012 in attesa di autorizzazione.
Editore Loescher Editore
Direttore responsabile Martina Pasotti
Direttore editoriale Ubaldo Nicola
Redazione Bruno Corzino, Sandro Invidia, Elena de Leo Francesca Nicola, Martina Pasotti
Grafica e impaginazione Michele Magnani
Pubblicità interna e di copertina Visual Grafika - Torino
Stampa Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)
Prezzi per l’Italia Un fascicolo € 6,00 Abbonamento annuo Italia, 3 numeri, € 15,00
Il cinema a scuola La proposta didattica di un film risponde al bisogno di suscitare l’interesse degli studenti per questioni letterarie, storiche o filosofiche attraverso uno strumento che sia vicino alla loro sensibilità e cultura. Nel prossimo numero mostreremo in che modo la presentazione di un film possa produrre suggestioni in grado di coinvolgere non solo la sfera cognitiva, ma anche quella affettiva. Sarà messo in relazione il linguaggio letterario con quello cinematografico, cercando di coglierne le specificità. Verrà chiarito in che senso un film di finzione può essere uno strumento per raccontare la storia. Si spiegherà in che modo il cinema possa essere utilizzato nella didattica della filosofia, facendo “sentire” agli spettatori un problema filosofico, attraverso l’identificazione con i protagonisti della pellicola.
Servizio abbonamenti I 3 fascicoli dell’anno 2012 sono gratuiti, pertanto distribuiti esclusivamente in forma di omaggio. Le modalità di acquisto e abbonamento relative alle annate prossime saranno rese note nel terzo fascicolo 2012.
Autori di questo numero Fulvio Allegramente, Ugo Avalle, Corrado Bologna, Riccardo Bruscagli, Bruno Corzino, Franco Ferrarotti, Maria Antonietta Foddai, Hans Jonas, Harry Moody, Francesca Nicola, Ubaldo Nicola, Martina Pasotti, Augusto Ponzio, Lorenzo Rampa, Enzo Ruffaldi, Francesco Sabatini, Valeria Zagami.
© Loescher Editore
Scrivete le vostre esperienze in questo campo a: laricerca@loescher.it.
via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.loescher.it laricerca@loescher.it La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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Sommario SAPERI: L’attualità di Dante
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Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento Corrado Bologna Una lettura di Dante Alighieri perenne e sempre nuova Francesco Sabatini I poeti nel... vasetto Riccardo Bruscagli
DOSSIER: Il confronto fra generazioni
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pag. 7
Il confronto fra generazioni Ubaldo Nicola La storia recente di un’idea Harry Moody Uccidere i padri, tutti Franco Ferrarotti Il dovere della lungimiranza Hans Jonas La paura necessaria Maria Antonietta Foddai Comunicare con i posteri Augusto Ponzio Dirlo con l’arte Martina Pasotti L’equità generazionale Ubaldo Nicola Chi paga i debiti dei genitori? Lorenzo Rampa La generazione egoista Bruno Corzino Il realismo cinico dei giovani cinesi Ubaldo Nicola
pag. 27
pag. 14
SCUOLA: Rubriche
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pag. 29
Il pianeta disagio Ugo Avalle I saperi di cittadinanza Enzo Ruffaldi Multiculturalismo e intercultura Francesca Nicola Il Paradiso Perduto dei rom Francesca Nicola Un computer per ogni scolaro Valeria Zagami L’adozione dei libri di testo Fulvio Allegramente Ovvero? Sandro Invidia
pag. 51 5
pag. 45
pag. 55
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SAPERI
Ora che ne abbiamo scoperto e accettato l’inattualità di libro medioevale, la Commedia ci appare il più moderno dei libri, il più novecentesco. Ci sembra che la Commedia abbia immagazzinato tutta quanta la tradizione per offrircela rinnovata.
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Elaborazione grafica da un manifesto per la lettura pubblica di Dante. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento La storia della fortuna critica della Commedia dimostra come si possa considerare Dante uno scrittore essenzialmente “moderno”, forse l’unico capace di penetrare il senso profondo delle tragedie del nostro Novecento.
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na ferita, una sola, la mia amata maestra mi inflisse, alle scuole elementari: e il modo ancor m’offende (anche se più tardi capii che si trattava di una ferita iniziatica, dal valore terapeutico). Avrò avuto nove o dieci anni, incominciavo a cibarmi e a dissetarmi con i libri; e un bel giorno entrai in classe felice, entusiasta, sventolando un libretto dalla copertina rigida color crema, di cui ricordo il titolo (Dante, mistico pellegrino), ma non l’autore. Si trattava della parafrasi della Commedia, scoperta negli scaffali di casa, per me ben presto troppo magri, e bevuta con passione trascinante. Non sapevo nulla di Dante, ovviamente, e neppure della Commedia, che per me non era ancora “divina”. Però, in maniera confusa, intuivo che quel libro antico e difficile, aspro, strano, doveva contenere messaggi grandi e profondi. La storia di quel viaggio all’altro mondo mi sembrava complicata, anche assurda, con la sua marea di personaggi, di luoghi, di figure, d’idee; ma ero affascinato dall’altezza d’ingegno dello scrittore, dalla sua invenzione sconfinata e dal rigore di diamante che scandiva il cammino del testo. Incredibilmente la maestra, dalla quale mi aspettavo approvazione, s’infuriò: non ammetteva che io avessi letto e ora esaltassi il mio innocente, ma per lei trasgressivo e blasfemo, Dante in prosa. Non capii, allora, le ragioni e il senso della contestazione, e rimasi malissimo. Anni più tardi, leggendo infine Dante in poesia, incominciai a rendermi conto della difficoltà e del fascino sconfinato di quelle rime, di quei ritmi, di
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quelle strutture complesse, necessarie, non eliminabili, non parafrasabili. Intuii a poco a poco che quel che contava e non poteva ridursi a “racconto”, a “parafrasi”, appunto, erano proprio le forme, la forma del contenuto pulsante nell’intreccio ininterrotto dell’energia prosodica e di quella semantica fluenti nella versificazione. Capii, leggendo e rileggendo, che l’alterità di Dante, la sua assoluta inattualità, sono rappresentate perfettamente dalle straordinarie strutture formali del suo capolavoro, gotiche e scolastiche, cattedrali di parole e di ritmi. Anni dopo mi imbattei nel saggio di Croce su Dante, che negando il valore “poetico” della “struttura” (la terzina, le tre cantiche di trentatrè canti più uno introduttivo, la perfezione centenaria, gli innumerevoli richiami interni da magnifica mnemotecnica spirituale) cancellava il senso di quell’immenso esercizio di passione e d’intelligenza struttiva. Lo rifiutai con fermezza, da adolescente che s’innamora delle avventure intellettuali sublimi e respinge la tentazione di razionalizzare secondo categorie astratte, preferendo lo sciame allo schema. D’altra parte erano gli anni dello strutturalismo e della semiologia, e la Commedia sembrava fatta apposta per svolgere sofisticati esercizi di lettura su quello stupefacente poliedro di parole e d’immagini dagli equilibri cristallini, imperniati su richiami a distanza, su un tappeto significativo d’intertestualità e d’intratestualità, dal profondo valore ideologico e poetologico. Poi furono i maestri della filologia e della storia a riprendere per me, con me, in direzione construens, il lavoro avviato dalla mia maestra sul piano destruens. A sedurmi fu allora la forza, la profondità, l’innovatività della presenza di Dante nel Novecento. Studiando la
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SAPERI | Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento tradizione e la fortuna dei classici vidi con chiarezza che, dopo le Prose della volgar lingua di Bembo, già intorno alla metà del Cinquecento, il sole dantesco si eclissa, scompare dall’orizzonte culturale. La gloriosa, vivida presenza che riverberandosi in infiniti echi di memoria poetica nel Canzoniere petrarchesco, nel Decameron, nell’Orlando Furioso, aveva dominato la cultura e la lingua dei grandi libri italiani ed europei, d’improvviso diventava tenebra, vuoto. La scoperta per me fu progressiva, ma tremenda. Non mi davo ragione che il Seicento e il Settecento fossero stati “secoli senza Dante”: come avevano potuto sopravvivere, quelle età, senza la Commedia? Nella sua edizione critica Giorgio Petrocchi non ricordava neppure una stampa del poema nel secolo di Caravaggio e di Borromini, e solo quattro in quello di Parini e di Voltaire (l’ultima, nel 1795, era stata impressa a Parma dal grandissimo Bodoni). A fronte di decine e decine di edizioni dei Rerum vulgarium fragmenta, che per secoli impressero un segno radicale alla lirica, l’uscita di scena della Commedia costituisce una perdita immensa: un intero universo figurale si dissolve, quasi irreparabilmente. Certo, i grandi non dimenticheranno mai Dante, anche in questo lunghissimo periodo caliginoso. Le angosce notturne di Renzo fuggitivo da Milano nella foresta che costeggia l’Adda, nel capitolo XVII dei Promessi Sposi, nell’“orrore indefinito” di quel gelo che lascia balenare fra gli alberi “figure strane, deformi, mostruose”, deriva certo dalla viva memoria del XIII canto dell’Inferno, con il suo “bosco” ombroso (“di color fosco”) e atrocemente metamorfico (“Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”). L’ispirazione dell’Infinito leopardiano s’intreccia senza dubbio con la meditazione sul Paradiso dantesco, fino al riverbero figurale del “gran mare dell’essere” (Par., I 113 ), “quel mare al qual tutto si move” (Par., III 86), nel “naufragar m’è dolce in questo mare”. E come trascurare il riflesso sonoro, cromatico, nel Passero solitario, di uno fra gli incipit più geniali e commoventi della Commedia, quello dell’VIII canto del Purgatorio (“…e ’ntenerisce il core” / “…sì ch’a mirarla intenerisce il core”). Però il Dante dell’Ottocento è tutto legato alle immaginette infernali di Francesco De Sanctis, al suo teatrino di personaggi, di luoghi, di emozioni. E la critica dantesca di tutto il secolo romantico alternerà questo artificioso sentimentalismo al più secco accertamento di dettagli, in un pulviscolo aneddotico senza punti di vista complessivi. A ripensarla per intero, con poche eccezioni, la critica dantesca del XIX secolo è impressionistica, positivistica, lontana dal centro ideale e ideologico del poema, dalla sua smiGustave Doré, La selva oscura, dalla Divina Commedia canto I, litografia, 1857. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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SAPERI surata esattezza e complessità. Dante, di fatto, è uno scrittore medioevale del Novecento. La natura autentica della Commedia, che è insieme il Libro dell’Universo e la ricapitolazione e riscrittura di una civiltà millenaria, dopo tanto silenzio la scoprono i poeti e gli artisti, ancor prima e più a fondo dei filologi: anche se accanto agli artisti fioriscono presto i grandi critici, l’edizione di Giorgio Petrocchi, le Rime di Gianfranco Contini e poi di Domenico De Robertis, le ricerche filosofiche di Bruno Nardi, i grandi commenti scolastici che “hanno fatto gli italiani” (e non solo loro), Sapegno, Bosco, Singleton, Chiavacci Leonardi, il mio amatissimo Attilio Momigliano. I primi due poeti ermeneuti di Dante sono distanti nello spazio e nelle posizioni di poetica e di estetica: Giovanni Pascoli ed Ezra Pound. Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1902) di Pascoli e The Spirit of Romance di Pound (1910) rivelano lo spessore e la profondità dell’allegorismo dantesco, riconoscendone l’origine medioevale, soprattutto teologica e filosofica. A poco a poco il “naturalismo” di tanti paragoni, la “spontaneità realistica” di tante immagini, lasciano tralucere, appunto “sotto il velame”, la severa ricchezza allegoristica in linea con quella di Ugo e soprattutto di Riccardo di san Vittore, che brillano, prima impensati, insieme con i più evi-
denti Tommaso, Bonaventura, Bernardo, nei saggi sulla Commedia di Pascoli e di Pound. E con loro appaiono sulla superficie il “pensiero poetante” di Cavalcanti, l’agostinismo capace di attenuare le posizioni rigidamente aristoteliche che Dante assunse dal tomismo, ma soprattutto la mirabile potenza creatrice della metafora nell’ispirazione della Commedia. La densità dei saggi danteschi di Pound e di Eliot, inventores della poesia novecentesca, matura e si deposita in una riflessione profonda, radicale, sulla tradizione dello “spirito romanzo”, che essi avrebbero fatto riecheggiare nella sperimentazione di tanta avanguardia, fino al Gruppo ’63 di Giuliani e Sanguineti, sapienti rielaboratori della letteratura medioevale. Né a caso Giuliani aprì l’antologia I Novissimi con l’evocazione del sovvertitore Pound ma anche, insieme con lui, dei rigorosi filologi e linguisti romanzi Väänänen e Norberg. Quanti trovatori provenzali, quanto Cavalcanti, quanto Dante nelle avanguardie del Novecento! Mi conquistò il cuore e la mente la meraviglia metaforica da moderno allegorista (il passo di danza, l’alveare, la fiamma e il cristallo dalle 13.000 facce-versi) con cui la bellissima Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam, amico dei formalisti e dei futuristi, coglieva, negli anni Trenta, la formidabile e inattuale modernità del poema, offrendone una delle immagini più
Gustave Doré, L’incontro con la lonza, dalla Divina Commedia canto I, litografia, 1857. 9
SAPERI | Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento strazianti del nostro tempo. Ma fu anche, a conquistarmi alla forza di Dante poeta moderno, lo splendido sorriso metaletterario dei Nueve ensayos dantescos di Borges, con quell’idea geniale che la Commedia Dante l’abbia scritta per propiziare un nuovo “incontro in un sogno”, in Paradiso, con la perduta Beatrice, dunque per riconquistare l’ala svettante di un suo sorriso. “Dante si può leggere solo al futuro”, scriveva Mandel’štam: è il futuro presente, la latitudine di un meridiano ideale che segna un “Nord del futuro”, e che si riverbera nella poesia di Paul Celan. È vero, Dante va coniugato al futuro. Siamo noi quel futuro. Il nostro presente è in qualche misura il futuro che il suo
pensiero contiene, e attraverso Dante possiamo riconoscere nelle migliori realtà del tempo che viviamo quello che parafrasando un magnifico titolo di Carlo Ossola chiamerò “l’avvenire delle nostre origini”. Nella lingua del pappo e del dindi si stratifica e si sublima l’intera tradizione antica, che si fa germe di speranza, seme di pensiero e di emozione: Omero che si nutre al seno delle Muse; Virgilio che Stazio riconosce come “mamma” e “nutrice”; ma anche Leopardi che torna alla poesia con il Risorgimento e A Silvia, uscendo da un periodo di aridità d’ispirazione proprio attraverso lo studio di Dante; e l’immagine bellissima di Andrea Zanzotto, il quale nella prosa con cui conclude la raccolta delle liriche di Filò, scritte per il Casanova di Fellini, nel 1976, della lingua poetica dichiara che noi “non sap[piamo] di dove venga”, perché arriva da sola, come un’epifania materna, arcaica: “Viene, monta come il latte”; “à inte ’l [s]o saór / un s’cip del lat de la Eva”, “nel suo sapore sapiente c’è un gocciolo del latte di Eva”. Il poema dantesco, dice Osip Mandel’štam, non è che una sola strofa, unitaria e inscindibile. O meglio, non una strofa, ma una struttura cristallina, un solido. Tutta l’opera è attraversata da un flusso di energia costantemente teso alla creazione di nuove forme, è un corpo rigidamente stereometrico, lo sviluppo per monosillabi del cristallo tematico. Impossibile abbracciare con l’occhio, o comunque raffigurarsi visivamente, questo poliedro di tredicimila facce, mostruoso nella sua regolarità. […] La ricchezza plastica del poema supera tutti i nostri concetti d’invenzione e composizione: la si potrebbe a miglior diritto definire un istinto. […] Solo la metafora può essere un simbolo concreto dell’istinto plastico con cui Dante costruisce a goccia a goccia le sue terzine e le travasa l’una nell’altra. Dobbiamo perciò immaginare che a costruire la coscienza del poliedro di tredicimila facce lavori uno sciame d’api dotate di un geniale fiuto stereometrico, uno sciame che altre api accorrono a ingrossare via via che se ne presenta la necessità. Così, nel Discorso su Dante (1933), forse il saggio dantesco più profondo e originale di tutto il Novecento, Mandel’štam volge in straordinarie immagini metaforiche, che Dante avrebbe amato, la struttura cosmica della Commedia. In faccia alla morte, nel gulag di Stalin, questo poeta-glossatore di genio traduceva in russo per i suoi compagni di sventura Dante, Petrarca e l’Ariosto: per leggerli aveva imparato l’italiano, “la più dadaistica delle lingue romanze”,
Gustave Doré, I simoniaci, dalla Divina Commedia canto XIX, litografia, 1857. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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SAPERI innamorandosi, attraverso la Commedia, della “puerilità della fonetica italiana”, del suo “bellissimo infantilismo”, della sua “affinità con un melodico balbettio, con un dadaismo originario”. Lo stesso gesto straziato e ineludibile, anacronistico e umano, compirà pochi anni più tardi, ad Auschwitz, l’ebreo italiano Primo Levi, mentre in fila per la zuppa di cavolo nero si preoccuperà non di far sopravvivere grazie a quel miserabile cibo il suo povero corpo già spossato, ma di riscattare l’umanità della vita con l’atto umanistico di riportare alla luce dalla memoria profonda della mente brandelli del canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, per tradurlo in francese a Pikolo, balbettando a una a una le sillabe strappate all’oblio con fatica e dolore: Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere qui. “Nella squallida attesa del niente”, là dove l’essere dell’individuo è ridotto al puro stato di sopravvivenza biologica, la soglia dell’umanità è degradata perché sono degradate e svilite sia la vita, sia la morte. Su quella soglia rimane unicamente (sono parole di Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone) “la larva che la nostra memoria non riesce a seppellire, l’incongedabile col quale dobbiamo deciderci a fare i conti”. Il senso profondo di Se questo è un uomo è che “il nome uomo si applica innanzi tutto al nonuomo”, e che “testimone integrale dell’uomo è colui la cui umanità è stata integralmente distrutta”: “L’uomo è colui che può sopravvivere all’uomo”. Questa soglia ultima del Lager, ma talvolta anche della vita nelle sue fasi più dolorose e disperate, è un dispositivo di disumanizzazione, “una gran macchina per ridurci a bestie”: e “noi bestie non dobbiamo diventare”. Nel luogo fisico e mentale in cui la soglia dell’esistenza è esilissima, “per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà” (a parlare è ancora Primo Levi). La Commedia sembra porsi come il baluardo di questa soglia, come il teatro della memoria che contiene, ripensa, ricanta in poesia altissima, l’intero universo, tutta la storia umana, tutti i libri scritti e letti, tutti i personaggi che hanno meritato di essere ricordati o invece di esGustave Doré, Gli adulatori, dalla Divina Commedia canto XVIII, litografia, 1857. 11
SAPERI | Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento
Gustave Doré, Gli ipocriti, dalla Divina Commedia canto XXIII, litografia, 1857.
sere dimenticati, tutte le utopie e le speranze dell’umanità. In quel luogo estremo l’umanità riconosce la propria finitudine, la propria irreparabile debolezza. Dante è stato il più acuto interprete di questa frale natura. Nel XXX canto del Purgatorio, nell’istante in cui incontra nuovamente Beatrice dopo una siderale assenza (dalla metà della Vita nova in poi è assente nell’opera dantesca), Dante perde Virgilio, che è già ammutolito dall’ultimo verso del canto XXVII, in cui ha incoronato la nuova maturità umana e poetica dell’allievo. Lo svanire di Virgilio è la scomparsa della madre per il bimbo spaventato (“volsimi a la sinistra col respitto / col quale il fantolin corre a la mamma / quando ha paura o quando elli è afflitto”: Purg., XXX 37-45). In tutta la Commedia Dante ha paura, trema, cerca una mamma. Non ha alcun pudore di dirci: come voi, ho paura; però seguìtemi, e ci riscatteremo insieme. In vetta al Paradiso, nel momento in cui sta rappresentando le più alte, difficili, ineffabili verità, Dante torna ad essere un bambino piccolissimo, allattato al seno materno: “Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella” (Par., XXXIII 106-108). Mandel’štam, da poeta, per primo ha sentito che in questo cadere, in questo esser vinto dalla paura (“…esta selva La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”), risiede la natura più umana di Dante, la sua forza, il suo coraggio di condividere con tutti gli uomini il più fragile degli affetti, e io credo anche il più moderno: la tenerezza, limite emozionale della vita. L’infante e il balbuziente, chi inciampa nelle parole e chi non sa ancora trovarle, sono per Mandel’štam, e per noi tutti dietro a lui, l’emblema di una ricerca che non si appaga nell’illusione del sublime e della sua conquista, ma accetta le difficoltà e i rischi, la perdita e l’annientamento: Mi pare che Dante abbia studiato con attenzione tutte le pronunce difettose: che abbia ascoltato accuratamente i balbuzienti, i biascicanti, quelli che non pronunciano certe lettere o parlano nel naso, imparando qualcosa da ciascuno. Si vorrebbe parlare a lungo del colorito sonoro dell’Inferno. Una tipica musica labiale – abbo, gabbo, tebbe, rebbe, converrebbe – come se la fonetica fosse stata creata con l’aiuto di una balia. La memoria, la scrittura, così come la cura di un oblio che aiuti a ricostruire senza dimenticare, una difficile quanto necessaria ars oblivionis che selezioni e orienti “l’uomo a sopravvivere all’uomo”, divengono una ne12
SAPERI cessità della vita, le restituiscono il dinamismo e la forza fluttuante che strappa dall’oblio e dalla stasi. “La cultura, memoria iniziatrice, che restituisce iniziativa e movimento”: così Ernst Robert Curtius concludeva, citando il poeta Vjačeslav Ivanov vissuto in Russia ai tempi di Mandel’štam e morto in Italia, nell’Epilogo di Letteratura europea e Medio Evo latino, dopo un grande capitolo su Dante. “Nella odierna situazione spirituale”, scriveva Curtius nel 1948 (ma credo che potremo ribadire l’idea anche nella situazione spirituale dei nostri giorni), “non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”. […] Il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale”. Si può dimenticare tutto, ma non Dante. La domanda fondamentale, di fronte al gesto di Mandel’štam e di Levi, che con la rete slabbrata della memoria, per sospendere nell’oblio il presente assurdo del campo di concentramento, combattono per richiamare alla vita i versi della Commedia, è dunque: come e perché questo libro immenso e di altissimo ingegno, in cui forma e contenuto si rispecchiano in una perfezione di struttura e d’idea, sembra naturalmente instaurare, più di qualsiasi altro, soprattutto una relazione diretta con la vita e con la morte, con le loro radici affondate nel destino umano, nel punto più profondo della nostra esistenza? La Commedia, ora che ne abbiamo scoperto e accettato l’inattualità di libro medioevale, ci appare il più moderno dei libri, il più novecentesco. Ci sembra che abbia immagazzinato e metabolizzato tutti i libri che lo hanno preceduto, tutta la tradizione, per offrircela rinnovata. E soprattutto ci pare che contenga, più di qualsiasi altro libro, un’idea di perfezione esatta e dinamica, di compiutezza logica e di geometrica quadratura delle passioni, ma anche di salvezza e di felicità per l’uomo: per ogni singolo uomo e per tutta l’umanità. Ormai possiamo leggere la Commedia come il cielo stellato in cui proiettiamo i nostri sogni. Fatichiamo a decrittare i disegni che noi stessi vi abbiamo riconosciuto e deposto, ma come bambini a bocca aperta leggiamo questo libro pieno di stelle, che al modo dei sogni si manifestano chiedendo comprensione, invitandoci a capirli al nostro risveglio. Quei sogni, quelle stelle, quel libro, sono stati creati per risvegliarci. Corrado Bologna è professore ordinario di Filologia e Linguistica Romanza nella facoltà di Lettere dell’Università Roma Tre. Gustave Doré, Caronte, dalla Divina Commedia canto III, litografia, 1857. 13
SAPERI
Una lettura di Dante Alighieri perenne e sempre nuova Quando è veramente grande, un’opera d’arte è una fonte inesauribile di significati, tanto che si può definire ogni secolo in base al particolare modo con cui ha interpretato la Commedia. C’è da chiedersi quale sia il nostro modo, a pochi anni dal settimo centenario della morte del poeta.
