La ricerca 14 - Corpi intelligenti

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La ricerca

RI15 - © Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale-D.L. 353/2003 (conv. In L 27/20/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 14 anno 2018

Maggio 2018 Anno 6 Nuova Serie – 6 Euro  www.laricerca.loescher.it

N°14

Corpi intelligenti

La ginnastica a scuola: pedagogia, scienza e cultura SAPERI

Un’idea di sport, tra educazione fisica, ginnastica, disciplina, igiene e gioco

DOSSIER

Lo sport come valore identitario

SCUOLA

Espressività corporea, inclusione, salute: lo sport competente


I QUADERNI La collana di monografie con proposte metodologiche sui temi più attuali della didattica.

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I Quaderni della Ricerca sono anche online www.laricerca.loescher.it/quaderni


editoriale

L’ora di ginnastica

P

remessa: quando abbiamo deciso l’argomento di questo numero eravamo reduci dalla partita di qualificazione ai mondiali, quella che ci ha escluso dal prossimo campionato. Senza essere particolarmente appassionati di calcio, ci è sembrato però che l’universale cordoglio, misto a rabbia indignata e sarcasmo autoimmune, offrisse il destro per una riflessione sulla condizione generale dello sport nazionale, osservata dalla nostra particolare angolazione di produttori di libri scolastici. Lungi dal pensare che la débâcle calcistica sia metafora di un generale dissesto dell’agonismo italico, ci siamo interrogati non tanto sullo sport quanto sull’idea che se ne ha: sul confronto trasformato in insulto razzista; la competizione alterata in imbroglio drogato; la fisicità tramutata in bullismo esclusivo. Tutto questo ci ha riportati al nostro specifico ambito di interesse, la scuola, come al luogo che più di ogni altro può sintetizzare pulsioni, aspettative e pratiche che sono spesso specchio, a volte volàno, della società in cui viviamo. Parlare di “ginnastica” a scuola, però, non è facilissimo. Di cosa si tratta, a pensarci bene? Di muscoli e acrobazie; corse e pallonate; gioia spensierata e impegno concentrato? O di etica di squadra e morale decoubertiana, meglio se scolpiti nel vigore sudaticcio di pose policletee? O di tutte queste cose assieme, magari condite in salsa patriottarda? La mia personale esperienza della materia mi appare poveramente cristallizzata in una sequenza di istantanee. L’ora di ginnastica era, per il me studente di quarant’anni fa, quella in cui preparavo la versione di greco per la lezione successiva, con la benevola distrazione del professore immerso nel gazzettame sportivo. Un paio di decenni più tardi, a mia volta insegnante, il rapporto un po’ spocchioso con la materia si riassumeva, tutt’al più, nell’invito ad aprire le finestre, se la ventura (o il vicepreside) aveva posizionato le mie ore immediatamente a ridosso di quelle da cui i ragazzi tornavano paonazzi e odorosi di gioventù scatenata. Oggi, che lavoro in una casa editrice che pubblica (anche) testi di “scienze motorie e sportive”, scopro l’universo affascinante di una disciplina che, lungi dal ridursi all’ora di svago per giovani troppo a lungo seduti, si rivela essere, probabilmente, uno dei momenti più seri e importanti dell’esperienza scolastica degli studenti. È l’ora in cui sono loro, i ragazzi, a diventare strumenti del proprio apprendimento, con i corpi in evoluzione a volte sgraziati, spesso celati, raramente esibiti se non nelle forme virtuali e tragicomiche di selfie ossessivamente aggiustati. Quella in cui imparano a confrontarsi in modo civile e intelligente con gli altri, nelle forme di quel “conflitto ritualizzato” che è lo sport, singolo o di squadra. In cui acquisiscono lo spirito di gruppo tipicamente agonistico che È l’ora in cui gli studenti imparano a include il rispetto e la tolleranza, la competizione meritocratica confrontarsi in modo civile e intelligente e pulita. In cui introiettano un’idea di disciplina che non è cieca con gli altri, e introiettano un’idea di obbedienza a regole arbitrarie, ma accettazione di tempi, modi e limiti condivisi. È il momento, non da ultimo, in cui la salute, la disciplina che è accettazione di tempi, loro salute fisica e mentale, cessa di essere un’idea, un’aspiraziomodi e limiti condivisi. ne,un concetto,e diventa esperienza educativa,prassi quotidiana e riflessione concreta: il peso corporeo, l’abitudine alimentare, le posture sbagliate, il vizio di moda, la devianza autodistruttiva… Sotto gli occhi e per le mani di una categoria di insegnanti spesso sottovalutata, passano i ragazzi con tutte le idiosincrasie di un’età che appare spensierata solo se osservata alla lente deformante del rimpianto. Che siano sguardi sapienti e mani preparate è il minimo augurio che possiamo rivolgere a noi stessi e ai nostri figli. E alla società in cui viviamo.

Sandro Invidia, direttore editoriale di Lœscher.


La ricerca Periodico semestrale Anno 6, Numero 14 Nuova Serie, maggio 2018 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480 Editore Loescher Editore Direttore responsabile Mauro Reali Direttore editoriale Ubaldo Nicola Coordinamento editoriale Alessandra Nesti - PhP Grafica e impaginazione Leftloft - Milano/New York Pubblicità interna e di copertina VisualGrafika - Torino Stampa Rotolito Lombarda Via Sondrio, 3 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI)

La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

Distribuzione Per informazioni scrivere a: laricerca@loescher.it Autori di questo numero Natalie Guice Adams, Pamela J. Bettins, Alessandra Carnaroli, Luca Condini, Luca Correale, Nicola De Cilia, Nicholas Gineprini, Emanuele Isidori, Fabrizio Lo Faro, Giusi Marchetta, Enrico Martines, Matteo Morandi, Federico Piseri, Federica Pramaggiore, Mauro Reali, Antonella Sbragi, Daniele Schieppati, Matteo Vandoni, Paola Vicari e il Research Team del Birminham City Council. © Loescher Editore via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino www.laricerca.loescher.it ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (online)


Sommario Lo sport come ginnastica, disciplina, igiene, gioco

saperi 6

L’educazione fisica nella scuola italiana. Storia di una straniera Matteo Morandi

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La nascita e lo sviluppo dello sport in Italia Luca Condini

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La pedagogia dello sport fra corpo e salute Emanuele Isidori

19

Forte è meglio di carina

22

Educare il corpo del re

25

Fan e hooligan nell’antica Roma

29

Quattro poesie di Alessandra Carnaroli

Giusi Marchetta

scuola 52

Espressività e sport

59

Sono più brutto del mio avatar

62

Stile di vita attivo, esercizio e motivazione

Antonella Sbragi

Davide Schieppati

Luca Correale e Matteo Vandoni

65

L’inclusione degli alunni disabili

72

Ci interessa una scuola interessante?

Paola Vicari e Federica Pramaggiore Fabrizio Lo Faro

Federico Piseri Mauro Reali

dossier Lo sport come valore identitario 32

Quando i cheerleader erano maschi

37

La nascita dell’athleticism nelle pubblic schools vittoriane

Natalie Guice Adams e Pamela J. Bettins

Enrico Martines

42

Manovali ovali

45

Perché i cinesi non sanno giocare a calcio?

Nicola De Cilia

Nicholas Gineprini

49

Per l’educazione fisica delle studentesse islamiche in Inghilterra Research Team del Birminham City Council


saperi

La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

Saperi / L’educazione fisica nella scuola italiana. Storia di una straniera

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L’educazione fisica nella scuola italiana. Storia di una straniera Breve storia della ginnastica come materia scolastica, dall’iniziale intento disciplinante al sapere plurale dell’“educazione fisica”. di Matteo Morandi

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senzatesta e i senzacorpo. A volerci andar giù dritto, parrebbe questa la sintesi della sintesi della storia della scuola italiana: mostri tutto fisico in tuta da lavoro e, viceversa, esserini macrocefali e occhialuti, come nelle efficaci vignette di Frato (il pedagogista Francesco Tonucci) nell’ormai classico quaderno del Movimento di cooperazione educativa A scuola con il corpo (1974), presenze altalenanti di una didattica consolidatasi in scomparti. Già Maria Montessori, nel distinguere per assurdo tra un uomo rosso e un uomo bianco, ovvero tra la vita vegetativa e la vita di relazione negli esseri umani, raccomandava agli educatori di porre sempre gli esercizi muscolari «al servizio dell’anima», anziché farli «servi della parte materiale della vita vegetativa in ciò che si chiama “vita fisica”». Eppure, scriveva, nella liturgia scolastica l’attività motoria restava un antidoto artificiale all’«inerzia muscolare degli scolari che devono fare vita sedentaria per i loro studi, tenendo una posizione determinata dalla disciplina di classe: cioè seduti rigidi sui banchi di legno». Così la ginnastica rappresentò a lungo «un rimedio comandato ad un male imposto: e niente è più caratteristico e quasi simbolico del vecchio mondo che questa azione e


7 SAPERI / L’educazione fisica nella scuola italiana. Storia di una straniera

Una lezione di educazione fisica in una classe femminile negli anni Venti, da Pinterest.


controazione imposte dal maestro, che elargisce imperialmente i mali ed i rimedi al bambino passivo, disciplinato»1.

Nascita di una “disciplina” —

La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

Saperi / L’educazione fisica nella scuola italiana. Storia di una straniera

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Che la nascita della ginnastica come materia scolastica fosse connessa all’idea di disciplina,metodo e regola dell’insegnare (dal latino disco = imparo) e nello stesso tempo norma o precetto ordinante, appare chiaro fin dai primissimi anni Sessanta dell’Ottocento, quando i regolamenti attuativi della legge Casati (regio decreto 13 novembre 1859, n. 3725) introdussero gli «esercizi militari e ginnastici» nei soli istituti secondari maschili. Il carattere “speciale”, e dunque la separazione rispetto al resto del curricolo, era confermato dall’esistenza di docenti ad hoc, appositamente formati e talora provenienti dall’esercito, così come all’esercito aveva rivolto per primo il suo magistero lo svizzero Rudolf Obermann (1812-1869), “padre” della ginnastica italiana d’impronta tedesca. Le prime norme didattiche, diramate con circolare ministeriale 5 febbraio 1862, prescrivevano schieramenti, marce ed evoluzioni, esercizi di corsa, salto in lungo e in alto,a corpo libero e agli attrezzi,mentre agli allievi delle classi maggiori era impartita anche una vera e propria istruzione militare, propedeutica all’uso delle armi2. La natura educativa dell’insegnamento,delineatasi fin da subito in alcuni isolati esperimenti nella scuola primaria, si manifestò sul piano normativo con la legge 7 luglio 1878, n. 4442, nota col nome del ministro Francesco De Sanctis che la firmò. La ginnastica, detta appunto “educativa”, era resa ora obbligatoria in tutti i gradi scolastici, tanto per i maschi quanto per le femmine, mezz’ora al giorno nelle classi elementari e due ore la settimana nelle secondarie. Tratto distintivo dei nuovi programmi, ancora pienamente ispirati al metodo obermanniano e, dunque, al prevalere dell’elemento patriottico-militare e della grande attrezzistica, erano l’«ordine», la «disciplina», la «precisione e concisione di comando», l’«obbedienza pronta e piena». Ove tali tratti fossero mancati, ammonivano le prescrizioni ministeriali, «la scuola non può raggiungere tutto il suo fine» (programmi approvati con regio decreto 16 dicembre 1878, n. 4677, art. 2). La lezione sarebbe servita «come di sollievo dopo una lunga applicazione intellettuale» (ibi, art. 7), mentre il maestro avrebbe dovuto farsi «compagno dei propri alunni», pur nell’autorevolezza (art. 1) e senza mai mostrarsi «incerto nella scelta e nel comando dell’esercizio» (art. 5). Da un lato, l’ingresso a pieno titolo nella compagine scolastica nobilitava la materia, arricchendola di «un alito salutare che vivifica il corpo, rasserena la mente e la rende più atta agli studi», com’ebbe a scrivere ancor prima dell’emanazione della legge

l’obermanniano Felice Valletti3; dall’altro, la manteneva però fragile sul piano del riconoscimento sociale, quasi una “straniera” (l’étrangère dans la maison école4) nel novero delle discipline di studio. Il consolidato statuto di specialità, non ultimo sul piano della valutazione e in merito alla possibilità di esonero dalle lezioni, non fece che aggravare la situazione, anche a seguito degli accesi scontri fra le due correnti prevalenti per tutta la seconda metà del XIX secolo in Italia: quella arroccata sull’eredità di Obermann e quella articolata attorno alla personalità del più giovane Emilio Baumann (1843-1916), propugnatore di un elevato programma di relazioni tra corpo e volontà. Ne è testimonianza, all’interno del variegato mondo magistrale, il vivace romanzo di Edmondo De Amicis Amore e ginnastica (1892),dove tra i battibecchi dei protagonisti in merito al prevalere dei due indirizzi emerge tra l’altro una più moderna e consolidata concezione d’insegnante, lontana dall’immagine falsata e riduttiva dell’«acrobata di circo». «Il maestro di ginnastica è un uomo di scienza, o signori! – declamava uno di quei personaggi usciti dalla penna dell’autore di Cuore – Egli deve conoscere la ginnastica teorica, l’anatomia applicata, la pedagogia, l’igiene, la storia della ginnastica, la costruzione di attrezzi e palestre, e la tecnologia5; e dev’essere artista»6.

L’educazione fisica: un sapere plurale —

Non ci volle molto a comprendere che, se voleva davvero stare alle “regole del gioco” scolastico, la materia doveva uscire dalla concezione tecnico-coreografica che le era stata propria fino a quel momento e allargare i propri orizzonti culturali trasformandosi in “educazione fisica”, parte integrante del progetto educativo in aula con l’obiettivo di accrescere negli alunni «salute, energia, agilità, educar [loro] i sensi e gli istinti» (istruzioni e programmi per gl’istituti infantili approvati con regio decreto 26 novembre 1893, n. 914). Stando ai risultati della Commissione Todaro, incaricata di rivedere i programmi a pochi anni di distanza dalle prescrizioni del 1886 (regio decreto 11 aprile, n. 3914), che avevano visto un possibile tentativo di compromesso fra le istanze di Baumann e quelle dei seguaci di Obermann, la nuova materia rappresentava qualcosa di più della ginnastica metodica, non solo per l’attenzione crescente manifestata nei confronti delle questioni igieniche (il che, appunto, presupponeva un’infarinatura sanitaria che raramente i docenti possedevano), ma soprattutto per l’introduzione del gioco e dello sport quali elementi di educazione globale del soggetto in formazione. «L’educazione fisica – ordinava la legge Rava-Daneo del 26 dicembre 1909, n. 805, punto di massima della parabola ginnica del primo cinquantennio unitario – comprende: la ginnastica propriamente detta, i giuochi ginni-


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Il linguaggio (politico) del corpo —

Nel 1923 l’Enef (Ente nazionale per l’educazione fisica) assunse sotto di sé l’insegnamento della materia nel grado secondario. Nel 1927 gli succedette l’Onb (Opera nazionale balilla), longa manus del Partito preposta alla diffusione dell’ideologia totalitaria in tutta la popolazione under 18, ed esattamente dieci anni dopo sarebbe stata la volta della Gil (Gioventù italiana del littorio), con più marcati tratti sportivi e militari. Nel corso del ventennio fascista, l’aspetto ordinativo e coreografico arrivò ad assorbire l’intera dimensione educativa, il che non era certo nuovo, come c’insegnano gli studi di Foucault8: «la disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce queste stesse forze (in termini politici di obbedienza)». L’immagine elaborata attraverso il linguaggio corporeo era quella di una massa docile, determinata da una volontà superiore; e il distacco dalla scuola portò inevitabilmente con sé un’estraneità di codici e lessici rispetto alla tradizione, anch’essa in qualche modo rivisitata dal fascismo. Si potrebbe dire che «il corpo che [...] vogliamo irrobustire, rendere agile e pronto, è sempre uno strumento dell’animo». Peccato che ad affermarlo sarebbero stati, stavolta, i programmi didattici per le scuole elementari e materne approvati nel 1945 (decreto

↑ Durante il fascismo l’educazione fisica era intesa come addestramento militare e acrobatismo. Wikipedia commons

SAPERI / L’educazione fisica nella scuola italiana. Storia di una straniera

ci, il tiro a segno, il canto corale e gli altri esercizi educativi atti a rinvigorire il corpo ed a formare il carattere». E ancora i programmi Pasquali per gli asili infantili di cinque anni dopo (regio decreto 4 gennaio 1914, n. 27) ribadivano la distanza da una didattica «militaresca», «teatrale», «ridicolmente convenzionale». Il restyling della disciplina nascondeva, tuttavia, una crisi profonda non tanto dell’universo ginnico e sportivo7 ma del ruolo che faticosamente la stessa si era ritagliata nel “recinto” scolastico, con la sussistenza di stipendi magistrali ridotti all’osso, un sempre scarso riconoscimento degli insegnanti, mancanza di locali e strutture. Alla vigilia del primo conflitto mondiale, che avrebbe segnato definitivamente il trionfo delle masse sul palcoscenico della storia, cominciò a profilarsi l’ipotesi che l’educazione fisica potesse uscire dalla scuola per essere affidata ad enti terzi, sportivi o militari. Toccò paradossalmente a Giovanni Gentile, il filosofo che aveva sostenuto le ragioni di un monismo spiritualistico mente-corpo, realizzare questo piano disaggregante, una volta divenuto ministro della Pubblica istruzione del governo Mussolini, subito dopo la Marcia su Roma. In pratica, si trattava del tardivo compimento dell’antica dicotomia psico-somatica,nel nome degli interessi del Partito nazionale fascista e del suo progetto ideologico.


La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

Saperi / L’educazione fisica nella scuola italiana. Storia di una straniera

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↑ Scattata negli anni Cinquanta, la foto mostra gli alunni di una scuola elementare di Avellino impegnati con l’insegnante in semplici esercizi di psicomotricità. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

ministeriale 9 febbraio e decreto luogotenenziale 24 maggio, n. 459), a liberazione avvenuta. Ricalcando un consolidato cliché, l’Italia uscita dalle macerie belliche attribuiva ora ai gesti e alle parole un significato nuovo, ispirato al linguaggio delle moderne democrazie: «La forza fisica deve essere posta a servizio di una volontà diretta ad operare secondo le leggi morali», anzitutto respingendo «ogni forma di quel caporalismo che tanto ha mortificato lo spirito della giovinezza nel recente passato» (ibidem). «In questi ultimi anni l’educazione fisica, sotto l’influenza di particolari e spesso contingenti finalità politiche,aveva gradualmente perduta la sua natura di sana, feconda, necessaria pratica fisiologica ed era degenerata in un complesso di esercitazioni e di addestramenti improntati ad un rigido formalismo, che aduggiava le anime giovanili e ne addormentava e isteriliva le sane energie e le libere tendenze» (programmi per l’educazione fisica nelle scuole secondarie, approvati con decreto del capo provvisorio dello Stato 8 novembre 1946, n. 383). Ciononostante, il rapporto che la scuola italiana ebbe, nel secondo dopoguerra, con l’educazione fisica, finalmente rientrata nel suo seno, rimase diffidente: rispetto alle altre materie, essa si manteneva all’ultimo posto e gl’insegnanti continuavano a essere quelli formati nelle Accademie istituite dal fascismo, antenate degli Isef (Istituti superiori di educazione fisica, il primo dei quali aperto a Roma nel 1952), mentre riguardo allo sport si sviluppava negli ambienti pedagogici non solo nazionali un sospetto dovuto principalmente all’elemento competitivo e mercificatorio proprio degli spettacoli di massa9. Oltretutto, gli accordi

col Coni, dagli anni Cinquanta in avanti, in merito all’attività sportiva scolastica non fecero che replicare quel dualismo scuola-extrascuola (partito, organizzazioni del tempo libero, ecc.) proprio dei decenni precedenti10. L’ondata contestativa degli anni Settanta, seguita all’attesissima riforma del grado medio (legge 31 dicembre 1962, n. 1859) e al Sessantotto, non poté non coinvolgere la dimensione corporea, per la quale s’invocò una maggior attenzione in aula (non soltanto in rapporto alla sfera ginnico-sportiva), come nell’appello del Movimento di cooperazione educativa da cui si è partiti.Sulla scia di proposte educative internazionali come l’“antiginnastica” della francese Thérèse Bertherat, lungo la Penisola sorgevano esperienze cariche di entusiasmo e passione politica, quale quella confluita nel volumetto C’era una volta la ginnastica, di Andrea Imeroni e Rita Margaira (1976): una critica feroce ai metodi consolidati, fatti di autoritarismo, classifiche e direttività11. I programmi del 1979 per la scuola media (decreto ministeriale 9 febbraio) introducevano il concetto di corporeità cosciente «anche come mezzo espressivo [...] nell’unità fondamentale della persona umana», oltre che come occasione interdisciplinare di «verifica vissuta di nozioni apprese» nel resto del curricolo; mentre,nell’incessante tentativo di rivalutare la disciplina, i programmi del 1982 (decreto del presidente della Repubblica 1° ottobre, n. 908) attribuivano al docente di educazione fisica nella secondaria superiore la pesante responsabilità di seguire, forse più da vicino rispetto ai colleghi data la peculiarità dell’insegnamento, «la travagliata ricerca di una identità personale» negli