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iamo entrati nel decennio che precede una ricorrenza di grandissimo rilievo nazionale e internazionale, il 700° anno dalla morte di Dante. Nei prossimi anni avremo certamente un’intensa fioritura d’iniziative e progetti di ogni genere da seguire e commentare, ma c’è già molta materia a ridosso di questa soglia per fare intanto bilanci degli ultimi tempi, pieni di eventi significativi. Non intendo parlare, qui, di edizioni, mostre, convegni, che non sono mai mancati, ma di quell’intreccio di fatti culturali, sociali e perfino politici generali che alimentano da piani più ampi, con maggior tenuta temporale, il richiamo a quell’uomo e alla sua opera. L’interesse per la Commedia dantesca rivela sempre tendenze e situazioni del presente. Ogni opera vive del dialogo tra Autore e Lettore, di ciò che entrambi vi immettono attraverso il loro contatto, anche se è decisiva la forza che il primo le ha impresso. Possiamo dire di più: le opere di straordinaria ricchezza sprigionano una quantità di stimoli, non tutti percepiti o esauriti dall’ambiente coevo, che restano anche nascosti e circolano sotterranei, per poi affiorare in altri contesti e accendervi rinnovati e diversi interessi, talora improvvisi, per via di consonanze con i nuovi tempi. È certamente questo il caso dell’opera dantesca, tutta intera, una delle più alte e profonde che siano mai uscite dalla mente umana.
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Francesco Sabatini Nino Carmine Pitti, Trittico della Divina Commedia, 2010, www.ninocarminepitti.it.
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SAPERI Quali motivi, dati dal nostro presente, dalle nostre azioni, conquiste di sapere e condizioni di vita, hanno riacceso in epoca recente, con ritmo e vigore crescenti negli ultimi anni, la passione dantesca? Cominciamo dalle riflessioni sugli appena compiuti 150 anni della nostra unità politica, che hanno contribuito molto a mettere in luce la funzione fondante, e suppletiva di fattori politici, che la nostra lingua e il suo principale artefice hanno avuto nel predisporre la nascita di uno Stato italiano. È stato d’obbligo rievocare il clima risorgimentale, nel quale, come molti forse stavano dimenticando, le forti passioni politiche rianimarono lo studio di Dante, che a sua volta divenne strumento per propagare quelle passioni, perfino oltre i confini d’Italia: pensiamo subito agli studi di Mazzini, che parlava di Dante anche agli operai italiani emigrati in Inghilterra, e all’opera svolta in questo stesso Paese, a noi amico, da altri esuli come Foscolo e Rossetti. C’è stato dunque, con la ricorrenza unitaria, un rimbalzo
diretto e forte dell’attenzione per Dante dalla grande stagione politico-culturale ottocentesca al nostro presente, bisognoso di conferme sulla nostra ragion d’essere come comunità nazionale. Ci sono però, in piena sintonia con questo evento specifico, motivi più latamente culturali e scientifici che fanno da sfondo. Abbiamo finalmente costruito, nell’ultimo cinquantennio, un quadro molto più ampio e ricco di dati della nostra storia linguistica complessiva (l’opera di avvio, ma risolutiva, di Bruno Migliorini uscì nel 1960 e moltissimo è stato aggiunto in seguito). In questa prospettiva più definita, fornita anche di molte quinte laterali, l’intera opera di Dante è risultata sempre più centrale e proteiforme, direi balisticamente possente. Non solo sono stati scoperti nuovi codici e nuovi commenti del poema, a volte precoci e redatti ben lontano dalla Toscana (ad esempio, a Napoli, in pieno Trecento), ma si raccolgono citazioni e richiami ed echi in molti angoli della letteratura italiana e mon-
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SAPERI | Una lettura di Dante Alighieri perenne e sempre nuova quando poi ne scrisse, gli occorsero parole del lessico infernale dantesco (come ha osservato Cesare Segre) per rappresentare quei momenti. Oggi è la nuova conoscenza complessiva delle vicende della nostra lingua, vera generatrice e cemento di un’intera civiltà, priva per secoli del sostegno di uno Stato politico, che ci porta continuamente a misurare la potenza di quel fulmine che le aprì prontamente il varco nella selva di altre tradizioni linguistiche radicate sullo stesso suolo. Ragionando più in dettaglio, gli studi sempre più fitti sul volgare dell’epoca di Dante e i raffinati strumenti d’indagine di cui disponiamo ci mostrano che molte sue scelte linguistiche sono entrate nella nostra lingua comune: limitandoci a pochi esempi del lessico, chi direbbe che parole inizialmente ricercate, perché latinismi, e poi divenute di grande consumo, come facile, fertile, molesto, mesto, puerile, profano, infimo, coagulare, o sono state immesse per la prima volta da lui nel nostro volgare o dal suo uso sono state consolidate e perpetuate? Perfino quisquilia, parola latinissima che indicava “detriti, immondezza, impurità”, usata da Dante per descrivere l’effetto di eliminazione delle incapacità intellettive prodotto in lui dalla vista radiosa di Beatrice (nel XXVI del Paradiso), è finita nel nostro lessico quotidiano, col significato di “minuzia insignificante”. E la parola è in rima con mille milia, locuzione che, seppure di varia interpretazione nel testo dantesco, circola nella nostra lingua col significato che ben conosciamo e ha finito per dare il nome a una famosa competizione automobilistica. Il poema, certo, è dominante in questo panorama del nostro uso linguistico. Ma anche le altre opere volgari di Dante scorrono nelle vene della nostra lingua e della nostra cultura. E tra le latine ha acquistato nuovissimo rilievo il De vulgari eloquentia, al quale siamo tornati con interesse fortemente accresciuto dal nostro attuale bisogno di osservare e riosservare l’intero paesaggio linguistico italiano, con le sue innumerevoli varietà, e anche perché ci poniamo con spirito più acuto il tema dell’insorgenza delle lingue di cultura (“illustri” nel lessico del suo primo robusto teorico) e quello del confronto della nostra con le altre lingue letterarie europee. Per quanto riguarda i modi di accostamento a Dante, il fenomeno culturale oggi emergente sembra legato agli sviluppi del “teatro di parola”: in questo campo il poema dantesco si è fatto subito spazio. Da tempo antichissimo la Commedia, per la sua intrinseca vocalità, è stata oggetto di lecturae (inaugurate da Boccaccio nel 1373), compiute in sedi di alta tradizione a opera di studiosi e commentatori con sicura patente filologica e ha beneficiato dell’opera di esperti “dici-
Nino Carmine Pitti, Trittico della Divina Commedia, particolare, 2010, www.ninocarminepitti.it.
diale di ogni epoca, fino all’ultima generazione. Restando nell’orizzonte italiano, pensiamo a due autori “eterodossi” come Pasolini e Sanguineti, il secondo anche come critico dantesco fecondo e di grande forza. E al caso particolarissimo di Primo Levi, al quale, mentre sprofondava nella bolgia della malvagità estrema nel campo di sterminio di Auschwitz, affiorò improvvisa e tumultuosa la memoria del canto di Ulisse; e La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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SAPERI tori”, tra i quali si colloca ora con grande dignità Vittorio Sermonti. Un filone addirittura preceduto dalle declamazioni del divino poema in botteghe e piazze, a opera di osti e artigiani che, a dire dello sdegnato Petrarca, con rozze voci e storpiature del testo facevano sconcio della poesia. Una via intermedia tra le due forme rappresentano le attuali vere e proprie fruizioni sceniche, con attori professionisti. Il fenomeno è complesso, tali e tanti sono gli attori di grido che dalla seconda metà del Novecento (ricordiamo almeno Ruggero Ruggeri, Romolo Valli, Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman, Arnoldo Foà, Ivano Marescotti, “lettore”, ma anche creativo rielaboratore dei temi danteschi) sono stati attratti da questa prova, e tanto diverse sono le impostazioni che questa pratica assume. Si arriva così al fenomeno Benigni: non solo potenziato dall’esecuzione in vere piazze affollate, con propagazione immediata dello spettacolo a più ampie platee attraverso i mezzi audiovisivi, ma caratterizzato dalla marcatissima maschera giullaresca dell’attore e dalla sua intenzione (anche questa giullaresca) di attualizzare sociopoliticamente i contenuti del poema. Non è l’unico caso di “torsione” del testo dantesco, perché alquanto precedenti sono le varie operazioni compiute da Federico Tiezzi e dalla sua compagnia, che hanno anche coinvolto poeti di prima grandezza quali Sanguineti, Luzi e Giudici come “riscrittori” dei canti danteschi. Corrono le dispute sull’accettabilità di questa o quella resa del testo dei singoli esecutori, ma non c’è dubbio che questo è per sua natura ampiamente legato alla realizzazione fonica, talora proprio ad alto volume, e in molte porzioni anche mimica e scenica, e dunque alla risonanza generata da un largo pubblico presente. L’animazione del testo dantesco mediante gli interventi corporei dei suoi interpreti di teatro è forse oggi, grazie anche all’esistenza dei mezzi di diffusione e ripetizione a distanza degli spettacoli, l’avventura più sconvolgente a cui il poema potesse andare incontro. Ma non dimentichiamo le scosse che questo ha prodotto in tutti i tempi in un campo non molto lontano da quello fin qui evocato: il campo delle arti figurative, cioè delle interpretazioni pittoriche, infinitamente varie, offerte anche queste già dai miniatori trecenteschi e dagli incisori degli incunabuli e poi, in Italia e fuori, dagli artisti di ogni epoca e stile, dai rinascimentali (Botticelli, Signorelli, Stradano, Zuccari) ai romantici (Füssli, Blake, D. G. Rossetti, Delacroix, Flaxman, J. A. Koch, Doré, Scaramuzza, Rodin) e ai novecenteschi e contemporanei (A. Nattini, A. Martini, Guttuso, Dalì, Sassu, R. Savinio). L’interprete figurativo più popolare dell’età moderna
resta Gustave Doré, sia per l’ampiezza della sua serie d’illustrazioni, sia per la sua capacità di rendere fortemente, nel segno nero delle incisioni, l’atmosfera luciferina dell’Inferno dantesco. Proprio queste incisioni hanno impressionato da ragazzo il fumettista giapponese Kiyoshi Nagai, il creatore della saga dei Mazinga, che vi si è ispirato per creare, dal 1971, le serie di manga (fumetti) Mao Dante e Devilman. L’occasione immediata di queste riflessioni ci è data da un’ardita iniziativa dell’editore Loescher e dell’Accademia della Crusca: lanciare un invito, rivolto soprattutto ai giovani e quindi largamente nelle scuole, a misurarsi con la recitazione, liberamente impostata, di un prescelto episodio della Commedia, e proporre parallelamente la riedizione anastatica di un cimelio della filologia dantesca, il “Dante della Crusca”. Si tratta della prima edizione del poema fondata “criticamente” su un alto numero (un centinaio) di manoscritti e stampe, realizzata nel 1595 dagli Accademici della Crusca, come prima prova delle loro proclamate intenzioni di costruire il grande Vocabolario della lingua italiana basandolo su un corpus di testi accertati. Fu quello il segnale di un rilancio senza più contrasti del supremo valore linguistico della Commedia. Rilancio più che opportuno, perché quel valore era stato messo in dubbio decenni prima, dal gusto classicheggiante e levigato del Bembo, allergico agli ardimenti e alla varietà di una lingua di smisurata forza, che a lui sembrava “rassomigliare a un bello e spazioso campo di grano, che sia tutto d’avene e di logli e d’erbe sterili e dannose mescolato, o ad alcuna non potata vite al suo tempo, la quale si vede essere poscia la state sì di foglie e di pampini e di viticci ripiena, che se ne offendono le belle uve” (Prose della volgar lingua, l. II, xx). Sic! Una lingua che, dopo sette secoli, invece stravince su di noi, ci possiede irresistibilmente quando cerchiamo di andare a fondo nel nostro sentire, lottiamo per abbattere il male, siamo attratti dall’avventura delle scoperte, aneliamo conoscere l’amore nella sua essenza suprema: che solo Dante ha intravisto e suggellato nelle dieci parole (articoli compresi) dell’ultimo verso del poema. Francesco
Sabatini è stato professore ordinario di Storia della Lingua Italiana in diversi atenei e, in ultimo, presso l’Università Roma Tre. È presidente onorario dell’Accademia della Crusca.
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SAPERI
I poeti nel... vasetto
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La distanza linguistica tra noi contemporanei e i classici della letteratura può essere fonte di sorprendenti scoperte e di avventure tragicomiche.
a ragazza ha una nuvola di capelli rossicci appuntati precariamente a sommo il capo, che dondola di qua e di là mentre parla. Parla in modo espressivo, quasi appassionato, anche quando deve dire che corso di laurea segue, e quale programma porta. Si sporge sul tavolo, ride un po’ nervosamente, sgrana fin troppo spesso verdi occhi meravigliati. Ogni tanto, si volta a raccogliere l’incoraggiamento di un gruppetto di amiche che assistono, legittimamente, all’esame. Ridacchiano. Si vede che vorrebbe una prova più, come dire, più partecipata, più confidenziale, meno formale, in cui possa parlare anche di sé, di quello che ha provato, di quello che le è piaciuto; non solo dei materiali del corso. Al collo porta una sciarpetta multicolore, che continua ad allargare con tutt’e due le mani, come cercando respiro. Quando si gira verso la sua piccola claque, mostra una fila di brillantini colorati che le percorrono tutto l’orlo dell’orecchio, sempre più fini; l’ultimo quasi invisibile. “Prendiamo una rima di Dante giovane. Prendiamo ‘Guido i’ vorrei’. Ha presente ‘Guido i’ vorrei che tu e Lapo e io…’?”. “Sì sì, adesso lo trovo”. “Non c’è fretta, nessuna fretta”. E mentre le mani percorrono i fogli, imbrogliandosi un poco, cerco di sciogliere il nervosismo, di suggerire qualche spunto. “È un bel sogno, no? Un sogno d’amore e d’amicizia… un plazer, in fondo…”. Il suggerimento cade nel vuoto, e io non ho cuore d’insistere (Sa che cos’è un plazer? Cosa significa? Ne potrebbe citare altri esempi? E qual è il suo contrario?
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Come, signorina, non conosce Cecco Angiolieri). La nuvola rossa si agita finché con un sospiro di esagerato sollievo la pagina desiderata si squaderna sotto i nostri occhi. Verde sguardo interrogativo spalancato sull’enigma. “Cosa vuole da me? Che ne faccio?”. “Legga, signorina, legga tranquillamente”. Legge, legge tranquillamente. Legge male. Non fa sentire l’endecasillabo e non segue la sintassi logica. Legge incespicando nelle cesure, ignorando i troncamenti, fermandosi dove non dovrebbe; cercando senza saperlo di spianare il ritmo poetico su una generica misura prosaica, sulla musica informale dei suoi discorsi di tutti i giorni. Ma: ho mai insegnato, a lezione, come si legge un sonetto? Ho fatto qualche accertamento, anche minimo, di come loro leggono? Li ho mai corretti prima d’ora? No. E allora zitto. Zitto e subisci l’incespichìo, le fermate non dovute e tutto il resto. Nuovo verde sguardo interrogativo spalancato, stavolta con lieve spavento, sulla domanda: “E adesso? Forse possiamo cominciare con la parafrasi. Me lo parafrasi ordinatamente, verso verso”. “Guido, io vorrei che tu e Lapo e io fossimo presi da un incantamento, e messi in un vasel…”. “No, guardi, se me lo rilegge siamo a punto e a capo. Ho detto parafrasare, non rileggere…”. Pausa. “Senta, ma perché non mi dice con parole sue di che si tratta? Il poeta sogna, si augura, qualcosa, no? Che cosa, esattamente? Di trovarsi con i suoi amici…”, “Sì, con i suoi amici: Guido...” “Guido chi?”. “Guido Cavalcanti”. “Benissimo. Guido e Lapo. Lapo chi è?”. Sorriso un po’ imbarazzato. “Lapo Gianni. Pensi che Gorni legge questo verso con Lippo al posto di Lapo. Lippo è un altro poeta del gruppo, s’intende. Che ne pensa? Le piacerebbe così: Guido i’ vorrei che tu e Lippo e io…?”.
Riccardo Bruscagli
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SAPERI Cerca d’indovinare la risposta giusta, e non s’accorge che la risposta giusta non c’è. “Via, signorina, vediamo se ne usciamo. È così semplice, così naturale, in fondo. Tre amici, le loro donne – via, le loro ragazze – e il sogno di andarsene via… Chi è il buono incantatore del verso 11?”. Lo sguardo verde perlustra impercettibilmente le note, ma la nota sul buono incantatore è, maledizione, alla pagina seguente. “È mago Merlino, signorina, è mago Merlino. Questo è un sonetto tutto arturiano, è un’eco meravigliosa delle leggende di re Artù che Dante conosceva e ammirava… Arturi regis ambages pulcerrime…” Meraviglia ulteriore. Mago Merlino in Dante le sembra probabilmente genuinamente buffo. Si volta a raccogliere solidarietà
dalla sua piccola claque. La piccola claque non riesce a capire molto bene come sta andando, ma sorride volenterosa. “Signorina, il vasel. Cos’è il vasel?”. Appena l’ho chiesto, una luce fredda come una lama mi attraversa il cervello. Oh no. Non dirlo. Ti prego non dirlo. E invece, con un sorriso incerto, lo dice. “È… è un vasetto. Sì, un vasetto”. Oh cari poeti e dame trascinati alla ventura sul vascello incantato di Mago Merlino! In un vasetto: pigiati, tutt’e sei, in un vasetto.
Riccardo Bruscagli è preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze.
Nino Carmine Pitti, Trittico della Divina Commedia, particolare, 2010, www.ninocarminepitti.it. 19
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Yue Minjun, Untitled, olio su tela, 2008.
Il confronto fra gener La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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erazioni
DOSSIER I giovani, si ripete ossessivamente, “non hanno più un futuro”, ma in realtà chi può averglielo sottratto se non gli adulti, i loro stessi genitori?
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el dibattito politico attuale la questione del rapporto fra generazioni sta diventando sempre più importante, tanto da oscurare le più tradizionali categorie della filosofia politica (classe, ceti, individui). A differenza del passato, oggi il contrasto fra giovani e anziani si pone non tanto sul piano della cultura e dei modi di vivere quanto su quello economico e sociale. Al centro delle polemiche vi sono soprattutto la disoccupazione, l’allontanarsi della pensione e il doverla pagare di più rispetto al passato, l’instabilità sociale prodotta dai contratti di lavoro indeterminati, e quindi il conseguente “bamboccismo”, ossia il ritardo nel formarsi una famiglia propria. La prima osservazione è che l’acuirsi di questi problemi non si accompagna affatto a una conflittualità sociale in termini generazionali. Per i lettori più giovani potrebbe essere una scoperta sapere che i loro padri svilupparono, al loro tempo, atteggiamenti molto più duri e contestatori verso i genitori. “Non fidatevi di nessuno che abbia più di trent’anni”, suggeriva
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Ubaldo Nicola 23
uno slogan degli anni Sessanta. E come dimostrano le riflessioni di Franco Ferrarotti, “l’uccisione del padre”, simbolo massimo dell’autoritarismo, era allora fra i temi all’ordine del giorno della cultura più impegnata. In realtà si potrebbe affermare che, nonostante si fondi su una legge biologica e naturale, ossia l’invecchiamento dell’individuo, non c’è nulla di più storicamente determinato del conflitto fra generazioni, che sembra presentarsi in termini sempre nuovi a ogni cambio generazionale. Se ad esempio, dopo la “rivoluzione culturale” degli anni Sessanta e Settanta, consideriamo il decennio seguente, vediamo riemergere una problematica del futuro nell’ambito della questione ecologica e tecnologica. Uscì infatti nel 1979 Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica del filosofo tedesco Hans Jonas, in cui l’allarme per le potenziali ricadute negative del “progresso” diventava per la prima volta tema di una riflessione etica sui diritti e i doveri delle generazioni. Altre questioni emersero poi negli anni Novanta: il successo internazionale di alcuni studi demografici, ad esempio La culla vuota di Philip Longman, sottolineò il progressivo invecchiamento della popolazione, provocato da una parte dalla diminuzione della natalità e
DOSSIER | Il confronto fra generazioni dall’altra dalla maggior durata della vita, ponendo così un’altra questione essenziale al patto fra generazioni, ovvero la crescente difficoltà nel mondo contemporaneo di prestare un adeguato accudimento ai genitori anziani da parte dei figli. Era l’inizio di una tendenza destinata a sfociare, dopo il 2000, nel tema ancor più generale dell’invecchiamento del welfare state. Gli Stati assistenziali nati nel secondo dopoguerra sono diventati vecchi assieme ai giovani di allora ed è proprio il loro drastico ridimensionamento che stiamo vivendo in questi anni a porre i
problemi di giustizia di cui vogliamo parlare in questo numero de “La ricerca”. Dal punto di vista teorico, il problema dell’equità generazionale è abbastanza semplice. Se si parte dall’assunto che gli individui seguano i propri interessi economici, che cosa si può usare per impedire alla generazione più vecchia di saccheggiare la nuova derubandola dei suoi guadagni? Esiste un’ovvia resistenza nei giovani a operare in modo scorretto rispetto agli anziani, perché il loro comportamento potrebbe diventare un esempio per quelli che verranno dopo a fare la stessa
Zhu Wei, China 1 and 2, olio su tela, 2006. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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cosa. Tali resistenze, però, non esistono presso i più anziani, dal momento che saranno morti quando i più giovani daranno il cambio. Esiste di fatto, dal punto di vista prettamente economico, una naturale instabilità interna in questo campo, tanto che secondo alcuni economisti bisognerebbe provvedere a creare misure ad hoc per prevenire questo saccheggio intergenerazionale. Sebbene questa crisi del futuro abbia dimensioni mondiali, in connessione con le crisi economiche che ormai da cinque anni stanno sconquassando l’economia globale, in Italia si presenta con particolare acutezza a causa dell’enorme debito pubblico accumulato nella (e dalla) generazione precedente sino a diventare il secondo in assoluto a livello mondiale. Il suo ridimensionamento, ormai necessario, si profila come un’ombra grigia che graverà sui futuri decenni, imponendo pesanti sacrifici alla prossima generazione e forse ancora oltre, come ci conferma l’economista Lorenzo Rampa cui abbiamo chiesto di delineare i tratti della situazione italiana. Se tutto ciò è vero, appare evidente il consumarsi di un’intrinseca ingiustizia, pur nello scrupoloso rispetto della legalità formale: quella del Sessantotto, a suo tempo celebre come la generazione della contestazione giovanile, sembra concludere il suo ciclo biologico come “generazione egoista”, arroccata sul principio del rispetto dei “diritti acquisiti”, che se assumessimo un criterio di giustizia su base generazionale potrebbero ben essere definiti come privilegi, vantaggi concessi a una specifica frazione della società sulla base del mero criterio dell’età. 쐽
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La storia recente di un’idea Il tema del contrasto fra le generazioni è prettamente moderno. Se ne discute da non più di una generazione e da allora ha assunto significati sempre diversi di decennio in decennio. Dalla dimensione culturale delle ribellioni giovanili degli anni Sessanta siamo passati oggi alle più concrete questioni dell’equità economica e sociale.
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Harry Moody
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egli anni Ottanta scoppiò un dibattito che fu salutato, a quel tempo, come l’incubo della gerontologia. Molti tra i conservatori, ma anche tra esponenti di spicco del partito liberale, cominciarono a dire che gli anziani guadagnano troppo a scapito delle nuove generazioni. Questo “dibattito sull’equità generazionale”, come fu definito, non è scomparso, ma ha assunto forme diverse nelle diverse Nazioni. Come “Terminator”, la giustizia intergenerazionale è un’idea che non muore. Nel ventunesimo secolo la sfida della giustizia tra le generazioni non è limitata a una competizione tra gruppi di età diversa, ma si estende a una serie di azioni che sembrano mettere a rischio il futuro di quelli che verranno dopo. Come si adatteranno le assicurazioni previdenziali a un rapido invecchiamento della popolazione? L’impatto della popolazione umana sull’ambiente naturale permetterà alle prossime generazioni di avere una qualità della vita paragonabile alla nostra? I governi stanno modellando le loro politiche fiscali in modo da garantire un’economia sostenibile nel 25
lungo termine? I dibattiti sui cambiamenti generazionali, sul riscaldamento globale e sulla demografia sono parte di una storia molto lunga, a partire da Thomas Malthus e Edmund Burke, passando attraverso filosofi come Daniel Challan e Norman Daniels, fino a giungere al dibattito del Ventunesimo secolo, concentrato sul tema dell’invecchiamento della popolazione. Nell’ottica di garantire politiche globali per una società che invecchia, la sfida di una giustizia fra generazioni prende un’importanza mai avuta prima nella storia, anche per quanto riguarda la salvaguardia dell’ambiente. L’idea di una giustizia intergenerazionale diventa prominente quando il futuro delle generazioni future appare a rischio. Negli anni Sessanta, per esempio, l’ostilità verso gli anziani (“Non fidarti di nessuno oltre i trent’anni!”) esprimeva la paura che gli anziani al potere potessero mettere a rischio le prospettive di progresso condivise dalla generazione del baby boom del secondo dopoguerra. Quelli nati dopo la seconda guerra mondiale non avevano esperienza della depressione economica o della crudeltà della guerra. Fu fa-
Wang Guangyi, Great criticism, olio su tela, 2003.
cile per quelli cresciuti nella pace e nella prosperità degli anni Cinquanta farsi l’idea che il progresso economico e l’espandersi della giustizia sociale sarebbero stati qualcosa che sarebbe continuato costantemente nel tempo. I giovani negli anni Sessanta sono cresciuti in un tempo in cui i governi ed altre istituzioni sociali si basavano su alti standard di legittimità e credibilità. Il senso di pericolo per le nuove generazioni cominciò a crescere negli anni Settanta sotto la pressione della crisi ambientale e la stagnazione economica. Non si poteva più credere a un “mito del progresso infinito”. Gli anni Settanta sono stati testimoni di crisi del petrolio e declino dei mercati. Mentre il mondo si rendeva conto della possibilità della diminuzione delle risorse naturali e La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
del declino economico, ci si cominciò a interrogare sui diritti di quelli che sarebbero venuti dopo. Ma negli anni Settanta, la colpa di questa situazione non era più data agli anziani. Al contrario, gli anni Settanta furono un’epoca in cui l’età avanzata cominciò a essere concepita come un progresso sociale dovuto alle migliori condizioni di vita, non paragonabile a quello che la vecchiaia era prima di tale progresso. Qualsiasi cosa possano dire i teorici riguardo al declino di un “mito condiviso” del progresso, l’esperienza vissuta dalla generazione che rappresenta gli anziani di oggi sembra contenere in modo decisivo l’idea di progresso che è stata fondamentale alla modernità dal Rinascimento fino a oggi. Per le generazioni più giovani, il 26
mito condiviso e la visione stessa delle cose non sono chiari e vengono filtrati da una maggiore quantità di incertezza. Quelli che promuovono una maggiore solidarietà intergenerazionale devono quindi pensare in modo attento le domande relative alle norme che possono regolare la giustizia tra le generazioni. Il modo migliore per cominciare a pensarci è comprendere la storia recente dell’idea e come essa ha formato il nostro discorso politico riguardo a come gestire l’invecchiamento della popolazione come anche in altri ambiti. Harry
Moody è direttore del Brookdale Center of Aging presso l’Hunter College di New York.
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Uccidere i padri, tutti “Non fidarti di nessuno che abbia superato i trent’anni”, suggeriva uno slogan in voga durante le ribellioni giovanili degli anni Sessanta e Settanta. Il contrasto generazionale consisteva in questi decenni in una rivolta contro gli anziani e i genitori, espressione di un autoritarismo che si voleva allora combattere nella società, nella scuola e nella famiglia.
Franco Ferrarotti
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incomprensione del ruolo positivo e necessario dell’autorità predispose la generazione del Sessantotto al parricidio sommario. Si comprende così perché la loro protesta non ha potuto trasformarsi in progetto. Mancava una forza coagulante e direttiva. Si giurava sugli effetti automaticamente positivi dello spontaneismo. Analisti superficiali e falsi profeti, di cui non si sa oggi se ammirare di più l’improntitudine o la perversa vocazione alla corruzione, assicuravano sulla scorta di un Nietzsche mal compreso che “bisogna avere dentro di sé un caos per dare al mondo una stella”. Beninteso, dimenticavano di aggiungere che bisogna anche essere Friedrich Nietzsche. La lotta tra padri e figli nel Sessantotto era condannata fin dall’inizio a essere crudele, sanguinosa e inutile, appunto come certe lotte in famiglia che nella loro stessa cattiveria e crudeltà annunciano già che alla fine non ci saranno né ci potranno mai essere né vincitori né vinti, che nessuno vincerà, che la lotta sarà una perdita per tutti e che la sofferenza sarà tanto grande quanto sterile. Gli esempi letterari 27
possono aiutarci a capire. In Vittima del dovere di Eugène Ionesco, un figlio incontra il padre; la madre, abbandonata dal padre, gli aveva detto: “Dovrai perdonare, figlio mio, questa è la cosa più difficile”. E poi il figlio al padre: “Padre, non ci siamo capiti... Eri duro, non eri forse tanto cattivo. Non è forse colpa tua. Non odiavo te, ma la tua prepotenza, il tuo egoismo... Mi battevi. Ma io ero più duro di te. Il mio disprezzo ti ha colpito molto più fortemente. Il mio disprezzo ti ha ucciso... Avremmo potuto essere buoni amici. Avevo torto di disprezzarti. Non valgo più di te. Guardami... Ti assomiglio... Se tu volessi guardarmi, vedresti quanto ti assomiglio. Ho tutti i tuoi difetti”. Il giovane figlio di Ionesco parla già come parleranno i reduci della contestazione, quelli che sono tornati nei partiti, che hanno trovato buoni posti nell’industria, che hanno monetizzato la protesta trasformandola in carriera. Ma l’incubo paterno è stato un momento di angoscia reale che ha velato la complessità della vita sociale e che, per un istante almeno, ha potuto far credere a tutta una generazione che la rivo-
DOSSIER | Uccidere i padri, tutti
Wang Guangyi, Chanel, olio su tela, 2003.
luzione fosse a portata di mano e che la vita di una società potesse svilupparsi ordinatamente senza guida, in maniera acefala, per singoli imprevedibili impulsi: “L’immaginazione al potere”. Per la generazione del Sessantotto la figura paterna ha assunto le sembianze di quell’orribile padre seduto a capotavola, tronfio e sicuro di sé, di cui scrive Kafka nella Lettera al padre, o quella del padre di Paul Léautaud, ormai malfermo sulle gambe, ma sempre rozzo e manesco, che scorreggiava a tavola e si ficcava le dita nel naso. “Non vi sono padri buoni, è la regola”, concludeva Jean Paul Sartre, “non prendiamocela con gli uomini ma con il legame di paternità che è marcio. Far figli, nulla di meglio; averne, che iniquità! Fosse vissuto, La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
mio padre si sarebbe sdraiato su di me per lungo, e mi avrebbe schiacciato. Per fortuna, è morto in giovane età: in mezzo a tutti gli Enea che portano sulle spalle i loro Anchise, io passo da una riva all’altra, solo e odiando questi genitori invisibili a cavallo sui loro figli per tutta la vita; ho lasciato dietro di me un morto giovane che non ebbe il tempo di essere mio padre e che potrebbe essere, oggi, mio figlio. Fu un bene o un male? Non lo so; ma sottoscrivo volentieri il verdetto di un eminente psicoanalista: non ho il super-ego”. I protagonisti del Sessantotto meritano le attenuanti. Il loro errore teorico aveva una forte base emotiva. La loro insufficienza analitica era del tutto naturale in persone 28
che non ritenevano di aver tempo da perdere. Odiavano i loro padri per prenderne il posto. Ma intanto è mutato lo stile, si sono allentati i vincoli; c’è più scioltezza, una maggiore fluidità nei rapporti. Le istituzioni, sclerotizzate, sono state saltuariamente scosse dalle fondamenta. 1 loro sinistri scricchiolii hanno salutato il nuovo mondo. Quale? Il mondo dei padri di ritorno. Si è fatta strada la consapevolezza di una distinzione fondamentale tra potere e autorità, ma anche fra paternalismo che soffoca le potenzialità individuali e autorità paterna che guida all’emancipazione e all’autonomia. È una severa lezione di modestia dover trovare i termini di questa distinzione in un testo di centocinquant’anni fa, La democrazia in America di Alexis de Tocqueville: “Al disopra dei cittadini si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, previdente e dolce. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia”. Ma è poi in Max Horkheimer che la distinzione fra autorità paterna e autorità della burocrazia statale qui embrionalmente accennata troverà il suo pieno sviluppo sul piano teorico. Autorità e autoritarismo non vanno confusi. Esiste un’autorità come “dipendenza accettata” che può esercitare una funzione fondamentale per lo “sviluppo delle energie umane”. L’istituzione sociale in cui l’autorità non necessariamente autoritaria può dispiegare la sua benefica funzione è la famiglia. Naturalmente, la famiglia è parte della società globale, e la famiglia borghese “produrrà” i tipi autoritari e i comportamenti sotto-
DOSSIER messi che sia gli imperativi tecnologici sia l’organizzazione sociale del sistema di produzione capitalistico richiedono. Ma sarebbe un errore procedere a equiparazioni meccaniche e sommarie fra società globale e società familiare. È vero che la famiglia si va desacralizzando e che lo scenario, anche per merito della contestazione del Sessantotto e nonostante tutte le sue intemperanze e i suoi errori, appare profondamente mutato. La lotta contro il padre ha perduto il suo significato fondamentale. Come è stato correttamente osservato dallo psicanalista tedesco Alexander Mitscherlich in Verso una società senza padre, “con opera incessante e non sempre intenzionale, i processi sociali generali, che hanno portato alla società industriale di massa, hanno sconvolto la figura del padre venerabile, onnisciente, responsabile di ogni de-
cisione. Tutto dimostra che le forme paternalistiche nello Stato e nella Chiesa trovano scarsa rispondenza nell’esperienza quotidiana delle masse”. E tuttavia, lungi dall’avere oggi sotto gli occhi una società di monadi leibniziane o di “egoità” alla Fichte, stiamo assistendo al ritorno dei padri. L’esigenza della direzione paterna assume forme nuove. Lo stesso concetto di patria potestas sul piano del diritto familiare è stato profondamente modificato, diluito, esteso alla madre con gli apporti laterali dei figli, non più sudditi della compagine familiare ma compartecipi. Ma l’esigenza della direzione paterna è riemersa nei termini di un’insopprimibile esigenza funzionale. Laddove non venga soddisfatta, essa dà luogo a fenomeni di aggregazione di tipo regressivo o irrazionalistico". La stessa forma-famiglia, dopo i furori della contestazione nei suoi
Tang Zhiang, Meeting - Shanghai n. 2, olio su tela, 1999. 29
aspetti più immediati e irriflessi, viene recuperata dai giovani d’oggi, e non solo per l’ovvia difficoltà di trovare alloggio. La figura e il ruolo paterni hanno acquistato, o vanno faticosamente scoprendo, nuove dimensioni. La famiglia, da chiusa fortezza verso il mondo esterno, va trasformandosi in “famiglia aperta”. La stessa società, un tempo immaginata istituzionalmente rigida e stratificata, si configura come una “società fuori tutela”. Sviluppi positivi, che però non hanno nulla di automatico, che anzi impongono la riscoperta del senso della meta collettiva, del télos sociale. Franco
Ferrarotti è un sociologo autore di numerosi testi sui temi del potere e della marginalità. Questo brano è tratto da: Nostalgia dell’autorità, in In nome del padre, Laterza, Bari, 1983.
DOSSIER
Il dovere della lungimiranza Di che cosa ogni generazione deve ritenersi responsabile? Del benessere di quella seguente, certo, perché la cura dei figli costituisce una dimensione umana insopprimibile. Ma di quelle ulteriori? Dobbiamo cercare di prevedere anche le esigenze dei nostri posteri, nipoti e pronipoti che vivranno in un mondo che oggi possiamo solo vagamente immaginare? È stato il filosofo tedesco Hans Jonas il primo a prendere in seria considerazione questo problema, a partire dall’assoluta novità storica delle capacità distruttive a lungo termine del progresso tecnologico contemporaneo.
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Hans Jonas
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he cosa si può dire sull’estensione temporale della responsabilità politica? Naturalmente essa ha anzitutto a che vedere con ciò che è continuo, poiché la necessità del momento richiede un rimedio così come l’occasione momentanea esige di essere colta. Ma ne fa parte la stessa lungimiranza, resa del resto necessaria in una misura che non ha precedenti dalla specifica portata causale delle azioni moderne. Questa dimensione della lungimiranza presenta due orizzonti diversi: quello più prossimo, all’interno del quale, grazie alle inferenze consentite dal sapere analitico disponibile, si possono prevedere in via più o meno ipotetica, al di là della situazione immediata, gli effetti della singola iniziativa (ad esempio l’aumento o la riduzione delle tasse); e l’orizzonte più ampio, nel quale la somma delle imprese attuali conduce alle grandezze cumulative dell’iterazione con tutti i fattori 30
della condizione umana, intorno alla quale, date le molte incognite del calcolo, non si può più affermare nulla di veramente convincente, all’infuori di due elementi: lo sfuggire al controllo di certe possibilità casualmente a portata di mano (eventualmente) e l’estendersi all’intero destino umano dello smisurato ordine di grandezza di quelle possibilità. Per quanto concerne l’orizzonte prossimo, esso oltrepassa di gran lunga ciò che rientrava nel raggio dell’arte di governo precedente e in generale della pianificazione umana. Tuttavia non si può passare sotto silenzio un paradosso. Rispetto ai nostri antenati premoderni, per un verso sappiamo di più, per l’altro di meno rispetto al nostro futuro. Di più, perché il nostro sapere analitico-causale applicato metodicamente al dato è molto maggiore; di meno, perché siamo alle prese con una condizione costitutivamente mutevole, mentre le generazioni precedenti avevano a
DOSSIER che fare con una condizione complessivamente stabile (o che sembrava tale). Quelle potevano avere la certezza che i costumi, i sentimenti e le idee, i rapporti di potere, le forme economiche e le
risorse naturali, le tecniche di guerra e di pace non sarebbero stati nella generazione successiva molto diversi che nella loro. Noi invece sappiamo, se non altro, che la maggior parte di queste cose
Zeng Fanzhi, Mask n. 1, olio su tela, 2006. 31
sarà diversa. È la differenza tra una situazione statica e una situazione dinamica. La dinamica è il marchio della modernità; essa non è un accidente ma una qualità immanente dell’epoca, e fino a prova contraria costituisce il nostro destino. Il che significa che dobbiamo attenderci sempre qualcosa di nuovo, senza però poterlo prevedere; e che il mutamento è sicuro, ma non lo è quel che subentrerà. Invenzioni e scoperte future non possono essere anticipate e preventivate. Quasi certo è soltanto che ve ne saranno a getto continuo e che alcune saranno di grande rilevanza, talvolta persino di portata rivoluzionaria. Ma su questo non si può fondare nessun calcolo. Tale incognita “x” del rinnovamento permanente è presente come uno spettro in tutte le equazioni. Sotto questo caveat stanno tutte le proiezioni che, con l’aiuto delle nostre analisi e del computer, abbiamo sviluppato in una tecnica delle previsioni. Esse ci dicono di più e con maggiore precisione e anticipo di quanto potessero fare le tradizionali valutazioni del futuro, sono costrette però a lasciare in sospeso un numero anche maggiore di aspetti. Il loro tenore è press’a poco il seguente: sulla base dei dati e trends attuali (viene inclusa nel calcolo la dinamica in quanto tale) risultano per il 1985 questa e quella situazione per l’approvvigionamento energetico, per l’anno 2000 all’incirca quell’altra; grazie a certi progressi di una tecnica in evoluzione, ad esempio quella atomica (e il calcolo precedente fornisce un motivo per lavorare alla sua accelerazione), il quadro potrà migliorare in questo o quel modo. Stando all’esperienza si può con i debiti sforzi far conto su tali progressi: la certezza non sarà totale, ma sufficiente a imporre quegli
DOSSIER sforzi e (quando la causa in questione sia rilevante) a giustificare anche il rischio del fallimento di tentativi dispendiosi. In tal modo la previsione si traduce in politica pratica e questo nel senso che l’agire indotto dalla previsione finisce per favorirne oppure ostacolarne l’attuazione. Specialmente quest’ultima eventualità è di norma la causa prima, dato che la previsione negativa costituisce a ragione un motivo più forte per l’intervento politico e certamente un imperativo più cogente per la responsabilità, di quanto non sia la previsione positiva. In questo modo si devono intendere le stime demografiche per i prossimi decenni e fino al millennio futuro. Ciò che per la dinamica intrinseca delle grandezze in crescita non può più essere modificato (a meno che non ci sia una distruzione di massa) impone misure preventive di copertura del fabbisogno alimentare futuro che d’altra parte scongiurino la rovina ecologica. Ciò che invece resta ancora aperto all’intervento esige una politica volta a correggere tempestivamente la curva che va in direzione della catastrofe. La profezia di sventura è fatta per scongiurare che si verifichi in realtà quanto è temuto; sarebbe il colmo dell’ingiustizia deridere in seguito gli allarmisti con l’argomento che in fondo non è andata poi così male; l’aver avuto torto sarà il loro merito. 쐽 쑺
Hans Jonas è stato un filosofo tedesco di origine ebraica, morto nel 1993, autore di molte opere sui temi della tecnica e dell’ecologia. Questo brano è tratto dal suo testo più celebre: Il principio di responsabilità. Un’etica per la società del futuro, Einaudi, Torino, 1979.
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La paura necessaria Secondo Hans Jonas la responsabilità verso il futuro implica una “euristica della paura”. È più facile distruggere che costruire e la capacità di prevedere a lungo termine gli effetti delle nostre scelte è molto scarsa. Ma come può progredire una società che assume la paura come orizzonte?
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econdo Jonas dobbiamo recuperare la paura dal nostro bagaglio biologico e imparare ad usarla come uno strumento che ci induce alla prudenza. Questo è l’argomento che ha procurato più critiche a Jonas, in parte motivate da un tono eccessivamente pessimistico e dalla mancanza di una riflessione più approfondita. Egli dice che dobbiamo imparare ad avere paura delle concrete possibilità che l’uso irresponsabile del nostro potere comporta e che di fronte al dubbio che l’incertezza alimenta dobbiamo sempre considerare l’ipotesi peggiore, perché la posta in gioco è davvero troppo alta, e non possiamo affidarla al caso. Cerchiamo adesso di considerare alcuni aspetti di questo sentimento caduto in disuso. La paura è un sentimento molto antico che, come i neuroscienziati insegnano, nasce nell’amigdala, la parte più antica del nostro cer-
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Maria Antonietta Foddai
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vello, ed è legata all’istinto di conservazione che ha consentito, alla nostra e ad altre specie animali, di sopravvivere ed evolversi. Sotto questo aspetto la paura si presenta come un’emozione sana e utile, direttamente legata alla nostra conservazione. È proprio questo che per Jonas significa “euristica della paura”, la possibilità di considerare la paura come uno strumento che ci consente di apprendere alcuni elementi utili alla risoluzione dei problemi che coinvolgono l’intera umanità. Per esempio, che di fronte all’alternativa tra un beneficio e un rischio che coinvolge l’intera collettività umana è bene fermarsi e riflettere sulle possibili conseguenze irreversibili. Per esempio, che in ogni decisione e azione che può scatenare effetti imprevisti o incerti è doverosa la prudenza. A volte è stato notato che Jonas dà l’impressione di voler fare ricorso a un sentimento superstizioso e irrazionale, ma soprattutto inutile, che avrebbe come effetto, se ascoltato, di arrestare lo sviluppo della conoscenza. In queste critiche vi è un aspetto molto importante che riguarda la libertà
DOSSIER della ricerca e dei limiti eventuali da porre a essa. In questo campo, il mero ricorrere alla paura significherebbe interpretare in modo semplicistico un problema complesso, la cui corretta gestione può essere ottenuta solo attraverso una maggiore dose di conoscenza, unita alla consapevolezza critica da parte della scienza del suo ruolo sociale. In realtà bisogna interpretare il ricorso alla paura in modo esclusivamente simbolico. L’intreccio tra etica e scienza ci dice infatti che, se vogliamo imparare a gestire i problemi che incidono sul nostro futuro, dobbiamo considerare una scienza aperta al discorso dei valori e delle scelte che ha abbandonato il paravento della neutralità e un’etica che si nutre di conoscenza per elaborare i suoi criteri di giudizio. La paura è come il campanello d’allarme che ci ricorda la nostra vulnerabilità, potremmo dire che è una specie di richiamo del nostro istinto di conservazione, più che uno sterile esercizio dell’ideologia della superstizione. La conoscenza è quell’elemento che fa la differenza tra una paura superstiziosa e irrazionale e una paura realistica e ragionevole. Solo acquisendo un maggior numero di conoscenze (mirato alla gestione degli attuali problemi) rispondiamo in modo corretto alla paura. Rendersi parte attiva, criticamente attiva, di questo processo conoscitivo è quello che comunemente definiamo un atteggiamento responsabile. Maria Antonietta Foddai è professore di Filosofia del diritto all’Università di Sassari. È l’autrice di Agire eticamente. Jonas e le nuove responsabilità, Tipografia Moderna, Sassari, 2005, da cui è tratto questo brano.
Zeng Fanzhi, Mask n. 9, olio su tela, 2007. 33
DOSSIER
Comunicare con i posteri Le scorie radioattive rimarranno pericolose per i prossimi 10.000 anni. Come spiegarlo ai nostri lontani pronipoti così che non si avvicinino ai depositi? Quali segni usare per comunicare con loro? Non certo quelli linguistici, data la nostra difficoltà a capire le antiche lingue, che non hanno più di 5.000 anni. Il problema, ancora irrisolto, è stato affrontato da un celebre semiotico americano, Thomas Sebeok, con un’idea molto originale.
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Augusto Ponzio
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ome espone lui stesso nel capitolo 13 del suo libro I Think I Am a Verb (pp. 203-229), poco dopo l’insediamento di Ronald Reagan quale quarantesimo presidente degli Stati Uniti, il Bechtel Group Inc. (Bechtel Corporation), la più grande compagnia americana nel campo dell’ingegneria, e più in particolare il suo dipartimento incaricato di studiare il problema della conservazione delle scorie nucleari, l’Office of Nuclear Waste Isolation (Battelle Memorial Institute) con sede a Columbus nell’Ohio, assunse Thomas Sebeok, uno dei maggiori semiotici del nostro tempo, come consulente della Human Interference Task Force (HITF), il gruppo di lavoro sulle scorie atomiche, assegnandogli la responsabilità di “ridurre la possibilità di future attività umane che potessero intaccare i depositi geologici di rifiuti ad alto livello di pericolosità”. Precisamente il suo compito, in quanto esperto di semiotica, e dunque competente di segni e di comunicazione, era quello di tro34
vare un modo sicuro per segnalare, nell’arco di 10.000 anni, la presenza, e il pericolo, di depositi di scorie atomiche. La Human Interference Task Force doveva infatti preparare un rapporto su questo argomento per sottoporlo all’attenzione della U. S. Nuclear Regulatory Commission, tramite il Department of Energy degli U.S.A. Questo rapporto fu preparato sotto gli auspici del Programma Nazionale per la Conservazione Terminale dei Rifiuti, relativo sia allo sviluppo sia all’utilizzo della tecnologia necessaria per il disegno, la costruzione, l’autorizzazione delle licenze e la messa in opera dei depositi. Nel settembre 1981, il rapporto della Task Force fu debitamente consegnato in attesa di essere approvato dal Department of Energy. Sebeok fa notare che la previsione di un limite di 10.000 anni – che attualmente equivale a circa 300 generazioni – è chiaramente un limite arbitrario; benché la proiezione fosse coerente con il Department of Energy’s Statement della Commissione di Regolamentazione Nucleare per
Zhang Xiaogang, Big family n. 8, olio su tela, 2001.
l’Elaborazione di Regole Segrete sui Rifiuti (DOE/NE-0007, 15 aprile 1980) e con alcuni criteri preliminari dell’Environmental Protection Agency (40 CFR 191, Working Draft n. 19, 1981), bisogna tuttavia tener presente che il periodo di radioactive half-life, per esempio, del torio 232, è di diecimila miliardi di anni. Sebeok fa anche riferimento all’“esauriente” studio di Fred C. Shapiro sui rifiuti radioattivi, apparso poco dopo la consegna del suo rapporto: Radwaste (New York, Random House, 1981), una fonte inestimabile di informazioni attendibili sull’intero campo dell’annosa questione dell’eliminazione dei rifiuti radioattivi, “montagne che continuano a crescere inesorabilmente mentre il nostro governo federale e gli Stati dell’Unione discutono su una soluzione definitiva per liberarci di questi materiali tossici”. La proposta da parte del Department of
Energy di vetrificare i rifiuti radioattivi (la stima del costo dell’opera era all’epoca intorno ai 500 milioni di dollari”) si scontra con il fatto che è difficile stabilire se l’uso del vetro borosilicato sia sicuro e con il problema di determinare i luoghi adatti a immagazzinare, sotterrare ed isolare rifiuti radioattivi, alcuni contenenti materiali che si prevede rimarranno letali per 240.000 anni. Sebeok cita a questo proposito Eliot Marshall (The Senate’s Plan for Nuclear Waste, “Science”, n. 216, 1982, pp. 709-710): “Anche se approvata quest’anno (1982, Nuclear Waste Policy Act), una legge come questa dovrà essere considerata soltanto come un incerto primo tentativo di soluzione del problema dei rifiuti nucleari. Non affronta nessuna questione di tipo tecnico e lascia il compito altamente difficile della scelta della località alla burocrazia”. Il Department of Energy stimava 35
che la data più prossima per disporre di un luogo definitivo come deposito sarebbe stato l’anno 2000, il famoso avveniristico anno 2000! Ma alcuni scienziati consideravano già questo obiettivo come impossibile da raggiungere. E oggi, nel 2012, come stanno le cose? L’ottimismo quando è accompagnato dal profitto non demorde! La “responsabilità verso le future generazioni” passa in terz’ordine. È interessante che Sebeok nell’elaborazione di un metodo per prevenire il contatto dell’uomo con i depositi di scorie per lo meno durante i primi 10.000 anni dopo la loro chiusura faccia affidamento e ricorso all’“irrazionale”, più che alla razionale o ragionevole trasmissione “di padre in figlio” delle informazioni circa la pericolosità delle scorie atomiche. La prima raccomandazione, egli dice, dovrebbe essere che le informazioni siano trasmesse ser-
DOSSIER vendosi di una combinazione di rito e leggenda creati e fatti crescere artificialmente: “La leggenda-e-rito, come qui la immaginiamo, sarebbe l’equivalente del lasciare una falsa pista, intesa a tenere il non iniziato lontano dal luogo pericoloso, per ragioni diverse dalla conoscenza scientifica della possibilità di radiazione e delle sue implicazioni: essenzialmente un sufficiente accumulo di superstizioni sarebbe il motivo per tenersi lontano da una certa zona permanentemente”. Si potrebbe pensare, aggiunge Sebeok, a un rito rinnovato annualmente, con la leggenda ripetuta anno dopo anno, mentre “la verità sarebbe affidata esclusivamente a una (per così dire) setta atomica, cioè a una commissione di fisici sapienti, di esperti in malattie da radiazione, di antropologi, di linguisti, di psicologi, di semiotici…”. Tuttavia Sebeok ricorda anche che le maledizioni associate ai luoghi di sepoltura dei faraoni egiziani, le piramidi, servirono ben poco a dissuadere gli avidi ladri di tombe dallo scavare in cerca di “tesori nascosti”. Ma certamente l’avidità dei tombaroli è poca cosa rispetto all’avidità di profitto che produce scorie atomiche. E certamente più pericolosa delle scorie atomiche è proprio quest’avidità di profitto. Augusto
Ponzio è docente di Semiotica del testo presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Bari.