NOTE 1. M. Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano 2000, pp. 87-88. Sul banco come dispositivo disciplinante cfr. almeno F. De Giorgi, Appunti sulla storia del banco scolastico, in «Rivista di storia dell’educazione», I (2014), 1, pp. 85-98 e J. Meda, Mezzi di educazione di massa. Saggi di storia della cultura materiale della scuola tra XIX e XX secolo, FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 43 ss. 2 Il testo della circolare, come tutti i programmi citati in seguito, è riportato in M. Ferrari, M. Morandi, I programmi scolastici di “educazione fisica” in Italia. Una lettura storico-pedagogica,FrancoAngeli,Milano 2015.Sulla storia della ginnastica, o altrimenti denominata, nella scuola italiana, la bibliografia è vasta, a suo modo espressione dei molteplici sguardi disciplinari coi quali la materia è stata nel tempo oggetto di ricostruzione. Per brevità, mi limito a rimandare al pionieristico studio di M. Di Donato,Indirizzi fondamentali dell’educazione fisica moderna. Profilo storico, Studium, Roma 1962 (più volte aggiornato) e, da ultimo, a P. Alfieri, Le origini della ginnastica nella scuola elementare italiana. Normativa e didattica di una nuova disciplina, Pensa Multimedia, Lecce-Rovato 2017. Un’articolata rassegna storiografica è stata offerta di recente da Id., La ginnastica come disciplina della scuola elementare negli anni dell’unificazione italiana. Una proposta di “ri-contestualizzazione” storiografica,in «Espacio,Tiempo y Educación», IV (2017), 2, pp. 187-208. 3. F. Valletti, Pedagogia e metodica applicate alla ginnastica educativa,Paravia,Torino 1876,riportato da P.Viotto,Storia antologica dell’educazione fisica in Italia. Testi Leggi Istituzioni, Vita e pensiero, Milano 1983, p. 88. Più in generale, sulla «fenomenologia della scolasticizzazione» si veda M. Morandi, Snodi identitari di una materia scolastica, in Corpo, educazione fisica, sport. Questioni pedagogiche, a cura di M. Morandi, FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 56-71. 4. P. Arnaud, Contribution à une histoire des disciplines d’en-

seignement. La mise en forme scolaire de l’éducation physique, in «Revue française de pédagogie», 89, pp. 29-34. 5. Così scriveva, ad es., il direttore Alessandro La Pegna relazionando sui corsi della Scuola magistrale ginnastica di Napoli per l’anno 1880: «Quest’anno ò creduto aggiungere [...] il disegno delle macchine di ginnastica di cui ciascun alunno al compire del corso à potuto presentare alla Commissione esaminatrice un atlante di dodici tavole delle principali macchine della ginnastica, con tutte le più succinte indicazioni sulla loro costruzione ed impianto [...]. Infine perché vi fossero messi in grado di poter da sé far costruire le maggiori macchine nelle palestre [...] feci che tutti si fossero provveduti di una collezione dei vari legnami più in uso per dette costruzioni, e per dei altri furono anche date speciali istruzioni». Il passo è citato da D.F.A. Elia, Alessandro La Pegna: ragioni di un silenzio storiografico, in «Rivista di storia dell’educazione», II (2015), 2, p. 223. 6. E. De Amicis, Amore e ginnastica e altri racconti, Biblioteca universale Rizzoli, Milano 1986, p. 56. 7. Sulla diffusione degli sport nel Paese rimando, in particolare, agli studi di Stefano Pivato, ad es. Sport, in Guida all’Italia contemporanea, 1861-1997, diretta da M. Firpo, N. Tranfaglia, P.G. Zunino, IV: Comportamenti sociali e cultura, Garzanti, Milano 1998, pp. 141-202. 8. Mi riferisco, in particolare, a M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976, p. 150 per la citazione che segue. 9. Sul tema, ad es., E. Isidori, Filosofia dell’educazione sportiva. Dalla teoria alla prassi, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012, pp. 74 ss. 10. Cfr. A. Scotto di Luzio, Corpo politico e politiche del corpo nella storia dell’Italia unita. Le vicissitudini della “ginnastica” a scuola, in Scuola in movimento. La pedagogia e la didattica delle scienze motorie e sportive tra riforma della scuola e dell’università, a cura di G. Bertagna, FrancoAngeli, Milano 2004, pp. 49-69; Morandi, Snodi identitari cit. 11. Cfr. M. Zedda, Pedagogia del corpo. Introduzione alla ricerca teorica in educazione fisica, Ets, Pisa 2006, pp. 125 ss., in particolare pp. 133 ss. 12. Rinvio a riguardo ai lavori di M.L. Iavarone, Pedagogia del benessere (con T. Iavarone), FrancoAngeli, Milano 2004 (2ª ed. 2007); Educare al benessere. Per una progettualità pedagogica sostenibile, Bruno Mondadori, Milano 2008; Sport e attività motoria per il benessere. Frontiere formative e didattiche (a cura di), Bradipolibri, Torino 2016.

Matteo Morandi dottore di ricerca in Storia (Pisa 2006) e in Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea (Pavia 2013), insegna Pedagogia generale e sociale all’Università di Pavia, corso di laurea in Scienze motorie. Studioso di storia delle istituzioni educative italiane e dei processi formativi tra Otto e Novecento, tra le sue pubblicazioni sul tema dell’educazione fisica si ricordano: I programmi scolastici di “educazione fisica” in Italia. Una lettura storico-pedagogica (con M. Ferrari, FrancoAngeli 2015) e Corpo, educazione fisica, sport. Questioni pedagogiche (a cura di, FrancoAngeli 2016).

11 SAPERI / L’educazione fisica nella scuola italiana. Storia di una straniera

allievi,posti dinanzi alla delicata fase di «passaggio all’età adulta». Nel grado primario faceva, infine, capolino il gioco-sport (decreto del presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, n. 104), inteso non come avviamento precoce alla pratica sportiva, ma come opportunità – cognitiva, emotiva, sociale e motoria – di educazione globale alla corporeità. Cosa sia ora la materia, oggetto negli ultimi anni di numerosi cambiamenti di denominazione a seconda dei gradi scolastici e delle differenti riforme dell’insegnamento, è difficile dire. Stando alle vigenti Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo (decreto ministeriale 16 novembre 2012, n. 254), essa parrebbe più che altro, ambiziosamente, uno strumento in grado di consegnarci le chiavi per conoscerci e comprenderci meglio. E lo “star bene con noi stessi” richiama un’idea di benessere (e una conseguente pedagogia del benessere12) che resta tutta da scoprire,alla luce dei singoli vissuti e di un mondo in sempre più rapido cambiamento. Una sfida alla quale la scuola non può risultare impreparata.


SAPERI

La Reale Società Ginnastica di Torino La prima società sportiva in Italia —

Negli anni che precedono l’unificazione d’Italia, un gruppo di uomini dell’alta borghesia e dell’aristocrazia torinese firma l’atto di nascita della prima società sportiva in Italia. Era il 17 marzo 1844. Rodolfo Obermann e Ernesto Ricardi di Netro furono coloro che avrebbero dato vita a un’Istituzione che si sarebbe occupata non solo di fare sport, ma di capire le esigenze dell’epoca e di studiarne le possibilità per migliorare: dall’apprendimento della ginnastica medica all’invenzione di attrezzature per lo studio della fisiologia, dall’accoglienza gratuita dei ceti meno abbienti all’organizzazione di convegni e all’ideazione di programmi scolastici richiesti dal Ministero della Pubblica Istruzione. L’apertura di numerose “Scuole” avviene già a partire dal 1847: la Scuola di Allievi Istruttori maschile, la Scuola di Ginnastica femminile, la Scuola di Ginnastica infantile, la Scuola di Ginnastica medica. È stata il primo I.s.e.f. d’Italia, ora trasformato in S.u.i.s.m. I soci fondatori, aprendo la ginnastica al settore civile, riuscirono a superare abitudini secolari, dimostrandone la validità anche per le donne e ottenendo l’obbligatorietà scolastica dell’attività motoria fin dalla primissima infanzia. La consape-

volezza del Re Carlo Alberto dell’importanza della missione è testimoniata dal conferimento del Suo stemma privato alla Società.Tutto ciò con il risultato di un’azione profonda sul costume della società del tempo, favorendo l’avvicinamento di persone appartenenti a classi sociali fino ad allora molto distanti. La “Magenta”, come viene confidenzialmente chiamata dai torinesi la Reale Società Ginnastica di Torino, contribuì in modo significativo alla diffusione della ginnastica in tutta Italia. Ad oggi, nel suo palmarès vanta 5 ori olimpici, 13 titoli europei e più di 100 scudetti tricolore. Accanto ai più di 30 sport praticati nei 174 anni dalla fondazione, nel 2002 nasce la “Flic Scuola di circo” a sottolineare non solo l’aspetto sportivo, ma anche quello fortemente artistico di questo nuovo filone di storia che rende la RSGT punto di riferimento internazionale per le discipline del circo contemporaneo, accogliendo formatori e allievi da tutto il mondo. Per informazioni: Reale Società Ginnastica di Torino via Magenta 11, 10128 Torino www.realeginnastica.it www.museorealeginnastica.it www.flicscuolacirco.it


La nascita e lo sviluppo dello sport in Italia Il movimento sportivo in Italia non fiorisce solo in ambito scolastico o militare: sarà il processo di industrializzazione nelle principali città italiane a favorire la nascita e lo sviluppo dell’associazionismo.

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← Un’esibizione di ginnastica femminile organizzata dalla Reale Società Ginnastica di Torino, Biblioteca della regione Piemonte.

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l movimento sportivo italiano nasce e prende forma in anticipo rispetto al 1861, anno dell’Unità nazionale. È il 1833 quando il conte Cesare di Saluzzo, ministro della Guerra del Regno di Sardegna, che tre anni prima aveva ricevuto dal re sabaudo Carlo Alberto l’incarico di prendersi cura dell’educazione del principino Vittorio Emanuele (il futuro re Vittorio Emanuele II),convoca a Torino il maestro dello sport Rudolf Obermann, svizzero. Scopo della chiamata: incaricarlo della preparazione fisica degli allievi della Reale Accademia Militare di Torino.Undici anni più tardi,nel 1844,lo stesso Obermann,coadiuvato da appassionati sostenitori

dell’attività fisica, fonda il primo club sportivo italiano, la Reale Società Ginnastica di Torino, fra i cui iscritti figurano, oltre al re, gli eredi e i reali di casa Savoia. Detta così, sembrerebbe trattarsi di un club ristretto alla casa regnante. Di fatto, invece, gli scopi e i principi in base ai quali esso viene fondato sono totalmente e unicamente civili e vanno dalla diffusione degli esercizi ginnici all’organizzazione di una scuola gratuita per fanciulli e, ancora, alla formazione di maestri dello sport. Diciassette anni prima dell’Unità d’Italia, quindi, nasce sul suolo nazionale la ginnastica. Contemporaneamente, a centinaia di chilometri di distanza e ben al di fuori dei confini dello Stato sa-

SAPERI / La nascita e lo sviluppo dello sport in Italia

di Luca Condini


baudo,vale a dire a Napoli, capoluogo di quel Regno delle Due Sicilie diretto avversario dei Savoia, Ferdinando II di Borbone istituisce una Commissione per la riforma della pubblica istruzione a capo della quale mette Francesco De Sanctis. Il letterato e studioso si mostra molto attento all’educazione fisica in quanto è seriamente preoccupato del «sistema pessimo di costringere i fanciulli inquieti e mobili per loro natura a una continua attenzione e immobilità»,per i quali predispone esercizi ginnici proprio per ovviare a tale problema.

La nascita delle società e delle federazioni —

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La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

Saperi / La nascita e lo sviluppo dello sport in Italia

Se a Torino lo sport si afferma in ambito militare, a Napoli lo sviluppo prende piede tra le mura scolastiche. Nel frattempo anche in altre città si affaccia l’attività sportiva: società e palestre sorgono a Genova, Venezia, Pisa. E non si tratta della sola ginnastica: si praticano anche l’equitazione, il tiro e la scherma. Con l’avvenuta unità nazionale, la legge Casati sull’istruzione, già vigente dal 1859 nel Regno di Sardegna e adottata dal neonato Stato italiano, impone nelle scuole l’insegnamento della ginnastica, oltre che l’istituzione di un magistero per la formazione di istruttori scolastici: insomma, l’attività fisica deve essere sì svolta dagli studenti, ma sono i maestri a essere tenuti a insegnarla in modo corretto e, pertanto, devono essere a loro volta formati. Sulla scia di queste disposizioni, qualche anno più tardi, nel 1877, la legge Coppino (che va famosa per aver finalmente imposto l’istruzione obbligatoria) sancisce l’introduzione dell’educa-

→ Sul retro della foto è riportato il seguente titolo: “Ginnastica in aula durante l’intervallo”. L’immagine mostra gli alunni di una scuola elementare di Vanzago (Milano) intenti in semplici esercizi di educazione fisica durante l’intervallo. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

zione fisica in tutte le scuole, dalle elementari alle superiori: è la messa in pratica, nelle aule del Regno d’Italia, dell’idea fortemente propugnata anni prima nel Regno delle Due Sicilie da De Sanctis. È un cammino lento e irto di ostacoli,ma inesorabile. Nelle scuole entrano varie discipline sportive con i relativi attrezzi: la palla e il volano alle elementari, il tiro a bersaglio, la scherma, il giavellotto e il disco alle superiori. Dal canto loro, le ragazze si dedicano al volano e saltano alla corda. Si tratta di esercizi obbligatori, che vengono insegnati e valutati. Tuttavia, quello scolastico non è il solo ambito in cui fiorisce il movimento sportivo italiano, così come non è prerogativa unicamente del mondo militare, in cui era nato in seno al Regno sabaudo allo scopo di addestrare i ragazzi di oggi per farne validi soldati per il domani. Infatti, l’attività fisica coinvolge gran parte della società del neonato Stato unitario raggiungendo prima i ceti sociali più elevati, che possono giovarsi di una grande disponibilità di tempo libero, per poi estendersi alla borghesia e al nascente movimento operaio. È proprio il processo di industrializzazione (sia ben chiaro, nelle principali città italiane) a favorire la nascita e lo sviluppo dell’associazionismo: stando ai più recenti studi, nei primi anni del Novecento in Italia sarebbero state attive circa cinquemila società sportive con un numero di praticanti pari a oltre centomila unità. Al contempo, sorgono le federazioni, chiamate a vigilare sull’attività delle singole discipline. La prima federazione a nascere è quella della ginnastica, nel 1869, seguita, per quanto riguarda i principali sport, dal ciclismo (1885) e dal canottaggio (1888).


Bisogna rilevare una certa difficoltà delle federazioni nell’organizzare eventi e manifestazioni di sport: a soccorso delle carenze degli organi federali intervengono i giornali sportivi, cui si deve la promozione di un’infinità di gare e di competizioni. Certo, il tempo da dedicare alle attività al di fuori dell’ambito professionale risulta essere limitato, la giornata media lavorativa si protrae dall’alba al tramonto. Eppure lo sport prende sempre più piede: il suo scopo è principalmente quello di svagare, divertire: del resto lo dice la parola stessa sport, derivante dall’antico francese se déporter, “svagarsi”, “divertirsi”. Ma non solo: compito dello sport è di far svolgere una sana attività motoria al maggior numero di persone.

Un esempio ci viene dalla società ginnica Mediolanum, sorta nel 1896 nel capoluogo lombardo: la sua missione è quella di «promuovere l’apertura di pubblici piazzali per gli esercizi fisici e i giuochi, stabilire le norme per l’esecuzione di detti esercizi e renderle popolari con opportune ed economiche pubblicazioni, raccomandare alle società di ginnastica e di sport di favorire la pratiche dei giuochi e di dare ad essi posto nei concorsi». Come si nota, mancano impianti adeguati e ci si arrangia come si può nei «pubblici piazzali». Accanto ai concorsi di ginnastica (nel 1901 le società affiliate alla federazione sono ben 120), sempre più numerose sono corse e marce organizzate su medie e lunghe distanze, in molte città si corrono i giri dei bastioni e delle mura urbane, diverse competizioni prevedono premi anche in denaro per invogliare la partecipazione di quanta più gente possibile. E parecchie manifestazioni sportive vengono battezzate come popolari, segno evidente che lo scopo è quello di renderle aperte a tutti, senza distinzione alcuna. Il canottaggio si pratica nei fiumi, in mare, nei laghi, persino nelle acque dei canali cittadini, così come il nuoto che, in assenza di piscine e impianti adeguati, viene praticato nei bacini e nei corsi d’acqua naturali. Non a caso è il lago di Bracciano a ospitare, nell’agosto del 1898, il primo campionato italiano di nuoto (se di campionato si può parlare, visto che si tenne un’unica specialità, quella del miglio marino,in cui prevalse Arturo Saltarini).Bisognerà attendere 25 anni,il 1923,prima che un campionato italiano venga disputato in una piscina, l’impianto del Centro di Educazione Fisica di Roma alla Farnesina. Nelle città del Nord, in particolare a Torino, si organizzano escursioni in montagna, alle quali partecipano, numerose, anche le donne. Per quanto riguarda lo sport attualmente più popolare nel nostro Paese, ovvero il calcio, pare che Gabriele D’Annunzio sia stato il primo cronista di un match di pallone, al quale prese parte in prima

Luca Condini si occupa da trent’anni della storia e delle origini dello sport, soprattutto in Italia. Ha scritto il saggio La Coppa Scarioni di nuoto. Propaganda sportiva e attività natatoria nel ventennio, raccolto nel volume Sport e fascismo (Franco Angeli, Roma 2009), ed è autore di un saggio sull’affermazione dello sport femminile nel nostro Paese tra fine Ottocento e inizio Novecento, contenuto in Donna e sport, opera in corso di pubblicazione presso Franco Angeli. Nel 2011 è stato curatore scientifico della mostra Sportèdonna (1861-2011) e coautore dei testi raccolti nell’omonima pubblicazione di supporto all’esposizione stessa, lungo racconto del cammino e dell’affermazione dello sport femminile nel nostro Paese dalle origini ai nostri giorni, allestita in occasione del 150° anniversario dell’Unità.

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Corsi, gare e concorsi —

persona: nel novembre del 1887 raccontò in una lettera di aver giocato sulla spiaggia di Francavilla, nei pressi della sua Pescara,con «una palla di cuoio, con camera d’aria inglese», un regalo portatogli da un amico da Londra. La partita non andò bene al Vate: durante l’incontro cadde e perse due denti.Da quel giorno diede addio al calcio non senza prima, però, averne descritto gesti e movimenti. L’incidente di gioco capitato a D’Annunzio rimarca che in questi primi match calcistici si dà scarsa importanza alla correttezza e gli scontri di una certa violenza sono all’ordine del giorno. Le prime partite di calcio vengono disputate nelle principali città marittime (Genova, Livorno, Napoli, Palermo) e questo obbedisce a una logica: i primi a promuovere incontri calcistici, disputati spesso sui moli dei porti, sono i marinai inglesi, perché inglese è, come parecchie altre discipline sportive, il “football”, che sarà chiamato “calcio” soltanto parecchi anni più tardi. Il primo club a essere fondato è il Genoa, nel 1893, ed è proprio il Genoa ad aver inaugurato l’albo d’oro del campionato italiano, nel 1898. È a cavallo fra i due secoli che sorgono i grandi club che tuttora militano nel calcio professionistico italiano: la Juventus nel 1897,il Milan nel 1899,la Lazio nel 1900,il Torino nel 1906, l’Inter nel 1908, senza dimenticare l’Udinese nel 1896 e l’Hellas Verona nel 1903. Ma non si gioca solo a calcio: le cronache del tempo, a cavallo fra Ottocento e Novecento, descrivono e commentano anche incontri di scherma, match di lotta, prove di sollevamento pesi, regate veliche e le prime gare di ciclismo. Nonostante alcuni sport si confermino discipline di nicchia,come l’equitazione e gli sport motoristici (del resto, auto e moto risultano inaccessibili ai più), l’attività fisica prosegue il suo cammino, sia pure attraverso ostacoli e difficoltà, fra la popolazione italiana. Per quanto riguarda le donne, la “rivoluzione” sportiva verificatasi a cavallo fra Ottocento e Novecento interessa anche il pianeta femminile. Questa, però, è un’altra storia.


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Dalle sue origini nella paideia e dalla diaita degli antichi a Locke e a Rousseau, fino ad arrivare a Olmo Grupe: origini e sviluppi di una disciplina in continua evoluzione.

Saperi / La pedagogia dello sport tra corpo e salute

di Emanuele Isidori

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a pedagogia dello sport come teoria e pratica dell’educazione del corpo finalizzata al perseguimento di un benessere permanente è molto antica. Questa scienza educativa può essere fatta risalire addirittura al filosofo Pitagora e al suo ginnasio. Sappiamo da fonti storiche e letterarie che a Crotone, florida città della Magna Grecia, esisteva un ampio ginnasio sin dal VI secolo a. C. In esso trovarono una sintesi i principi e le pratiche educative di questo tipo d’istituzione e gli insegnamenti dello stesso Pitagora. Attraverso la sua filosofia, Pitagora intendeva contribuire a realizzare uno stile di vita che, con gli esercizi fisici e l’educazione intellettuale e morale, guidasse i cittadini verso una vita buona e saggia condotta nel rispetto dei valori della città (polis). Il ginnasio pitagorico, dunque, mirava, attraverso una metodologia “attiva” che comprendeva attività fisiche, dieta moderata e riflessione filosofiche, all’unità mente-corpo nella Il ginnasio pitagorico prospettiva del benessere mirava all’unità mentepersonale e comunitario. Il corpo nella prospettiva suo obiettivo era formare del benessere personale persone felici, che stavano e comunitario. Il suo bene con se stesse e con gli altri; che erano “buone obiettivo era formare persone” secondo i principi persone felici. dell’etica pitagorica, perché rispettose della “misura” (metriotes) e del “conveniente” (prepon), e buoni cittadini che agivano solo per il bene della comunità in cui vivevano. Già gli antichi, pertanto, avevano elaborato una loro pedagogia del benessere, a partire da un’educazione del corpo (dalla quale si è poi originata la medicina occidentale) centrata sull’esercizio fisico e la nutrizione. Avevano compreso che la gymnastike techne e l’athletismos come pratiche indivi-

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duali e sociali, con tutto quello che comportavano (soprattutto attraverso l’allenamento che richiedeva anche specifici comportamenti terapeutici e nutrizionali), potevano essere ed erano di fatto il centro del “benessere” della persona. Quest’ultimo da intendersi come il risultato del raggiungimento di una perfetta armonia tra l’anima e il corpo perseguita per mezzo di una “dieta”, ossia nel rispetto di un “canone” e di una “misura” secondo i principi teorizzati da Pitagora. Secondo il medico Galeno (129-199), ad esempio, «per mezzo dei cibi e delle bevande e anche per mezzo di ciò che quotidianamente facciamo, noi realizziamo un buon temperamento e con questo possiamo dare all’anima un contributo per raggiungere la virtù»1. Per gli antichi il “benessere”, e quella che noi definiamo la “buona salute”, erano rappresentati da un equilibrio fra le esigenze dell’anima e quelle del corpo, che potevano essere realizzate attraverso una corretta e precoce paideia, per quanto riguarda la prima, ed una altrettanto corretta e precoce diaita, per quanto riguarda il secondo2. Per gli antichi la diaita (da cui deriva la parola italiana “dieta”) indicava sia la teoria sia la prassi di un’“educazione del corpo”. Quest’educazione era legata a uno specifico sapere (la dietetica), era in stretta correlazione con il sapere della cura per eccellenza (la medicina) ed era fondata sul rispetto di un “regime” alimentare e sulla pratica costante e misurata dell’attività fisica e del movimento, mai concepiti separatamente rispetto alla “mente”3. Per gli antichi sia la paideia sia la diaita erano in stretta correlazione, e l’una dipendeva dall’altra. Tanto la pedagogia quanto la dietetica erano considerate dagli antichi greci saperi sommi,appannaggio di professionisti specializzati quali il paidotribes (l’insegnante di educazione fisica) ed il gymnastes (l’allenatore sportivo), le cui conoscenze erano


← Scattata negli anni Sessanta, la foto mostra una classe della Scuola elementare di Succivo (Caserta) impegnata nello svolgimento di semplici esercizi ginnici nel cortile della scuola. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

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riale (1530-1606) affinché all’esercizio fisico venisse riassegnata quella funzione di cura del corpo che nel Medioevo era del tutto scomparsa. È del resto con l’avvento dell’era moderna che verrà di fatto sancito il riconoscimento dell’importanza dell’educazione del corpo e dell’educazione “atletica” per la formazione delle nuove generazioni. Basta pensare agli scritti di John Locke (1632-1704) e Rousseau (1712-1778), filosofi ed educatori che nelle loro opere hanno valorizzato l’importanza dell’educazione del corpo per la formazione completa ed integrale dell’essere umano. Se a Locke e al suo trattato dal titolo Some thoughts concerning education (1693) va attribuito il merito di aver gettato le premesse culturali per la diffusione dell’educazione fisica nella scuola occidentale, attraverso la valorizzazione della cura e dell’attenzione per la dimensione corporea dell’educando quale punto di partenza per realizzare quell’equilibrio armonico tra mente e corpo già esaltato dalla cultura classica, è a Rousseau che spetta – da un punto di vista pedagogico – la paternità di quell’educazione integrale dell’uomo per la cui realizzazione la cosiddetta pedagogia dello sport è di fatto nata e si è sviluppata nel quadro delle scienze dell’Occidente e della sua pedagogia.