APPROFONDIRE Th. A. Sebeok, Think I Am a Verb, trad. it. di Susan Petrilli, Sellerio, Palermo, 1990.
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Dirlo con l’arte Forse solo il linguaggio degli artisti può riuscire a comunicare con le future e lontane generazioni.
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ltre alla “Casta Sacerdotale Atomica” proposta da Thomas Albert Sebeok, altre soluzioni sono state proposte. La più originale, che al momento sembra essere preferita dal DOE, consiste nell’installazione di una serie di monumenti alti sei metri, scolpiti a forma di piramide nel granito locale, con in cima un’incisione che riproduca il volto angosciato del celebre quadro L’urlo di Edvard Munch. L’assunto alla base di questa scelta è che il volto dipinto dal pittore norvegese rappresenti un simbolo universale, resistente ai millenni, 36
capace di comunicare angoscia a chiunque ne venga a contatto e a spingerlo così a tenersi lontano dal luogo in cui si trova. Curiosamente, lo storico d’arte Robert Rosenblum ha sostenuto che l’espressione così caratteristica della figura nel dipinto derivi in realtà dalle fattezze di una mummia peruviana che Munch ebbe modo di osservare a Parigi, al Musée de l’homme. Il dipinto nascerebbe quindi egli stesso come ricerca di un’espressione universale dell’angoscia. Martina
Pasotti, redattrice de “La ricerca”.
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L’equità generazionale La filosofia politica ha affrontato solo negli ultimi decenni il problema della giustizia fra le generazioni. E non senza forti dubbi, come risulta dalla lettura di Una teoria della giustizia di John Rawls, il filosofo moderno che ha ridato vitalità alle teorie del contratto sociale.
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Ubaldo Nicola
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obbiamo prendere in considerazione la questione della giustizia fra generazioni, afferma John Rawls, aggiungendo però subito dopo che: “Essa sottopone qualunque teoria etica a prove severe se non addirittura impossibili”. La confessione di questa speciale difficoltà non è senza importanza se si pensa che il testo di Rawls, Una teoria della giustizia, ha rivoluzionato la filosofia politica moderna, rinnovando la grande tradizione contrattualista che dopo il grande exploit del XVII secolo (Hobbes, Hume, ecc.) sembrava sonnecchiare senza grandi novità ormai da secoli. Il tratto più originale della sua teoria, la ben nota idea del “velo di ignoranza”, è in fondo abbastanza semplice: per verificare se una legge è giusta cerchiamo di immaginare se la adotterebbero i fondatori di un patto sociale posti nella condizione di conoscere solo in minima parte la propria specifica condizione. L’assunzione di questa pratica mentale dovrebbe rendere inefficace ogni particolarismo che invece caratterizza le opzioni degli individui reali, ben consapevoli dei propri interessi. Se, ad esempio, i legislatori non sapes37
sero quale fede professano sarebbero probabilmente favorevoli a una società in cui anche le sette più piccole potrebbero godere di rispetto e libertà, perché nulla esclude che potrebbero personalmente appartenervi. Il ragionamento trova ovviamente un campo d’applicazione privilegiato nelle questioni di equità economica distributiva. Se i fondatori ignorassero d’essere ricchi o poveri, borghesi o proletari, maschi o femmine, giovani o anziani, cittadini o immigrati, chiari o scuri di pelle, quali principi economici adotterebbero? In questa condizione di salutare incertezza, secondo Rawls, finirebbero con l’accordarsi su un principio, che egli chiama “di differenza”: le ineguaglianze economiche sono ammissibili quando si tramutano in un beneficio anche per i meno avvantaggiati. È giusto insomma che i ricchi aumentino ancor di più i loro averi soltanto se ciò non si traduce in un ulteriore impoverimento dei meno abbienti ma al contrario in un loro, se pur relativo, vantaggio. Solo in questo modo, secondo Rawls, i legislatori “ignoranti” potrebbero garantirsi il massimo della tutela sociale, non sapendo a quale classe o gruppo sociale la
lotteria della realtà finirà con il destinarli. Il velo di ignoranza e il principio di differenza sono i due principali strumenti che Rawls usa, come esperimenti mentali, per affrontare in modo innovativo una grande quantità di questioni politiche e sociali, con ricadute di notevole efficacia pragmatica. Molte politiche contemporanee tese al sostegno delle minoranze (quali le positive actions) derivano in ultima analisi dalle speculazioni di questo tranquillo professore di Harward morto nel 2002. Vediamo ora perché in questo contesto l’equità distributiva fra generazioni diventa problematica. La questione, secondo Rawls, si pone a proposito del risparmio: “Ciascuna generazione deve non soltanto conservare le acquisizioni di cultura e civiltà, e mantenere intatte le istituzioni giuste già esistenti, ma deve anche accantonare, in ciascun periodo di tempo, un ammontare opportuno di capitale reale. Questo risparmio può assumere varie forme, dall’investimento netto in macchinari e altri mezzi di produzione all’investimento nell’apprendimento e nell’istruzione”. Che un giusto risparmio sia necessario è evidente, secondo Rawls; il problema è capire sulla base di quali considerazioni razionali i fondatori del contratto potrebbero essere indotti a sancirlo. Il principio di differenza, infatti, non può applicarsi in questo caso, in cui la diversa dimensione temporale in cui si dispongono le varie generazioni e l’ovvio fluire del tempo in una sola direzione rendono impraticabile ogni rapporto di reciprocità. “Nel seguire un principio di giusto risparmio, ogni generazione lascia un contributo a quanti vengono dopo e lo riceve dai predecessori. Non c’è modo per le generazioni successive di aiutare i Zeng Fanzhi, Mask n. 7, olio su tela, 2007. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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DOSSIER meno fortunati delle generazioni precedenti. Così il principio di differenza non vale alla luce della giustizia fra generazioni e il problema del risparmio deve essere trattato in altro modo”. Detto in altri termini, fra coloro che vengono prima e quelli che li seguono nel tempo non può essere stipulato un patto razionale di reciproco vantaggio per la semplice ragione che una vera reciprocità è in questo caso impossibile: “È semplicemente un fatto di natura che le generazioni siano disseminate nel tempo e che i benefici economici effettivi vadano solo in una direzione”. Se si ha la sfortuna di nascere in una generazione impoverita da quella precedente non vi è alcun principio di reciprocità cui appellarsi: l’unica possibilità è risparmiare per quella seguente, se si vuole, senza nulla ricevere in cambio. Rawls insiste sugli effetti imprevedibili di questa asimmetria generazionale citando “quanti hanno pensato che il fato diverso di differenti generazioni sia ingiusto”. Ricorda Aleksandr Herzen, un intellettuale russo dell’Ottocento, secondo il quale: “Lo sviluppo umano rappresenta una sorta di iniquità cronologica, poiché quelli che vivono dopo traggono profitto dal lavoro dei loro predecessori senza pagare alcun prezzo”. Ricorda anche come Kant, in Idea per una storia universale, ritenga “sconcertante che le generazioni precedenti sopportino un peso solo per il bene di quelle successive e che solo le seconde abbiano l’opportunità di stabilirsi all’interno di un edificio completato”. Si potrebbe pensare che il principio di un giusto risparmio generazionale possa essere fondato sull’altro pilastro della dottrina rawlsiana, ossia il momento fondativo del contratto sotto il velo di ignoranza. Ma anche in questo
caso le difficoltà sembrano insormontabili: “Quando le parti (ossia i partecipanti al contratto sociale fondativo) considerano questo problema, non sanno a quale generazione appartengono, o, ciò che è all’incirca lo stesso, non sanno in quale stadio di civiltà si trova la società. Così non hanno modo di sapere se la società sia povera o relativamente benestante, in larga parte dedita all’agricoltura oppure già industrializzata, e via di seguito. Il velo di ignoranza è completo da questo punto di vista”. “Ma dato che”, continua Rawls, “abbiamo supposto una situazione contrattuale fondativa basata sul presente, le parti sanno di essere contemporanee: e così, se non modifichiamo le assunzioni iniziali, non c’è nessuna ragione per loro per accettare un qualsiasi principio di risparmio. Le generazioni precedenti potrebbero aver risparmiato o non averlo fatto; non c’è nulla che le parti possono fare per influenzare un esito del genere”. Quello del risparmio generazionale è il solo caso in cui si inceppa il meccanismo del velo d’ignoranza, tanto da indurre Rawls ad aggiungere un vincolo aggiuntivo alla posizione originaria. “Per ottenere un risultato ragionevole, assumiamo in primo luogo che le parti rappresentino linee di famiglia, che siano preoccupate per i loro più immediati discendenti, e in secondo luogo che il principio adottato sia tale che le parti vorrebbero che tutte le generazioni precedenti lo avessero adottato. Questi vincoli servono ad assicurare che ogni generazione badi anche alle altre”. La soluzione ad hoc escogitata è quindi che gli stipulatori del contratto originario (le parti) non siano semplici individui ma rappresentino “linee di famiglia”, ovvero progettino una vita in cui sia 39
compresa la genitorialità e siano “preoccupati per i loro immediati discendenti”, il che significa i figli e al massimo i nipoti. La clausola così introdotta sembra cosa da poco, ma non lo è affatto nel quadro della costruzione rawlsiana e presenta alcune evidenti difficoltà. La prima è che non tutti i progetti di vita prevedono la genitorialità, che può non verificarsi per motivi biologici (sterilità), religiosi (celibato) o culturali, se si preferisce una esistenza da single. La seconda è che restringe l’area dell’impegno al futuro immediato, le prossime due generazioni, escludendo quindi un vincolo altrettanto forte per le seguenti. Sembra riprodursi così in senso temporale il celebre paradosso etico connesso alla dimensione spaziale, secondo il quale sentiamo obblighi morali fortissimi per le persone che ci stanno più vicino (famiglia e figli), ma via via digradanti per quelli più lontani (concittadini, connazionali) sino a ridursi a poca cosa per gli esseri umani che abitano in paesi esotici. L’insufficienza di questo approccio etico diventa evidente se si tiene presente come oggi l’evoluzione tecnologica e le sue capacità distruttive rendano necessario un principio di responsibilità verso un futuro anche molto lontano (si leggano le pagine dedicate ad Hans Jonas su questa rivista). E infine fondare i doveri verso le future generazioni sulla speciale benevolenza che i genitori sentono per i figli sembra introdurre una quota di sentimentalismo estranea alla costruzione rawlsiana, pur rimanendo comunque del tutto insufficiente come momento fondativo di una responsabilità adeguata ai tempi. 쐽
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Chi paga i debiti dei genitori? La riflessione sull’equità fra generazioni dovrebbe essere particolarmente sviluppata in Italia: l’enormità del nostro debito pubblico, infatti, costringe i giovani a pagare i debiti contratti dai propri genitori. Ma questi rispondono d’averli mantenuti, in cambio, come “bamboccioni”. Abbiamo chiesto a un economista se è possibile stabilire chi ha dato e chi ha avuto di più.
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Lorenzo Rampa
La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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differenza della seconda metà del secolo precedente, in cui il problema del conflitto tra generazioni veniva prevalentemente discusso nei suoi risvolti socio-culturali, l’arrivo del nuovo secolo ha visto prevalere nel dibattito, non solo accademico ma anche politico, un punto di vista più strettamente economico, particolarmente incentrato sul tema delle pensioni. In effetti l’evoluzione demografica dei paesi avanzati a partire dal secondo dopoguerra ha creato notevoli difficoltà ai sistemi pensionistici non solo dei paesi europei ma anche di quelli extra-europei caratterizzati in genere da un welfare meno generoso. Tuttavia i nodi del problema non si riducono solo alla questione pensionistica ma investono l’intero sistema di welfare e della spesa pubblica nonché, come corollario non secondario, del debito pubblico con tutte le sue implicazioni di trasferimenti inter-generazionali. Possiamo immaginare in astratto che la convivenza tra generazioni, così come quella all’interno di una singola generazione, sia regolata da una sorta di contratto sociale in 40
parte implicito e privato e in parte esplicito e governato da regole e istituzioni pubbliche. Nella dimensione privata i genitori curano i figli e li sostengono fino a che questi non diventano indipendenti mentre i figli supportano i genitori con cure e assistenza quando questi sono anziani. Nella dimensione pubblica lo Stato, a sua volta, si fa carico di organizzare un sistema di servizi sociali universalistici finanziandolo con il prelievo fiscale accompagnato (almeno in Europa) da un sistema pensionistico non rischioso, ovvero di tipo non assicurativo, finanziato con il prelievo contributivo. Negli Stati democratici l’uno e l’altro dovrebbero essere, almeno in linea di principio, ispirati a principi di equità (sostanziale e non solo formale) tra cittadini coevi e tra generazioni. Com’è noto l’equità intergenerazionale dei sistemi pensionistici è stata messa in forse dal venir meno delle ipotesi su cui essi sono stati costruiti a partire dalle riforme degli anni Settanta. In particolare sotto il profilo demografico si sono innalzate notevolmente le speranze di vita, con il conseguente allungamento della
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Jue Minjun, Untitled, olio su tela, 2007.
durata del periodo di godimento delle pensioni, mentre si sono significativamente abbassate le prospettive di crescita dei redditi totali e pro-capite. Nei paesi caratterizzati da sistemi pensionistici privati (in genere co-gestiti da imprese e lavoratori) a queste cause si sono poi aggiunte le ricorrenti crisi finanziarie che hanno reso più incerto, quando non l’hanno ridotto, il valore dei fondi pensione e quindi dei vitalizi che essi potevano garantire. Quanto al fattore demografico, si tenga conto che la speranza di vita alla nascita, che nel 1959 era in Italia poco più alta di 65 anni, nel 2010 (peraltro proprio grazie al welfare) ha superato di recente i
79 anni per gli uomini e gli 84 anni per le donne. Ora, senza ricorrere a complicati modelli attuariali, è del tutto evidente che se, a cinquant’anni dalle riforme pensionistiche del secolo scorso, si inizia a lavorare (in media) quasi dieci anni dopo e se si vive (in media) oltre dieci anni in più, per mantenere l’equilibrio tra i propri versamenti contributivi e il proprio reddito pensionistico, è necessario lavorare (in media) fino a una età maggiore di altrettanti anni che in passato. Altrimenti, a parità di reddito pro-capite, bisogna accettare una decurtazione di circa un terzo dell’assegno pensionistico o, alternativamente, aumentare di quasi un terzo i 41
versamenti contributivi con una riduzione pro-tanto del reddito lavorativo netto. Ciò, naturalmente, se si vogliono evitare altri aumenti di tasse oppure del debito pubblico che prima o poi sarà pagato dalle future generazioni. Nel caso italiano tuttavia il problema non è solo quello pensionistico ma riguarda l’intero sistema di welfare, come mostra il valore del rapporto tra spesa pubblica dedicata alla parte anziana della popolazione rispetto a quella dedicata alla parte più giovane. Se si esaminano i dati sulla destinazione della spesa sociale nei diversi paesi Ocse, esclusa la spesa sanitaria, si stima infatti che il valore del rapporto tra spesa dedi-
DOSSIER | Chi paga i debiti dei genitori? cata agli anziani e quella dedicata ai giovani è in Italia pari a 3,5, contro una media di 1,7 nei paesi dell’Europa continentale, di 1,2 nei paesi anglo-sassoni e di 0,8 in quelli scandinavi. In particolare, secondo i dati del Social Expenditure Database dell’Ocse (2005), la percentuale sul Pil della spesa per assegni familiari, assenze per maternità-paJue Minjun, Big swans, particolare, olio su tela, 2003.
ternità e altri aiuti per i figli non supera l’1% contro una media del 2,1% dei paesi Ocse, e livelli superiori al 3,5% nei paesi nordici. Ciò sembra testimoniare che la dimensione pubblica del contratto tra generazioni italiane sia squilibrata non solo a causa delle pensioni ma anche del basso livello di spesa pubblica dedicata alle giovani generazioni (come quella per
fornire servizi di cura per figli in età pre-scolare o di supporto alla maternità-paternità). L’evidenza dello squilibrio degli scambi intergenerazionali emerge facilmente se si analizza poi l’andamento dei redditi medi relativi (si badi, non assoluti) dei vari gruppi d’età sulla base dei dati della Banca d’Italia. Dalla fine degli anni Settanta a oggi si assiste infatti: (i) all’aumento di circa il 5% del reddito relativo di un gruppo della popolazione già abbastanza benestante, ovvero quello delle famiglie con età di riferimento tra i 51 e i 65 anni; (ii) al forte miglioramento (circa il 15%) delle condizioni degli ultrasessantacinquenni, un gruppo prima assai svantaggiato; (iii) un forte peggioramento (quasi il 20%) della posizione delle famiglie sotto i 30 anni. Secondo questi dati, dunque, chi alla fine degli anni Settanta aveva intorno ai trent’anni ha sperimentato una fase di crescente benessere (curiosamente proprio i protagonisti del Sessantotto). Purtroppo però i destini delle coorti successive, fino ad arrivare ai loro figli, hanno subito da allora un progressivo deterioramento medio. Ci si potrebbe tuttavia domandare se ciò possa essere compensato nella sfera dello scambio privato tra generazioni. La risposta a questo quesito è piuttosto articolata ma non del tutto positiva. In effetti se si esaminano i dati dell’Indagine ISTAT su Famiglie e Soggetti sociali del 2004 risulterebbe che la frequenza (o probabilità) di ricevere aiuto dai figli cresce con l’età arrivando al 13,3% dopo i 65 anni, così come quella di riceverlo dai genitori scende progressivamente dal 14,1% sotto i trent’anni fino quasi a zero dopo i sessantacinque. Questa simmetria sembra autorizzare l’impressione di una sorta di scambio perfetto e quindi equili-
DOSSIER brato nella sfera privata. Tuttavia l’equilibrio dello scambio privato non sembra essere in grado di riaggiustare lo squilibrio della sfera pubblica che richiederebbe, al contrario, un aiuto compensativo molto maggiore dei padri ai figli giovani. Le ricerche comparative a livello Europeo (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe) sembrerebbero inoltre evidenziare che l’aiuto ai figli prende in Italia due forme peculiari, ovvero l’allungamento del periodo di convivenza in famiglia e, successivamente, un tipo di aiuto (in media) più episodico ed emergenziale che continuo e diffuso nel tempo. Si direbbe che questo costituisca l’evidenza dell’addebito di bamboccioni ai nostri attuali figli, non molto gradito all’opinione pubblica italiana ma purtroppo documentato statisticamente dai confronti con gli altri paesi più avanzati. Di tutto ciò sono responsabili le famiglie o le politiche pubbliche? Anche in questo caso la risposta deve essere necessariamente piuttosto articolata. Da un lato le responsabilità pubbliche sono evidenti, visto che ancora oggi si stenta a trasferire parte dei fondi pubblici all’aiuto per i giovani in modo che la loro entrata sul mercato del lavoro e la loro autonomia finanziaria siano anticipate a un’età comparabile con la media europea. Le politiche a favore dei giovani di welfare italiano sembrano infatti fatte più di trasferimenti diretti o sconti fiscali che di azioni attive, a causa da un contesto politico-culturale che sovraenfatizza il ruolo della famiglia non solo come sussidiario ma anche come sostitutivo delle politiche rivolte ai giovani. I documenti governativi più recenti (che risalgono al precedente governo) sono perfettamente in linea con quello che gli studiosi chiamano il modello del familismo per default.
In essi si prevede il permanere di obblighi per le famiglie di assistere i soggetti che necessitano di aiuti e cure, senza però dare loro un sostegno adeguato ovvero senza immaginare un sistema di protezione sociale (come quello attuato in numerosi Paesi europei) che copra le necessità di cura di lungo termine di una popolazione che va invecchiando rapidamente. Dall’altro lato, tuttavia, non si può non sospettare che la generazione degli attuali sessantenni, che ha sperimentato un notevole balzo di benessere relativo nella recente storia italiana, abbia trasmesso ai propri figli aspettative circa il futuro destinate a essere smentite, in particolare circa la possibilità di ottenere facilmente e velocemente livelli di benessere paragonabili a quelli dei genitori. Ciò probabilmente ha creato una sorta di pretese minime per l’indipendenza economica (di remunerazione, di sicurezza e fissità del posto, e di livello di preparazione tecnico-culturale necessari) non più adeguate ai tempi. La creazione di posti di lavoro è aumentata infatti solo per posizioni ad alto contenuto tecnicoscientifico, che richiedono elevati standard formativi ed elevata mobilità. A sua volta la mobilità è costosa in termini di spese per la casa e impegnativa sotto il profilo delle decisioni di maternità-paternità. Non a caso i pochi figli che entrano sul mercato del lavoro presto e con prospettive remunerative paragonabili a quelle dei padri tornano ad appartenere (in media) a famiglie a reddito mediamente elevato che possono permettersi notevoli spese per l’istruzione. Come se la conquista di una minore diseguaglianza e di un maggior benessere per tutti avesse generato aspettative tali da determinare la messa in discussioni di quelle stesse conquiste. 43
Tutto ciò è poi aggravato dal circolo vizioso generato dall’invecchiamento della popolazione. Questo infatti ritarda l’uscita dal mercato del lavoro degli anziani proprio in un momento in cui i giovani avrebbero bisogno di entrarvi per guadagnare la loro indipendenza economica. Il dibattito sulla riforma di un mercato del lavoro che protegge troppo i lavoratori che hanno già un posto fisso (gli insiders) e poco quelli che sono in cerca del primo impiego (gli outsiders), in parte ideologico ma in parte reso inevitabile dalle condizioni attuali, ruota tutto intorno a questo problema. Di fronte a questa situazione ci si può domandare quale reazione sociale ci si possa aspettare da tutto ciò. In Italia la percezione del conflitto tra generazioni sembra essere ancora bassa rispetto ad altri paesi, nonostante che il conflitto sia potenzialmente più acuto che altrove. In parte ciò potrebbe dipendere dal fatto che i giovani hanno poca rappresentanza politica dentro un sistema istituzionale piuttosto gerontocratico. Ma è anche possibile che essi, godendo tuttora degli aiuti di una generazione di genitori sufficientemente beneficiati da un welfare a loro favorevole, non riescano ancora a realizzare quali possano essere i loro destini di lungo periodo. In altri termini la nostra società potrebbe non essere capace di guardare sufficientemente in avanti perché in realtà troppo abituata a guardare indietro. In secondo luogo l’indubbio progresso dell’equità intra-generazionale fino all’inizio degli anni Novanta trova fondamento in un eccellente ordinamento costituzionale per quanto riguarda solo questo tipo di equità. Esso tuttavia poco dice, e forse poco poteva dire allora, dell’equità tra generazioni, della responsabilità a non
DOSSIER | Chi paga i debiti dei genitori?
Jue Minjun, Great solidarity, particolare, olio su tela, 1992.
lasciare debiti ai discendenti e di supportare le giovani generazioni. D’altra parte gli stessi economisti hanno cominciato solo da pochi decenni a modellare la società come fatta di generazioni sovrapposte piuttosto che di un’unica generazione. In questo quadro le controversie affrontate dalle Corti supreme (e dai Tribunali amministrativi) su questo ordine di problemi sono state risolte quasi sempre in modo favorevole alle generazioni mature attraverso il riconoscimento dei loro diritti acquisiti. L’ondata delle sentenze degli anni Ottanta e dei primi Novanta su tali diritti sta ora ripiegando in nome di criteri interpretativi dei diritti sociali basati sul principio di ragionevolezza secondo cui questi possono essere garantiti solo sotto la condizione del rispetto dei vincoli del bilancio pubblico. Poiché
La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
il rispetto di tale vincolo garantisce le generazioni future dall’eredità del debito, il principio di ragionevolezza assicura un più forte riconoscimento dell’equità inter-generazionale. I ritardi nella presa d’atto dei cambiamenti demografici ed economici sottostanti rendono molto impegnativa la transizione verso un modello di welfare più equilibrato. La ragionevolezza vorrebbe che si accettasse di porre i costi della transizione a carico del sistema fiscale per non creare ulteriore debito. Dopo tutto nei Paesi scandinavi, dove maggiore è la spesa pubblica per i giovani, anche la pressione fiscale è maggiore che in Italia. È difficile però prevedere quanto ciò sia socialmente accettabile in un Paese come l’Italia, a lungo vezzeggiato con slogan tipo “meno tasse per tutti” e, nel contempo, deluso dalla scarsa effi44
cienza della spesa pubblica che le tasse finanziano. È però vero che l’accettabilità sociale di questa transizione sarà tanto maggiore quanto essa e le politiche che la accompagnano si dimostrano rapide ed efficaci, il che richiede non solo la condivisione dei cittadini governati ma anche una capacità di andare oltre la ricerca del consenso di breve periodo e una determinazione operativa che gli ultimi governi non hanno saputo dimostrare. Non sembra essere un caso che l’Italia necessiti periodicamente di brevi ma intense fasi di governi tecnici che si possono permettere di affrontare le emergenze senza ricercare consensi immediati.
Lorenzo Rampa è professore di Economia politica presso l’Università di Pavia, di cui è anche vicerettore.
DOSSIER
La generazione egoista Si deve a un sociologo neozelandese, David Thompson, il più duro atto d’accusa al principio dei diritti acquisiti. Infatti, se si ragiona in termini di generazioni, e non di singoli individui, essi diventano assurdi privilegi concessi solo a una parte della popolazione, la più anziana. Jue Minjun, Laughing, particolare, olio su tela, 2001. 쑺
Bruno Corzino
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siste un Paese dove il problema dell’equità economica fra le generazioni è stato discusso con particolare attenzione: la Nuova Zelanda. Anche se agli antipodi rispetto all’Italia, vale la pena di esaminarlo, dato che presenta tratti in parte simili alla nostra situazione attuale, con
DOSSIER | La generazione egoista qualche decennio di anticipo. Che la Nuova Zelanda sia stata fra le prime nazioni al mondo a introdurre una forte assistenza sociale è dimostrato dal fatto che il pensionamento per anzianità fu introdotto già nel 1898, dal primo governo liberale. Un provvedimento a suo tempo avveniristico, che non basava l’entità della pensione sui contributi effettivamente versati dai soggetti ed era rivolta ai “poveri che se lo meritavano”, in particolare se espulsi dal mercato del lavoro. Fu comunque a partire dal 1938,
con il primo governo laburista, che fu introdotto un robusto welfare State, fondato su un contributo per i disoccupati e una serie di meccanismi assistenziali relativi all’educazione, alla sanità e all’assistenza abitativa. Era previsto in particolare un prepensionamento all’età di 60 anni e la possibilità di andare in pensione a 65. L’idea che guidava questa politica era la costruzione di una società fondata sulla piena occupazione e sull’assistenza universale. La crisi iniziò nel 1984, quando l’insostenibilità delle spese statali
Jue Minjun, Untitled, olio su tela, 2009. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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impose un taglio netto dei benefici relativi all’assistenza abitativa, alla disoccupazione, alla sanità e più in generale il passaggio a un assistenzialismo più mirato, con contributi ad hoc, non più genericamente rivolto a tutta la cittadinanza; ad esempio piccoli aiuti destinati soprattutto alle famiglie già dotate di lavoro. Non bastando questi provvedimenti restrittivi, nei primi anni Novanta il quarto governo nazionale si impegnò in un forte programma di liberalizzazioni, finalizzato a tagliare drastica-
DOSSIER mente la spesa e la “dipendenza” dallo Stato. L’impatto di questi cambiamenti fu particolarmente pronunciato sul versante della disoccupazione, soprattutto dopo l’esplodere di un crack del mercato azionario del 1987. La situazione è quindi diventata sempre più drammatica, tanto da richiedere nel 2006 il lancio di una riforma del lavoro, i cui effetti, però, sembrano da una parte insufficienti, dall’altra distruttivi dell’idea che per quasi un secolo ha fondato la politica neozelandese, ossia la costruzione di uno Stato in grado di favorire un’effettiva partecipazione politica e sociale di tutti i cittadini senza esclusione. Al di là delle vicende economiche di questo lontano Paese, ciò che a noi interessa è che nel 1992, nel bel mezzo di questa crisi, il sociologo neozelandese David Thompson pubblicò Le generazioni egoiste (Selfish Generations), un testo di forte impatto perché riformulava su base generazionale i termini della crisi che abbiamo qui sopra sintetizzato. È stata una bomba mediatica che ha fatto esplodere il dibattito tra chi sottolinea le ingiustizie subite dai giovani d’oggi e chi invece ritiene l’egoismo generazionale un mito da ridimensionare, dovendosi imputare la crisi attuale a un insieme di fattori complessi, come l’inflazione, la globalizzazione, la crisi finanziaria mondiale e così via. In ogni caso, l’intento di Thompson è stato il riportare in modo oggettivo il passaggio graduale da un’assistenza statale concentrata sui bambini e le famiglie, alla situazione attuale dove gli aiuti sono rivolti soprattutto agli anziani e per i giovani rimane poco o nulla. Il sociologo nota che questo processo, parallelo al contemporaneo invecchiamento della popolazione, è andato sempre più a
beneficio di quella che egli chiama “la generazione dell’assistenza statale”, nata negli anni Venti, Trenta o i primi Quaranta, mentre quella seguente ha dovuto fare i conti con la prospettiva di tagli sempre più drastici: “I grandi vincitori, quelli nati tra il 1920 e il 1945, attraverso tutta la loro vita avranno pagato tasse capaci di coprire solo una piccola frazione dei benefici ricevuti. Per i loro successori vale il contrario”. E il divario rimane presente nonostante i recenti provvedimenti. Thompson nota che tutti i soldi spesi dalla Nuova Zelanda dopo gli anni Novanta dal Domestic Purposes Benefit, l’ente di assistenza sociale neozelandese, come sussidio per la disoccupazione e la malattia, non corrispondono ancora minimamente alla frazione di reddito nazionale speso negli anni d’oro dello Stato assistenziale. Dopo aver considerato come la necessità di far fronte ad un’enorme spesa pubblica sia andata di pari passo con il peso crescente dello Stato nella sfera economica, sottraendo risorse al privato, Thompson argomenta che l’invecchiamento dello Stato assistenziale conduce necessariamente a una crisi, che egli giudica imminente. La soluzione proposta dal sociologo è drastica: la sua dovrebbe diventare la “generazione del sacrificio”, ovvero rinunciare a tutti gli speciali vantaggi conseguiti, a cominciare da un regime pensionistico più favorevole. Le risorse così liberate potrebbero quindi essere utilizzate per il sostegno ai giovani e bilanciare così l’ingiustizia patente che questi ultimi subiscono oggi. Che Thompson abbia in qualche modo colpito nel segno lo dimostra il commento di Ann Reeves, consigliera del ministero per le Politiche Sociali della Nuova Ze47
landa: “Di fatto la mia generazione è stata privilegiata in confronto a quelle che hanno seguito. Mio figlio adolescente e i suoi coetanei sono profondamente arrabbiati di fronte al vuoto di prospettive che si apre loro davanti dopo la conclusione degli studi scolastici. La loro prospettiva è vivere grazie a prestiti studenteschi, se riusciranno a trovare un posto in un’università, avere guadagni incerti ed essere assunti per tempi sempre più brevi. Da dimenticare la possibilità di comprarsi una casa e di farsi una famiglia. Quelli che hanno finito gli studi negli anni Settanta si sono trovati davanti una situazione molto diversa; avevano la possibilità di scegliere quale lavoro preferivano e molti potevano persino permettersi il lusso di cambiare molte occupazioni prima di decidere quale sarebbe stata la loro carriera”. “I miei figli”, continua Ann Reeves, “comparano le loro prospettive con quelle della mia generazione e vedono un abisso che si va sempre più allargando. Io credo che le nuove generazioni non abbiano bisogno di leggere il libro di Thompson per essere convinte di trovarsi di fronte a una grave ingiustizia; ne sono già pienamente consapevoli. Il suo suggerimento, che l’equilibrio dell’assistenza statale debba essere di nuovo spostato verso i figli, in un investimento per il futuro, sarebbe per loro il benvenuto. A questo punto l’idea di dover fare loro, le nuove generazioni, ulteriori sacrifici per mantenere la mia generazione nella sua vecchiaia non è davvero più proponibile”. Ma al di là delle analisi sul disagio giovanile, facilmente condivisibili, il dibattito ha riguardato soprattutto la natura e l’intensità dei provvedimenti correttivi. Thompson nega infatti l’esistenza
DOSSIER | La generazione egoista dei cosiddetti diritti acquisiti, dietro ai quali si nasconde a suo avviso un interessato “privilegio dei nonni”, dato che, statistiche alla mano, nonostante le recenti riforme le nuove generazioni riceveranno comunque pensioni molto minori rispetto a quelle precedenti. “E non vi è alcuna giustificazione etica, politica o economica nel ribadire gli speciali vantaggi di un gruppo ristretto di persone negandoli nello stesso tempo a tutti quelli che li seguiranno nel tempo”. Naturalmente la pratica politica impone prudenza rispetto allo sconquasso sociale che comporterebbero le proposte di Thompson. Secondo la Reeves alcune forme di “assistenza ai nonni” sono utili per aiutare la transizione durante il cambio di politica assistenziale: “Bloccare l’entità della pensione percepita da un certo gruppo, piuttosto che tagliarla come pure sarebbe più giusto, consente a quelli che si sono trovati a vivere nel vecchio regime d’adattarsi alle nuove condizioni senza salti traumatici. Grazie ad una buona politica sociale a un certo punto il valore delle nuove pensioni potrà raggiungere le vecchie e da quel momento il gruppo che ha ricevuto di più condividerà lo stesso regime di quelli che lo seguono”. Oltre che sul piano pragmatico, le tesi di Thompson sono però state criticate anche dal punto di vista teorico. L’economista neozelandese Brian Easton è intervenuto nel dibattito sottolineando quanto sia difficile quantificare in modo univoco i vantaggi di una generazione rispetto all’altra. “La distribuzione del reddito all’interno delle generazioni è un’area d’indagine difficile, ed è uno studioso coraggioso quello che pretenda di dare un’analisi complessiva del nostro stato attuale di conoscenza in materia. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
Qualsiasi tesi sulla distribuzione del reddito può essere supportata da un paio di casi particolari e comparandoli tra di loro. Il problema è il dare conto di un’analisi complessiva della questione, offrire misure sistematiche del fenomeno”. Per Easton il metodo di analisi di Thompson non tiene conto di questa complessità per il semplice fatto che ignora deliberatamente tutti gli aspetti materiali dello scambio intergenerazionale per concentrarsi soltanto sulla redistribuzione del reddito gestita dallo Stato. Questo diventa chiaro se pensiamo a come le generazioni si trovano a convivere sotto lo stesso tetto, una situazione di vantaggio per la nuova generazione che, come sappiamo, anche in Italia tende a persistere sempre più a lungo. Si pensi poi al fatto che la vecchia generazione, quella che gode dello Stato assistenziale, si è spesso trovata a mantenere gli studi superiori della nuova quando lei stessa non ha avuto la possibilità di aver accesso ad una tale possibilità. Prendiamo il caso di un appartenente alla generazione dei vincitori, come li chiama Thompson. Potrebbe ragionevolmente argomentare di aver cresciuto più figli rispetto a quanto fanno le nuove generazioni e sostenere che questo abbia inciso notevolmente sul proprio standard di vita, che senza tenere conto di questo fattore verrebbe di molto sovrastimato. Potrebbe quindi affermare che la pensione migliore non è altro che il ritorno dell’investimento che ha fatto nel mantenimento e nell’educazione dei figli. Lui non ha potuto andare all’università, ma ha pagato perché i suoi figli potessero farlo. È quindi giusto che le migliorate condizioni economiche rese pos48
sibili dal suo iniziale sacrificio si rispecchino ora nell’ammontare della sua pensione. Un altro aspetto da tenere in conto è quello dei prepensionamenti o delle misure una tantum che consentono a un certo numero di lavoratori di poter andare in pensione con requisiti ridotti rispetto a quelli normali, una situazione che Easton definisce “un eufemismo per disoccupazione”. Quel che secondo Easton proprio non bisogna fare è analizzare casi specifici, come regimi pensionistici particolarmente favorevoli concessi nel passato, e trattarli come esempi da cui trarre conclusioni generali. Un metodo in grado di offrire un’enorme spinta al dibattito pubblico, ma improprio per un’analisi della situazione generale nella sua interezza. Bruno
Corzino è collaboratore de “La ricerca”.
APPROFONDIRE D. Thompson, Selfish Generations, B. Williams Books, Wellington, 1991. B. Easton,Selfish Generations by David Thompson, in “New Zealand Sociology”, volume 7, numero 1, maggio 1992. A. Reeves, Selfish Generations? How Welfare States Grow Old, in “Social Policy Journal of New Zealand”, numero 7, dicembre 1996. A Gibbs, Does the Welfare State Have a Future?, in “Economic Alert”, numero 8, ottobre 1991. E. Partridge, On the Rights of Future Generations, Temple University Press, California, 1990. D. Parfit, Europe Generations: further problems, in “Philosophy and public affairs”, Vol. 11, N.2, 1982.
DOSSIER | IMMAGINI
Zhang Xiaogang, Big family n.6, particolare, olio su tela, 2003.
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bbiamo scelto di commentare gli articoli dedicati al confronto generazionale con opere d’arte cinesi appartenenti alla tendenza del “realismo cinico” (cynical realism). Questa sigla è stata coniata dal critico d’arte Li Xianting per individuare un insieme di giovani artisti che hanno particolarmente risentito del fortissimo mutamento sociale avvenuto in Cina dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, caratterizzato da una parte dal fallimento dell’apertura democratica, dall’altro da un’intensa occidentalizzazione della società e da una feroce trasformazione dell’economia in senso capitalistico. È un contrasto immediatamente visibile nelle loro opere, rielaborazioni, spesso, delle immagini ideologiche della rivoluzione cul-
Jue Minjun, Untitled, particolare, olio su tela, 2009.
Zeng Fanzhi, Mask n. 3, olio su tela, 2005.
Il realismo cinico dei giovani cinesi
turale, rese caricaturali o associate ad aspetti di stridente contemporaneità, in particolare oggetti di consumo come cellulari o immagini dal mondo pubblicitario occidentale. Vi è il rifiuto, o meglio la ridicolizzazione, di ogni utopia, di ogni ideologia con pretese universali, di ogni “ismo”, in favore di una rivalutazione dei valori e della creatività individuali. Non è mai chiaro se questi volti sono sfavillanti di gioia per il bene del popolo o per l’ultimo prodotto alla moda. Vi è un evidente senso di artificialità spaesante che pervade queste opere, quasi fossero una specie di antidoto contro l’assuefazione della propaganda politica e della pubblicità commerciale, indistinguibili. L’intenzione centrale è quella di esprimere il senso di estraneità e
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di freddezza che sperimenta la nuova generazione, con alle spalle il pesante passato della rivoluzione culturale e di fronte il futuro labile e artificiale di un’economia senza regole. Al di là dei contenuti, però, ciò che rende potenti queste opere è la capacità di rielaborare temi specificamente cinesi in un linguaggio globalizzato e ben al corrente delle forme di gusto internazionali, dalla cultura pop a quella dei fumetti. Il che ne ha sancito il grande successo internazionale. Rimane l’impressione di un’esplosione di vitalità giovanile, irridente e ribellistica ma in fondo fiduciosa in se stessa e nel futuro.
Ubaldo
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DISAGIO SCOLASTICO
Scuola: il pianeta disagio La scuola si trova ad affrontare situazioni spesso problematiche e complesse. Tra queste il disagio occupa uno dei primi posti di una ipotetica "graduatoria"; la sua pervasività fa sì che ne siano coinvolti sia gli studenti sia tutti i soggetti che, a vario titolo, offrono il loro contributo allo sviluppo del processo educativo.
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Ugo Avalle
I
Norman Rockwell, I fatti della vita, illustrazione per la rivista Look, 1943.
l pedagogista Bruno Ciari definì la scuola degli anni Settanta “la grande disadattata”; oggi può essere definita “la grande disagiata”, ovvero una scuola che non “vive” e che viene messa in condizione di “non vivere” un’esperienza positiva tale da permetterle di esprimere a pieno le proprie potenzialità al fine di essere un autentico “ambiente per l’apprendimento”. Mancini e Gabrielli (1998) definiscono il disagio come “uno stato emotivo, non correlato significativamente a disturbi di tipo psicopatologico, linguistici o di ritardo cognitivo, che si manifesta attraverso un insieme di comportamenti disfunzionali (scarsa partecipazione, disattenzione, comportamenti prevalenti di rifiuto e di disturbo, cattivo rap51
porto con i compagni, ma anche assoluta carenza di spirito critico), che non permettono al soggetto di vivere adeguatamente le attività di classe e di apprendere con successo, utilizzando il massimo delle proprie capacità cognitive, affettive e relazionali”. Anche questa definizione chiarisce i motivi per i quali il disagio ha una forte pervasività e, quindi, occorre che i docenti siano molto attenti a osservare i propri alunni al fine d’individuare le cause reali della situazione di disagio nella quale alcuni di essi si trovano. Può succedere, per esempio, che un alunno poco partecipe alle lezioni non sia svogliato, ma che presenti delle difficoltà o dei disturbi di apprendimento che lo demotivano, che lo scoraggiano; oppure quando l’alunno si rende
SCUOLA
Norman Rockwell, Maestro che fustiga Tom Sawyer, illustrazione per Tom Sawyer, 1936.
conto che non riesce a seguire le lezioni, si distrae, partecipa poco e questo comportamento può essere ritenuto dall’insegnante segno di negligenza. Spesso nell’alunno ritenuto genericamente poco adatto all’impegno scolastico (un tempo stigmatizzato
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con l’espressione “braccia sottratte all’agricoltura”) sono presenti più impedimenti, più disturbi (comorbilità) che gli impediscono di collaborare come e quanto vorrebbe. L’alunno diviene ribelle, contestatore, confusionario; stuzzica continuamente i compagni e spesso è un
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soggetto che a causa delle difficoltà nel leggere e nello scrivere (soprattutto) reagisce in modo negativo alla situazione di disagio nella quale viene a trovarsi. Oppure può essere un alunno che tende al silenzio, che si isola, che dice sempre che va tutto bene, ma si confronta poco con il gruppo classe e non ama stare con gli altri anche fuori dal contesto scuola. Questi alunni, spesso, assumono comportamenti particolari: si dondolano sulla sedia, giocherellano con una penna, scarabocchiano un foglio. Chi compie simili gesti mette in atto una sorta di “senso ritmico” che lo aiuta nella concentrazione e nell’attenzione e quindi nel seguire meglio l’attività che sta svolgendo. Le diverse manifestazioni descritte rivelano la marcata eterogeneità dei profili dei DSA tracciabili e ciò comporta significative ricadute sulle indagini diagnostiche. Secondo il DSM IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la dislessia è un disturbo della lettura che si manifesta in individui in età evolutiva privi di deficit neurologici, cognitivi, sensoriali e relazionali e che hanno usufruito di normali opportunità educative e scolastiche. Più precisamente la dislessia è la difficoltà del controllo del codice scritto, difficoltà che riguarda la capacità di leggere e scrivere in modo corretto e fluente, che può essere notata fin dall’ultimo anno della scuola dell’infanzia (se si svolgono esercizi di prelettura e prescrittura) o nella classe prima della scuola primaria. La difficoltà di lettura può essere più o meno grave e spesso si accompagna a problemi nella scrittura: disortografia (cioè una difficoltà di tipo ortografico) e disgrafia (difficoltà nel movimento finomotorio della scrittura), nel calcolo e, talvolta, anche in altre
DISAGIO SCOLASTICO attività mentali. Tali disturbi non sempre vengono rilevati proprio perché mascherati dall’esuberanza o, al contrario, dal disinteresse per le attività che vengono presentate; a un’attenta osservazione, però, non dovrebbero sfuggire dati significativi che favorirebbero un intervento precoce finalizzato alla riduzione delle lacune individuate. Ciò che caratterizza un alunno con disturbo specifico di apprendimento è la presenza di un impaccio considerevole nello svolgimento di tutte quelle attività che richiedono un’integrazione di più competenze di base; è proprio l’intreccio di capacità diverse che mette a dura prova il soggetto nel suo processo di apprendimento scolastico. Le difficoltà potrebbero comparire nel corso dei primi anni della scuola dell’infanzia e persistere negli anni seguenti. Per entrare nel dettaglio, alcuni degli errori caratteristici che denotano la presenza di difficoltà/disturbi della lettura e della scrittura sono: l’inversione di lettere e numeri (legge “al” invece di “la” e “51” anziché “15”); la sostituzione di suoni vicini come m/n (“mano” anziché “nano”), f/v (“foce”anziché “voce”), t/d (“tue” anziché “due”), s/z (“Sara”anziché “Zara”), c/g (“care” anziché “gare”), p/b (“palla” anziché “balla”); la sostituzione di suoni scritti in modo simile come m/n dove la differenza fra i due caratteri è solo una gambetta (“muovo” anziché “nuovo”); n/u dove la lettera è ribaltata (“nova” anziché “uova”); p/q/d/b (“quove” anziché “dove”; “paro” invece di “baro”; “dalla” anziché “palla”). Questo è solo un breve elenco di errori tipici nei cui confronti si adottano strategie d’intervento mirate che sono il risultato di un’attenta osservazione a seguito della quale il docente curricolare
consiglia ai genitori dell’alunno di ricorrere all’équipe di professionisti dell’ASL (neuropsichiatra, psicologo, logopedista e pedagogista) per poter adottare le giuste strategie d’intervento. La diagnosi precisa di DSA (dislessia, disgrafia, disortografia) può essere effettuata al termine della seconda classe della scuola primaria, mentre la diagnosi di discalculia è possibile alla fine della frequenza della terza classe della scuola primaria. La Consensus Conference del dicembre 2010 ha sostenuto che un’anticipazione eccessiva della diagnosi potrebbe aumentare la rilevazione di falsi positivi, ma consentirebbe d’individuare per tempo fattori di rischio e indicatori di ritardo di apprendimento e di approntare le strategie d’intervento. L’iter diagnostico è costituito da due fasi: 1) l’applicazione del protocollo standard con l’obiettivo di verificare la presenza o meno di patologie neurologiche, di patologie primarie, di deficit uditivi o visivi. 2) valutazione neuropsicologica con prove standardizzate al fine di definire una diagnosi di esclusione/inclusione della sindrome dislessica e tramite l’applicazione del protocollo definire il profilo e il progetto riabilitativo. La diagnosi si basa essenzialmente sul criterio di discrepanza e su quello di esclusione: discrepanza significa che non c’è corrispondenza tra l’intelligenza del bambino e i risultati che ottiene a scuola; esclusione significa che è possibile diagnosticare la presenza di DSA poiché si è esclusa la presenza di altre patologie, ma l’alunno non riesce ugualmente ad apprendere a leggere e scrivere. L’intervento della scuola deve mirare a realizzare le condizioni per consentire all’allievo con dislessia di accedere ai significati del testo 53
e raggiungere gli obiettivi di apprendimento nel modo in cui le sue potenzialità cognitive glielo consentono. La ricerca del miglioramento della padronanza delle abilità strumentali deve essere condotta nei limiti di ciò che è modificabile attraverso l’insegnamento e l’apprendimento; ciò che non è modificabile va corretto con l’adozione di strumenti e misure di tipo compensativo e dispensativo; l’intervento deve mettere a fuoco le potenzialità, non le difficoltà. Quando l’alunno non è “certificato” (vale a dire esaminato dai componenti l’équipe dell’ASL che certificano la presenza del disturbo), l’intervento metodologico-didattico viene effettuato dai soli insegnanti curricolari i quali, sulla base della loro esperienza e della conoscenza dei problemi legati alla presenza dei disturbi dell’apprendimento, elaborano e applicano le strategie d’intervento adeguate alla soluzione di quel determinato caso. Nel caso sia certificato, invece, l’intervento metodologico-didattico viene realizzato dall’insegnante di sostegno e da quello curricolare sulla base delle indicazioni fornite dallo specialista. Lo stabilire chi deve gestire in classe l’intervento nei confronti di un alunno con DSA certificato rappresenta un problema molto controverso in quanto molti insegnanti curricolari ritengono che spetti loro tale gestione; altri, invece, ritengono che occorra la compresenza dell’insegnante di sostegno specializzato sui DSA; oppure che sia lo specialista dell’ASL a fornire all’insegnante le indicazioni da seguire per organizzare l’intervento. Questo deve mirare a realizzare le condizioni per consentire all’allievo con dislessia di accedere ai significati del testo e raggiungere gli obiettivi di
SCUOLA apprendimento nel modo in cui le sue potenzialità cognitive glielo consentono. L’intervento precoce favorisce l’instaurarsi delle strategie adeguate; impedisce che si accresca il divario tra le prestazioni dell’alunno con DSA e quelle del gruppo classe; evita la perdita di motivazione; permette l’acquisizione di un’adeguata autostima personale impedendo il manifestarsi di sensi d’inadeguatezza e d’inferiorità. Gli insegnanti rivestono, comunque, un ruolo fondamentale per
l’individuazione dei DSA e, quando questi siano riconosciuti, nella costruzione di una didattica che possa favorire lo sviluppo di abilità di compensazione, rispettosa dei diversi stili cognitivi.