La pedagogia dello sport: una scienza tra corpo, gioco e movimento

— La pedagogia dello sport contemporanea prende dunque le mosse dalle esperienze educative che abbiamo sintetizzato in precedenza. Essa è una scienza specialistica dell’educazione nata negli anni Sessanta del secolo scorso in Germania e negli Stati Uniti d’America come alternativa a una visione meramente pratica della cosiddetta “educazione fisica”, disciplina che affonda le sue radici nella cultura e nell’ideologia moderna del corpo e della salute umana che si era andata sviluppando

SAPERI / La pedagogia dello sport tra corpo e salute

considerate superiori anche a quelle del medico (iatros) in senso stretto4. Per gli antichi, dunque, la diaita era il “modo di vita” – quello che oggi chiameremmo lo “stile di vita” – in cui “educazione”, “alimentazione” e “movimento” erano strettamente connessi e formavano parte di una paideia umana olistica la cui finalità era il perseguimento di una vita umana piena e realizzata nell’unità spirito-corpo sotto il segno dell’igiene–yghieia5. Possiamo affermare,pertanto,che per gli antichi il corpo era il punto di partenza di una paideia olistica della salute, dell’alimentazione e dello sport che trovavano nell’allenamento (askesis) il loro strumento educativo di attuazione. Si dice che lo sport antico e la “paideia sportiva” ad essa legata non abbia mai trovato – dal punto di vista della sua essenza incarnata nell’agon – uno spazio culturale nella civiltà romana. Si afferma inoltre – erroneamente – che sarebbe stato proprio il Cristianesimo il responsabile della fine dello sport nella cultura medievale. Effettivamente, questa responsabilità va imputata ad alcuni movimenti ascetici che in seno al Cristianesimo medievale propugnavano la mortificazione del corpo, sulla basa di un’errata interpretazione sia della cultura platonica che della componente farisaica all’interno dello stesso Cristianesimo paolino e in evidente contrasto con il vero spirito del pensiero e della morale di Gesù di Nazareth, tuttavia è interessante notare come un concetto che circolerà nel Medioevo (“ascetico” e “ascetismo”) sia proprio di derivazione sportiva legato alla dimensione corporea dell’essere umano e del suo benessere. Infatti, la parola askesis, da cui deriva, è un termine tecnico tratto dalla terminologia dello sport greco antico, dove stava ad indicare l’“allenamento” e la “cura” del corpo. Bisognerà aspettare l’Umanesimo e il Rinascimento con il medico e pedagogo Girolamo Mercu-


Saperi / La pedagogia dello sport tra corpo e salute

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nell’Europa ottocentesca in concomitanza con la nascita dei nazionalismi che daranno vita poi, nel XX secolo, ai regimi totalitari. La pedagogia dello sport, nelle intenzioni del suo fondatore, il tedesco Ommo Grupe (1930-2015), doveva assumere una funzione critica nell’ambito delle scienze dello sport configurandosi come sapere teorico-pratico centrato sulle questioni educative insite nell’attività motoria e sportiva. Nel libro pubblicato nel 1969 dal titolo Grundlagen der Sportpädagogik (Fondamenti di Pedagogia dello sport), rimaneggiamento della sua tesi di dottorato, nel quale affrontava i principi antropologici della corporeità umana e delle sue implicazioni didattiche per l’educazione fisica, Grupe delineava i temi centrali del nuovo ambito disciplinare. Questi temi oggetto della nuova pedagogia dovevano essere il corpo, il gioco ed il movimento – di fatto i minimi comuni denominatori dell’educazione fisica come disciplina e pratica educativa umana – studiati nella prospettiva di una intenzionalità educativa finalizzata alla promozione dei valori umani in tutte le loro forme (sociali, corporei, etici, estetici, religiosi, ecc.). Indubbiamente il tema del corpo era centrale nell’opera di Grupe, che vedeva in esso lo spazio di raccordo tra la vecchia educazione fisica di stampo ottocentesco e la nuova pedagogia declinata come una teoria e prassi educativa del corpo, del gioco e del movimento calata nel nuovo contesto culturale della Germania e dell’Europa degli anni Sessanta del secolo scorso. La pubblicazione del libro di Grupe si colloca nel dibattito che a partire dagli anni Sessanta si ebbe in Germania sulla natura, i metodi, le finalità ed il valore scientifico dell’educazione fisica nella cultura del tempo. Le principali accuse mosse all’educazione fisica in quel periodo erano quelle di essere una disciplina non scientifica,di avere una connessione soltanto con la scuola e di essere legata alle ideologie dei regimi totalitari.

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Una nuova pedagogia per una società in cambiamento

— Gli anni Sessanta del secolo scorso vedono del resto la diffusione nella società occidentale dell’attività motoria e sportiva di massa con funzione ricreativa e salutistica nelle società, dovuta alla maggiore disponibilità di tempo libero e al bisogno di movimento causato dall’urbanizzazione della popolazione e dalla sedentarietà del lavoro. Questo fenomeno non solo fa apparire limitato il contenuto di una disciplina e di un sapere legato esclusivamente alla pratica scolastica e alla sua didattica, ma evidenzia anche il limite delle strutture nazionali di formazione. Le società del benessere di quegli anni avvertono la necessità di nuove professioni e professionalità per lo sport, e

l’attività motoria e quella dell’insegnante è solo una tra le tante. Per Grupe e i pedagogisti fautori della nuova disciplina, l’utilizzo del termine pedagogia dello sport aveva il merito di rompere con il concetto tradizionale di educazione fisica come era stato inteso nel passato storico e politico della nazione tedesca (soprattutto come ginnastica), che lo legava all’ordine e alla subordinazione, all’obbedienza e alla disciplina. Esso permetteva di sviluppare un nuovo modello epistemologico e culturale che dava rilevanza all’apprendimento delle conoscenze,alla formazione di competenze specifiche nelle attività motorie e sportive, al vivere il corpo in azione, al piacere derivante dal gioco e dal movimento e dai benefici salutistici – in termini sia di cura che di gratificazione – prodotti dall’attività fisica. La pedagogia dello sport si prospetta oggi come una scienza pedagogica e dell’educazione in continua evoluzione, che va assumendo un’importanza sempre maggiore non solo per lo sviluppo di un approccio critico ai problemi educativi legati allo sport ed alla progettazione degli interventi educativi che attraverso di esso possono essere realizzati, ma anche per la formazione delle figure educative chiave che possono realizzare tali interventi nella società. NOTE 1. Quod animi, K. IV, p. 767-768. 2. J. Capriglione, La díaita secondo Galeno, «Cuadernos de Filología Clásica. Estudios griegos e indoeuropeos», X, 1, 2000, p. 155. 3. Galeno diceva che «al fine della conservazione della buona salute la stasi assoluta del corpo è davvero un gran danno, fa un gran bene, invece, il moto praticato in maniera equilibrata» (megiston agathon he symmetros kinesis) (cit. in J. Capriglione, cit., p. 156). 4. Abituati alla prospettiva di un sapere olistico (anche perché non specialistico in senso stretto), gli antichi identificavano in un’unica competenza i saperi che oggi noi attribuiamo al medico, all’educatore ed all’allenatore sportivo. 5. Il concetto di yghieia rimandava per i Greci ad uno star bene nell’anima e nel corpo che fa sì che il termine esprima, di fatto, lo stesso concetto che corrisponde oggi a quello di “benessere”.

Emanuele Isidori è docente di pedagogia generale, sociale e dello sport presso l’Università degli Studi di Roma “Foro Italico” dove dirige il Laboratorio di Pedagogia generale. È autore di numerose pubblicazioni in più lingue sui temi delle scienze umane dello sport, tra cui ricordiamo: Filosofia dello sport (con H. L. Reid), B. Mondadori, Milano 2011 e Pedagogia e sport: la dimensione epistemologica e sociale, FrancoAngeli, Milano, 2017.


Forte è meglio di carina A un giornalista che lo lodava per essere il primo a vincere due medaglie olimpiche, il campione di tennis Andy Murray ha risposto che Venus e Serena Williams ne avevano vinte quattro a testa. Una cosa che un giornalista avrebbe dovuto sapere, e che probabilmente sapeva. Solo che non aveva importanza.

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di Giusi Marchetta

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a circa due anni, cioè dal marzo 2016, è partito un progetto europeo coordinato da associazioni provenienti da quattro nazioni (Francia,Italia,Romania, Inghilterra) chiamato Le sport egal. L’obiettivo è “fare leva sullo sport per affrontare le disuguaglianze di genere” e i destinatari sono allenatori ed insegnanti di educazione fisica cui si chiede di guidare ragazzi e ragazze nell’attività sportiva scelta liberi dai pregiudizi causati dai più tradizionali stereotipi di genere. Per dare un’idea di quali possano essere queste convinzioni, possiamo citare innanzitutto l’idea che esistano sport “da maschi” e altri “da femmine”; a questa posizione, però, se ne aggiungono altre che all’apparenza sembrano più insidiose da confutare: che le donne presentino caratteristiche fisiche che le rendono meno forti e veloci degli uomini e, quindi, meno adatte a competere ad alti livelli; che siano meno interessate in generale agli sport; che non possano allenare o arbitrare competizioni maschili perché non hanno esperienza o capacità necessarie; infine, che le battaglie femministe

debbano guardare altrove: il mondo dello sport è un gigantesco spogliatoio maschile in cui, pare, non siamo ammesse. È indiscutibile che questi preconcetti siano diffusi anche nelle nostre palestre, comprese quelle scolastiche. L’importanza data all’attività fisica nel processo di crescita dei ragazzi appare a tutti innegabile, tanto che le scienze motorie negli anni della preadolescenza e adolescenza (alle scuole medie e alle superiori) si costituiscono come una materia a sé che meriterebbe ancora più spazio e,se possibile,finanziamenti.Mentre,però,statistiche e sondaggi tra insegnanti e allenatori ci dicono che i maschi vengono incoraggiati e a volte spinti verso un’attività sportiva competitiva, confermano il dato altrettanto sconfortante che non avviene la stessa cosa per le compagne. Lo scenario che potrebbe riproporsi, quindi, non cambia rispetto al passato: gli uomini accedono ad una maggior varietà di discipline e, all’interno di queste, finiscono per occupare anche in modo preponderante i ruoli direttivi e tecnici. Solo nell’area amministrativa le donne, come accade in tutti i settori produttivi, hanno un indiscusso primato.

↑ Eleganti anche sul court, 1949, Getty images.


Questi dati, poi, invece di portare l’attenzione sul problema, vengono spesso sbandierati come prova da chi sostiene che lo sport sia “una cosa da uomini”. È un errore di valutazione o, peggio, una manipolazione fatta in cattiva fede. La discriminazione sessuale nell’attività sportiva esiste, e come di recente si è cominciato a prendere sul

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La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

↑ Suzanne Lenglen, tennista francese attiva negli anni ‘20 del secolo scorso, e vincitrice di 25 titoli del Grande Slam.

serio la questione femminile nel campo scientifico e tecnologico-informatico, allo stesso modo sarebbe opportuno interrogarci sulle potenziali atlete che abbandonano questa strada prima di arrivare alla meta.

Maschiacci e femminucce —

È evidente che la disparità di trattamento economico che colpisce le donne anche nel mondo delle società sportive rende molto più difficile per loro considerare di trasformare una passione in carriera. Le condizioni lavorative, infatti, si dimostrano decisive in questo come in altri settori: non a caso nelle società e negli sport che hanno una dirigenza femminile si nota una consistente partecipazione femminile. Tutti gli studi commissionati dal CONI, inoltre, citano gravidanza e maternità come fattori di abbandono di una disciplina sportiva praticata per anni. Infine, la scarsa visibilità dei successi ottenuti dalle atlete rende meno appetibile per le più giovani l’idea di perseguire uno sport soprattutto in un Paese come l’Italia,dove qualsiasi attività sportiva sembra vivere all’ombra del campionato di calcio. Eppure, come negli ultimi anni si è lavorato per il rilancio di altri sport, puntando su eventi come le Olimpiadi per suscitare un interesse più vario, gli addetti ai lavori dovrebbero collaborare per rendere l’intero settore meno discriminatorio nei confronti delle donne.

Tuttavia se questa, come le altre che riguardano il mondo del lavoro, resta una battaglia politica, dal punto di vista culturale è giusto che la scuola prenda una posizione per abbattere i pregiudizi che impediscono o rendono difficoltosa la via dell’attività sportiva alle ragazze. In primo luogo questo contribuirebbe a migliorare l’autostima fin dalla giovane età: l’adolescenza è un momento delicato per la percezione che si ha del proprio corpo,e praticare un’attività sportiva permette un rapporto più consapevole con se stessi da questo punto di vista. Punti di forza, debolezze: sfidare i propri limiti allenando il corpo significa conoscerlo meglio e, forse, perfino amarlo e prendersene cura. Questo aspetto della questione è particolarmente rilevante in un’età in cui insorgono disturbi alimentari e disagi legati all’aspetto fisico. Non mi sembra un fattore secondario il modo in cui l’ora di scienze motorie diventi spesso una tortura per chi ha un rapporto difficile con se stesso,soprattutto se vittima di atti di bullismo da parte dei compagni. Anche quando una presa in giro costante non è presente, comunque, grava sulle ragazze il fantasma del corpo perfetto, che è di taglia media, che non ha peli e non suda mai troppo. Quello che si osserva troppo spesso nelle nostre palestre è un’autoconsapevolezza eccessiva delle ragazze nei confronti di se stesse: un giudizio che è totalmente introiettato e fa sentire molte di loro a disagio quando si impegnano in un’attività percepita come maschile o quando si rivelano poco aggraziate nell’esecuzione di un esercizio. Il termine “maschiaccio” è sempre dietro l’angolo e la dice lunga sulla possibilità che una bambina possa indirizzarsi ad esempio verso il calcio. Lo stesso potrebbe dirsi per l’equivalente “femminuccia”, altro appellativo sessista, che colpisce i ragazzi attraverso un utilizzo retrivo e limitato del concetto di virilità per scoraggiare la scelta di attività come la danza o il pattinaggio. Si tratta certamente di due facce della stessa medaglia, ma a differenza dei compagni, sulle ragazze gravano anche tutte le altre restrizioni che la discriminazione sessuale porta con sé. Questo corpo, infatti, che può diventare un problema nell’età dello sviluppo, pare non riuscire mai a svincolarsi dal giudizio maschile. È questo il motivo per cui telecronisti e giornalisti sportivi si rendono colpevoli troppo spesso di espressioni offensive nei confronti di atlete di successo – come le “grassottelle” vincitrici del tiro con l’arco nelle passate olimpiadi, o come le pallavoliste della nostra nazionale, che io stessa ho sentito citare in trasmissioni radiofoniche o televisive da un conduttore che, accanto alla bravura, non mancava di sottolinearne la bellezza. Questa visione distorta e sconfortante della donna comincia in tenera età, e pare non abbandonare mai né l’occhio che guarda (e commenta) né il corpo che è guardato. L’effetto immediato, poco


visibile ma oltremodo deleterio di questo atteggiamento è una continua svalutazione dell’attività sportiva femminile che non termina neanche quando le atlete competono a livelli altissimi. L’effetto secondario è l’allontanamento delle ragazze dallo sport: ci vuole una passione decisamente accesa per dedicarsi con sacrificio a quella che molto probabilmente non diventerà una carriera e che se anche portasse al successo, sarebbe sempre una vittoria in tono minore.

I pregiudizi che avvelenano il mondo delle ragazze —

Giusi Marchetta scrittrice e insegnante di Torino. Ha pubblicato i romanzi Dove sei stata (Rizzoli 2018) e L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011); il saggio Lettori si cresce (Einaudi, 2015); le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di mezzo), col quale nel 2007 ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (Terre di mezzo, 2009).

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Non si punta abbastanza sull’attività sportiva per le ragazze. Esattamente come per le scienze e l’informatica prima che se ne discutesse, molti sport sono rimasti tradizionalmente appannaggio maschile. Eppure diverse storie di ex sportive che hanno raggiunto posizioni importanti nei settori più disparati dimostrano che praticare uno sport è stato per loro formativo: nel recente Women’s Summit della NFL, dirigenti d’azienda, manager e consulenti di alta finanza, tutte provenienti dal mondo dello sport, hanno raccontato quanto sia stato importante essere incoraggiate dai genitori, imparare a perdere o sfidare i propri limiti e vincere durante il percorso scolastico e universitario. Queste testimonianze sono importanti, e non è un caso che vengano dagli Stati Uniti, dove il femminismo moderno ha abbracciato da tempo una politica di empowerment, cioè di rafforzamento delle bambine attraverso l’educazione. Parte di questa educazione si basa sulla distruzione dei luoghi comuni e, sebbene a mio parere concentrare l’azione femminista sulle bambine rischia di escludere dal quadro le responsabilità maschili e di colpevolizzare le eventuali vittime di molestie o discriminazione classificandole come troppo deboli, mi sembra comunque liberatorio spazzare via alcuni tradizionali pregiudizi che avvelenano il mondo delle ragazze. Cominceremo col dire che non esistono sport “da maschi” e altri “da femmine”. Gli ultimi record stabiliti da atlete, superiori o vicini a quelli dei colleghi in diverse discipline,dovrebbero costringerci a riconsiderare perfino la divisione in categorie. Le ragazze, se libere di esprimersi riguardo al proprio corpo e non sottoposte allo sguardo maschile,non sono affatto meno interessate allo sport o alla competizione. Infine, come in ogni settore, anche quello sportivo rappresenta un terreno fertile per la conquista di una parità di genere. Di più: qualsiasi successo registrato in un settore che ha un tale seguito non può che ottenere un benefico effetto a cascata. In altre parole: per avere un maggior numero di atlete, dobbiamo vedere sui nostri schermi un maggior numero di atlete. Nel 2009, agli US Open, Serena Williams perde

la calma dopo l’ennesima “svista” arbitrale che le causa la sconfitta. È la seconda volta dopo il 2004 che una sua avversaria vince con l’aiuto del giudice di gara,un aiuto testimoniato dalle riprese televisive e dagli stessi commentatori del match.Tuttavia, lo sfogo di Serena non piace a nessuno, e anni dopo, quando l’America la celebrerà come la campionessa dalle due medaglie olimpiche, qualche giornalista la loderà per aver imparato finalmente a gestire la propria rabbia. Non se ne esce. Claudia Rakine ha raccontato l’episodio nel suo bellissimo Citizen, in un capitolo dedicato all’epopea di una “angry black woman”. Al razzismo conclamato dei giudici di gara che hanno ostacolato per anni il percorso suo e della sorella Venus, si aggiunge il pregiudizio limitante e offensivo che considera isteriche le donne arrabbiate, le proteste accettabili solo se poste in modo pacato, “femminile”. A chiudere il cerchio, arriva il recentissimo spot Nike girato da Serena Williams che affastella tutti i pregiudizi che hanno accompagnato la sua carriera: troppo maschile, troppo arrabbiata, troppo ambiziosa, troppo nera. «Non c’è un modo sbagliato di essere donna», dice alla fine. «Parla alle donne di tutto il mondo»,ha dichiarato il portavoce della Nike, sbagliando, perché il messaggio invece è diretto a tutti. Da «Repubblica» del 22 febbraio, su Arianna Fontana, campionessa di pattinaggio su ghiaccio: «Adesso resta da capire cosa può convincere una donna ormai sposata, che vive parte dell’anno negli Stati Uniti, che ha vinto tutto, è già la più premiata nella storia olimpica dello short track e è stata designata portabandiera, a dedicare un altro quadriennio alla ricerca di nuove medaglie a Pechino 2022». O forse si tratta di capire come mai, nel 2018, un giornalista si chieda su un quotidiano nazionale cosa cerchi un’atleta di successo nella sua disciplina, pur essendo già sposata. La risposta, però, non è compito esclusivo delle donne. Ben vengano dunque i Murray che, durante una conferenza stampa, rispondendo a un giornalista che aveva definito Sam Querrey «il primo giocatore americano a raggiungere la semi-finale dal 2009», ha mugugnato: «Male player», “tennista maschio”. Il primo passo per ottenere l’uguaglianza, infatti, è vedere che nel proprio settore, con pari dignità, esistono anche le colleghe e indicarle a tutti quelli che le considerano invisibili.


Educare il corpo del re

Saperi / Educare il corpo del re

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In una lettera a Ladislao di Boemia, tramandata come Tractatus de liberorum educatione, Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, fornisce un percorso scolastico e umano per l’educazione e la crescita morale e politica di un buon regnante, in cui il corpo e l’intelletto sono egualmente degni di cura e attenzione. di Federico Piseri

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el Quattrocento italiano si sviluppa una nuova e diffusa sensibilità culturale, che, pur basandosi sulla cultura medievale, la supera con uno slancio tale da far considerare, per la storiografia italiana, i decenni tra il XV e il XVI secolo una netta cesura. Il termine stesso di Rinascimento indica un nuovo inizio, una rinascita. Sebbene tale periodizzazione sia da considerarsi puramente convenzionale, è innegabile che un diverso approccio influenza molte espressioni culturali, soprattutto grazie alla riscoperta di testi antichi che hanno restituito una visione più profonda e dettagliata della classicità romana e greca. Una riflessione guidata da tale diversa sensibilità investe anche il pensiero pedagogico medievale che ne risulta profondamente rinnovato, tanto che Eugenio Garin, in una sua opera del 1963, nell’intitolare il capitolo dedicato alle nuove correnti educative e alle scuole del Rinascimento italiano,non esita a ricorrere alla locuzione “nuova educazione”1. Tra i protagonisti di questo ambiente culturale c’è sicuramente il senese Enea Silvio Piccolomini che, nato nel 14052, diventerà papa con il nome di Pio II nel 14583. Nel 1450, l’umanista toscano, allora vescovo di Trento, scrisse un testo intitolato De liberorum educatione (tradotto in italiano come Trattato dell’educazione dei figli nel noto volume a cura di


re, l’autore considera alcuni giochi infantili, come la palla e il cerchio assolutamente non disdicevoli, anzi utili, perché «non bisogna attendere di continuo alle lettere e a cose troppo serie»8. I tre capitoli successivi sono dedicati alla dieta, facendo riferimento in quello centrale,ai differenti usi e abitudini che vigono in Italia e Germania. Il primo è dedicato a Quali cibi e quali bevande convengono ai ragazzi e consiglia ai responsabili della dieta di Ladislao di evitare cibi pesanti, per non compromettere la capacità di concentrazione nello studio del fanciullo, così come quelli troppo ricercati perché, quando in futuro si troverà lontano dalla città se non addirittura in un accampamento militare, non rifiuti cibo più frugale. Riguardo il secondo capitolo di questo gruppo, il Piccolomini si dichiara consapevole che i consigli ivi contenuti saranno poco graditi ai sudditi di Ladislao. L’autore consiglia una dieta più vicina a quella italiana,moderata ed equilibrata, a differenza di quella boema, ungherese e tedesca che ricerca, a causa del clima più rigido, cibi grassi e non disdegna l’eccesso nel vino.Il primo modello da imitare,in una lunga lista di filosofi e imperatori dell’antichità, è il cugino di Ladislao: il sacro romano imperatore Federico III che «non si rimpinza né di vino né di cibo; pranza modestamente, cena anche più modestamente»9. La condanna agli eccessi alimentari ha per Enea Silvio Piccolomini una dimensione morale, comune a qualunque altro tipo di eccesso che è antitetico all’equilibrio e alla moderazione che devono caratterizzare un re nei suoi comportamenti pubblici e privati, e una dimensione più concretamente legata La compostezza e il alla salute dell’organismo. controllo del proprio L e stesse motivazio ni sono alla base del sesto corpo sono considerati capitolo dedicato al vino e parte integrante della all’assoluto divieto di somformazione di un nobile e ministrarlo ai fanciulli. Sidi un buon cittadino. mili usanze, infatti, trovano, scrive l’autore, riscontro nelle tradizioni mitteleuropee, ma sono assolutamente dannose. Anche durante l’adolescenza e in età adulta, secondo il Piccolomini, la moderazione è la scelta migliore, da considerarsi addirittura preferibile all’astinenza assoluta. Alla stessa stregua bisogna comportarsi con tutti gli altri piaceri corporei,tema del settimo ed ultimo capitolo che si concentra sulla salute fisica dei giovani. L’umanista scrive che «l’anima deve valersi del corpo come strumento», quindi questo come ogni strumento deve essere “perfezionato” e “messo a punto”: «esso va tenuto a freno; bisogna contenerne e moderarne ← gli impeti,come se si trattasse di un’immane belva, Pagina a fianco. Ritratto di Pio II, e impedirne, con la guida della ragione, i temerari affresco del XVI 10 moti contro l’anima» . secolo, Biblioteca Il pensiero pedagogico del Piccolomini si inseriPiccolomini, Duomo di Siena. sce in un dibattito e in una prassi educativa che,nel

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Eugenio Garin, Il pensiero pedagogico dell’Umanesimo) dedicato al giovane Ladislao, figlio nato postumo del re di Boemia Alberto II, al tempo sotto la tutela dell’imperatore Federico III4. L’opera, scritta come una lunga lettera in cui il Piccolomini si rivolge direttamente a Ladislao il Postumo, non nasce come un libro destinato allo studio, ma come una guida per il re decenne e per i suoi maestri, un percorso scolastico e umano proposto per l’educazione e la crescita morale e politica di un buon regnante. Il Trattato, nell’edizione sopra citata, è diviso in 40 sezioni: un lungo prologo che si conclude con un saluto e 39 capitoli dedicati ognuno ad un aspetto dell’educazione del re che si concludono con un altro commiato che sancisce la forma epistolografica del testo. Nella politica dell’opera i riferimenti alla corporeità e all’educazione del fisico hanno un ruolo per nulla secondario. A vari aspetti della cura del corpo sono dedicati cinque capitoli proprio all’inizio del testo: si tratta dei capitoli che vanno dal terzo al settimo. Questo significa che, nel pensiero di Piccolomini, non si può procedere a una corretta educazione grammaticale, retorica, letteraria, poetica, civile e politica senza prima assicurarsi che il futuro regnante abbia un fisico sano e adatto al suo ruolo e che per questi la cura del corpo, attraverso una dieta corretta ed un opportuno esercizio, rientri tra i costumi di vita più profondamente interiorizzati. Il primo di questi capitoli è intitolato Della cura del corpo; come si debbano nutrire i fanciulli. In apertura della trattazione il Piccolomini espone alcune questioni generali che poi verranno approfondite in seguito. L’autore ammonisce poi gli educatori (governatori, maestri, medici) contro l’indulgenza e l’eccesso di comodità che ne deriva. Una parte del capitolo è dedicata alla compostezza del viso e delle membra,compostezza che deve dare un’immagine del sovrano, sebbene bambino, sempre dignitosa: «il decoro dunque,va sempre mantenuto,nei movimenti e da fermi»5.Tale atteggiamento di contegno è definito da Piccolomini, sulla scorta di Platone, «tra i comportamenti civili»6 (in parte civilium actionum). Un gruppo di maestri specializzati nella cura del corpo dovranno, secondo il futuro papa, prendersi cura del fisico del principe badando «a conferire alle membra opportuna armonia e al tempo stesso robustezza»7.Un sovrano dovrà essere in grado di resistere alle difficoltà della guerra e della scomoda vita che si svolge negli alloggiamenti militari, quindi deve simulare la battaglia con esercizi opportuni ed abituarsi a vivere anche in modo spartano. Ben visti dal Piccolomini sono esercizi quali la caccia,anch’essa simulazione dello scontro militare, il tiro con l’arco e con la fionda, il lancio dell’asta, l’equitazione, la corsa, il salto e il nuoto. In generale sono accettabili tutte quelle attività che sono da considerarsi decorose. Accanto a esercizi propedeutici alla vita milita-


→ Giochi con la palla in una miniatura medioevale.

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1450, quando viene redatto il Trattato, già da diversi decenni ha visto svilupparsi le esperienze di Vittorino da Feltre a Mantova e Guarino da Verona a Ferrara: esperienze di educazione principesca che si estendono anche al patriziato locale, superando occasionalmente le barriere di ceto o genere e accogliendo anche studenti forestieri, per formare, insieme al principe, una classe dirigente preparata da un punto di vista culturale, civile e politico. L’esercizio fisico gioca un ruolo importantissimo in tutte queste esperienze educative concrete e testimoniate da numerose fonti narrative ed epistolografiche. La compostezza e il controllo del proprio corpo sono considerati parte integrante della formazione di un nobile e di un buon cittadino che, ad imitazione del civis romano idealizzato che segue il mos maiorum, è in grado di reggere la cosa pubblica e, all’occorrenza, di prendere le armi. Il trattato del futuro Pio II propone il controllo del corpo come preliminare all’educazione della mente, un primo passo verso l’interiorizzazione di un costume di vita (mos, habitus) equilibrato e giusto che dal re, secondo un’altra convinzione diffusa tra i pedagogisti rinascimentali e di enorme fortuna per tutto l’Antico Regime, si riverbera su tutto lo Stato e sul suo popolo. NOTE 1. E. Garin, La cultura del Rinascimento, trad. it. Roma-Bari,

Laterza, 1967, pubblicato originariamente in tedesco nel 1963; in particolare pp. 71-92. 2. M. Pellegrini, Pio II, papa, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2015, ad vocem. 3.Sul suo papato rimando a B.Baldi,Pio II e le trasformazioni dell’Europa cristiana (1457-1464), Unicopli, Milano 2006. 4. La traduzione di riferimento è in E. Garin, a cura di, Il pensiero pedagogico dello umanesimo, Giuntine-Sansoni, Firenze 1958, pp. 199-295. Sul trattato si veda anche il più recente C. Terreaux-Scotto, «L’éducation du prince dans le Tractatus de liberorum educatione», Cahiers d’études italiennes [online], 13 (2011), messo online il 15 aprile 2013, ultimo accesso il 22 febbraio 2018. URL: http://cei. revues.org/79. 5. E. Garin, Il pensiero pedagogico, pp. 209-211. 6. Ivi, p. 211. 7. Ibidem. 8. Ibidem. 9. Ivi, p. 215. 10. Ivi, p. 219.

Federico Piseri è dottore di ricerca in Storia Medievale (Università degli Studi di Milano) e cultore della materia in Pedagogia Generale e Storia della Pedagogia presso l’Università degli Studi di Pavia. Tra i suoi interessi di ricerca spiccano la cultura pedagogica e l’educazione epistolografica nel Rinascimento italiano.


Fan e hooligan nell’antica Roma Oggi come allora, il tifo rappresenta un aspetto ambivalente dello sport. Dall’esortazione di una vedova a non dimenticare il marito gladiatore morto giovane alle squalifiche degli anfiteatri per rissa, le emozioni e i comportamenti di chi sta sugli spalti sembrano ripetersi nella storia.

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di Mauro Reali

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i fa presto, quando si parla di sport nell’antichità, a parlare di Olimpiadi e di altri giochi atletici, ricordando magari come lo storico ottocentesco Jacob Burckhardt abbia definito l’uomo greco «uomo agonale»1. Gare sportive – tra l’altro – non mancarono neppure nel mondo romano, che però ebbe una smodata passione soprattutto per i ludi gladiatori: non è forse vero, come scriveva Giovenale, che il popolo era disposto a sopportare l’oppressione politica pur di avere panem et circenses (Satire, 10, 81)?2. E sicuramente i gladiatori – schiavi o liberi che fossero – erano atleti,in quanto addestrati professionalmente e opportunamente “palestrati”: come tali ce li presenta infatti l’iconografia, dai rilievi e mosaici antichi fino alle tele e alle incisioni di Giorgio de Chirico. La loro prestanza fisica – lo ricordano varie fonti, in primis Marziale e Giovenale – li rendeva inoltre desiderabilissimi al pubblico femminile di ogni età e condizione sociale: un tal Celadus, in un graffito murale di Pompei (CIL IV,4379),è addirittura definito suspirium puellarum, cioè “sospiro delle fanciulle”! Meno certo è il fatto che in epoca contemporanea si possa parlare di “sport” in relazione agli antichi agoni circensi, poiché oggi l’attività sportiva evoca (anche) il divertimento di chi lo pratica, oltre che di chi ne è spettatore. Ma non è dei gladiatori in senso stretto che voglio parlare – e qui vengo al “dunque” – bensì dei loro fan, i cui focosi comportamenti sembrano talora anticipare quelli dei moderni tifosi. Voglio ora farlo mostrando (mi si perdonerà la semplificazione) un esempio di tifo “buono”, affettuoso, un altro “cattivo”, degno dei peggiori hooligan.

← Stele del gladiatore Urbico, III secolo, Antiquarium, Milano.


I tifosi di un giovane gladiatore —

Cominciamo dal primo,che è un’iscrizione funebre ritrovata a Milano, databile forse al III secolo d.C. Eccone il testo latino e una moderna traduzione3: D(is) M(anibus) / Urbico secutori / primo palo nation(e) Flo/rentin(o) qui pugnavit XIII / vixit ann(os) XXII Olympias / filia quem reliquit mesi(bus) V / et Fortunesis filia{e} / et Lauricia uxsor / marito bene merent[i] / cum quo vixsit ann(is) VII. / Te moneo ut quis quem vic(e)/rit occidat; / colent Manes amatores ipsi/us

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Saperi / Fan e hooligan nell’antica Roma

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Agli Dei Mani. / Ad Urbico, inseguitore / di prima categoria, di origine / Fiorentino, che combatté tredici volte, / visse ventidue anni; Olimpia / (sua) figlia che lasciò di cinque mesi, / e la figlia Fortunense, / e la moglie Lauricia (dedicano), / al marito che ha ben meritato, / con cui visse sette anni. / Ti avverto, chiunque tu sia, che uccidi / chi hai vinto. / I suoi tifosi terranno viva la sua memoria. Urbico – molto probabilmente uno schiavo – doveva essere una star dell’anfiteatro di Mediolanum: era un inseguitore (secutor), e cioè uno di quelli cui spettava portare l’attacco con la spada, presenza fissa nei ludi al pari di quella dei retiarii. Ed era di origine fiorentina, come si ricorda con un orgoglio che sa di campanilismo e che sembra anticipare l’abitudine moderna (per esempio nel pugilato) di specificare – negli incontri di provincia – la città di provenienza degli atleti, per istigare tradizionali rivalità. La moglie Lauricia, rimasta sola con le figliolette Olimpia e Fortunense, gli approntò una stele che lo ritrae in azione, in uno dei tredici combattimenti durante i quali infiammò le folle: accanto a lui, anche l’amato cane. Ma il compianto, in questo caso, è accentuato da due frasi finali di estremo interesse e di grande commozione. Quella che precede (Te moneo… occidat) è sgrammaticata quanto basta, ma sembra esprimere una sorta di rimprovero a chi – vincitore – ha voluto finire senza pietà il povero Urbico, magari proprio come nella celebre tela Pollice verso di Jean-Léon Gérôme (1872); eppure anche l’uccisore non avrà potuto (forse) risparmiarlo, pena la riprovazione dell’arena milanese, dove – in epoca tarda – non doveva mancare tra gli spettatori l’imperatore Massimiano, che non lontano da qui aveva il suo sontuoso palazzo. Ad essa fa seguito l’invito della vedova agli amatores ipsius (cioè ai fan di Urbico), perché coltivino la sua memoria, e non dimentichino di onorarne i Mani. Forse Lauricia sperava che la tomba del giovane marito diventasse una sorta di luogo di culto per chi lo aveva osannato in vita; qualcosa di simile alla lapide di Superga che menziona i calciatori del “Grande Torino”, detti “invincibili” perché scomparsi giovani e in modo tragico: ho detto “scomparsi”, non “morti”, in quanto – come

ha scritto Indro Montanelli dopo il disastro aereo del 1949 – “il Torino non è morto, è soltanto in trasferta”. Come Urbico, no? Che da duemila anni è in trasferta presso gli Dei Mani.

Pompei, 59 d.C.: rissa, morti e squalifica dell’arena —

All’interno di un anfiteatro (così come di un moderno stadio) scattavano talora dinamiche particolari, che appartengono alla sfera della psicologia delle masse, della quale – prima di Sigmund Freud e Gustave Le Bon – già aveva parlato Seneca (Lettere morali a Lucilio, 7). Egli, turbato proprio dall’eccitazione collettiva degli spettatori dei ludi gladiatorii, scriveva: Nulla è poi altrettanto dannoso alla moralità quanto intrattenersi oziosamente in qualche spettacolo, perché in queste occasioni i vizi si insinuano più facilmente nell’animo attraverso il piacere. Che cosa credi che io intenda dire? Che ritorno più avido, più ambizioso, più incline alla sensualità, addirittura più crudele e inumano, per essere stato in mezzo alla gente4. Vale allora la pena di leggere quanto dice Tacito (Annali, 14, 17) a proposito di un “fattaccio” successo a Pompei nel 59 d.C., ai tempi di Nerone: Nello stesso lasso di tempo per lievi motivi scoppiò un conflitto feroce tra gli abitanti di Nocera e quelli di Pompei a proposito d’uno spettacolo di gladiatori, offerto da Livineo Regolo che, come ho già detto, era stato espulso dal Senato. La gente, con la mancanza di freni tipica di quelle città, incominciò con lo scambio di ingiurie, poi passò alle pietre, e finirono con l’impugnare le armi; ed ebbe la meglio la plebe di Pompei, dove aveva luogo lo spettacolo. Di conseguenza molti dei Nucerini tornarono nella loro città il corpo coperto di ferite, la maggior parte piangendo la morte di figli o di genitori. Il principe deferì il giudizio sul fatto al Senato, il Senato ai consoli; poi la cosa tornò ai Padri Coscritti e ai Pompeiani furono vietate per dieci anni riunioni del genere; e le loro associazioni, create illegalmente, furono sciolte. Livineo e quanti altri avevano provocato quell’incidente furono puniti con l’esilio5. Non c’è molto da dire: Tacito è, come al solito, preciso e dettagliato, e non si fa neppure mancare una punta di snobismo “nordico” (lui che forse era di origine gallica) verso la “mancanza di freni” degli spettatori campani. Dunque morti, feriti, squalifica dell’arena… Chi ha una certa età non può non andare con la memoria alla tragedia dello stadio Heysel, a Bruxelles, del 1985, quando durante la finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool ci furono 39 morti, originati dalla violenza degli hooligan e dalla impreparazione delle forze dell’ordine: un evento, questo, che ha cambiato molte cose nella storia del calcio e del moderno tifo.


c’è chi pensa che Livineo Regolo, finanziatore dei giochi, sia stato anche tra i mandanti e sobillatori dei disordini. Costui, esponente di una ricca e importante famiglia, era un politico in disgrazia che, dopo la sua espulsione dal senato, si era ritirato proprio a Pompei. Chissà, magari pensava che la populistica adesione alla causa dei Pompeiani defraudati di terre dai Nocerini, accompagnata – perché no? – dall’infiltrazione tra i tifosi locali di qualche picchiatore professionale, potesse essere l’inizio di una nuova avventura politica.Inutile che mi profonda in riflessioni su come anche ai tempi nostri qualche volta tifo (specialmente calcistico), faziosità politica e malaffare si intreccino fra loro in un abbraccio mortale.

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Quando Nerone guidò un carro alle Olimpiadi —

SAPERI / Fan e hooligan nell’antica Roma

Ma torniamo ai Romani e alla rissa di Pompei, con qualche altra considerazione. Anzitutto dobbiamo ricordare l’eco vastissima di quell’evento, il quale è menzionato da almeno due altri eccezionali documenti, che debbono essere vagliati. Il primo è nientemeno che un affresco pompeiano, che rappresenta con vista “a volo d’uccello” la rissa con straordinaria vivacità: mentre all’interno dell’arena i gladiatori combattono, i tifosi all’esterno se le danno di santa ragione. Poiché l’affresco è di soggetto particolare (per amatori del genere, diremmo noi) ed è stato realizzato a copertura di un altro affresco di tema gladiatorio, non è impossibile credere che la casa dove si trovava fosse di qualche “addetto ai lavori”, magari un impresario del settore circense6. Il secondo documento è invece pressoché inedito, ed è un’epigrafe latina di recentissimo reperimento a Pompei che – pare – faccia menzione dell’evento nell’ambito dell’elogio funebre di un impresario di giochi gladiatori. Dico “pare” perché il testo non è ancora stato reso noto, se non per una breve sintesi contenutistica, ed è pertanto d’obbligo la massima prudenza7. Inoltre è d’uopo alludere alle ragioni probabilmente extra-gladiatorie della rissa; infatti la rivalità tra fan di diversi gladiatori si nutrì di implicazioni politiche, se è vero che era stato Nerone a rifondare nel 57 d.C. Nocera come colonia Romana, assegnando ai Nocerini appezzamenti di territorio agricolo rivendicati dai Pompeiani 8. Tra l’altro,

Ultima, paradossale, nota. A comminare la squalifica decennale all’arena pompeiana fu proprio Nerone, l’imperatore forse meno titolato a dettar legge in materia. Non solo per la sua proverbiale passione per i giochi gladiatori, ma anche per una lunga serie di comportamenti anti-sportivi dei quali il principe – aspirante poeta, attore, atleta… – si rese colpevole.Tra tutti spicca quello descritto da Svetonio (Vita di Nerone, 24) in relazione a una sua partecipazione alle Olimpiadi, ove guidò il carro personalmente, cosa che di solito non facevano i proprietari dei cavalli. Scrive infatti il biografo:

← Zuffa tra pompeiani e nocerini, affresco da Pompei, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


In parecchi concorsi guidò anche il carro e, nei giochi olimpici, ne guidò uno a dieci cavalli, benché in un suo poema avesse biasimato re Mitridate proprio per questo fatto. Rovesciato però dal carro, benché vi fosse stato rimesso sopra, non riuscì a resistere e dovette rinunciare alla corsa prima della fine; ciononostante ottenne la corona9.