Ugo Avalle è pedagogistaformatore; docente a contratto presso l’Università degli studi di Torino. È esperto di problemi legati al disagio e alla devianza. È autore di testi di scienze umane per le case editrici Pearson, Zanichelli, Mondadori e Unicopli.
La scuola di Rockwell
La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
Per la rilevazione delle difficoltà nella competenza della lettoscrittura e del calcolo si segnalano questi strumenti: C. Cornoldi, L. Miato, A. Molin, S. Poli, PRCR2. Prove di prerequisito per la diagnosi delle difficoltà di lettura e scrittura, Giunti O. S., Firenze. Gruppo MT, Prove MT. Correttezza e rapidità, Giunti O.S., Firenze (valutano la efficienza nella lettura strumentale). L. Marotta, M. Trasciani, S. Vicari, CMF Valutazione delle competenze, Erickson, Trento. P. E. Tressoldi, Batteria per la valutazione della scrittura e della competenza ortografica nella scuola dell’obbligo, Giunti O.S., Firenze.. C. Cornoldi, D. Lucangeli, M. Bellina, TEST ACMT 611, Test di valutazione delle abilità di calcolo, Erickson,Trento.
Norman Rockwell, La nuova maestra, illustrazione per la rivista Look,1954.
Norman Rockwell, Dal preside, illustrazione per la rivista Look,1954.
Le immagini dalla pagina 51 alla pagina 56 sono a firma di Norman Rockwell, il celebre illustratore americano morto nel 1978. Molte sue opere furono dedicate alla vita dei bambini, quella scolastica in particolare, interpretata sempre con piglio ironico, affettuoso e scarsamente problematico. Per questo Norman Rockwell fu spesso accusato di idealizzare la
APPROFONDIRE
realtà nascondendo i veri problemi sociali dietro una cortina patinata. Neppure mancarono, però, occasioni di maggior impegno civile, come dimostra l’opera a pagina 56, dipinta da Norman Rockwell a sostegno delle drammatiche lotte per l’integrazione civile nelle scuole pubbliche che sconvolsero l’America all’inizio degli anni Sessanta. 54
Esistono anche dei protocolli di osservazione e molti altri strumenti in aggiunta a quelli indicati. A seguito dell’approvazione della legge n. 170 del 2010 e il relativo decreto attuativo (D.M. n. 5669 del 12 luglio 2011 e linee guida per il diritto allo studio degli alunni con disturbi specifici di apprendimento) gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado hanno avuto delle indicazioni precise in merito poiché la “leggequadro” sull’handicap (5 febbraio 1992 n. 104) non contemplava i soggetti con DSA. Sono stati realizzati numerosi corsi di aggiornamento e di formazione al fine di consentire ai docenti di avere la preparazione necessaria e sufficiente ad affrontare le situazioni di disagio proprie degli alunni con difficoltà o con disturbi di apprendimento.
CITTADINANZA
I saperi di cittadinanza A partire dalla riforma Moratti fino a quella Gelmini, è diventata centrale l’esigenza di ripensare la vecchia Educazione civica per rendere più efficace la formazione dei nuovi cittadini. Non è ancora chiaro se e come il nuovo insegnamento “Cittadinanza e Costituzione” si collocherà nel curriculum dei nuovi licei, ma si moltiplicano le sperimentazioni per definire modalità operative.
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Enzo Ruffaldi
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a riforma Moratti (Legge 28 marzo 2003 n.53) ha introdotto nella scuola una nuova materia, l’educazione alla convivenza civile, che presenta però caratteristiche diverse rispetto alle materie tradizionali. Gli aspetti principali di questa nuova disciplina, relativamente alle scuole medie superiori, sono chiarite nel Decreto Legislativo 17 ottobre 2005, n. 226. Il decreto riguarda l’applicazione della riforma del 2003 nella scuola superiore e in esso i riferimenti all’educazione alla convivenza civile sono numerosi: in apertura si ricorda che “Nel secondo ciclo del sistema educativo si persegue la formazione intellettuale, spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione, lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla collettività nazionale e alla civiltà europea”. Poco più avanti si ribadisce: “I percorsi liceali e i percorsi d’istruzione e formazione professionale nei quali si realizza il diritto-dovere all’istruzione e formazione sono di pari dignità e si propongono il fine comune di promuovere l’educazione alla convivenza 55
civile, la crescita educativa, culturale e professionale dei giovani…”. Nell’allegato A, relativo al profilo in uscita degli studenti, e quindi agli obiettivi da perseguire, la nuova materia viene approfondita e articolata. Si tratta sia di conoscere gli ordinamenti dello Stato, a partire dalla Costituzione, sia di conoscere i valori che ispirano gli ordinamenti e la vita democratica, sia di essere in grado di partecipare al dibattito culturale, sia di “cogliere la complessità dei problemi esistenziali, morali, politici e sociali, economici e scientifici e formulare risposte personali argomentate”. A queste finalità generali se ne aggiungono altre, suddividendosi negli obiettivi specifici in sei aree di apprendimento: educazione alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute e infine educazione alla relazione e all’affettività. Questa nuova prospettiva comprende quindi anche la vecchia Educazione civica ma non si esaurisce in essa e si raccomanda infatti esplicitamente un approccio interdisciplinare che coinvolga in diversa misura tutti gli insegnanti del consiglio di classe. Al primo punto dell’allegato A viene evidenziato un altro nucleo
Norman Rockwell, Il problema che noi tutti conosciamo, illustrazione per la rivista Look, 1964.
di finalità relative alla “Conoscenza di sé”, in particolare prendendo coscienza “delle dinamiche che portano all’affermazione della propria identità attraverso rapporti costruttivi con adulti e coetanei”. I due punti, la conoscenza di sé e l’educazione alla convivenza civile, sono strettamente collegati se si considera, come le indicazioni suggeriscono, che la prima si forma attraverso il rapporto costruttivo con gli altri. Consideriamo ora il progetto. Coniugando questi due aspetti, l’istituto Russell Newton di Scandicci (provincia di Firenze, Dirigente scolastico prof.ssa Sandra Ragionieri Scotti) ha avviato fin dall’anno scolastico 2006/2007 un progetto dal titolo significativo: “Per capire chi siamo. I saperi di cittadinanza”. Anche se successivamente la riforma Gelmini ha in La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
parte modificato quella Moratti introducendo il nuovo insegnamento “Cittadinanza e Costituzione”, il progetto ha conservato la propria validità, orientata all’acquisizione dei saperi essenziali per comprendere la realtà contemporanea. Attualmente sono state privilegiate le seguenti aree: diritto, storia ed economia. Operativamente, il progetto si svolge mediante alcune fasi intensive, che coinvolgono contemporaneamente per alcuni giorni l’intero istituto, e alcune fasi di lavoro in classe. Una prima fase intensiva di tre giorni si svolge in dicembre o in gennaio e prevede che in ogni classe si tengano lezioni di Diritto, di Economia e di Storia nella prima parte della mattinata, seguiti da attività di approfondimento e da lavori di gruppo nelle ultime ore. 56
Analizziamo ora i contenuti. Per ogni fascia di classi sono previsti argomenti diversi: nelle classi prime si affronta il tema “L’Italia è una Repubblica democratica. Una fotografia dell’Italia di oggi”, analizzando la realtà italiana dal punto di vista giuridico-costituzionale e socio-economico; nelle classi seconde si sviluppa il tema “I diritti e i doveri dei cittadini”, sia in riferimento alla Costituzione, sia analizzando le principali dinamiche sociali, come ad esempio quelle interculturali; nelle terze si approfondisce un tema scientifico, nello specifico quello dell’energia nucleare, con le implicazioni politiche e sociali legate soprattutto ai referendum; nelle quarte il tema è quello del lavoro, sia mediante una ricostruzione della storia recente (dallo Statuto dei lavoratori in avanti), sia con un
CITTADINANZA approfondimento giuridico ed economico delle diverse tipologie di contratti a tempo determinato attualmente esistenti; nelle quinte, infine, viene affrontato il tema del Welfare State e del sistema fiscale che lo sostiene. Nel periodo successivo, da gennaio ad aprile, le classi sviluppano, soprattutto in orario extra-scolastiche, delle aree di progetto, cioè attività di gruppo finalizzate alla realizzazione di progetti che trovano espressione in materiali conclusivi quali film, presentazioni multimediali, spettacoli, pannelli da esporre, ecc. I temi vengono scelti liberamente, in relazione a quello principale ricordato sopra. In aprile una seconda fase intensiva prevede la sospensione delle attività didattiche per due mattinate, dedicate alla conclusione dell’area di progetto e alla messa a punto dei materiali conclusivi, che potranno essere presentati a una commissione che premierà i migliori. In questo modo, nel corso dei cinque anni, ogni studente percorrerà l’intero itinerario formativo, acquisendo i contenuti e sviluppando le abilità previste. l’istituto comprende un liceo scientifico, un liceo classico, un istituto di ragioneria e uno per geometri. Tra queste diverse realtà si realizza in occasione di questa iniziativa una certa interazione, dato che insegnanti di economia e di diritto degli istituti tecnici svolgono attività di docenza nei licei, dove gli studenti hanno occasione di conoscere i fondamenti di discipline che non fanno parte del loro curriculum. In tutte le classi, inoltre, nel corso dell’anno gli insegnanti di storia inseriscono nella programmazione, accanto al percorso curricolare, anche argomenti relativi al secondo Novecento. Anche qui i contenuti sono definiti per ogni fascia di classi (gli
anni Cinquanta nelle prime, gli anni Sessanta nelle seconde, e così via), in modo che ogni studente possa nel quinquennio approfondire la conoscenza della seconda metà del secolo scorso, un arco di tempo d’importanza fondamentale per comprendere il presente e che spesso, nello svolgimento dei programmi, risultava trascurato. Vediamo infine gli aspetti metodologici. Nelle fasi intensive non viene soltanto interrotta la normale attività didattica, ma in una certa misura anche il “normale” modo di fare didattica: alle lezioni frontali, infatti, si accompagnano momenti operativi, lavori di gruppo, dibattiti… L’intenzione è quella d’introdurre una didattica attiva che contribuisca anche per il metodo alla formazione di una “cittadinanza attiva e partecipativa”. Ovviamente alcuni insegnanti già lavorano in questo modo nell’insegnamento quotidiano, ma in altri casi si tratta di una sollecitazione importante a un coinvolgimento maggiore degli studenti. In generale, poi, si intende, anche se soltanto come esperienza di alcuni giorni, introdurre una didattica simile in tutto l’istituto, che costituisca un elemento di riflessione e di discussione tra i docenti anche al di fuori dei pochi giorni dedicati al progetto. Questa didattica attiva dovrebbe poi essere proseguita dagli studenti stessi mediante le aree di progetto, che prevedono un’organizzazione autonoma del proprio lavoro (anche se con un eventuale coordinamento da parte dei docenti di classe) per la realizzazione di un progetto di cui loro stessi sono responsabili, decidendone i temi, i tempi e le modalità. Un altro aspetto interessante è la preparazione dei materiali didattici utilizzati nella prima fase intensiva. Per dare una base comune 57
all’opera formativa, i materiali didattici sono già predisposti, anche se ogni insegnante può utilizzarli in modo flessibile. Tali materiali, nella forma di dispense, sono però realizzati dagli stessi insegnanti dell’istituto, in modo da adattarli alla realtà locale e alle finalità educative individuate dal collegio dei docenti, ma anche per valorizzare le competenze interne nella produzione del materiale didattico. Manca ancora la collegialità, dato che la produzione dei materiali attualmente in uso è opera di singoli docenti. Tali materiali, però, sono stati integrati da altri insegnanti mediante presentazioni multimediali e documentazione aggiuntiva utilizzata nella concreta azione didattica e in prospettiva questi nuovi materiali possono essere integrati con quelli esistenti per costruire un patrimonio comune da utilizzare nei prossimi anni. Siamo a questo punto in grado di trarre qualche considerazione conclusiva. Di solito nelle varie discipline si distingue tra contenuti e competenze, che sono ovviamente strettamente congiunti ma non si identificano. Questa ovvietà non sempre, però, corrisponde al vero. La costruzione dei “saperi di cittadinanza” muove dalla constatazione che le competenze richieste, in termini di comprensione della società contemporanea e di partecipazione civile, richiedano alcuni contenuti che non sono previsti nei curricula di alcuni tipi di scuola, ad esempio dei licei. È difficile comprendere il mondo contemporaneo senza una conoscenza, sia pure di base, dell’economia e del diritto. Senza la prima è difficile ad esempio inquadrare i processi che hanno determinato l’attuale crisi economica che ha avuto riflessi profondi sugli sviluppi politici, anche nel nostro Paese. Senza il
SCUOLA secondo rischiano di sfuggirci alcuni aspetti importanti dell’assetto istituzionale dello Stato, degli Enti locali e anche degli stessi aspetti giuridici dei rapporti interpersonali o delle istituzioni che sono più vicine allo studente, a partire da quella scolastica. Una migliore comprensione del significato della dimensione del diritto può determinare una maggiore consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri, di come conoscerli e di come farli valere, fino alla partecipazione più consapevole, mediante i diversi organismi rappresentativi, alla gestione della scuola. Al di là dei singoli contenuti, che sono comunque importanti per mettere in moto alcuni processi e dar loro uno spessore diverso, conoscere il diritto o l’economia si-
gnifica anche acquisire un modo diverso di analizzare alcuni aspetti della realtà contemporanea e della propria esperienza personale. Inoltre, mediante queste conoscenze di base, si pongono le premesse per una migliore comprensione di processi che potranno poi essere approfonditi in modo autonomo, utilizzando (cosa altrimenti difficile) le informazioni e le analisi proposte dalla televisione o presenti sui giornale o in Internet. Il senso del progetto, come quello dell’Educazione alla convivenza civile nel suo insieme, è proprio quello di fornire gli strumenti e le prospettive intellettuali per iniziare un percorso da proseguire poi in modo autonomo. Le attività scolastiche non possono essere risolutive, in ambiti complessi che investono la perso-
nalità e il comportamento degli studenti, ma aprono delle porte consentendo di avviarsi lungo percorsi per acquisire competenze e abilità che senza questo momento iniziale probabilmente non avrebbero potuto neppure essere intrapresi.
Enzo Ruffaldi è professore di Filosofia nei licei.
APPROFONDIRE
Per una descrizione più dettagliata del progetto si può fare riferimento al sito dell’istituto, e in particolare alla pagina: www.russellnewton.it/didattica/progetti/percapirechisiamo.htm.
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DIVERSITÀ CULTURALE
Multiculturalismo e intercultura Oggi la riflessione antropologica sul concetto di cultura consiglia di andare oltre la prospettiva multiculturale: è necessario infatti non solo accettare le diversità ma anche confrontarsi con esse.
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Gabi Jimenez, Caravanes linge, olio su tela, 2006.
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Francesca Nicola
l termine multiculturalismo, entrato nell’uso comune verso la fine degli anni Ottanta, indica una società dove più culture, anche molto differenti, convivono rispettandosi reciprocamente fra loro. L’idea, nata soprattutto in seguito all’intensificarsi dei processi di globalizzazione (turismo, capitalismo e soprattutto immigrazioni), è che i diversi gruppi etnici, e le minoranze in particolare, pur avendo interscambi, conservino ognuno le proprie peculiarità, mantenendo il loro diritto a esistere senza omologarsi a una cultura predominante. Negli ultimi anni, tuttavia, sia gli studiosi sia gli operatori sociali 59
hanno iniziato a sottolineare gli aspetti critici di questo modo di intendere l’integrazione, tanto da concludere che esso avrebbe l’effetto paradossale di escludere le minoranze, invece di promuovere la loro partecipazione alla società e alla cultura nazionale e transnazionale. Tale risultato deriverebbe dalle modalità con cui si è inteso il concetto "multiculturalismo" e le nozioni a esso connesse, in particolare quelle di cultura e di etnicità. In termini operativi, poi, le politiche multiculturali avrebbero aumentato la frammentazione (e il rischio di apartheidizzazione) fra le componenti della società. Il multiculturalismo, o meglio un certo modo di intendere il multicurali-
SCUOLA smo, avrebbe insomma prodotto la propria contraddizione: il monoculturalismo. La soluzione multiculturale al problema della convivenza sta nel permettere a ogni singola cultura di esprimersi all’interno dei limiti che sono determinati dalla cultura stessa, per i quali ciascuna è assoluta, nel senso di ab-soluta, cioè sciolta dall’onere di relazionarsi con le altre. Emblematica è la politica francese: le culture possono vivere solo nell’ambito del privato familiare o di gruppi ristretti, dal momento che la laicité non consente alcuna forma di visibilità a segni e simboli che identificano una cultura e una religione. Esempio tipico è la legge 228 del 2004, la famosa “legge sul velo”. Secondo i suoi critici, il multiculturalismo rischierebbe di creare frammentazione sociale, separatezza delle minoranze, una forma di relativismo culturale acritico e asettico. Come ideologia e dottrina politica, esso si basa su un immaginario collettivo (tutti differenti, tutti uguali) secondo il quale ogni cultura deve essere considerata pari a ogni altra. In linea con tale impostazione, nei Paesi anglosassoni alcuni reati contro la persona vengono ormai depenalizzati o trattati con esenzioni di pena, o altre “condanne esimenti”, perché commessi in base a consuetudini di culture particolari che giustificano quei comportamenti. Ad esempio, la
mutilazione di organi femminili, il matrimonio dei minori combinato dai genitori, le violenze su donne, sono fatti che trovano una difesa culturale (cultural defense) perché la dottrina del multiculturalismo li spiega come reati culturalmente orientati (cultural offense). Anche l’antropologia, la disciplina che studia la variabilità culturale, ha messo al centro delle sue riflessioni più recenti questo rischio. L’enfasi posta dalle politiche multiculturaliste sulla differenza culturale di cui gli immigrati sono portatori, sostengono gli antropologi, fa sì che queste culture siano trasformate in scatole vuote, riferimenti astratti, del tutto sganciati dalla dimensione di vita delle persone e ancora di più dall’analisi delle condizioni socioeconomiche entro cui si svolgono i loro percorsi. Le culture, invece, non sono monoliti ma sistemi simbolici mobili, confrontabili fra di loro, che si intrecciano e si condizionano reciprocamente. Concetti come cultura, comunità, etnia, razza, tribù, nazione, non possono essere definiti una volta per tutte e nemmeno essere considerati entità reali. Sono costrutti artificiali mediante i quali un gruppo produce una definizione del sé e dell’altro, auto-attribuendosi un’omogeneità interna e, nello stesso tempo, una diversità rispetto agli altri. La cultura, insomma, non è una cosa che esiste di per sé. I simboli culturali vi-
Daniel Baker, Sign looking glass, tecnica mista, 2005. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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vono solamente in quanto sono impiegati, condivisi e socializzati. Più che di cultura bisognerebbe allora parlare di politica della cultura o politica economica della conoscenza. Il punto di vista antropologico non ha insomma semplicemente decostruito l’idea di cultura. Ha cercato di disaggregarla, renderla storica e politica, indagando gli spazi di scambio, politici, linguistici e culturali nei quali si definisce. Anche l’etnia e l’etnicità, al pari della cultura, sono costruzioni simboliche, costrutti culturali attraverso i quali un gruppo produce una definizione del sé e/o dell’altro collettivi. Come afferma l’antropologo Ugo Fabietti, l’identità etnica e culturale è sempre meno un attributo quasi naturale di comunità chiuse, considerate come unità indifferenziate o somma di tratti empiricamente riscontrabili all’interno di un contesto locale. Al contrario, appare sempre di più come il prodotto caleidoscopico, congiunturale e frammentario, di strategie attivamente perseguite da individui e gruppi a vario livello: costruzioni, interpretazioni del passato o invenzione di nuove “tradizioni". Su questo sfondo, il rischio di un multiculturalismo impegnato nel riconoscimento delle identità culturali ed etniche, appare quello che lo studioso canadese Michel Ignatieff ha chiamato “razzismo
DIVERSITÀ CULTURALE
Kiba Lumberg, Death on the trolling tack, olio su tela, 1995.
differenzialista”. Etnicità e multiculturalismo possono infatti essere considerate due forme correlate d’ideologia sociale. Entrambe sono strumenti rigidi di classificazione che sottolineano in maniera ideologica e politicamente strumentale l’omogeneità interna, costruita attorno a variabili di volta in volta culturali, genealogiche, territoriali, religiose o linguistiche. Come il razzismo, il multiculturalismo seleziona ciò che divide i gruppi sociali invece del loro intrinseco rapporto, e lo rende “naturale”, oggettivo, immutabile. Basti pensare alla logica del sistema sudafricano dove gli studiosi fornirono le basi ideologiche per il regime dell’apartheid e la divisione del Paese in comunità etniche, concepite come ontical, human social units, ossia unità sociali umane oggettive. A tali sconfortanti conclusioni il multiculturalismo arriva partendo dal presupposto che per governare meglio le relazioni bisogna tutelare le culture “altre” (o, viceversa, le “nostre”). Gli individui sono così visti come portavoci di
una cultura, ogni cultura si identificherebbe con un popolo, e ogni popolo pretenderebbe un riconoscimento sulla base della propria univoca identità. In realtà, concludono i critici, queste assunzioni si fondano sul nostro etnocentrismo, che vede la pluralità, il cambiamento e la libertà come risorse solo quando pensiamo alla cultura occidentale, mentre agli altri non rimane che il destino d’essere sovra-determinati dalle rispettive culture, entità statiche e prescrittive. Accantonato il multiculturalismo, lo si è sostituito con il temine intercultura o interculturalità. Si tratta di un neologismo d’origine inglese impiegato in Italia in ambito scientifico già negli anni Sessanta. Si afferma inizialmente, come aggettivo, in ambito pedagogico e scolastico, nella forma “educazione interculturale”, tuttavia ha poi trovato impiego autonomo nel dibattito filosofico e persino teologico (per quanto riguarda la Pastorale missionaria). Questa nuova categoria propone un progetto di interazione fondato sull’idea che le culture si 61
aprano reciprocamente e apprendano le une dalle altre in un’interazione dinamica, in una specie di interscambio creativo, senza perdere la propria identità. In tale modo, si dà importanza all’iter che designa la necessità dell’incontro e del reciproco cambiamento. In ambito scolastico, secondo Cristina Allemann Ghionda, esperta d’educazione interculturale, non sembra che il sistema scuola nel suo complesso abbia fatto propria questa ottica. La studiosa afferma che, per quanto riguarda la scuola italiana ed europea, l’utopia interculturale sia ancora da realizzare a livello di curricula, di programmi, di formazione e soprattutto di pluralismo culturale e linguistico degli stranieri. Vi sono diversi interventi ma frammentari ed estemporanei. La competenza culturale di molti insegnanti permette di progettare compiti di accoglienza, inserimento, insegnamento della L2 o della lingua d’origine, promozione della comprensione delle differenze culturali e prevenzione del pregiudizio. Tutto questo però si svolge in modo estemporaneo e soprattutto senza un quadro teorico che le supporti. Per cambiare la situazione è stato proposto di intervenire su diversi fronti, in particolare sulla formazione degli insegnanti. Secondo quanto afferma Milena Santerini, docente di pedagogia presso l’università Cattolica di Milano, si tratterebbe di preparare questi ultimi a essere capaci di apertura alla diversità, a gestire le grandi questioni etiche inerenti all’intercultura, tra relativismo e rischio di assimilazione. Si dovrebbe poi dotare l’insegnante di strumenti metodologici per inserire la prospettiva interdisciplinare nelle discipline scolastiche. Infine, non dovrebbe mancare nella formazione dei docenti l’im-
SCUOLA
Daniel Baker, Static, immagine fotografica, 2006.