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Saperi / Fan e hooligan nell’antica Roma

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Jean-Léon Gérôme, Pollice verso, 1872, Phoenix Art Museum, Phoenix, Arizona. ↓

La scena dell’imperatore che rotola nella polvere della piana di Olimpia,dei giudici terrorizzati dalla sua possibile sconfitta, della successiva squalifica degli altri competitori, non è certo tra quelle che consegnano lo sport antico alla purezza (o alla retorica buonista?) solitamente associata alle parole del barone de Coubertin. Nerone non poteva perdere, perché la sua idea di impero – lontana dalla tradizione romana e nutrita di suggestioni ellenistiche – non glielo consentiva. Infatti uno dei suoi modelli era Alessandro Magno, leader giovane e atletico, di bell’aspetto, che vantava una discendenza da Zeus e che pertanto nessuno osava contraddire. L’imperatore romano, da par suo, non era alto, denunciava un po’ di sovrappeso, aveva gambe gracili ed occhi miopi; eppure il suo presentarsi come “uomo agonale” alla greca, era funzionale – come si è detto – al suo progetto politico: e se gareggiava era solo per vincere, senza se e senza ma. I suoi fan erano però prezzolati o timorosi, e nessun amator ne ha coltivato la memoria come avranno fatto quelli del gladiatore Urbico. Anzi, le sue nefandezze hanno indotto il senato a proclamarne la damnatio memoriae, cioè la cancellazione del nome dai documenti ufficiali: anche dall’albo

d’oro delle Olimpiadi, dunque! È stata così la Storia (con la S maiuscola) a squalificare il principe che aveva squalificato l’arena di Pompei e aveva impedito la vittoria dei suoi rivali sulla piana di Olimpia. La Storia – canta Francesco de Gregori – “dà torto e dà ragione”, e in questo caso ha dato ragione a un giovane schiavo (complice l’affetto della moglie e la fedeltà dei suoi fan) e torto all’ultimo dei discendenti del divino Cesare. Che sia proprio vero, allora, che La Storia siamo noi? NOTE 1. Sterminata e disomogenea la letteratura sullo sport nell’antichità. Consiglio dunque la consultazione passim della Enciclopedia dello Sport, Treccani, Roma 2002-2005 (alcune voci sono pure visibili al sito www.treccani. it); sulle Olimpiadi, da ultimo, si veda: E. Cantarella, E. Miraglia, L’importante è vincere. Da Olimpia a Rio de Janeiro, Feltrinelli, Milano 2016. 2.Su questi spettacoli,mi permetto solo qualche segnalazione bibliografica, e cioè: A. La Regina (a cura di), Sangue e arena. Catalogo della mostra (Roma), Electa, Milano 2001; F. Guidi, Morte nell’arena. Storia e leggenda dei gladiatori, Oscar Mondadori, Milano 2009, e il recente e problematico G.L. Gregori,Ludi e munera. 25 anni di ricerche sugli spettacoli d’età romana. Scritti vari rielaborati e aggiornati,LED,Milano 2011. Sull’impatto sociale dei ludi circensi, ancora insuperato il classico – più volte riedito - P. Veyne, Il pane e il circo, Il Mulino, Bologna 2013, spec. pp. 626 ss. 3. CIL V, 5933 = EDR124255 (S. Zoia); la traduzione è quella proposta da A.Sartori,Gente di sasso,Viennepierre editore, Milano 2000. 4. Seneca, Lettere morali a Lucilio, trad. F. Solinas, Mondadori, Milano 2007. 5. Tacito, Annali, trad. it. L. Storoni Mazzolani, in Storici Latini, Newton Compton, Roma 2013. 6. Sull’episodio è utile consultare D. L. Boomgardner, The Story of Roman Amphitheatre, Cambridge University Press, 2002, pp. 50 ss. 7. Una bella descrizione dell’affresco in E. La Rocca, S. Ensoli, S. Tortorella, M. Parini (a cura di), Roma. La pittura di un impero. Catalogo della Mostra, Roma, Scuderie del Quirinale, Skira, Milano-Ginevra 2009, pp. 118-120. 8. Tra gli organi di stampa che hanno menzionato il reperimento, «Il Sole 24 ore» al link http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-26/pompei-ritrovata-tomba-mecenate-spettacoli-gladiatori-151532.shtml?uuid=AERCAs3B 9. Svetonio, Vite dei Cesari, trad. it. F. Dessì, BUR, Milano 2011.

Mauro Reali docente di liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e direttore responsabile de «La ricerca».


Quattro poesie di Alessandra Carnaroli

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Le prime due poesie sono tratte da Ex-voto (Oèdipus, 2017), un’opera in cui il corpo è rappresentato nel momento del trauma, di fronte alla paura del dolore, del decadimento e della morte. La terza poesia è ripresa dalla raccolta Primine (edizioni del verri, Milano 2017). Ha scritto Andrea Cortellessa nella prefazione al libro: «Davvero questa scrittura povera che è la poesia di Alessandra Carnaroli si presenta come una scrittura del trauma. Ma non ha bisogno di ostenderne le stimmate: il trauma non è quello che ci mostra, bensì quello che è. Una parola che salta e si rannicchia in un angolo, una parola annegata, una parola dislessica: selvaggia come il nero cuore del mondo che, presto o tardi, farà in modo che moriremo tutti». La quarta poesia è tratta dalla raccolta inedita Poesie con katana.

mia madre è un torroncino sperlari fuori stagione invernale nessuno ha il coraggio di scartarlo sicuramente è andato a male dovrebbe finire nel secco non compostabile questo ritrovato chimico eppure edibile che sopravvive in funzione dei conservanti soluzione idratante sali minerali proteine edulcoranti sulla tua faccia ogni tanto smorfie che sembrano sorrisi. Ti lamenti e ti do la pillola penso sia un gesto di pietà estrema per i tuoi nervi coraggio che restano incatenati ai muscoli a volte immagino la tua morte come una scarcerazione dovrei nasconderti le lame nel pannolone

↑ F. Pasquali, Light yellow straws, 2014. © the artist.

SAPERI / Quattro poesie di Alessandra Carnaroli

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Saperi / Quattro poesie di Alessandra Carnaroli

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*** Una mamma non vorrebbe mai sapere di un figlio in queste condizioni le lastre sul tavolo come se scegli mutande dalle bancherelle è una mascella guardi questa, signora/o quella Ti spiegano del tumore le terapie e quant’altro lo dice il dottore la percentuale di possibilità Succede che ascolti ma non capisci bene è come vedere il meteo se piove ma in cinese ecco lo riconosce? Mi scusi ma di mio figlio più spesso vedo l’esterno *** mangio foglie scondite io bambina modella bionda con le costole a vista le extenscion da cubista mia madre si preoccupa per la mia adolescenza ma io a sette anni posso già fare senza

La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

pasta e pane potrebbe essere dice crepet una richiesta d’aiuto

Murini / inserisci un emoji sperimentiamo prima sui topolini ma in questo caso saltiamo diretti l’evoluzione della specie / cane che muove il sedere con cuore

↑ F. Pasquali, mostra Plastic Resonance alla Leila Heller Gallery di New York, settembreottobre 2016. Dettaglio. © the artist.

somministriamo cura per non perdere mi piace / faccia che strizza l’occhio e fa la linguaccia faccia che bacia genitore di bambino roditore fa audience / faccia sorridente con occhiali da sole wow cuore cuore

allora diamole un imbuto schiacciamo la banana ricominciamo dal semolino frulliamo il suo lettino la stanza i compiti papà e mamma versiamo a forza

Alessandra Carnaroli è nata a Fano e vive a Piagge; insegna in una scuola dell’infanzia. Ha pubblicato i libri di poesie Taglio intimo (2001), Femminimondo (2011), Animalier (2013), Sei Lucia (2014), Elsamatta (2015, finalista al Premio Pagliarani 2016), Primine (2017, finalista al Premio Pagliarani nel 2017), Ex-voto (2017).


Progetto SCUOLA AMICA

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dossier

Dossier / Quando i cheerleader erano maschi

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Quando i cheerleader erano maschi Solo apparentemente poco importante, il cheerleading, un fenomeno esclusivamente americano, mostra quanto diverse possano essere le concezioni di sport, di intrattenimento e di identità nazionale. E quanto i ruoli di genere siano cambiati negli ultimi decenni.

La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

di Natalie Guice Adams e Pamela J. Bettins

O

gni venerdì sera,nelle cittadine e nelle periferie ovunque negli Stati Uniti, persone di ogni tipo si riuniscono negli stadi, nelle palestre e nelle arene a fare il tifo per le squadre di football, basketball, wrestling o pallavolo locali.Al centro della scena ci sono i giocatori, ma appena un po’ più a sinistra, ai margini, si osserva un’altra presenza costante di questo grande spettacolo a stelle e strisce: le cheerleader. Come il jazz e il baseball, il cheerleading è un’icona culturale tutta americana. Al contrario del jazz e del baseball, però, non ha acquisito un ruolo di prestigio nella cultura nordamericana.Nessuna Hall of Fame è mai stata costruita per il cheerleading,che al


Un’esibizione di tre cheerleader della USC, University of Southern California, 1915, Wikimedia commons.

33 Dossier / Quando i cheerleader erano maschi

Orson Welles in un fotogramma del film Quarto potere, diretto da lui stesso, 1941.


Dossier / Quando i cheerleader erano maschi

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contrario è raffigurato spesso in luce negativa o non è preso molto sul serio. Scrivendo a proposito del cheerleading su Sports Illustrated, il giornalista Rick Reilly ha tracciato questa immagine: le cheerleader non hanno un impatto maggiore sulle partite di quanto ne abbia lo staff delle pulizie che di notte pulisce il campo da gioco. Basti pensare che loro il campo da gioco neppure lo vedono, essendo quasi sempre rivolte verso il pubblico. Prendendo in giro lo stupido boosterismo [un intraducibile termine che indica l’attitudine degli americani a promuovere attivamente ogni aspetto della loro vita,della città e della comunità cui appartengono, N.d.T.] che contraddistingue la cultura americana, per anni il Saturday Night Live ha messo in scena la figura della Spartan Cheerleader, un’oca giuliva la cui unica ambizione nella vita è tifare per la sua squadra. Del resto, quando si pensa al cheerleading, le immagini che vengono in mente sono un gruppetto di giovani ragazze scollacciate e in hot pants oppure la mamma texana finita in manette per aver cercato di uccidere la mamma della ri-

“All’inizio degli anni Cinquanta,

l’Università del Tennessee bandì il cheerleading femminile. Con scarsi risultati: a partire dal secondo dopoguerra divenne un’attività prevalentemente femminile. La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

vale della figlia. O ancora la superficiale Spartan Cheerleader del Saturday Night Live o le cheerleader liceali vestite con minigonne e paraorecchie che motivano le squadre di football nelle fredde serate di venerdì di tutto il Paese. Rimane però il fatto che i quasi quattro milioni di persone che partecipano al cheerleading negli Stati Uniti non sarebbero probabilmente d’accordo con queste immagini.

Una pratica dalle molte sfaccettature

— Pur essendo una pietra miliare della cultura e della vita americane, il cheerleading è tuttavia un’ icona ambigua, dal momento che assume significati diversi per persone diverse. Un’ambivalenza non certo nuova. Per molti si tratta solo di ragazze mezze nude che saltano senza senso col solo scopo di adorare gli atleti maschi. Per altri è un vero e proprio sport, che richiede lo stesso rispetto riservato ad altre forme di atletica. Alcuni ricordano come sia in grado di aprire le porte per un futuro di successo. Dopo tutto la lista di famosi cheerleader è piuttosto impressionante: i Presidenti Franklin Roosvelt, Dwight Eisenhower, Ronald Reagan, George Bush Sr e George W.Bush. Ma anche personaggi dell’industria dell’intrattenimento come Raquel Welch, Meryl Streep, Kirk Douglas, Halle Berry, Renee Zellweger, Sandra Bullock e Madonna, giusto per fare qualche nome. Mary Ellen Hanson, autrice di un approfondito resoconto storico del cheerleading negli Stati Uniti, sostiene che esso simbolizzi alcuni valori cardine della cultura americana: prestigio giovanile, attrattività, leadership fra coetanei e popolarità, ma anche eccesso di entusiasmo, sessualità reificata e superficiale boosterismo. L’industria dei film, dei video, della pubblicità e della televisione si è certamente accorta che l’immagine della cheerleader può essere usata per trasmettere significati specifici della vita sociale e culturale nordamericana. Tuttavia l’ambiguità culturale è presente anche qui. Pensiamo al video musicale di Toby Keith How do you like me now che rappresenta una studentessa di liceo intenta a respingere le avance di un famoso musicista. In questo caso la cheerleader è usata per rappresentare la brava ragazza americana con cui tutti

vorrebbero uscire. D’altra parte, quando Lester Burnham nel film American Beauty ha una crisi di mezza età e inizia a fantasticare rapporti extraconiugali, il suo desiderio si orienta sull’amica della figlia,Angela, una cheerleader apparentemente innocente ma molto seduttiva. L’immagine potente delle cheerleader non si limita ai licei e ai college. Esistono uniformi per bambine di due anni e pompon giocattolo per tenere i più piccoli occupati e calmi nelle partite di baseball e basket cui assistono i genitori. Esistono competizioni per bambine di quattro anni tenute da allenatrici che spesso sono state da giovani cheerleader. Ogni anno si moltiplicano i campi estivi, le lezioni e le classi private. Non fosse altro che per la sua diffusione, il cheerleading merita lo stesso interesse teorico in genere riservato ad altre forme culturali americane iconiche, come il jazz o il baseball. Ma, cosa più importante, studiare il cheerleading permette di evidenziare caratteristiche ancora più generali della vita americana. Esso è, infatti, un’immagine obliqua e una metafora della società statunitense. Come sottolinea Pamela Grundy in Learning to Win, la sua affascinante storia degli sport della Norh Carolina, «nella multi-sfaccettata società americana del ventesimo secolo, le istituzioni culturali più di successo sono state quelle che portano con sé significati multipli, piegati a scopi diversi. Il cheerleading è uno di questi».

Una forma di patriottismo su piccola scala

— Un attento esame del cheeerlading può in primo luogo dire molto sul patriottismo e sul nazionalismo americani. Possiamo infatti considerarlo una sorta di patriottismo su piccola scala, un vero e proprio nazionalismo locale. Le piccole cittadine


← Un gruppo di cheerleading del DuBois College, North Carolina, 1965.

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maschile, tanto da incarnare la virilità ideale. Le prime manifestazioni di cheerleading fecero capolino negli Stati Uniti alla fine del 1880. Durante alcune partite il pubblico iniziò spontaneamente a creare gruppetti per incitare le proprie squadre. Il primo caso di cui abbiamo notizia certa risale al 1894, presso la Princeton University. Il 2 novembre 1898 lo studente Johnny Campbell diresse il tifo del pubblico. In seguito l’Università del Minnesota organizzò una squadra di sei studenti maschi, che impiegarono e perfezionarono i cori di Campbell. Nel 1903 nacque la prima organizzazione di cheerleading, la Gamma Sigma. Ancora nel 1939 alle donne era vietato accedere alla squadre di cheerleading. Almeno a livello universitario cominciarono a entrarvi negli anni Quaranta, anche se in numero scarso, quando film, pubblicità e concorsi di bellezza iniziarono a utilizzare per fini commerciali la bellezza femminile. Nello stesso periodo, le confraternite femminili iniziavano ad avere più peso nella vita dei campus.Tutti cambiamenti che hanno fortemente influito sulla composizione delle squadre di cheerleading. Inoltre, la storia del cheerleading femminile scorre paral-

lela a quella dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro durante la Seconda Guerra Mondiale. In entrambi i casi, infatti, gli uomini furono costretti a lasciare il lavoro per andare a combattere, aprendo alle donne porte sino ad allora precluse. Tornati dalla guerra, gli uomini lottarono in tutti i modi per riguadagnare il posto perduto. All’inizio degli anni Cinquanta, l’Università del Tennessee bandì il cheerleading femminile. Con scarsi risultati: a partire dal secondo dopoguerra divenne un’attività prevalentemente per ragazze, specialmente nelle scuole primarie e secondarie. Negli ultimi decenni gli uomini sono rientrati in questo spazio ormai tutto femminile. Sono nati gruppi di cheeerleader gay e lesbiche, e altri che non supportano alcuna squadra specifica. In Nord Carolina ci sono perfino 15 gruppi di cheerleader anziani. Sono associazioni sportive che sconvolgono i nostri preconcetti sul ruolo del cheerleading. Dimostrano quanto individui e gruppi siano attivamente coinvolti nel ridefinire pratiche culturali e i significati della mascolinità, della femminilità e dell’orientamento sessuale, oltre che del cheerleading stesso.

Dossier / Quando i cheerleader erano maschi

di tutti gli Stati Uniti costruiscono la loro identità attorno alle squadre sportive del liceo. Lo si intuisce attraversandole in macchina. All’ingresso del paese ci si imbatte in cartelli con scritto, ad esempio, “Benvenuti a Shady Bluff, casa della della AA 1996 State Football Runner Ups”. Questa identità, che si focalizza sul talento della squadra atletica locale, include anche le cheerleader, presenti in quasi tutti gli eventi sportivi maschili, in particolare quelli legati al football e al basket. Il ruolo della cheerleader come la tipica ragazza americana sempre ottimista che guida il pubblico a tifare per la squadra anche quando sta perdendo incarna alla perfezione la quintessenza del patriottismo americano. In secondo luogo, uno studio del cheerleading è in grado di rivelare quanto i ruoli di genere negli Stati Uniti siano cambiati negli ultimi 135 anni. Al giorno d’oggi il 97% dei cheerleader sono di sesso femminile. Così come i giocatori maschi sono simboli della mascolinità ideale, le cheerleader sono percepite come le spose degli eroi del football, simboli della femminilità ideale. Pochi tuttavia sanno che il cheerleading è iniziato come attività esclusivamente


Un ideale di femminilità vincente

— Il cheeerleading è sintomatico di cosa significhi oggi crescere donna nel Paese a stelle e strisce. Sulla spinta del movimento del Girl Power degli anni Novanta, alle giovani americane si chiede di essere sicure di sé, in forma e atletiche. Ma allo stesso tempo

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Dossier / Quando i cheerleader erano maschi

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Per la visibilità pubblica che comporta il cheerleading rimane una meta ambita nell’altamente competitiva vita scolastica americana. Vi partecipano ogni anno quasi quattro milioni di persone.

anche giudiziose (ad esempio caste), attraenti e eterosessuali. Il cheerleading del ventunesimo secolo cattura perfettamente questa nuova visione ideale della femminilità. Per questo motivo rimane uno status per le ragazze. È uno degli spazi più visibili da abitare: conosciuto e apprezzato da chiunque, rimane una meta ambita nella vita scolastica americana,molto competitiva, grazie alla visibilità che regala. Nonostante il Title IX, la legge del 1972 per cui «nessuna persona può, sulla base del sesso, essere esclusa dalla partecipazione o sottoposta a una discriminazione in qualsiasi programma di istruzione o attività che riceve un contributo finanziario federale», e nonostante che gli exploits atletici di Venus e Serena Williams rappresentino un incentivo per tutte le ragazze americane a gareggiare negli sport competitivi interscolastici, il cheerleading rimane un’attività molto attraente. A partire dagli anni Ottanta, durante i quali le uniformi delle cheerleader si fecero sempre più succinte, le coreografie diventarono più elaborate, integrando passi di ginnastica e acrobazie da stuntman. Tanto che oggi molti

considerano il cheerleading uno sport agonistico a tutti gli effetti.

Nuovi mutamenti e nuove proteste

— Con la sua enfasi sulle acrobazie, i salti e la costruzione di piramidi umane, ma anche con la proliferazione di campionati regionali e nazionali del tutto slegati dalle squadre di basket e di baseball, il cheerlaeding offre alle giovani praticanti l’opportunità di dimostrare sia la loro femminilità sia la loro capacità atletica.Un nuovo approccio che non include più pompon, gonne a pieghe, scarpe stringate e canti, ma due minuti e mezzo di intensa attività fisica: capitomboli, piramidi umane, salti, canti e danze complicatissime eseguite di fronte a giudici e in competizione con altre squadre. Infine, lo studio del cheerleading dice qualcosa anche sulla difficile integrazione etnica delle scuole americane. Molto prima dell’abolizione della segregazione razziale nel Sud, le scuole nere avevano squadre di cheerleading che generalmente avevano stili diversi da quelle bianche, essendo influenzate per lo più dai blues delle chiese battiste. Dopo il 1945 la Corte Suprema, discutendo il caso “Brown contro il Consiglio Scolastico di Topeka”, stabili la fine della segregazione scolastica. Le squadre di atletica iniziarono così a integrare le ragazze di colore. Alle ragazze di colore fu vietato però di accedere a posizioni di prestigio nel cheerleading, un’attività che come già detto rappresentava in qualche modo l’ideale americano di femminilità. La selezione delle ragazze nelle squadre di cheerleading divenne una delle più spinose e controverse questioni legate alla segregazione scolastica nel Sud, tanto che in tutto il Paese si moltiplicarono proteste e sommosse. Non si limitarono alle comunità afro americane: la cre-

azione del Partito di La Raza Unida in Texas negli anni Settanta è almeno in parte attribuibile alla grande protesta scolastica che seguì la mancanza di cheerleader chicane in una scuola la cui composizione demografica era di 85 per cento di messicani. Nel 1969 a Chrystal City, in Texas, più di duecento fra studenti e genitori della Chrystal City High School scesero in piazza contro il consiglio scolastico, accusato di rifiutare programmaticamente studenti chicani nella squadra di cheerleading. Fu l’occasione per rivendicare anche il loro diritto di parlare spagnolo, di avere più insegnanti chicani e un curriculum di storia più in linea con il loro background.Per risolvere la crisi dovette addirittura intervenire il Dipartimento di Giustizia. Una storia di discriminazione meno lontana di quanto pensiamo. Ancora oggi le squadre di cheeerleading rimangono sproporzionatamente bianche, tanto che molti genitori sporgono denuncia contro i distretti scolastici presso l’Office for Civil Rights (OCR) per avere squadre più composite dal punto di vista etnico. Tratto da: N. Guice Adams e P. J. Bettins, Cheerleader! An America Icon, St. Martin’s Press ebook, 2015. Traduzione di Francesca Nicola.

Natalie Guice Adams è professore associato presso il College of Education dell’Università dell’Alabama e dal 1975 al 1980 è stata una cheerleader della Winnsboro, Louisiana.

Pamela J. Bettis è assistente al College of Education della Washington State University. Per ragioni che ancora le sono poco chiare, non fu scelta nella squadra di cheerleading del suo liceo.


La nascita dell’athleticism nelle public schools vittoriane La storia di come, nelle scuole inglesi della seconda metà dell’Ottocento, si cominciò a vedere nella pratica degli sport di squadra un importante strumento pedagogico.

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I

n questo articolo mi concentro sulle public schools dell’epoca vittoriana e, in particolare, sulle riforme del sistema educativo introdotte da Thomas Arnold, che fu preside della famosa scuola di Rugby dal 1828 al 1841. Per public schools si intende un numero limitato di collegi per ragazzi esistenti in Inghilterra e Galles. La designazione iniziò a essere utilizzata all’inizio del XIX secolo per definire una serie di grammar schools più importanti. Durante la seconda metà del XIX secolo, una specifica commissione, chiamata Clarendon Commission,indagò su nove tra le scuole più affermate del regno. Un rapporto pubblicato dalla commissione costituì la base del Public Schools Act, datato 1868. In questa legge, una public school era definita come un istituto aperto al pubblico pagante proveniente da qualsiasi parte del Paese, al contrario, ad esempio, di una scuola locale aperta solo ai residenti della zona o di una scuola religiosa frequentabile solo dai membri di una certa Chiesa. La legge riconobbe formalmente lo status di public school alle nove scuole oggetto dell’indagine della Clarendon Commission: Eton, Westmin-

ster, Winchester, Charterhouse, St. Paul’s, Merchant Tailors’, Harrow, Rugby e Shrewsbury. Durante il XIX secolo, queste scuole non attiravano solo i ragazzi aristocratici, anzi la maggior parte degli studenti proveniva dalle classi medio-alte. Uno di questi istituti era appunto la Rugby School, fondata nel 1567. Come molte di queste scuole, aveva inizialmente lo scopo di insegnare gratuitamente la grammatica ai ragazzi poveri della città di Rugby e dell’area circostante, nelle Midlands. Tuttavia, nei primi decenni del XVIII secolo era diventata la seconda più grande scuola in Inghilterra, con un sistema di houses per gli alunni residenti provenienti da tutte le isole britanniche e anche oltre.

All’origine dell’uso pedagogico dello sport

— Durante l’epoca vittoriana, il sistema educativo britannico subì alcuni importanti cambiamenti – come già detto – che alla fine portarono allo sviluppo dell’ideologia dell’athleticism, ossia alla voga delle pratiche sportive utilizzate come importante strumento pedagogico. Gli sport iniziarono ad avere un ruolo chiave nella formazione fisica e morale

dei giovani destinati a formare la classe dirigente,sia del Paese che dell’Impero. I figli dell’aristocrazia terriera giocavano da sempre a scuola ma,fino alla prima metà del XIX secolo, gli insegnanti non erano interessati a queste

I figli dell’aristocrazia terriera giocavano da sempre a scuola ma, fino alla prima metà del XIX secolo, gli insegnanti non erano interessati a queste attività.

attività; piuttosto, tolleravano i giochi degli studenti, punendo ogni occasionale comportamento scorretto. Una famosa frase, attribuita a Lord Wellington, dice che «La battaglia di Waterloo è stata vinta sui campi da gioco di Eton»: in realtà è abbastanza improbabile che il famoso generale abbia effettivamente potuto pronunciato simili parole,anche perché la realtà delle scuole del tempo non le giustificava: infatti, quando Wellington frequentò Eton – dal 1781 al 1785 – i giochi sportivi all’aria aperta non facevano parte del programma scolastico, basato sullo studio dei classici, anche se nel tempo libero gli studenti potevano scorrazzare per la campagna, pescando e cacciando. Questo modello sa-

Dossier / La nascita dell’athleticism nelle public schools vittoriane

di Enrico Martines


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Dossier / La nascita dell’athleticism nelle public schools vittoriane

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↑ H. Rousseau, I giocatori, 1908, l’anno della prima partita internazionale di rugby, fra Inghilterra e Francia, The Guggenheim Museum, New York.

rebbe rimasto intatto durante i cinquanta anni seguenti. Thomas Arnold, preside della Rugby School tra il 1828 e il 1841, fu uno dei più importanti riformatori del sistema educativo nelle public schools inglesi.Una descrizione piuttosto accurata della vita nella Rugby School degli anni Trenta può essere letta nel romanzo di Thomas Hughes, Tom Brown’s Schooldays, pubblicato nel 1857. L’opera è un punto di riferimento per il genere delle school novels inglesi e rappresenta, in un contesto finzionale, l’azione di Arnold sui rituali e sulle istituzioni scolastiche. L’autore, Thomas Hughes, un ex allievo di Rugby, scrisse il libro come una sorta di lezione, di guida per suo figlio. Il romanzo fu un grande successo, una delle opere più popolari della letteratura giovanile del XIX secolo. In esso, il giovane

Tom Brown, figlio di uno squire [un possidente]di campagna, viene inviato alla Rugby School, dove, attraverso una serie di lezioni morali – impartite anche sui campi di football e cricket – si forma secondo il modello del gentiluomo vittoriano. Il romanzo descrive aspetti importanti dell’organizzazione della scuola,come l’importantissimo prefect-fagging system, una pratica educativa tradizionale nei collegi britannici, in cui gli alunni più giovani erano tenuti a fungere da servitori personali per i ragazzi più anziani,in particolare quelli del Sixth Form, che corrispondeva all’ultimo anno di corso. Il sistema era nato come una struttura progressiva atta a mantenere l’ordine nei dormitori, limitando di fatto l’autorità l’autorità dei dirigenti scolastici ai soli momenti delle lezioni.

Il fagging implicava diritti e doveri ben definiti per entrambe le parti. L’anziano – a volte chiamato fag-master o prefect, o prepostor – proteggeva le sue matricole (o fags) ed era responsabile della loro buona condotta. In caso di problemi al di fuori della classe, lo studente giovane doveva rivolgersi a lui, non a un docente o al preside e, tranne nei casi più gravi, tutti gli incidenti erano trattati dal fag-master sotto la sua responsabilità e senza ricorrere all’intervento del corpo insegnante. Ovviamente, questo sistema spesso degenerava in abusi e atti di bullismo, come il romanzo di Hughes testimonia attraverso il personaggio di Flashman, il prepotente della School House, il cattivo della storia, colui che incarna gli aspetti negativi della vita scolastica.


Dallo sport alla teologia, attraverso l’etica —

nell’alunno, dell’autonomia responsabile. I ragazzi governavano le proprie questioni attraverso delle commissioni, chiamate levies. La levy del Sixth Form aveva piena autonomia sulle attività ricreative: riceveva le iscrizioni dei ragazzi agli sport, raccoglieva i fondi necessari e assumeva sportivi professionisti come istruttori. La politica della “porta aperta” di Arnold funzionò bene, dando inizio a una tradizione che continua ancora oggi. La crescita del culto per lo sport a Rugby può essere considerata come il prezzo pagato da Arnold per la cooperazione dei ragazzi nel mantenere la disciplina e realizzare le riforme che desiderava. Il secondo motivo per cui Arnold è importante nella storia dello sport è che ne definì i contenuti morali. Riportando le parole di Hughes, nella Rugby School di Arnold c’erano giochi “pagani” e giochi “cristiani”. Le attività “pagane” includevano forme di caccia e pesca di frodo e, naturalmente,il gioco d’azzardo. Invece, i giochi erano cristiani se praticati entro i limiti di

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Nella Rugby School si praticavano giochi pagani, il gioco d’azzardo, la caccia e la pesca di frodo, e giochi cristiani, fondati sull’etica.

una “condotta da gentiluomini”. Quindi, da un certo punto di vista, il contributo di Arnold alla storia dello sport moderno è fondamentale, perché ne circoscrisse l’etica. È generalmente riconosciuto che, nella prima metà del XIX secolo, i giochi tradizionali in Inghilterra, praticati fin dal Medioevo e caratterizzati da una certa dose di violenza e disordine, erano in costante e netto declino. La nuova Inghilterra delle classi medie esaltava l’industria e la moderazione: proprio il contrario di quanto caratterizzava i giochi popolari tradizionali.

Dossier / La nascita dell’athleticism nelle public schools vittoriane

Uno dei protagonisti del romanzo di Hughes è il Doctor,una rappresentazione immaginaria di Thomas Arnold, preside della Rugby School. Arnold era un devoto cristiano e credeva che la vita umana fosse una costante lotta contro il male. Considerava le dimensioni morali e spirituali della vita molto più importanti di quella meramente intellettuale. Per lui, il sistema scolastico doveva principalmente servire a costruire il carattere dei ragazzi e a preparare i giovani studenti alla vita adulta. Il suo scopo ultimo era formare dei Christian gentlemen. La religione doveva influenzare ogni aspetto della vita quotidiana. Arnold non rivoluzionò il sistema scolastico: lo migliorò secondo le sue convinzioni, rifiutando alcune parti e sviluppandone altre. Decise di sradicare dalla vita degli studenti alcune cattive abitudini, come il gioco d’azzardo, la distillazione dei liquori nelle loro stanze, il possesso di armi e la piaga del bullismo. Perfezionò il prefect-fagging system scegliendo personalmente i fag-masters secondo la loro statura morale e il loro senso di responsabilità. Un prepotente come il personaggio di Flashman in Tom Brown’s Schooldays – influente tra gli studenti a causa della ricchezza di suo padre – non sarebbe stato all’altezza del ruolo. Il prefect system creò quindi una struttura gerarchica che insegnava il servizio, il controllo e l’affidabilità, valori che erano considerati fondamentali per il funzionamento della società vittoriana. Erano anche più importanti della curiosità intellettuale e della brillantezza. Tom Brown incarna le virtù e la mentalità di questo sistema. La cappella della Rugby School divenne il cuore dell’istituto, dove Arnold espresse le linee guida della sua riforma nei suoi sermoni domenicali.

A Thomas Arnold è stato spesso attribuito un ruolo importante nello sviluppo dell’athleticism e dei “giochi organizzati” nell’educazione dei ragazzi. Tuttavia, occorre puntualizzare che probabilmente il maggiore contributo diretto della famiglia Arnold alla pratica sportiva venne dalla moglie di Thomas, Mary, che ebbe l’idea di riservare abiti speciali per il football per risparmiare i normali vestiti dei ragazzi dal fango. In Arnold non si riscontra lo stesso entusiasmo per l’elemento fisico e atletico che aveva caratterizzato la scrittura di Tom Brown’s Schooldays da parte di Thomas Hughes. È con qualche difficoltà che possiamo inquadrare la sua opera nella prospettiva della Muscular Christianity, il movimento teologico, fondato 15 anni dopo la sua morte, che abbinava la cura della salute fisica e della “mascolinità” allo sviluppo della moralità cristiana, considerando entrambi gli aspetti dei doni di Dio e puntando, anche attraverso la pratica sportiva, alla formazione di cristiani forti e dal carattere “virile”. Il successo di questa corrente di pensiero contribuì in modo decisivo all’educazione delle classi dirigenti, in Gran Bretagna e nelle terre controllate dagli inglesi. Tuttavia,la gestione di Arnold fu fondamentale per lo sviluppo dei giochi organizzati per due motivi: innanzitutto, perché li consentì. Fino al suo arrivo i ragazzi della Rugby School praticavano molti tipi di giochi e competizioni atletiche, e continuarono a farlo dopo la sua morte. Si può obiettare che non avesse altra scelta se non tollerare questa consuetudine, e che qualsiasi tentativo di proibire o controllare un aspetto così centrale nella cultura dei ragazzi avrebbe potuto essere fatale per la sua direzione. In ogni caso, Arnold credeva fermamente in un caposaldo dell’ortodossia educativa liberale: lo sviluppo,


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William Webb Ellis dà inizio al gioco del rugby, cromolitografia anonima, 1893, apparsa su un testo scolastico d’epoca vittoriana. ↓

In breve, a coloro che volevano praticare i giochi tradizionali mancavano sempre più il tempo, lo spazio e la libertà necessarie. Al contrario, i ragazzi della Rugby School avevano tutte queste cose a disposizione: avevano lunghi pomeriggi per le attività ricreative; avevano un pezzo di terra recintato, “the Close”, ben adeguato allo scopo; e questo significava che non dovevano più dedicarsi a giochi improvvisati nei cimiteri locali, come facevano una volta. I loro giochi discendevano da quelli tradizionali della zona, ma rinnovati dai ragazzi provenienti da altre regioni e persino da altri Paesi. Principalmente, non avevano interferenze, né da parte delle autorità scolastiche né da quelle civili. E le famiglie di molti studenti disponevano di denaro da investire nelle strutture da dedicare ai giochi. Sicuramente, la tradizione ludica britannica fu rianimata nelle public schools. Il cricket, che era già un gioco molto popolare sia tra le classi alte che tra la gente comune,

acquisì in questa fase lo status di disciplina morale, capace di infondere valori come spirito di squadra, cooperazione, lealtà, rispetto della leadership, rispetto delle decisioni dell’arbitro, dignità sia nella vittoria che nella sconfitta. Carattere ed eccellenza morale uniti nelle nozioni di sportività e fair play,che il cricket rappresentava al più alto livello. Il gioco fu associato a espressioni come “playing with the team”, “keeping a stiff upper lip”, “playing with a straight bat”, che assunsero un significato metaforico; la frase “it is not cricket” cominciò a essere usata per significare “non è equo, non è accettabile”.

L’origine (mitica) del rugby —

Venendo al football, dobbiamo prima sottolineare che c’erano vari modi di praticare questo gioco, che questo esisteva in alcune forme popolari da molti secoli e che, al tempo di cui stiamo parlando, quasi ogni public school aveva la propria versione

di football. La scuola di Rugby, ovviamente, aveva il suo che sarebbe stato all’origine del moderno gioco del rugby. Ma tutti quei giochi erano football, tutti usavano in diversa misura sia le mani che i piedi e la distinzione tra rugby e calcio non esisteva ancora, si sarebbe verificata più tardi. L’origine del gioco del rugby, secondo una tradizione radicata, si dovrebbe a un episodio occorso nel 1823 alla Rugby School, quando uno studente, William Webb Ellis, avrebbe preso la palla tra le mani e, contravvenendo alle regole del tempo, avrebbe cominciato a correre in avanti, così iniziando la tradizione del rugby football, opposta a quella del gioco che privilegiava l’uso dei piedi. Questo è solo un mito, un episodio che molto probabilmente non è mai accaduto: non vi è alcuna certezza storica della sua effettiva occorrenza, non c’erano regole scritte in quel momento ed Ellis non poteva essere il primo giocatore a correre con la palla tra le braccia. È stato


avevano prestato servizio a Rugby, agli ordini di Arnold o dei suoi successori, erano diventati presidi di altre importanti scuole, creando una rete professionale e favorendo un nuovo concetto moderno di sport nelle scuole pubbliche: un football giocato entro tempi e in luoghi fissi, su terreni contrassegnati da linee bianche; squadre con un numero di giocatori definito e guidate da “capitani”; esistenza di regole scritte e stampate; nascita di una terminologia specifica; divise da gioco, come le maglie bianche della School House di Rugby, presto adottate dalla nazionale inglese. Ma, in questo processo, i ragazzi di Rugby furono più importanti dei presidi: in effetti, queste caratteristiche, oggi presenti negli sport moderni, furono sviluppate in piena autonomia dagli studenti di Rugby a metà del XIX secolo, e hanno direttamente influenzato una mezza dozzina di versioni di football, compresi i codici nazionali di Australia, Canada e Stati Uniti. L’ideale dell’athleticism si affermò definitivamente e l’esercizio fisico fu utilizzato come un mezzo altamente efficace per inculcare preziosi e funzionali obiettivi educativi, come il coraggio fisico e morale, la lealtà e la cooperazione, la capacità di agire in modo equo e di prendere bene la sconfitta, la capacità di comandare e di obbedire. Erano soprattutto gli sport di squadra a essere considerati molto efficaci per insegnare quei principi essenziali per il buon funzionamento della società vittoriana, esportati in tutto l’Impero dai funzionari che si formavano nello stesso sistema scolastico, giacché appartenenti alle classi dirigenti. La nuova élite allargata, formata da membri della nobiltà e dell’alta borghesia, condivideva la stessa educazione, giocava insieme sugli stessi campi scolastici e così si creava un legame che garantiva la coesione della società vittoriana.

Lo sviluppo degli sport in Gran Bretagna può essere considerato come parte di un più ampio processo verificatosi nella cultura europea del XIX secolo, che pose generalmente l’accento sulla cura del corpo e portò alla moda della ginnastica prussiana e scandinava, normalmente

“I ragazzi di Rugby furono

più importanti dei presidi: le caratteristiche oggi presenti negli sport moderni furono sviluppate da loro in piena autonomia.

legata al nazionalismo e al militarismo. Ma lo sport britannico era qualcosa di diverso rispetto a questa tendenza romantica che sottolineava l’importanza dell’allenamento fisico. I giochi di squadra aggiungevano una componente ludica e morale che mancava alla ginnastica. La cultura dell’athleticism divenne una parte dominante dell’istruzione dell’élite britannica. Gli sport divennero obbligatori in molte public schools e le abilità atletiche cominciarono ad avere la precedenza sul profitto accademico.La frase più comunemente usata per condensare la filosofia della Muscular Christianity era il motto di Giovenale “Mens sana in corpore sano”. Ma per Thomas Hughes e altri pensatori britannici, una mente sana non significava soltanto una mente colta, ma una moralmente pura. Enrico Martines è docente nel Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali presso la Università di Parma. Oltre che di letteratura portoghese e brasiliana, si occupa anche degli aspetti socioculturali della storia dello sport in Gran Bretagna e nell’Impero britannico, nonché del legame tra identità nazionale e sport. Su questo argomento ha scritto Play the game! Come gli inglesi inventarono lo sport moderno, Libreria Universitaria Edizioni, Padova 2016.

41 Dossier / La nascita dell’athleticism nelle public schools vittoriane

diffuso per ragioni la cui spiegazione eccederebbe lo spazio e lo scopo di questo articolo. Molto più importante dell’episodio di William Webb Ellis, per la futura storia del rugby, è stata la descrizione di una partita di football in Tom Brown’s Schooldays. Anche se frutto di una finzione narrativa, fu questa partita a portare il gioco e i suoi valori fuori dalla scuola, in Gran Bretagna e in tutto il mondo.La futura popolarità del codice di football della Rugby School è dovuta in gran parte al notevole impatto di questo romanzo. Qualunque cosa si possa pensare di Hughes, come romanziere o moralista, non ci possono essere dubbi sulla portata del suo lascito. Sebbene non sia molto studiato nei dipartimenti di letteratura, infatti,il romanzo è ancora ampiamente letto e ha ispirato diversi libri e film contemporanei.I suoi temi di virilità, sportività, dovere cristiano, resistenza fisica e morale al bullismo, divennero una sorta di ortodossia morale ed educativa in tutto l’impero britannico. Hughes fu molto influente anche negli Stati Uniti (dove fondò due città chiamate Rugby) e, attraverso scrittori come Hippolyte Taine e Pierre De Coubertin, in Francia. Il modello della Rugby School si diffuse in tutto il Paese. Il rapporto della commissione Clarendon lo aveva apertamente appoggiato, elogiando la Rugby School come una «istituzione nazionale, un luogo di educazione e fonte di influenza per l’intero Regno». Le scuole più vecchie, come Harrow, riformarono il curriculum secondo le linee dettate da Arnold e i nuovi istituti, come Hailebury e Clifton,adottarono integralmente la filosofia di Rugby. In effetti, le aspettative della classe media riguardo la vita nelle public schools si plasmarono, in gran parte, attraverso la lettura del libro di Hughes e questo fece sì che molte scuole adottassero i suoi principi per attrarre nuovi studenti. Nel 1870, undici docenti che


Manovali ovali Fin dalle sue origini, il rugby ha prestato una grande attenzione alla dimensione educativa dei ragazzi. Un buon tecnico è anche un bravo educatore, che sa sfruttare al meglio le potenzialità di questo sport per aiutare i ragazzi a crescere, integrando energia e rispetto delle regole. 42

La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

Dossier / Manuali ovali

di Nicola De Cilia

T

utti gli amant i d e l r u g by conoscono la leggenda di William Webb Ellis, colui che durante una partita di football – siamo nella cittadina di Rugby – forse annoiato di stare in porta, improvvisamente prese la palla con le mani e iniziò a correre verso il fondo del campo, tra il probabile stupore degli avversari e la sicura irritazione dei compagni. Nasceva così, secondo la leggenda, un nuovo sport, che presto adotterà una palla ovale. Non tutti sanno, invece, che la diffusione del rugby è dovuta a Thomas Arnold. Sir Thomas Arnold nel 1828, a soli 33 anni, divenne preside della Public School di Rugby e non tardò ad accorgersi delle potenzialità dello sport come pratica educativa, in particolare quello giocato nei prati del suo College. Arnold, teologo anglicano, era un pedagogista rivoluzionario: riteneva il rugby «un antidoto all’immoralità e una cura contro l’indisciplina». Il College di Rugby divenne un modello per la riforma del sistema educativo britannico, in cui l’attività sportiva svolge un ruolo chiave per la formazione del carattere [vedi per un approfondimento l’articolo precedente, N.d.R.].

Più o meno negli stessi anni, in Italia, un giovane poeta affermava che «il corpo è l’uomo», e continuava: «tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. [...] Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito»1. Giacomo Leopardi (il poeta in questione è lui) evidenziava i limiti della pedagogia italica, viziata di idealismo: due secoli dopo, lo stretto nesso tra corpo e educazione da noi continua a essere negletto. Nei dibattiti sulla “(buona) scuola”, il tema dell’attività sportiva ha svolto il ruolo dell’elefante nella stanza: si dimentica ancora una volta il corpo, «cosa bassa e abietta», preferendo le chiacchiere sullo «spirito». In Italia, l’attività motoria è da sempre delegata ad agenzie esterne, e le due ore di ginnastica a scuola, in palestre spesso fatiscenti (quando ci so-

no), assumono il sapore di una farsa. Di qui, l’importanza delle società sportive, agonistiche o meno, nella crescita e formazione giovanili. Il rugby è un gioco che si basa essenzialmente sul concetto di avanzamento e di conquista, ogni centimetro è importante e quindi si gioca per guadagnare spazio, si lavora sulla resilienza, sulla caparbietà, sulla determinazione. Poi c’è il sostegno: il giocatore più avanzato è il giocatore con la palla, non può vedere cosa succede dietro ma spera che ci sia sempre qualcuno dei suoi compagni ad aiutarlo. Nel calcio o nel basket si può lanciare la palla in avanti, basta avere un opportunista in grado di creare una situazione pericolosa nell’area avversaria, ma nel rugby non è possibile: con le mani, la palla deve sempre essere passata indietro e quando la calci in avanti può giocarla solo chi al momento del lancio era dietro la palla. E poi il rugby è un gioco troppo intelligente per essere limitato allo scontro: prima di essere uno sport di contatto, è un gioco di evitamento che prevede uno spartito corale. Qualcuno obietterà che rimane uno sport aggressivo: può darsi, ma se chi sta vicino ai bambini riesce a renderli consapevoli di che cosa è la pau-


ra, di come si sta nella paura, è un’occasione di crescita fantastica. Siamo una società in cui le emozioni bisogna tenerle per sé, non si può essere tristi, non si può essere impauriti. Il rugby queste cose le affronta.