mersione e la scoperta, per quanto parziale, di almeno un diverso universo culturale, cioè la conoscenza il più possibile approfondita di una comunità etnica della propria zona, nelle sue forme di vita e di relazione. Una posizione che, prosegue la studiosa, ha qualche elemento critico. Quale dovrebbe essere il motore di questi cambiamenti? La politica? Il ministero della Pubblica Istruzione? Gli esperti di pedagogia o coloro che dovrebbero formare gli insegnanti? Vi è poi un secondo problema. Le pratiche interculturali già affermatesi sono prima di tutto di tipo “compensativo”, così definite perché rispondono principalmente all’urgenza di compensare gli svantaggi patiti dagli immigrati nelle nuove realtà dovuti alla scarsa conoscenza di lingua, norme giuridiche, usi e costumi dei Paesi ospitanti. Tuttavia, prosegue sempre Santerini, gli interventi compensativi non esauriscono l’ambito dell’educazione interculturale, che è
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molto più ampio, come ha fatto notare anche il ministero della Pubblica Istruzione in diverse occasioni. A titolo esemplificativo, possiamo citare un documento ministeriale del 2007, che recita così: “Scegliere la prospettiva interculturale non significa limitarsi a mere strategie d’integrazione degli alunni immigrati, né a misure compensatorie di carattere speciale. Si tratta piuttosto di assumere la diversità come paradigma dell’identità della scuola e come occasione per aprire l’intero sistema formativo a tutte le differenze” (M.P.I., Roma, 23-5-2007). Di qui la necessità di coinvolgere competenze interculturali elevate, rivolte alla conoscenza profonda dei diversi universi culturali (quella che si chiama intercultura “profonda”), al fine di apprezzarne le differenze e gli eventuali punti di convergenza. Ciò costituisce un requisito indispensabile per un’educazione interculturale non superficiale, capace di promuovere il rispetto del pluralismo (come vuole l’ap-
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proccio multiculturalista) senza però rinunciare alla possibilità di trovare momenti d’intesa e livelli di armonizzazione tra le differenze. In questo ambito, l’educazione interculturale profonda suggerisce che manuali scolastici valorizzino maggiormente le più significative esperienze storiche di dialogo e coesistenza tra culture, poiché da esse gli alunni e i docenti possano ricavare utili insegnamenti, validi anche per il presente. Applicare quest’ottica significa considerare la migrazione secondo una prospettiva di tipo relazionale, che tiene conto della capacità sia dei migranti sia della società di accoglienza di confrontare e scambiare, su una base di sostanziale parità e reciprocità valori, culture, schemi di comportamento. Francesca
Nicola è dottoranda in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.
APPROFONDIRE F. Susi, L’interculturalità possibile. L’inserimento scolastico degli stranieri, Anicia, Roma, 2005. U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma, 2000. M. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma, 2006. P. Donati, Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Laterza, Roma-Bari, 2008. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano, 2003. M. Santerini, Intercultura, La Scuola, Brescia, 2003.
DIVERSITÀ CULTURALE | IMMAGINI
Kiba Lumberg, Bird Killer, tempera, 1995.
L
e immagini che commentano l’articolo dedicato alla diversità culturale sono state esposte nel 2007 alla cinquantaduesima edizione della Biennale di Venezia in una sezione specifica dedicata all’arte del popolo rom dal titolo Il Paradiso Perduto. La mostra, la prima in assoluto di questo genere, presentava al pubblico opere dei maggiori talenti di arte visiva appartenenti a quella che rimane la più numerosa minoranza etnica europea. Si tratta di un evento che è stato particolarmente importante dal punto di vista del multiculturalismo, perché per la prima volta, dopo secoli in cui i rom sono stati oggetto, o vittime, di rappresentazioni create esclusivamente da non rom, ci troviamo di fronte ad una testimonianza “da dentro”, che esprime l’immagine che pla-
Delaine Le Bas, Crucified, tecnica mista, 2005.
Kiba Lumberg, Death on the trolling tack, particolare, olio su tela, 1995.
Il Paradiso Perduto dei rom
smano di se stessi. È interessante notare come a fianco dei temi tipicamente legati alla cultura rom, come il viaggio, l’emarginazione, la consapevolezza di appartenere a un tessuto culturale altro (vedi ad esempio le opere a pagina 59 e 62, sul tema della roulotte, simbolo della vita nomade), sono ben presenti temi che potremmo definire semplicemente umani o universali come anche riferimenti all’arte contemporanea estranea alla tradizione rom. In altre parole, ciò che salta agli occhi di fronte a tali opere è la costante fusione tra la tradizione e la contemporaneità, tra la cultura particolare e il tessuto sociale globalizzato. Come scrive la storica dell’arte ungherese Tímea Junghaus: “Con sicurezza intellettuale questi artisti accolgono e trasformano, negano e decostruiscono, contestano 63
e analizzano, sfidano e sovrascrivono gli stereotipi esistenti, reinventando la tradizione rom e i suoi elementi di cultura contemporanea. In realtà, l’intenzione di contrastare e negare le (errate) rappresentazioni esistenti e di promuovere la visione opposta comporta una dicotomia irrisolvibile, che si incarna in un’arte non esente da una dolorosa bellezza, da paranoia, da schizofrenia e da sindromi postraumatiche. Se a partire dal modernismo del XIX secolo la terra sconosciuta degli esotici zingari ha rappresentato per l’Europa il simbolo dell’evasione, abbiamo forse, noi tutti, perso la nostra ricerca del Paradiso?”. 쐽
쑺 Francesca
Nicola
SCUOLA
Un computer per ogni scolaro
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Una sperimentazione tecnologica all’avanguardia: che cosa succede quando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione vengono introdotte in classe? Come si trasforma l’ambiente di apprendimento?
쑺 Valeria
Zagami
La gestione dello spazio fisico della classe è cambiata, i banchi sono disposti in cerchio e gli alunni si guardano l’uno con l’altro interagendo sia con i compagni che con i piccoli JumPC.
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pesso affrontando gli interrogativi posti nel titolo la riflessione si concentra sugli aspetti tecnici, su quali siano i dispositivi più adatti per i ragazzi e su quali potrebbero essere le necessità di banda. Quando si parla di uso delle TIC nella scuola si tende a ragionare di metodologia, di didattica e di software lasciando sullo sfondo il problema dell’organizzazione degli spazi e quindi dell’hardware e delle infrastrutture necessarie. Finché le TIC sono rimaste confinate nel laboratorio informatico non si ponevano grandi problemi, ma la situazione adesso sta cambiando perché le tecnologie stanno invadendo le nostre classi. La vecchia lavagna viene sostituita dalle LIM e si comincia a portare il PC direttamente in aula, magari fornendone uno a ogni bambino. Si prefigura uno scenario nuovo, moderno e digitale, che si oppone al vecchio, antiquato e fuori dal tempo, di tipo analogico. La sperimentazione Un computer per ogni scolaro ne è un esempio eclatante. Una classe di quinta elementare del 1° circolo didattico di Rivoli, in Piemonte, è stata allestita per consentire a ogni alunno di utilizzare un netbook tutti i giorni durante l’attività didattica. La configurazione spaziale della classe è cambiata: gli studenti sono disposti in cerchio nello spazio e guardano i loro piccoli 64
JumPc Olidata. Una configurazione spaziale che consente ai singoli alunni d’instaurare una relazione con i compagni e con il docente di riferimento. Al centro della classe c’è l’insegnante che diventa guida e sostegno per gli allievi, i quali, da parte loro, acquisiscono autonomia nel processo di apprendimento attivato dal docente. Un nuovo modo di fare didattica che genera cambiamento e innovazione. Come dichiara durante un’intervista l’educatrice Paola Limone, l’insegnante che ha gestito la sperimentazione nel 2008/2009, “la presenza del computer non basta per generare l’innovazione del metodo, occorre invece rivedere e rielaborare l’organizzazione didattica delle ore trascorse in classe con gli allievi. La lezione di tipo cattedratico comincia così ad avere poco senso portando l’insegnante a trasformare il proprio ruolo da elargitore di saperi a coordinatore dell’azione didattica in classe”. Avere a disposizione un PC nella didattica quotidiana cambia dinamiche relazionali e metodologiche e si ripercuote sugli apprendimenti: un fare scuola che si costruisce insieme ai bambini. Significa allestire un ambiente didattico nel quale farli sentire coinvolti in “uno spazio altro” dove si può raccontare, imparare e crescere insieme all’insegnante e ai compagni. L’inserimento dei netbook in
TECNOLOGIE
Una studentessa intenta a sperimentare l’uso del computer.
classe ha permesso quindi di sperimentare una dimensione scolastica nuova. Parliamo di buone pratiche d’uso didattico che si prestano alla definizione di “scuolafacendo”, che mettono in risalto la componente esperienziale e pratica dell’apprendimento. Il gruppo di lavoro che ha ideato il progetto Un computer per ogni scolaro è composto dal professor Dario Zucchini, l’insegnante Paola Limone, il professor Mariano Turigliatto e dai docenti Antonietta Lombardi e Mirko Pellerei. La sperimentazione ha avuto il sostegno dell’ufficio scolastico regionale Piemonte e di Olidata che ha fornito i piccoli computer JumPC, in comodato d’uso, per allestire la tecnoclasse dell’istituto Don Milani del 1° Circolo di Rivoli. La classe quinta di scuola primaria ha avuto l’opportunità di sperimentare una didattica alternativa: i computer da zainetto hanno permesso di ridisegnare spazi e relazioni, di eliminare le file costituite dai banchi, di semplificare le dotazioni tecnologiche e di consegnare al passato l’ora d’informatica, intesa come materia isolata. Durante la sperimentazione gli scolari hanno utilizzato il netbook in classe per due-tre ore al giorno,
e a casa per svolgere i compiti o per momenti dedicati allo svago. Gli studenti portavano il computerino con loro mettendolo comodamente dentro la cartella, per poi riportarlo in classe al suono della campanella mattutina. La tecnologia usata dalle tecnoclassi durante la sperimentazione è un portatile a basso costo, chiamato JumPC prodotto da Olidata. Presenta uno schermo da 7 pollici e pesa un chilo e mezzo, è semplice, funzionale, e dalle dimensioni contenute. Tecnicamente è un derivato dell’Intel Classmate di seconda generazione, un laptop a basso costo nato per la prima informatizzazione dei bambini nei Paesi in via di sviluppo, pertanto può essere classificato nella categoria dei netbook o degli OLPC. La parola “netbook” è il neologismo proposto da Intel per identificare un gruppo di dispositivi portatili emergenti, caratterizzati da prezzo e dimensioni contenute, ma dalle prestazioni modeste, sufficienti comunque per navigare su Internet e svolgere le più comuni applicazioni quotidiane. Il capostipite di questa generazione di computer è sicuramente XO, del progetto “OLPC” di Nicholas Negroponte. Con questi 65
computer è possibile avviare un primo percorso di sperimentazione che verifichi le potenzialità dell’inserimento dell’uso del “computer da zainetto” nei percorsi didattici quotidiani (dalla lingua alle scienze, dalla matematica alla storia), come strumento sia collettivo sia individuale. Questa tecnologia consente agli insegnanti e agli scolari interessati l’occasione per compiere un’esperienza d’uso di strumentazioni parzialmente differenti da quelle usuali nelle scuole, in modo da acquisire una mentalità più flessibile nei confronti delle tecnologie della comunicazione digitale. La sperimentazione è stata caratterizzata da una forte progettazione iniziale che ha permesso di prevedere un buon esito dell’attività didattica. Infatti i PC sono stati appositamente allestiti per essere in tutto e per tutto “a misura di bambino”. I piccoli JumPC Olidata sono stati dotati di un kit didattico con software prevalentemente libero. Sono state adottate misure preventive per tutelare la sicurezza della navigazione in rete degli scolari e le aule sono state predisposte per il collegamento WiFi. Il browser di navigazione Internet non consentiva l’inserimento libero degli indirizzi nella barra degli strumenti. Era invece possibile selezionare le fonti da una white list di circa 1000 siti scelti appositamente per gli alunni. La password per la navigazione era conosciuta soltanto dai docenti e dai genitori. L’interfaccia, che si avvia all’accensione, è stata elaborata per essere accattivante e allo stesso tempo usabile da un pubblico così particolare: ci sono grandi icone colorate e bauli che contengono giochi e programmi. Il word processor ha il simpatico aspetto di un quaderno ad anelli da sfogliare che
SCUOLA mostra tutti i programmi installati. Gli alunni hanno usato Office, offerto da Microsoft, per esercitazioni di tipo grammaticale, giochi linguistici, riassunti e articoli giornalistici, programmi per il disegno, per la produzione di libri dinamici, per mappe mentali e concettuali. Hanno avuto largo spazio webcam, registratore di suoni e ambienti per montaggio di filmati e di animazioni. Le famiglie degli alunni sono state coinvolte con un incontro esplicativo in cui è stato formalizzato un accordo casa-scuola all’atto della consegna del computer ai bambini. La sperimentazione ha di certo lasciato il segno sugli scolari che hanno usufruito per un intero anno scolastico, tutti i giorni, dei piccoli PC, in classe e a casa. Il gruppo di lavoro dal quale è nato il progetto Un computer per ogni scolaro è composto da docenti di scuola superiore e di scuola primaria che da anni si occupano di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) applicate alla didattica. I netbook consegnati al primo circolo di Rivoli sono stati singolar-
mente preparati e configurati dagli studenti e docenti dell’istituto tecnico industriale Majorana di Grugliasco. Il lavoro è stato condotto seguendo un approccio di natura sinergica che ha permesso agli insegnanti coinvolti nella sperimentazione di non trovare grandi difficoltà nella risoluzione dei problemi tecnici, e allo stesso tempo ha impegnato fattivamente gli studenti dell’istituto tecnico industriale Majorana. Ripensare il processo educativo come pluridimensionale è la svolta didattica di cui la scuola ha bisogno. Un approccio collaborativo può certamente apportare dei risultati diversi negli apprendimenti e nella motivazione di ogni singolo studente. Riuscire a connettere la dimensione astratta dei saperi appresi a scuola, in classe, con la dimensione concreta dell’esperienza e della vita può rinnovare, se non del tutto almeno in parte, la scuola e i riti che in essa si consumano. È, infatti, nella parola collaborazione che possiamo identificare uno strumento valido per ottenere dei buoni risultati. Gli studenti
dell’ITIS Majorana aiutando tecnicamente la classe protagonista della sperimentazione hanno vissuto un’esperienza fattiva, che ha permesso di sperimentare che cosa significa mettere in pratica gli insegnamenti scolastici in un contesto reale. In questo modo si è riusciti a responsabilizzare i ragazzi, che hanno avvertito un senso di partecipazione molto forte al raggiungimento di un obiettivo di gran lunga più motivante del semplice superamento di un’interrogazione o di un buon voto riportato a casa. Le nuove generazioni sono attratte dalla possibilità di confrontarsi con dispositivi tecnologici sempre più all’avanguardia e mostrano un grande interesse per i contenuti veicolati dalle tecnologie. Ecco perché diventa fondamentale tracciare uno scenario teorico e metodologico di riferimento che possa consentire di ricostruire dinamiche didattiche diverse da quelle usualmente applicate nella quotidianità scolastica. L’inserimento delle TIC deve essere interpretato come un valore aggiunto all’attività didattica. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione consentono di attivare processi di apprendimento collaborativo che valorizzano la costruzione sociale della conoscenza. In questo modo la classe diventa un luogo di apprendimento finalizzato alla costruzione di competenze e conoscenze in un ambiente sociale. Permettendo d’instaurare processi di relazione fra i bambini, fra i docenti, e fra gli alunni e i docenti.
Valeria Zagami è laureata in Teoria della comunicazione e ricerca applicata ai media presso l’Università La Sapienza. È esperta di tecnologie e didattica, collaboratrice ANSAS ex-Indire.
Un computer JumPC. La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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NORMATIVA SULLE ADOZIONI
L’adozione dei libri di testo Come spesso accade nel mondo della scuola, una singola attività suscita interrogativi e riflessioni che portano l’osservatore e l’operatore ben al di là dell’ambito cui quella singola attività si riferisce. Tipico esempio di questa fenomenologia è costituito da quella complessa e non univoca procedura che porta il nome di “adozione dei libri di testo”.