I valori della palla ovale

far fatica: solo così il rugby può diventare un modo di essere». Salvio Esposito, uno psicologo che si è inventato una squadra di rugby a Scampia, mi ricorda che lo sport ha una finalità doppia, agonistica ed educativa. «Sono le due ali che lo devono sostenere. Come un uccello, senza una delle due non vola». E poi aggiunge: «Il rugby appare come una esperienza di follia ritualizzata e istituzionalizzata: cosa c’è, in fondo, di più folle che gettarsi sulle gambe di un avversario più grande di noi lanciato a tutta velocità? Tale esperienza permette un contatto con nuclei molto profondi,al pari di altre esperienze iniziatiche e rituali,e consente una crescita in special modo sul versante emotivo. Esperienze irrinunciabili per un adolescente e perciò ricercate nelle circostanze più disparate: nello sport, ma anche nei gruppi spontanei con obiettivi legati alla devianza o all’assunzione di sostanze stupefacenti fuori o dentro determinati contesti, come rave party, discoteche, o bande più o meno connotate.Appare chiara la funzione preventiva che il rugby può esprimere, particolarmente in contesti di degrado dove le esperienze adolescenziali di tipo iniziatico e rituale vengono gestite nella devianza

43 Dossier / Manuali ovali

— Tra il 2014 e il 2015 ho viaggiato per l’Italia, incontrando allenatori, dirigenti, psicologi sportivi, atleti, giocatori, psicoterapeuti, giornalisti. Ne è sortito un libro, Pedagogia della palla ovale (Edizioni dell’Asino, 2015), in cui racconto “lo stato dell’arte”, e descrivo un’umile Italia (il rugby resta uno sport minoritario) che con i suoi “manovali ovali” cerca di rallentare un disastro annunciato: quello di una nazione che non ama i suoi giovani. «Adesso si rendono conto che stiamo crescendo una nazione di imbranati – mi ha detto Massimo Borra, insegnante Isef –. In Italia la scuola non si è mai occupata dell’attività sportiva in maniera seria e ha sempre demandato al privato. Il rugby è una delle attività più complete: se fossi il ministro della pubblica istruzione farei praticare in ogni scuola rugby e nuoto». Ma non è solo una questione

di deficienza motoria. Franco Ascantini, uno dei tecnici che negli anni Ottanta ha contribuito alla crescita dell’Italia rugbistica, afferma con convinzione che essere rugbisti aiuta a diventare cittadini. Un aspetto educativo fondamentale del rugby sta infatti nell’imparare a lavorare insieme: una necessità per chi gioca che diventa una delle caratteristiche della persona. Il senso del collettivo lo si apprende da ragazzi e diventa un modo per affrontare le cose. Un grande valore per un Paese come il nostro, da sempre attento al “particulare”. Ino Pizzolato, allenatore della Tarvisium, dice ai suoi ragazzi che prima o poi in mezzo al campo capiterà loro di sentirsi impotenti,d’aver bisogno di guardarsi attorno, e il singolo può farcela solo se ci sono 14 compagni che lo prendono e lo portano avanti. «Ti senti talmente stanco, talmente confuso, dominato da quello davanti da renderti conto che da solo sei nudo, non ce la fai: hai bisogno degli altri 14 che ti aiutino ad andare avanti, che ti dicono di non preoccuparti. Bisogna che ognuno dentro di sé sia disposto a farlo per gli altri 14, a prendersi anche la fatica e la sofferenza altrui. Imparare a

← A. Friberg, The First Game, 1968, dipinto commemorativo del centenario della prima partita di football giocata negli Stati Uniti.


Dossier / Manuali ovali

44 ↑ Una partita di rugby nei primi anni Cinquanta.

o nella criminalità organizzata». Per lo psicoterapeuta Mondini, che ha fondato una squadra di ragazzini a Castel Volturno, uno degli elementi fondamentali del rugby è dato dalla compresenza di numerose regole e di un’energia altissima. «Non è un gioco dove 30 giocatori corrono come forsennati, dove si può far tutto, anzi, si possono fare davvero poche cose, però nel frattempo l’energia richiesta per fare queste cose è altissima; e proprio questa capacità di integrare l’energia con la struttura delle regole che governano il rugby è il primo elemento.Per un bambino,crescere con questa idea di integrazione tra energia e struttura è una cosa importantissima, fondamen-

La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

Approfondire —

• F. Fabbri, M. Ghisi, K. Marino, Lo psicologo dello sport nel futuro del rugby, a cura di A. Bargnani e M. Borra, Cleup, Bologna 2015. • F. Sferragatta, Le mete dell’allenatore. Prospettive di psicologia dello sport per l’allenatore di rugby, Franco Angeli, Milano 2013. • J.W. Coetzee, Appunti sul rugby, in Doppiare il capo, Einaudi, Torino 2011. • Io sono un campione, film di Lindsay Anderson, UK 1963.

tale, bellissima, una capacità che non vale solo per lo sport ma anche per la vita: se uno ci pensa, l’uomo è fatto di questo, energia e struttura, se uno è solo energia, fa il cavallo pazzo, se è solo regole, sta fermo, non fa niente. La capacità di integrare è alla base dell’idea di uomo sano, prima ancora che atleta sano, e nel rugby questa idea mi sembra un elemento fondante. La sfida è proprio questa: restare dentro le regole ma con tutta la vita, non subendole». Certo, il rugby da solo non salverà l’Italia, ma rappresenta una sfida, interpretata al meglio nelle sue mille periferie più o meno dimenticate e polverose. Senza mai scordare che i valori educativi ci sono dove ci sono buoni educatori, e un buon allenatore deve essere anche educatore. Pensare che il rugby sia in sé educativo è un errore. Sono le persone che lo rendono educativo,che attuano le sue potenzialità. Marzio Innocenti, presidente del Comitato regionale Veneto, usa una metafora interessante per chiarire il lavoro dell’allenatore: «Un tecnico che va a lavorare in una squadra giovanile è come un minatore che va in una miniera di diamanti: un buco pieno di sassi; se tu non sai come sono e dove sono i diamanti, non ne tirerai mai fuori uno. I bambini, i ragazzini, sono veramente come una miniera di diamanti. La cosa bella dell’essere bambino è che tu potenzialmente potresti essere qualsiasi cosa,

un premio Nobel o un grande campione. A volte uno ci arriva anche senza aiuto, ma è importante che ci sia chi scopre questi talenti, un cercatore di diamanti.Abbiamo persone di buone volontà,ma che non hanno i mezzi. Avrebbero bisogno di qualcuno che insegnasse loro a cercare le venature dietro cui si nascondono i diamanti. Se non riesci a riconoscere, in mezzo ai tanti errori, quella piccola cosa giusta che un bambino fa, come fai a valorizzarlo? Un bravo tecnico dovrebbe sviluppare una forma di rabdomanzia». Chiudo con una proposta e un appello: al posto di inutili e verbosi corsi di aggiornamento, mandiamo gli insegnanti di lettere, matematica, scienze a giocare a rugby: può darsi che imparino a scoprire diamanti. NOTE 1. Giacomo Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in Operette morali, Feltrinelli, Milano 1992, p.229.

Nicola De Cilia

vive e lavora in provincia di Treviso, dove è nato nel 1963. Ha pubblicato un romanzo, Uno scandalo bianco, (Rubbettino 2016) e ha curato per le edizioni dell’Asino l’antologia di Giovanni Comisso, Viaggi nell’Italia perduta (2017). Va spesso allo stadio di rugby di Treviso a seguire la Celtic League.


Perché i cinesi non sanno giocare a calcio? Gli atleti cinesi sono eccellenti negli sport individuali, in particolare quelli che richiedono la perfezione di un gesto, ma sono molto deboli in tutti gli sport di squadra. Le cause stanno nelle particolarità del sistema educativo e in tratti culturali più profondi e non facilmente modificabili.

45 Dossier / Perché i cinesi non sanno giocare a calcio?

di Nicholas Gineprini

N

el 2015 la Cina ha lanciato un piano di riforma nazionale del calcio con l’obiettivo di qualificarsi ai mondiali e di vincerli entro il 2050.La più popolosa nazione del mondo, infatti, è una super potenza negli sport ed ha ottenuto numerosi suc-

cessi alle Olimpiadi, ma non per quanto riguarda il calcio: la nazionale maschile ha partecipato a una sola edizione della Coppa del Mondo, nel 2002, perdendo tutte e tre le partite del girone.Risulta evidente che la Cina è una nazione eccellente negli sport individuali, mentre ha delle grandi

carenze in quelli di squadra; una contraddizione per una nazione che, definendosi comunista, dovrebbe fare delle collettività il cardine della società. Nelle Olimpiadi estive, la Cina ha vinto, in tutta la sua storia agonistica,69 medaglie nei tuffi, 54 nel sollevamento pesi, 73 nel-

← Allenamento ai tiri di testa in una scuola calcio cinese.


La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

Dossier / Perché i cinesi non sanno giocare a calcio?

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↑ Una lezione di calcio in una scuola cinese, Wikimedia commons.

la ginnastica, 53 nel tennistavolo, 56 nel tiro, 41 nel badminton, 43 nel nuoto, 27 nell’atletica e 22 nel judo. Queste medaglie, arrivate tutte da sport individuali, rappresentano l’80% del totale. Le uniche vittorie in sport collettivi conquistate dalla Cina riguardano il volleyball (3 ori, 1 argento e due bronzi), il canottaggio (1 oro, 4 argenti e 4 bronzi),il nuoto sincronizzato (3 argenti e 2 bronzi).Altri risultati minori: un argento e un bronzo nel basket e nel beach volley; un argento nell’hockey su prato e nel soft ball, infine un bronzo nella pallamano. E soprattutto va poi considerato il fatto che la stragrande maggioranza delle medaglie negli sport di gruppo sono state conquistate da squadre femminili. Tornando al calcio, la nazionale maschile non ha mai vinto una Coppa d’Asia, mentre le ragazze, chiamate anche Steel Roses, sono salite per ben otto volte sul trono d’Asia e hanno disputato, pur perdendo, le finali della Olimpiade di Atlanta e della Coppa del Mondo, sempre

negli Stati Uniti, nel 1999. Per capire come mai la Cina sia tanto forte negli sport individuali e altrettanto debole in quelli di gruppo (eccezion fatta per le squadre femminili) dobbiamo analizzare la cultura del popolo cinese e il suo sistema scolastico.

L’educazione fisica nelle scuole cinesi

— I cinesi progettano di costruire entro il 2025 ben 50.000 “scuole calcio”. Ma cos’è per i cinesi una scuola calcio? I giovani italiani si allenano nel pomeriggio in strutture esterne al loro istituto scolastico, gestite da club calcistici cui sono iscritti. In Cina l’intera attività si svolge invece all’interno delle scuole nella stragrande maggioranza dei casi, per cui quello cinese è un sistema più simile al modello americano. in Cina, dunque, con “scuola calcio’ si intende un istituto che rispetta certi parametri infrastrutturali ed è dotato di tecnici qualificati a insegnare questo sport.

La grande differenza fra le scuole italiane e quelle cinesi riguarda gli orari. Sin dalle elementari i bambini cinesi iniziano le attività giornaliere alle 7:30, nella pre scuola,durante la quale spesso svolgono semplici esercizi fisici, praticano il risveglio muscolare o più semplicemente fanno una corsa nel cortile. Le lezioni sui banchi partono alle 08:30 e durano fino alle 12:30; dopo due ore di pausa pranzo, seguono altre due ore di lezione. Ma le attività non finiscono alle 16:30, perché a quest’ora inizia la post scuola, durante la quale i bambini svolgono i compiti e praticano attività extracurriculari di vario genere oppure sport di squadra. Nelle scuole primarie si svolgono ogni settimana tre lezioni di educazione fisica della durata di 50 minuti. Il tempo non manca, quindi; il problema sta nelle dimensioni delle classi, che negli istituti pubblici possono arrivare a 50-60 alunni. In tale contesto, l’insegnante di educazione fisica può dare indicazioni generali,ma sicuramente non può seguire nel dettaglio i singoli studenti. Inoltre, gli stessi insegnanti spesso non possiedono le conoscenze necessarie per poter insegnare calcio, dato che questo sport non ha mai fatto parte della cultura popolare cinese. Proprio per questo, uno dei punti cardine della riforma in atto sta nella formazione degli gli insegnati di educazione fisica affinché si impadroniscano degli strumenti della didattica calcistica.

Dal gesto linguistico a quello atletico

— La maggiore differenza fra i sistemi culturali occidentali e orientali risiede nella lingua, scritta e parlata. Noi utilizziamo un alfabeto e costruiamo le parole con le lettere, mentre in Cina e nei Paesi dell’Est asiatico si fa uso di radicali, che combinati fra loro in vario modo danno vita


L’intelligenza emotiva

— Un altro concetto importante per avvicinarci al nostro problema è quello di intelligenza emotiva: la capacità di distinguere e controllare i sentimenti e le emozioni,proprie e altrui,utilizzando queste informazioni per guidare i propri comportamenti. Gli psicologi che studiano questa forma di intelligenza individuano tre parametri basilari, misurabili attraverso un test specifico, il Wong’s Emotional Intelligence Scale (WEIS): l’attitudine a valutare ed esprimere le emozioni; la capacità di regolarle e tenerle sotto controllo; l’abilità nell’usarle nell’interazione sociale. Ebbene, una documentata ricerca scientifica, Emotional Intelligence and Leadership Styles in China, dimostra come i cinesi possiedano parametri più bassi di intelligenza emotiva rispetto ai coetanei occidentali. E questa differenza ha un’importante correlazione con la capacità di praticare giochi di squadra come il calcio, in cui altri studi recenti hanno dimostrato l’importanza della intelligenza emotiva. È questa una forma cognitiva più delle altre influenzata dalla società in cui si vive, dalla storia, dalla cultura e dalle tradizioni. Sebbene le emozioni di base siano universali, il modo per esprimerle varia moltissimo in culture differenti. La gioia viene percepita con lo stesso sistema psicofisiologico da ogni essere vivente, ma sin da piccolo ognuno apprende dall’ambiente educativo come gestirne le manifestazioni. Ecco perché i cinesi, pur eccellenti in molte discipline,sono deboli in quelle che richiedono competenze intra e interpersonali, come il calcio e in genere tutti gli sport di squadra. Crescono in vivai dove l’intelligenza emotiva si perde nel quadro di un’educazione restrittiva sostenuta da frequenti punizioni corporali. E il valore che ispira gli

educatori è la competizione individualistica nel raggiungere la perfezione nel compiere uno specifico gesto atletico. Alla fine giocano,senza comporre una vera squadra; corrono per fare goal, rincorrono un obiettivo, ma non riescono a interagire.

La necessità di un lungo mutamento culturale

— È ancora troppo presto per pretendere risultati positivi dalla nazionale cinese, anche quella giovanile. Anche se allenata da Marcello Lippi, la squadra cinese non è riuscita a qualificarsi ai mondiali in Russia, mentre la nazionale giovanile non è andata oltre la fase dei gironi iniziali nella Coppa d’Asia, pur giocando in casa. Negli ultimi anni tanti giocatori stranieri sono emigrati nella Chinese Super League (la Serie A cinese) e alcuni giovani talenti cinesi si profilano all’orizzonte, anche se fin’ora nessuno è riuscito a diventare un idolo nazionale. Inoltre, a differenza della Corea del Sud e del Giappone, la Cina non vanta giocatori di qualità nei campionati europei. Lo scorso anno,Xu Jiayin,il presidente del Guangzhou Evergrande, ha dovuto ammettere che nell’operazione di scouting in tutta la Cina non è stato individuato alcun ragazzo potenzialmente in grado di giocare come Messi. Nascerà mai in Cina un tale talento? E se nascesse, riuscirebbe a esprimere questo talento in un ambiente formativo e culturale non propriamente adatto al calcio? Per come stanno ora le cose, ci vorrà almeno un decennio per vedere i primi miglioramenti. Nicholas Gineprini autore del libro Il sogno cinese. Storia ed economia del calcio in Cina, Urbone Publishing, Praga 2016, gestisce il sito blogcalciocina.altervista.org. Collabora con alcuni siti e riviste fra cui l’Ultimo Uomo. Ha lavorato come consulente per associazioni di cooperazione bilaterali Italia-Cina.

47 Dossier / Perché i cinesi non sanno giocare a calcio?

a migliaia di caratteri. La lingua cinese, inoltre, fa perno sui toni, per cui un carattere assume un significato completamente diverso a seconda del tono con cui è pronunciato. Ad esempio, il suono ‘Mai’ può alternativamente significare “acquistare” oppure il concetto contrario: “vendere”. Nel primo caso l’accento sulla ‘a’ va prima a scendere e poi a risalire, mentre nel secondo l’accento scende solamente e il suono è maggiormente netto. La lingua però non è solo un modo per scrivere o esprimere concetti; è strettamente connessa ai comportamenti sociali e al complesso della cultura in cui è in uso. Come sintetizzava il filosofo francese Emil Cioran «Non abitiamo in una nazione, abitiamo in una lingua, per cui solo la lingua che parliamo è la nostra madrepatria». È quindi a partire dalla lingua che si sviluppano le caratteristiche culturali e cognitive di un individuo. Come sottolinea il sociologo Nicolas Carr nel saggio Internet ci rende stupidi, l’apprendimento di una lingua alfabetica oppure di una lingua ideogrammatica, basata cioè sui caratteri come quella cinese, sviluppa differenti capacità cognitive e di apprendimento. Nel nostro alfabeto abbiamo solo 21 simboli, nella lingua cinese i caratteri sono migliaia e quindi per forza devono essere appresi per via mnemonica, ripetendo cioè tantissime volte le stesse configurazioni segniche in modo che ognuna risulti ben delineata, differente dalle altre ed eseguita in modo perfetto. Questo apprendimento di tipo induttivo ha un impatto consistente anche in campo sportivo. Un conto, infatti, è ripetere un gesto molteplici volte in modo da renderlo perfetto; un tuffo ad esempio, non per caso uno sport in cui i cinesi sono fortissimi. Altro discorso invece è contestualizzare un gesto tecnico all’interno di una partita, come richiede il gioco del calcio.


DOSSIER

Dossier / Titolo

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Il complesso scolastico di Birmingham è stato incaricato dalle autorità governative di elaborare proposte di buone pratiche funzionali a una migliore inclusione delle studentesse islamiche nelle attività sportive. Ecco il documento che hanno redatto.

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Per l’educazione fisica delle alunne islamiche I presupposti religiosi — I musulmani di tutto il mondo trovano i propri modi per esprimersi e condurre la loro vita, in contesti diversi, in modo da soddisfare i precetti religiosi. Dal momento che i requisiti religiosi possono avere un impatto sulle strutture e sulle pratiche dell’educazione fisica, è importante sapere che: • L’Islam sostiene i diritti di tutti i bambini all’educazione, incluso quello di partecipare all’educazione fisica. • L’Islam incoraggia l’attenzione verso la salute fisica e spirituale all’interno di un’educazione olistica dei bambini musulmani. • L’Islam presta uguale attenzione verso la salute e l’educazione fisica dei ragazzi e delle ragazze. • L’attenzione verso la decenza dell’abbigliamento riguarda sia i ragazzi sia le ragazze di tutte le età e si rivolge in prevalenza ai giovani che hanno superato la pubertà. Esistono diverse interpretazioni del decoro nell’abbigliamento a seconda

dei background culturali ed educativi delle specifiche comunità islamiche. L’interpretazione predominante è che le donne coprano i capelli, le braccia e le gambe mentre gli uomini la parte del corpo che va dalla vita alle ginocchia. Nessuna di queste interpretazioni dovrebbe precludere la partecipazione all’educazione fisica, laddove i codici di abbigliamento soddisfino sia i requisiti islamici sia gli standard minimi di sicurezza. • Se adeguatamente vestiti, gli alunni e le alunne dovrebbero partecipare insieme alle lezioni in cui si svolgono attività che non comportano un contatto fisico come il badminton, orienteering, il tennis e il fitness. Anche in questo caso esistono diverse interpretazioni. Alcuni musulmani non vedono alcun bisogno di “coprire” gli alunni/e o di strutturare spazi separati per genere; altri invece consentono loro di partecipare all’attività fisica in gruppi di sesso misto solo se opportunamente coperti.

Le differenze culturali — Alcune comunità islamiche esprimono una preferenza culturale per codici di decoro più severi per le bambine, anche molto piccole, ad esempio con l’uso dell’hijab (il velo) prima della pubertà. Consapevoli della reciproca pressione culturale che a quest’età si sviluppa fra i coetanei, proponiamo in questo caso un approccio improntato alla flessibilità e al tentativo di soddisfare le richieste locali laddove possibile, senza compromettere le norme di salute e sicurezza, al fine di incoraggiare la partecipazione delle ragazze. Tensioni più gravi sono create da visioni culturali in cui l’attività fisica e la ginnastica sono considerate inappropriate rispetto ai ruoli di genere e ai comportamenti attesi dalle ragazze e dalle donne. Tali punti di vista devono essere combattuti, perché negano i diritti delle ragazze e delle donne alla vita, al miglioramento della salute e all’emancipazione attraver-


a

so l’educazione fisica, lo sport e l’attività fisica; tutti diritti che rientrano nei programmi mondiali in favore dell’uguaglianza.

L’abbigliamento —

Gli spogliatoi —

I principi di dignità, rispetto e decoro sono di primaria importanza per tutti gli alunni. • Per quanto riguarda gli spogliatoi, bisogna avere molta sensibilità per la privacy e riconoscere la necessità di una segregazione di genere. Di fatto, questa è già attuata nelle scuole secondarie, tutte dotate di spogliatoi separati per sesso. A volte vi sono problemi di privacy nell’uso delle docce, ma va considerato che l’uso di queste ultime è quasi sempre facoltativo. • Nelle scuole primarie, specialmente negli anni finali in cui la pubertà ha inizio, è consigliato un approccio creativo all’uso degli spogliatoi, quasi mai diviso per sesso. Se c’è spazio e la possibilità di supervisione di un adulto, le bambine dovrebbero potersi cambiare in spazi separati dai bambini. In alcuni istituti sono state adottate pratiche semplici ma efficaci, come l’uso di separè, tende o altre barriere mobili. • Sarebbe utile coinvolgere maggiormente i progettisti delle scuole e degli spazi sportivi nella questione della privacy.È un’esigenza già presente nell’attuale piano governativo per l’edilizia scolastica Costruire Scuole per il Futuro (BSF), che raccomanda di strutturare gli spazi dedicati agli spogliatoi in modo rispettosi della privacy, sia delle ragazze sia dei ragazzi.