쑺 Fulvio
Allegramente
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a un punto di vista generale, l’adozione dei libri di testo coinvolge una pluralità di portatori d’interessi: i fruitori del “prodotto libro”, cioè gli attori del processo d’insegnamento/apprendimento, quindi i docenti e gli studenti, le famiglie, che partecipano della vita scolastica dei loro figli talora interagendo con loro nello studio e comunque sostenendo le spese di acquisto dei libri, le case editrici, specializzate e non, che legittimamente impostano la loro attività attorno alla produzione, pubblicazione e vendita del “prodotto libro”, le istituzioni scolastiche che attraverso gli organi monocratici (il dirigente scolastico) e collegiali (i consigli di classe prima, poi il collegio dei docenti e infine il consiglio d’istituto) sono il luogo fisico e virtuale in cui l’attività si svolge e viene certificata sulla base delle norme permanenti e annuali emanate dal Parlamento e dal ministero. Da un punto di vista più settoriale e tecnico, la procedura di adozione dei libri di testo, come si è venuta configurando negli ultimi anni, specialmente a partire dal 2008, comporta un notevole grado di complessità: l’adozione del singolo testo deve tener conto del nuovo quadro normativo (dal 2003, legge 67
53, e dal 2004, decreto legislativo 59, non si parla più di programmi ma di indicazioni nazionali) e quindi di un rapporto meno costrittivo e più creativo per il docente rispetto ai contenuti di un testo scolastico. Inoltre si sono intensificate le esigenze di una programmazione collegiale rispetto alla libera scelta del singolo docente (si pensi al ruolo crescente dei dipartimenti disciplinari o per aggregazioni di discipline affini rispetto alle deliberazioni del collegio dei docenti per la definizione del Piano dell’offerta formativa1). Infine le delibere degli organi collegiali (oltre alla diretta responsabilità del dirigente scolastico in termini d’indirizzo e vigilanza) debbono tener conto dei vincolanti tetti di spesa annualmente definiti a livello ministeriale e quindi devono abbastanza frequentemente mediare fra esigenze divergenti (l’apprezzamento culturale per un testo rispetto al suo costo, il fatto che nessun docente può vantare primogeniture per la sua disciplina e per la sua scelta rispetto a quelle operate dai colleghi all’interno di ogni singolo Consiglio di classe). Questa complessità trova anche la sua cassa di risonanza a livello politico: ogni anno, mentre si sviluppa la procedura per l’adozione
SCUOLA dei libri, si sviluppano polemiche di vario tipo. Quelle ideologiche politiche rispetto al contenuto giudicato parziale e culturalmente fuorviante di alcuni testi in quanto da alcuni si ritiene che un libro di testo debba in qualche modo essere pluralista nella stessa misura in cui debbono (o dovrebbero) esserlo le trasmissioni della rete televisiva pubblica. Quelle ideologiche sociali, preminenti negli ultimi anni, rispetto al costo dei libri di testo, visti come una voce, al pari di altre, che grava annualmente sul “paniere” familiare (le associazioni dei consumatori sono particolarmente attente a questo aspetto – il “carolibri” – come sono attente al peso dei libri stessi a tutela della salute degli studenti); il ministero già nella circolare 16 del 2009 ha segnalato come obiettivo da raggiungere nell’adozione dei libri di testo “il contenimento delle spese per le famiglie” ed ha previsto fondi per la “gratuità parziale” dei libri di testo (noleggio, comodato d’uso, assegni regionali per garantire il diritto allo studio). Del resto alcune associazioni dei consumatori hanno anche contestato la richiesta di contributi da parte delle scuole, sottolineando il carattere facoltativo degli stessi nei confronti invece delle tasse scolastiche, dovute allo Stato e obbligatorie, fatte salve le esenzioni previste dalla legge. Contestazione che ha il suo fondamento, come del resto ha pure fondamento la constatazione che negli ultimi cinque anni gli stanziamenti ministeriali a favore delle istituzioni scolastiche autonome sono diminuiti progressivamente di circa il 60%. C’è anche da sottolineare una riflessione diffusa negli ambienti scolastici: il mondo politico e l’associazionismo pongono molto l’accento sui costi dei libri (e in genere sul costo della cul-
tura), mentre, nel nome della libertà del consumatore e degli incentivi alla crescita economica, sono molto meno attenti e critici rispetto ad altre fonti di spesa (si pensi alle voci di spesa rappresentate dal gioco d’azzardo e dal divertimento). Scendiamo nel dettaglio e analizziamo la procedura per l’adozione dei libri di testo che è definita annualmente dal ministero (ora MIUR, ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ma negli ultimi anni ha mutato spesso di nome e struttura) e costituisce lo strumento principe delle adozioni. Tale procedura essenzialmente prevede due atti normativi: la circolare con le “indicazioni operative” e il decreto che stabilisce i prezzi di copertina per la scuola primaria e i tetti di spesa per la dotazione libraria delle scuole secondarie di primo e secondo grado2. Opportunamente la circolare di questo anno (la numero 18 del 9 febbraio 20123) sottolinea due aspetti che rappresentano, come dopo si cercherà d’illustrare, anche delle criticità della situazione attuale. Il primo aspetto è quello relativo alla forma mista delle adozioni: cioè dall’a.s. 2012/2013 i testi devono essere redatti o in forma mista (cartacea e digitale) o in formato digitale (e quindi scaricabili dalla rete); il secondo riguarda l’adeguamento dei testi presenti sul mercato alle recentissime innovazioni ordinamentali che riguardano il secondo biennio e l’ultimo anno delle scuole secondarie superiori: infatti tali indicazioni nazionali precedute dalle linee guida sono state rese note per quanto riguarda gli istituti tecnici e professionali solo nel mese di dicembre 2011. La circolare 18 fa riferimento alla circolare 16 del 10 febbraio 2009; in effetti si trova in questa circo-
lare la “compiuta regolamentazione... della normativa primaria vigente”. La circolare 16 ha innovato profondamente la tradizione rispetto all’adozione dei libri di testo, in quanto ha reso operativi i criteri definiti nei D.L. n. 112/2008, dal D.L. n. 137/2008 e dal D.L. n. 134/2009. Il D.L. n. 112/2008 è stato convertito in legge – la 133/2008 – e l’art. 15 prevede il progressivo adeguamento dei libri di testo nel duplice formato, cartaceo e digitale, e la definizione dei tetti di spesa attraverso un apposito decreto; il D.L. n. 137/2008 è stato convertito in legge – e l’art. 5 prevede che l’adozione di un testo abbia la durata di 5 anni nella scuola primaria e di 6 anni nella secondaria; il D.L. n. 134/2009 è stato convertito in legge (la 167/2009) e l’art. 1ter prevede la sostituzione dei libri adottati prima della loro scadenza naturale solo qualora non sia previsto il formato misto oppure si abbiano modifiche ordinamentali che rendano necessaria una diversa adozione per adeguare i testi
Giovani studenti greci (con un PC?). La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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NORMATIVA SULLE ADOZIONI alle novità introdotte. Della circolare 16/2009 merita porre in evidenza, fra i molti, alcuni aspetti specifici, che, come abbiamo detto, sono fatti propri dalla attuale circolare, la 18/2012. Al punto 3 della premessa si legge che “i testi scolastici centrati sui nuclei essenziali delle varie discipline” possono essere integrati da “diverse risorse strumentali” come quelle disponibili in rete oppure in altri testi, presenti nelle biblioteche scolastiche di classe o d’istituto. Poco dopo al punto 1 della trattazione (“Le funzioni dei libri di testo”) sono definite “buone pratiche” quelle che vedono i docenti proporre ai loro studenti l’uso di testi, dispense, questionari sia in forma cartacea che in forma digitale attraverso i siti d’istituto, soprattutto nella parte in cui è possibile lo scambio d’informazioni fra docente e discente. Al punto 3.5 (“La pubblicità delle adozioni”) si impegnano gli organi collegiali e la dirigenza a dare la più ampia pubblicità alle adozioni, soprattutto chiarendo la distin-
zione fra testi adottati (con regime di obbligatorietà) e quelli consigliati (con regime di facoltatività). Anche le motivazioni delle adozioni, presenti nei verbali sotto forma di delibere, richiedono una particolare cura: per esempio il Tar della Lombardia non ha ritenuto motivazione valida e sufficiente per un’adozione quella che evidenzia unicamente la bontà didattica della scelta effettuata, senza dire nulla sugli altri criteri cui ogni adozione deve rispondere, tra i quali la qualità e disponibilità dei formati e il costo (cfr. Tar Lombardia, Milano, sent. n. 927/ 2006). La scuola nei suoi atti amministrativi deve tener conto del dettato dell’art. 3 della legge 241/1990: “Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi e il personale, deve essere motivato”. La materia dunque è vasta ed è analizzabile da diversi punti di vista. Si avanzano qui alcune riflessioni critiche che, a parere di chi scrive, devono costituire l’oggetto d’indagini nei prossimi anni, man mano che le novità introdotte a partire dal 2009 si diffonderanno e manifesteranno i loro effetti. L’adozione in forma mista (testo cartaceo e digitale) è un mero dato quantitativo oppure rappresenta anche un dato qualitativo? Se la si riduce a dato quantitativo con riflesso principalmente sui costi per gli acquirenti, allora perde molto delle sue potenzialità d’innovazione; se invece la si considera anche da un punto di vista qualitativo, allora non può restare un fenomeno isolato nella pratica didattica, ma deve essere accompagnata da una maggiore ricchezza di dotazione di strumentazione elettronica sia in classe che nelle case. Infatti l’utilizzo del testo in formato digitale apre a prospettive 69
diverse da quelle offerte dal testo in formato cartaceo. Qualcosa nel merito si è iniziato a fare (progetti mirati, l’introduzione delle LIM, lavagne interattive multimediali), ma molto rimane a partire dalle strutture edilizie di molti istituti che non sono adeguate a ospitare attività che implicano un uso importante delle nuove tecnologie. Il mondo della scuola non deve cadere, rispetto al duplice formato dei testi, nella dicotomia che per comodità possiamo definire l’ennesima pagina del conflitto fra “apocalittici e integrati”. Infatti la sfida sta nell’innovare il processo d’insegnamento/apprendimento, le cui variabili sono molte e non è questa l’occasione di approfondimento, e nel dare in questo processo uno spazio importante al “vissuto intellettuale ed emotivo” degli studenti rispetto alla trasmissione del sapere e allo studio individuale nelle due forme, quella che utilizza la carta e quella che utilizza l’elettronica, in quanto lo scopo della scuola è quello di educare alla cittadinanza, quindi all’uso consapevole di ciò che la civiltà in un dato momento storico offre al singolo e alla comunità. La scelta didattica di ogni docente o gruppo di docenti ha evidenti implicazioni economiche: quindi si pone la domanda sul futuro delle biblioteche sia d’istituto che di classe e sulla loro funzione a fronte degli sviluppi possibili a favore dell’universo digitale. Ogni singola scuola autonoma ha di fronte a sé un vero problema in termini di sviluppo e d’impiego delle risorse. I tempi: spesso l’azione legislativa non aiuta gli operatori. Lo ammette la circolare annuale stessa (18/2012) quando dice che “la recente adozione delle Indicazioni Nazionali […] potrebbe non aver consentito all’editoria scola-
SCUOLA stica l’integrale revisione dei testi già in uso”. La riforma degli ordinamenti risale al 2004 (scuola primaria e secondaria di primo grado) e al 2010 (scuola secondaria di secondo grado): perché deliberare in clima di “emergenza” anche quando ciò si potrebbe evitare? E inoltre: perché il decreto con i tetti di spesa viene emanato dopo la circolare e non contestualmente, visto che gli operatori debbono tener conto dell’aspetto finanziario delle adozioni? Per esempio nello scorso a.s. 2010/2011 il decreto ministeriale con l’indicazione dei tetti di spesa porta la data del 10 maggio 2011, mentre la circolare per le adozioni è stata emanata il 25 febbraio 2011 (la numero 18/2011) e nella stessa si dice che: “Le adozioni dei testi scolastici sono deliberate dal Collegio dei docenti nella prima decade di maggio per tutti gli ordini e gradi di scuola”. Il dirigente scolastico, per esempio, oltre a curare un atto d’indirizzo al collegio deve esercitare la personale vigilanza sulle adozioni: ma è difficile farlo in assenza sino all’ultimo anno, e anche oltre, dei criteri da seguire per svolgere il compito di vigilanza richiesto. La procedura, come descritta, è complessa, articolata, richiede tempo ed energie intellettuali: affinché abbia un senso forte non può essere considerata un semplice atto amministrativo dovuto. Anche qui, come per mille altri campi, si pone il problema delle risorse che lo stato mette a disposizione dell’impegno delle istituzioni e dei singoli operatori. Il rischio, per altro sempre presente, è quello che la procedura si riduca a rito ripetitivo e stanco, perdendo quelle potenzialità che il legislatore le ha affidato. Infine, nella circolare 7 dello stesso mese di febbraio il MIUR nell’ambito dell’azione “Editoria digitale scolastica” si propone di selezionare La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
20 istituti scolastici per sperimentare alcune proposte editoriali che siano “prodotti multimediali le cui componenti siano estrapolabili dal contesto e utilizzabili dai docenti nello sviluppo di materiali didattici personalizzati, richiedono strumenti di editing che consentano la rieditabilità dei materiali, propongono fortemente l’utilizzo delle tecnologie di rete e di servizi integrativi per una didattica collaborativa, suggeriscono aree tematiche multidisciplinari nell’ottica di ricomposizione dei saperi”. Linguaggio e obiettivi sono veramente ambiziosi: sarà importante diffondere i risultati di tale sperimentazione. Per rendere la procedura efficace motivando anche le componenti degli studenti e dei genitori, in genere stanca e presa da altri pensieri, una proposta coraggiosa viene ad esempio dal liceo classico J. Stellini di Udine ed è presentata dal suo dirigente, il prof. Pasquale D’Avolio4. La proposta prevede un percorso comune fra docenti, discenti e genitori con la proposizione di un questionario e la conseguente riflessione sui dati raccolti. Lo stesso presentatore evidenzia l’impegno che la proposta (ma si può dire: qualsiasi proposta diversa dalla prassi usuale) comporta con queste parole: “Voglio solo mostrare il lavoro che un gruppo di docenti del mio liceo... ha svolto con impegno e serietà... né per le grandi (!?) risorse attribuite al Fondo5 (20 ore in tutto). A volte si lavora semplicemente… perché si crede di migliorare se stessi e gli altri”. L’adozione dei libri di testo è veramente un momento di grande impegno sia individuale che collegiale; può risultare fruttuoso se alla disponibilità al lavoro di moltissimi operatori si abbina un riconoscimento del lavoro stesso in termini di risorse, in termini di tempestività e chiarezza norma70
tiva, in termini di aggiornamento pedagogico e tecnologico. Note 1) L’art. 4, comma 5, del D.P.R. n. 275/1999 (regolamento sull’autonomia scolastica, in vigore dal 1 settembre 2000, atto legislativo fondamentale per l’attuale ordinamento scolastico) innova la tradizione e definisce i libri di testo strumenti didattici – al pari di altri presenti nelle scuole – e la loro scelta, adozione e utilizzazione deve essere coerente con il Piano dell’offerta formativa; la scelta inoltre deve essere operata secondo criteri di trasparenza e tempestività. 2) Con la circolare 39 del 2007 si è fissato anche il tetto di spesa per tutti gli anni di corso della scuola secondaria superiore. Atto dovuto, almeno per il primo ciclo della secondaria superiore, in quanto con la legge finanziaria 2007, legge 296 del 2006, l’obbligo, poi chiamato diritto-dovere, all’istruzione è stato portato a dieci anni, fino al conseguimento del sedicesimo anno di età; inoltre atto politicamente necessitato dalle già evidenziate polemiche e sollecitazioni promosse dalle associazioni dei consumatori. 3) Questo atto, come molti altri, si trova in rete nella pagina del MIUR, sezione “Ministero”, aprendo la voce “normativa”, suddivisa a sua volta per anno e per mese. Esistono comunque diversi siti, di associazioni professionali, culturali e sindacali, nei quali molti atti sono presenti ordinati per argomento oltre che per progressione cronologica. Conoscendo gli estremi o la titolazione del documento cercato si può risalire ad esso anche mediante i motori di ricerca più diffusi. 4) La si può leggere all’indirizzo: www.edscuola.it/archivio/ped/nuove_a dozioni.html. 5) Si tratta del Fondo di istituto per la retribuzione delle ora aggiuntive. Fulvio Allegramente è dirigente scolastico dell’istituto di istruzione superiore Ettore Majorana di Torino.
NORMATIVA SULLE ADOZIONI
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Ovvero? “Chi redige leggi, regolamenti o contratti deve certamente vincolare al massimo l’interpretazione di ogni enunciato” (Francesco Sabatini)1
ualche giorno fa mi telefona un rappresentante, Antonio, che mi chiede: “Dottore, ma il tal libro è a norma?”. “Che significa?”, domando a mia volta. “Sì… cioè… volevo sapere se è a norma… se è misto… se è scaricabile… insomma: è digitale?”. Il mio silenzio deve averlo persuaso che fossi poco aggiornato sulle recenti e meno recenti disposizioni ministeriali e mi spiega: “Dottore, i libri devono essere misti, no? Lo dice la circolare ministeriale, no?”. “Sì”, rispondo. “E quindi devono essere scaricabili, no?”. “No”, dico, “una cosa o l’altra”. “Ah, ecco… lo dicevo io… ma è che… vede… una professoressa mi ha riferito che qualcuno le ha detto che il nostro libro non è a norma perché ha una parte online, ma non è tutto scaricabile”. “Una cosa o l’altra”, insisto io. “Ma è quello che le ho detto io! Ma lei mi ha mostrato la circolare con le evidenziazioni… ecco, c’è scritto così: Le adozioni da effettuare nel corrente anno scolastico, a valere per il 2012/2013, presentano una novità di assoluto rilievo, in quanto, come è noto, i libri di testo devono essere redatti in forma mista (parte cartacea e parte in formato digitale) ovvero debbono essere interamente scaricabili da Internet. “E quindi?”. “Ovvero, dottore, c’è scritto ovvero!”.
“Ovvero significa oppure”, pontifico. “Io lo so, dottore. L’insegnante invece sostiene che significa cioè”. “Anche”. “Anche cosa, dottore?”. “Significa anche cioè, ma qui vuol dire oppure”. “Ma la prof. dice il contrario. Come la convinco che abbiamo ragione noi?”. “Impossibile”, penso. Ma non glielo dico. Redigere testi giuridici, così come circolari e regolamenti è un’attività delicata, che impone il rispetto della caratteristica principale del genere: l’univocità. Il prof. Sabatini, presidente onorario della Crusca, è sobbalzato al mio racconto: “Non si può scrivere ovvero in una circolare! A meno che non se ne chiarisca il significato. La Crusca su questo argomento si è pronunciata più volte!”. Bisogna, a questo punto però, dare atto della correttezza e onestà intellettuale del Ministero dell’Istruzione che, resosi conto del problema, ha emanato con buona tempestività la seguente circolare “interpretativa” e chiarificatrice del 9 marzo 2012. Sono state segnalate alcune incertezze in ordine all’applicazione della circolare ministeriale n. 18 del 9 febbraio 2012, in relazione alla disposizione contenuta nell’articolo 15 del decreto legge n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 133/2008, secondo cui “a partire dall’anno scolastico 2011-2012, il collegio dei docenti adotta esclusivamente libri utilizzabili nelle versioni on line scaricabili da internet o mista”. 71
In particolare, è stato richiesto se i testi scolastici in formato cartaceo, costituiti da due o più volumi e adottati nel decorso o nei decorsi anni scolastici anche per successivi anni di corso, debbano essere sostituiti da testi in formato misto o interamente scaricabili da Internet, a partire dall’anno scolastico 2012/2013. A riguardo, stante il tenore letterale della disposizione di riferimento, si fa presente che tali testi non necessitano del cambio di adozione, in quanto la loro scelta risulta essere stata già effettuata in precedenti anni scolastici. Questo è il caso, ad esempio, dei testi di storia, geografia e matematica che, in molti casi, vengono adottati in più volumi riferiti al primo e ai successivi anni di corso. È stato altresì richiesto se, qualora debbano essere oggetto di nuove adozioni testi in formato esclusivamente cartaceo, gli stessi debbano essere sostituiti con testi sia in formato misto (parte cartacea e parte digitale) e, allo stesso tempo, anche con testi interamente scaricabili da Internet. In proposito, si chiarisce che la sostituzione dei testi esclusivamente cartacei deve avvenire, ove richiesto, con testi in versione mista ovvero, in alternativa, con testi interamente scaricabili da Internet. Note 1) F. Sabatini, C. Camodeca, C. De Santis, Sistema e testo, Loescher editore, Torino, 2010, pag. 652.
Sandro Invidia è direttore editoriale di Loescher editore.
secondaria I grado [inedito assoluto]
secondaria I grado
NARRATIVE
Louis Sachar Buchi nel deserto
Loredana Frescura, Marco Tomatis Ti volio tanto bene
Stanley Yelnats, un ragazzo grassoccio e buono, finisce ingiustamente nel riformatorio di Campo Lago Verde per un caso curioso e sfortunato: dal cielo gli cadono addosso le scarpe di un famoso giocatore di baseball, ma viene accusato di averle rubate. La vita di Campo Lago Verde è durissima: ogni giorno, nel caldo insopportabile del deserto, tormentati dalla sete, i ragazzi sono costretti a scavare un buco di grandi dimensioni. Ma il deserto nasconde segreti, che via via si svelano, tra colpi di scena, scoperte sorprendenti e momenti di gioiosa solidarietà fra i ragazzi.
Maria Vittoria, detta Marvi, è una ragazzina come tante. È speciale, forse, perché dislessica, ma forse, di più, perché guarda e vive la vita di ogni giorno cercando di diventare consapevole di ciò che fa, di ciò che vorrebbe fare e di ciò che è. E si innamora. Michele è il principe “quasi” azzurro, perché per diventare di un azzurro lucente, deve guadagnare molti punti. Marvi detesta i cellulari e anche un po’ i computer, perché prevedono la scrittura veloce e lei non è così brava. Per molto tempo si è sentita confusa e impaurita, soprattutto dalla lettura, fino a quando, con l’aiuto di Gustavo, è riuscita a dare un nome al suo disagio: dislessia. Michele gioca a calcio e nei sogni più arditi sogna di far innamorare Clotilde. Magari di segnare un goal per lei; finché si accorge di Maria Vittoria e del suo mondo e decide di volerlo conoscere. Sarà Michele il principe azzurro di Marvi? Riuscirà a guadagnare 900 punti?
쑺 Louis Sachar è uno scrittore statunitense, autore di
libri per ragazzi. Con il suo Buchi nel deserto, dove si affrontano i grandi temi del desiderio di crescere, dei rapporti fra bambini e fra bambini e adulti, dell’indifferenza e della solidarietà, ha vinto diversi ed importanti premi.
쑺 Loredana Frescura e Marco Tomatis hanno scritto
numerosi libri a due e a quattro mani e nel 2006, con il romanzo Il mondo nei tuoi occhi. Due storie di un amore, hanno vinto il Premio Andersen, il principale riconoscimento italiano attribuito ai migliori libri per ragazzi. I loro romanzi sono stati tradotti in diverse lingue.
Novità della collana Macramè La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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secondaria I grado
secondaria II grado
NARRATIVE
Luisa Mattia Ti chiami Lupo gentile
Igiaba Scego La mia casa è dove sono
Tre cugini sono riuniti attorno a un tavolo per cercare di ricordare la trama urbana della loro città, Mogadiscio. Dal tentativo di disegnare la topografia dei ricordi di famiglia prende avvio il romanzo. Ma i ricordi della protagonista, Igiaba Scego, sono italiani e legati a Roma, la città in cui è nata e cresciuta. La mappa della sua città di origine non può non includere anche la sua città di appartenenza. Nella sua famiglia la storia dell’Africa orientale si intreccia con quella dell’Italia. È una storia recente, raccontata in prima persona dall’autrice, che ricorda la sua vita da immigrata di seconda generazione; ma è anche una storia più lontana, che risale di due generazioni fino all’esperienza coloniale italiana durante il fascismo; ed è infine la storia del padre, diplomatico e uomo di città, e della madre di famiglia nomade, entrambi spettatori della dittatura e della guerra civile che hanno sconvolto la Somalia.
Fa da sfondo il litorale romano. Bande di ragazzi della piccola malavita urbana fanno scippi su ordinazione, danneggiano i piccoli commercianti. È in questo ambiente che è cresciuto Claudio, sedici anni, che ha una grande passione per il mare e sogna di viaggiare. Anche lui ruba, incendia e taglieggia istigato dal padre. La gerarchia e la logica del “branco”, la forza fisica come criterio selettivo per imporre la propria supremazia, la moralità messa alla prova dal contesto degradato della periferia e della famiglia sono una gabbia che sta diventando stretta. Ma l’amore per Simo, il valore dell’amicizia, un certo senso della giustizia saranno la molla per cercare un’occasione di riscatto e normalità. 쑺 Luisa Mattia, romana, è autrice di numerosi
romanzi e coordina un progetto di scrittura per la scuola. Per i felici esiti del complesso della sua opera narrativa ha ricevuto vari riconoscimenti: il Premio Pippi 2006 vinto con il romanzo La Scelta (Sinnos Editrice) e il Premio Andersen 2008 come migliore scrittrice. Con altri cinque collaboratori è autrice dal 2004 di Melevisione, una trasmissione di RAI TRE dedicata ai bambini.
쑺 Igiaba Scego è nata a Roma nel 1974 da genitori somali. Il padre, ministro degli Esteri, ha scelto l’esilio in Italia dopo il colpo di stato militare di Siad Barre del 1969. Vive e lavora a Roma; collabora con “la Repubblica”, “il manifesto”, “l’Unità” e scrive per numerose riviste che si occupano di culture e letterature africane. Le sue opere narrative si caratterizzano per il delicato equilibrio tre le sue due realtà culturali di appartenenza. 73
NARRATIVE
Khaled Hosseini Il cacciatore di aquiloni
Gherardo Colombo Sulle regole
Fred Uhlman L’amico ritrovato
Harper Lee Il buio oltre la siepe
È la storia di un’amicizia dolorosamente spezzata, di un ragazzino che per conquistare l’affetto del padre è disposto a commettere una colpa terribile e di un Paese, l’Afghanistan, che decenni di guerre hanno trasformato in una landa desolata. Struggente e bellissimo, il romanzo, nella sua edizione per la scuola, si presta a un lavoro interdisciplinare tra letteratura e storia contemporanea.
Quali sono le basi storiche del diritto nelle odierne democrazie? Perché il rapporto tra cittadini e legge è spesso molto contrastato? Quali ulteriori progressi si potrebbero compiere sulla strada di un’autentica uguaglianza e legalità nel nostro Paese? Sono questi gli interrogativi di fondo alla base del discorso di Gherardo Colombo sull’idea di cittadinanza.
Stoccarda, 1932: due ragazzi di sedici anni, il borghese ebreo Hans e l’aristocratico Konradin, compagni di liceo, diventano amici inseparabili. Sono felici, condividono sogni, progetti, entusiasmi. Ma nel giro di un anno tutto cambia. La storia di un’amicizia perduta e ritrovata, anche se tardivamente.
La vicenda è ambientata a Maycomb, una cittadina del Sud degli Stati Uniti, negli anni Trenta del Novecento. La piccola Scout, una bambina di sette anni, racconta in prima persona alcuni momenti della sua infanzia, trascorsi con il fratello Jem e l’amico Dill nella spensieratezza dei giochi; il contatto con il mondo adulto, con il pregiudizio, la violenza e la menzogna che li caratterizza, segnerà la fine della loro infanzia.
Kurt Vonnegut Mattatoio n. 5
Romanzo a sfondo autobiografico, costruito su ricordi reali ma con sviluppi fantastici. L’autore si sdoppia in un personaggio immaginario, Billy Pilgrim, a cui assegna il ruolo di protagonista. A lui, attraverso una serie di viaggi nel tempo, fa vivere alcune sue esperienze reali fatte in tempo di guerra, culminate nella prigionia all’interno dell’edificio n. 5 del mattatoio di Dresda, ma anche alcune vicende irreali ambientate in un mondo fantastico chiamato Tralfamadore. Qui il personaggio discute con gli alieni su un insieme di questioni che riguardano l’uomo e il suo destino sul pianeta Terra, cercando, in particolare, una risposta alla domanda che l’autore ritiene più importante: “come può un pianeta vivere in pace?”. In questo intreccio di realtà e fantasia, Vonnegut sviluppa la propria riflessione antimilitarista.
La ricerca | N. 0 Nuova Serie. Aprile 2012 |
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Luigi Castiglioni, Scevola Mariotti
Franco Montanari
VOCABOLARIO DELLA LINGUA LATINA
VOCABOLARIO DELLA LINGUA GRECA
QUARTA EDIZIONE con CD-ROM e Guida all’uso del Vocabolario e del CD-ROM
SECONDA EDIZIONE con CD-ROM e Guida all’uso del Vocabolario, del CD-ROM e Lessico di base
La nuova edizione del Vocabolario della lingua latina riconferma ed esalta le caratteristiche del fortunato impianto originario dell’opera con l’apporto di alcune novità orientate al suo arricchimento e alla sua fruibilità.
• 140 000 lemmi tratti dalla letteratura arcaica, classica, ellenistica, dai testi di età imperiale e tardo-antica, da papiri ed epigrafi
• 50 000 lemmi latini e 30 000 lemmi italiani • oltre 300 specchietti riassuntivi di voci notevoli • evidenziazione delle reggenze e dei costrutti notevoli • revisione scientificamente rigorosa e completa delle voci • uniformazione dei criteri di organizzazione dei significati delle parole • arricchimento di informazioni grammaticali e di particolarità linguistiche • traduzione integrale di tutti i passi con indicazione completa delle fonti • ampia documentazione testuale (latino classico
VOCABOLARIO + GUIDA (pp. 2272 + pp. 128) Cod. 6660 ISBN 9788820166601
• circa 15 000 verbi sottoposti a esame sistematico per comporne i paradigmi in base alle forme realmente attestate negli autori antichi
VOCABOLARIO + GUIDA (pp. 2432 + pp. 128) Cod. 3810 ISBN: 9788820138103
VOCABOLARIO + GUIDA + CD-ROM aggiornato con l’aggiunta della sezione italiano-latino DISPONIBILE PER LA VENDITA DA GIUGNO 2012 pp. 2272 + 128 cod. 6666 ISBN: 9788820166663
• 130 specchietti riassuntivi delle voci più complesse
VOCABOLARIO + GUIDA + CD-ROM per Windows (pp. 2432 + pp. 128) Cod. 3801 ISBN: 9788820138011
VOCABOLARIO + GUIDA + CD-ROM per Windows (pp. 2272 + pp. 128) Cod. 6661 ISBN 9788820166618 VOCABOLARIO IN BROSSURA (pp. 2272) Cod. 6664 ISBN 9788820166649
e cristiano, letterario ed epigrafico).
La versione elettronica per Windows è disponibile anche in formato scaricabile dal sito http://dizionari.loescher.it
• evidenziazione delle reggenze e dei costrutti sintattici • ampio numero di lemmi aiuto e voci di rimando anche per le forme avverbiali
• esplicitazione di alcune abbreviazioni per evitare ambiguità. Il CD-ROM per Windows offre la possibilità di consultare agevolmente il dizionario grazie a un programma di ricerca facile da usare e ricco di funzionalità. PAWAG (Poorly Attested Words in Ancient Greek) un repertorio online di termini della lingua greca scarsamente attestati a cura dell’Università di Genova in collaborazione con Loescher Editore. Il sito è consultabile alla pagina: www.aristarchus.unige.it/pawag MEDIACLASSICA - un sito ricco di materiali e strumenti per lo studio e la didattica delle lingue classiche, alla pagina: www.loescher.it/mediaclassica
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