Il nuoto —

È necessario esplorare ogni possibile modo per consentire ai bambini di imparare a nuotare. Un recente sondaggio ha scoperto che a Birmingham solo il 19% degli undicenni è capace di nuotare, cioè di percorre in acqua 25 metri, lo standard nazionale richiesto. Significa che molti giovani sono a rischio di annegamento e privati del loro diritto di migliorare la loro vita e la salute. Data l’alta frequenza delle richieste di esonero, un approccio positivo all’inclusione sembra il migliore modo per iniziare a migliorare queste cifre. Anche perché, per quanto riguarda le esperienze richieste dal curriculum nazionale in vista dello sviluppo delle abilità di vita, l’opzione di esonerare un alunno non può essere implementata se non collocando la scuola e il singolo insegnante in una violazione delle leggi del Paese. Al fine di favorire l’inclusione delle ragazze islamiche in

49 Dossier / Titolo

Redigendo il loro piano educativo, tutte le scuole devono stabilire, coinvolgendo nella decisione i giovani studenti, un codice di abbigliamento per le attività fisiche. Nel farlo, dovrebbero tener conto delle seguenti indicazioni: • Bisogna assicurarsi che i giovani indossino vestiti appropriati per l’educazione fisica. Tale pratica è igienica e garantisce una maggiore sicurezza. • Le scuole devono consentire l’uso di leggings e di magliette che permettano alle alunne musulmane, ma anche a tutti gli studenti che lo desiderano, di partecipare senza preoccuparsi di braccia e gambe nude. • Bisogna anche consentire l’uso di leggings e magliette a maniche lunghe per soddisfare i requisiti musulmani di decoro, laddove richiesto, in particolare nelle piscine e nelle palestre. Alcuni alunni che hanno raggiunto la pubertà potrebbero ritenere inadeguata la vestibilità molto aderente degli indumenti in lycra. • Bisogna applicare la stessa flessibilità per soddisfare i requisiti di modestia del codice di abbigliamento per le lezioni di educazione fisica svolte all’aperto. • Va incoraggiata l’adozione di hijab più nuovi e sicuri. Attualmente, c’è molta concorrenza tra le principali aziende di abbigliamento sportivo internazionale nel progettare abbigliamento sportivo islamicamente appropriato. I moderni hijab sportivi vengono prodotti con tessuti flessibili e traspiranti. Non richiedono di essere legati e non scivolano o si muovono. Alcune scuole incoraggiano le ragazze ad adottare questo tipo di hijab perché molto più sicuri e più comodi per l’attività fisica ri-

spetto alla versione tradizionale che prevede l’uso di legamenti. • È essenziale mostrare flessibilità. Se le ragazze non possono adottare le moderne divise sportive,è opportuno consentire loro l’uso di foulard, se richiesto, purché siano fissati in sicurezza (legati e non appuntati), aderenti, con le estremità infilate dentro e in modo tale che non rappresentino un pericolo o una distrazione. Un hijab adeguatamente protetto dovrebbe essere sicuro quanto una lunga capigliatura adeguatamente fissata.

Un esempio di burkini, il costume da bagno usato da alcune donne islamiche, Wikimedia commons. ↓


La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

La danza —

Nel sistema educativo statale inglese la danza ha una lunga storia (di oltre cento anni) ed è riconosciuta quale una preziosa sfaccettatura dell’esperienza umana, come dimostrano le sue molteplici forme di espressione culturale. La danza è una parte distintiva e importante del curriculum nazionale. Molti bambini l’apprezzano per la sua diversità dalle altre discipline e per l’ambiente di apprendimento estetico/creativo che comporta. Il suo valore risiede nella conoscenza teorica nella performatività pratica del movimento creativo, un’abilità che a sua volta sviluppa capacità artistiche ed estetiche. La sua importanza è dimostrata dallo

status accademico della disciplina, cui sono dedicati 518 corsi di istruzione superiore in 60 università del Regno Unito. Gli insegnanti incontreranno diversi atteggiamenti nei confronti della danza nelle comunità musulmane. Alcuni genitori e alunni non avranno difficoltà a partecipare pienamente; altri invece preferiranno che i loro figli non partecipino affatto. Sembra che l’opposizione più forte sia radicata in equivoci sulla natura della danza e sulle sue potenzialità educative. Secondo il Muslim Council of Britain Guidance (2007,p.39) la maggior parte dei genitori musulmani non vede alcun valore nella danza dopo la prima infanzia o la trova problematica dal punto di vista morale o religioso. Sono ragioni che appaiono legate alle forme della danza più strettamente legate alla cultura popolare. Quanto segue vuole fornire alcune idee per azioni inclusive che incoraggino la partecipazione a questa meritevole attività educativa: • Consultare le comunità musulmane in cui vi è un’incomprensione sulla natura e sul valore della danza nel contesto educativo. • Accrescere la comprensione condivisa di obiettivi, finalità, diversità e benefici della danza nell’educazione tra membri di comunità musulmane, genitori, governatori ed educatori di danza. • Fornire ambienti esclusivamente femminili se ci sono tensioni verso ambienti misti. • Evitare con cura ogni accenno a movimenti dotati di una connotazione sessuale, cosa che del resto è già proibita in tutte le scuole. • Mostrare sensibilità e una particolare apertura culturale nella proposta delle danze scegliendo tipi e stili adeguati fra gli innumerevoli possibili. • Usare diversi accompagnamenti sonori. L’insegnamento della danza non dipende dall’uso

della musica e gli insegnanti possono quindi utilizzare una varietà di forme di accompagnamento come percussioni, poesie, parole, storie e musica, tutti strumenti in grado di aggiungere divertimento e atmosfera alle lezioni senza comportare problemi di inclusione.

Il Ramadan —

Nel caso in cui gli studenti e le studentesse islamiche scelgano di digiunare durante il mese del Ramadan, sembrano utili le seguenti raccomandazioni: • È bene coinvolgere e impegnare comunque gli alunni/e nell’educazione fisica. • È preferibile che gli insegnanti propongano esperienze educative che riducono il livello di intensità dell’attività fisica. • In ogni caso è meglio cercare adattamenti pratici attraverso una sincera consultazione dei giovani.

Le attività sportive extrascolastiche —

È il settore in cui la scarsa partecipazione delle ragazze musulmane sta causando le maggiori preoccupazioni. Suggeriamo di: • Consultare a fondo i giovani per chiarire le loro preferenze ed offrire il massimo dell’informazione sulle possibilità esistenti, i tipi di attività e i tempi di erogazione dei servizi. • Sviluppare la fiducia dei genitori mussulmani attraverso una migliore comunicazione degli scopi e dell’organizzazione, nonché offrendo tutte le necessarie garanzie per le ragazze che partecipano ad attività extra curriculari o che viaggiano in occasione di eventi sportivi. Tratto da: Research Team del Birminham City Council, Improving Participation of Muslim Girls in Physical education and School Sport, Birmingham City Council 2008. Traduzione di Francesca Nicola.

Dossier / L’educazione fisica delle studentesse islamiche in Inghilterra

Dossier / Titolo

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queste attività sembrano utili le seguenti raccomandazioni. • Consentire flessibilità nell’indossare costumi che coprano il corpo in modo più completo. I designer di abbigliamento sportivo hanno iniziato a trovare soluzioni interessanti. • Incoraggiare l’uso della cuffia, copre i capelli e protegge la piscina. • Rassicurare i bambini che diventano ansiosi dopo aver ingerito accidentalmente acqua durante il Ramadan. Va spiegato che non si tratta di un gesto intenzionale e che per giunta è sgradevole e indesiderabile; quindi non costituisce una violazione del precetto di digiuno. • Se è possibile, è giusto e utile fornire spazi esclusivamente femminili laddove richiesto dai genitori e dalle scuole. Questa separazione si è rivelata di grande successo nel consentire alle bambine musulmane di imparare a nuotare. A livello locale sono spesso raggiunte interessanti soluzioni pratiche impostando in modo flessibile gli orari delle piscine, coordinando fra loro le scuole o infine fondendo temporaneamente fra loro classi diverse.


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SCUOLA

Espressività e sport Scuola / Espressività e sport

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Sport significa movimento, e il movimento è un linguaggio che è bene conoscere e saper usare, in campo come nella vita. Impariamolo a scuola. di Antonella Sbragi

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I

l movimento rivela molte cose diverse. È il risultato della tensione verso un oggetto a cui si attribuisce valore, oppure di uno stato d’animo. A volte ha una ispirazione qualitativa, emozionale; altre volte ha carattere quantitativo, misurabile: come nello sport. Anche nell’ambito didattico-formativo si sta rivolgendo l’attenzione a questi aspetti del movimento: le Indicazioni nazionali promuovono la competenza di tradurre le idee in atti ed espressioni creative, l’Organizzazione mondiale della Sanità avvalora l’importanza dello sport. Ma esiste un metodo per organizzare tutto questo? Come si accordano la ricerca qualitativa dell’espressività e quella quantitativa dello sport nella metodologia di insegnamento? Queste sono riflessioni che si sviluppano all’interno della Laban Analysis of Movement (LAM), campo di ricerca all’avanguardia, patrimonio dei linguaggi espressivi e non solo, che prende il nome dal coreografo Rudolf Laban, suo ideatore. Si tratta di un metodo qualitativo di osservazione, valutazione e diagnosi, che consegna informazioni misurabili sulla persona in movimento.Si avvale di strumenti, organizzati in una struttura analitica e rigorosa, con i quali identificare schemi e cambiamenti. Il metodo, indagando i molti modi in cui il corpo può


53 Scuola / Espressività e sport

Il flash mob è un modo per condividere uno spazio pubblico utilizzando il proprio corpo come strumento espressivo.


Scuola / Espressività e sport

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La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

↑ La gestualità della mano come sistema comunicativo.

modellarsi e proiettarsi nello spazio,aiuta a comprendere lo stile e le preferenze personali di movimento. Muoversi con consapevolezza è anche l’obiettivo di un modello didattico qualitativo coerente, con alla base un sistema capace di osservare e valutare la dinamica del movimento. Ne danno risposta gli sport a componente artistica, come la danza sportiva, nella quale si coniugano espressività e sport, e di cui parlerò in seguito. A scuola la danza sportiva è un’occasione unica che, nel rispetto delle differenti fasce di età, consente la partecipazione di tutti, senza distinzione di sesso, di appartenenza sociale o etnica. Ognuno, nel rispetto degli altri e del proprio percorso tecnico, può fare nuove esperienze di movimento con gli altri. Così, nello sperimentare insieme, si incontrano conoscenze e abilità e si impara ad agire in modo autonomo e responsabile. La danza sportiva, inoltre, si rivela interprete privilegiata delle competenze chiave di cittadinanza: i suoi contesti relazionali, che agevolano la socializzazione, la comunicazione, la voglia di collaborare e partecipare, favoriscono il processo di crescita psicofisica degli studenti coinvolti, nel susseguir-

si del movimento che si articola nello spazio secondo i diversi ritmi e tempi musicali. Il punto di partenza è lo spazio nel quale siamo immersi, il luogo dove si esprime il linguaggio del corpo, dove si realizza la qualità e l’armonia della forma. Quando si parla di linguaggi si fa riferimento a tutti i sistemi di segni: dunque, non solo a quello orale o scritto, ma anche alla produzione di senso della gestualità del movimento. In un ambiente rumoroso o affollato i segni sostituiscono la voce: la nostra giornata è un susseguirsi incessante di segni che comunicano qualcosa: cenni o gesti si usano per farsi capire o sottolineare quello che si sta dicendo. Parlare sopprimendo la gestualità del corpo sarebbe come suonare una musica monocorde senza alcun ritmo o accento. Con i segni, negli sport, si dirigono i giochi di squadra o si danno indicazioni agli atleti in campo.

Nuovi spazi di socializzazione —

Nell’era della comunicazione, paradossalmente, si rischia di trascurare la parte più originale di ciascun individuo, ascoltando sempre meno la suggestione del


linguaggio del corpo. La comunicazione multimediale, priva di contatto fisico, ha così condizionato la nostra cultura che, anche quando si potrebbe toccare e vivere fisicamente il quotidiano, si rischia di scegliere la sua rappresentazione astratta. I nuovi spazi di socializzazione non richiedono la presenza fisica degli interlocutori e sacrificano la verità del linguaggio del corpo. Il corpo parla più forte delle parole: postura, gesti, espressioni del viso, atteggiamenti esprimono i pensieri, le emozioni, le sensazioni.

Informare di sé lo spazio —

Con le parole si descrivono rapporti, stati d’animo, fatti e situazioni, ma lo sforzo delle parole, per render conto della realtà sensibile, della fantasia o delle emozioni, è diverso da quello dei gesti. I segnali posturali narrano la storia personale di ciascuno; essi inducono la gestione prossemica dello spazio, suggerendo ipotesi interpretative sul ruolo interattivo dell’altro e, conseguentemente, la scelta del proprio ruolo. Lo spazio influenza la comunicazione perché si forma e si modifica attraverso le relazioni fra le persone ed è il frutto di rapporti e convenzioni sociali. A scuola si possono proporre agli studenti alcune attività molto utili al riguardo, i cui esercizi devono essere interpretati nell’ottica del problem-solving. Si tratta di percorrere una strada alla ricerca di soluzioni molteplici e originali. È evidente che la risposta ai compiti sarà personale, così come l’esito, diverso per ognuno, sarà sempre accettabile, a condizione che i problemi siano stati risolti. Questa produzione può originare qualcosa di

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Le attività fisiche svolte in palestra favoriscono modi originali di vivere lo spazio. ↓

Scuola / Espressività e sport

La varietà delle caratteristiche fisiche rende ogni persona unica e riconoscibile. La forma del corpo si trasforma nel corso della vita stessa: muovendosi o assumendo posizioni, il cambiamento può essere transitorio o duraturo; l’età evolutiva è caratterizzata dall’alternarsi di fasi di crescita e sviluppo; ognuno può avere periodi di dimagrimento o soprappeso, o può modificare il proprio aspetto; nel tratto di unione fra corpo e spazio, si concretizza la forma.

In relazione allo spazio —


→ La corsa in una competizione atletica.

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Scuola / Espressività e sport

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nuovo in assoluto o ricombinare e riorganizzare elementi appartenenti anche ad ambiti differenti, pensati come distanti, incoraggiando il pensiero creativo, individuale e di gruppo. Ecco alcuni esempi di laboratorio: • inventiamo un alfabeto motorio; componiamo delle parole con il corpo, utilizzandone le lettere; • giochiamo con i gesti per raccontare una storia; • immaginiamo due persone che non si conoscono che condividono lo spazio di un ascensore: mimiamo la situazione; • stabilita una posizione di partenza, ad esempio la stazione eretta, immaginiamo una bolla che ci circonda; sperimentiamo l’estensione dei nostri arti che, tendendosi, si allontanano dal corpo: scopriamo i nostri confini naturali.

Percorrere lo spazio —

L’elemento spazio, riferito alla dinamica espressiva, è il modo di procedere del movimento; in pratica, è l’intenzione del mover che determina percorsi diversi: diretti oppure indiretti, costituiti da tracciati lineari oppure curvilinei,da linee definite. Ecco un’altra serie di attività laboratoriali che potrebbero tornare utili a questo proposito: • osserviamo la corsa, ponendo a confronto situazioni diverse: ad esempio, la corsa verso la libertà dei guerrieri

scozzesi nel film di Mel Gibson Braveheart, la corsa atletica, e la corsa di un gioco in spiaggia. Rileviamo le differenze,valutiamo l’intenzione,la forma, la tecnica,il percorso: porre a confronto il movimento realizzato in differenti contesti consente di osservare e analizzare la relazione tra funzionalità (CORPO), impulsi di dinamiche interne (QUALITÀ), forma del corpo (FORMA) e conduzione del movimento nello spazio (SPAZIO); • eseguiamo una camminata libera, scegliendoci uno spazio d’azione (spazio scenico) e percorrendone tutta la sua superficie. In un primo momento proviamo il lavoro individualmente, poi in gruppo: ognuno di noi deve comprendere quali spazi vuoti vanno riempiti, evitando di ammassarsi in un unico punto; conquistare un proprio spazio, senza invadere quello degli altri. Una base ritmica aiuta a svolgere il tema; al suono facciamo corrispondere il movimento; al silenzio l’arresto. Quando siamo fermi, valutiamo la correttezza dell’esecuzione: dobbiamo essere distribuiti nello spazio disponibile e non ammassati in un unico punto. Poi, nel momento di pausa della sonorità ritmica, scegliamo di mantenere delle posizioni: come fossimo statue che si animano, al riprendere del ritmo, ricominciamo a camminare; • delimitiamo uno spazio scenico, stabi-


← Lo spazio nella dimensione scenica.

57 Scuola / Espressività e sport

La dimensione scenica permette di vivere lo spazio in modi inusuali. ↓

liamo un tempo di lavoro e assegniamo a ciascuno degli attrezzi (palloni, clavette, bastoni, sedie…). Immaginiamo di essere in una stanza, trasformiamo con la fantasia gli attrezzi e arrediamo lo spazio. Ognuno di noi finge di portare nella stanza un oggetto o un mobile e compie un’azione con esso. L’esercizio si complica man mano che si procede: occorre ricordarsi la forma che la nostra fantasia ha assegnato agli oggetti,già presenti nello spazio,e agire di conseguenza; • scopriamo le direzioni degli spostamenti: avanti, indietro, laterale. Partendo dal centro del nostro immaginario quadrato,camminiamo,cambiando direzione, e alterniamo andamenti

curvilinei, angolari e rettilinei, percorriamo forme geometriche. Le possibilità di spostamento del nostro corpo nello spazio sono multiformi. Tutti i movimenti si attuano sulla base delle informazioni che provengono dall’ambiente e dal corpo stesso, e quindi si modificano e variano in base al luogo in cui si agisce, assumendo caratterizzazioni specifiche e peculiari di chi attua il movimento. Un’attività utile da proporre in classe potrebbe essere quella di sperimentare i verbi dell’azione: nello spazio si può camminare, correre, saltare, rotolare, scivolare, girare, inventare andature, fare evoluzioni, oppure solo spostarsi.

Lo spazio scenico —

Qualsiasi luogo, inoltre, può trasformarsi in uno spazio scenico: uno spazio diventa importante per ciò che accade al suo interno, per il significato che assume l’azione rispetto a chi la compie e a chi ne fruisce: sono l’azione e la visione dello spettatore, che informano lo spazio. E anche se non sempre il fine è quello di calcare un vero e proprio palcoscenico, è bene imparare a stare in scena. Una difficoltà che spesso si riscontra nelle esperienze didattiche è l’incertezza degli allievi nell’entrare e uscire da quest’area così particolare. Proponiamo dunque allo studente di immaginare


→ Camminando viviamo lo spazio in tre modi: in avanti, all’indietro e in senso laterale; percorriamo forme geometriche.

Scuola / Espressività e sport

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sempre il luogo entro cui si svolge l’azione e, per aiutarne la visualizzazione, delimitiamolo con degli oggetti. Nel momento in cui si valica il confine prestabilito, che nel teatro è rappresentato dalle quinte, si appartiene alla scena e non si deve interrompere la tensione fino a che non si è completamente fuori dallo spazio scenico: l’origine e la conclusione intenzionale dell’azione sono il primo spazio da conquistare. Il corpo in scena non si può permettere esitazioni,né può tornare sui propri passi; qualora si sbagli, occorre immediatamente reagire e scegliere un nuovo percorso.

Lo spazio come barriera —

Non sempre lo spazio è fruibile e spesso non è sinonimo di libertà: le barriere architettoniche per i portatori di handicap esistono nella vita di tutti i giorni. Sebbene esse delimitino la libertà del movimento, è tuttavia possibile trovare nell’espressione corporea un punto di

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Approfondire —

• E.Zocca,M. Gulisano,P. Manetti, M.Marella, A. Sbragi, Competenze motorie, Corso di Scienze motorie per la scuola secondaria di secondo grado, G. D’Anna Loescher, Torino 2016. • A.Sbragi, L’intenzione nel movimento, Libero di scrivere, Genova 2012. • A.Sbragi, In principio era l’azione. Itinerari di espressione corporea, De Ferrari e DeVega, Genova 2003.

partenza per un messaggio forte del loro abbattimento fisico, ma anche sociale e culturale, che limita il nostro essere presenti al mondo.Perché ogni persona è unica e speciale e deve potersi esprimere nella sua unicità con abilità e dis-abilità differenti. Ognuno, seguendo il proprio itinerario, può fare nuove esperienze del muoversi con gli altri, andando oltre i limiti cui è abituato, scambiare emozioni e movimenti, creare nuovi canali di comunicazione. In questa direzione la FIDS (Federazione taliana danza sportiva) accoglie la Danza paralimpica praticata da abili e disabili. L’incontro fra persone con differenti abilità fisiche permette di danzare insieme, riscoprendo un terreno comune in cui si creano esperienze di reciproca uguaglianza. Le barriere e i limiti diventano fonte d’ispirazione per azioni coreografiche e giochi con il pubblico; si trasformano in una scenografia naturale.

Condividere lo spazio: incontrarsi nella danza sportiva —

Nel quotidiano condividiamo abitualmente lo spazio con gli altri: nell’incontro e nell’interazione fra persone, lo spazio, al di là dall’essere un semplice dato misurabile, si forma e si modifica. La danza a coppie o in gruppo è uno dei momenti in cui le persone interagiscono fra loro nello spazio, favorendo lo sviluppo di un linguaggio in comune. Il metodo delle improvvisazioni libere o guidate può diventare un’esperienza che aiuta a superare pregiudizi e atteggiamenti discriminatori verso le differenze d’ogni genere, rende possibile sperimentare e scambiare nuovi significati, creare percorsi alternativi e nuove immagini per sé e per gli altri. Nella danza sportiva espressività e sport si incontrano. L’intesa artistica fra due danzatori, talvolta percepita dall’esterno come intesa amorosa, è un ottimo esempio dell’espressività del contatto fra i partner funzionale alle difficoltà tecniche.

Antonella Sbragi è insegnante di Scienze motorie e sportive, docente a contratto di Espressione corporea, Analisi del movimento presso l’Università degli Studi di Genova, e Presidente della Federazione italiana danza sportiva, Regione Liguria.


Sono più brutto del mio avatar Accettare la “sfida della complessità” nella quale siamo ormai immersi comporta per la scuola la sperimentazione di nuove avventure in campo educativo, e, dunque, anche una conseguente preparazione dei docenti, quasi mai però accompagnati da percorsi formativi ad hoc.

59 Scuola / Sono più brutto del mio avatar

di Davide Schieppati

I

l processo di maturazione dei ragazzi del grado secondario, e, nello specifico, l’ingresso nell’età adulta,implica – tanto più oggi – l’attenzione dell’istituzione scolastica verso forme di educazione “altra” (civica, ambientale, stradale, alimentare, sessuale...) rispetto a quella a cui una consolidata tradizione l’aveva abituata.All’interno di questa “rivoluzione” il corpo ha giocato e gioca un ruolo fondamentale. È soprattutto a partire dagli anni Novanta del secolo scorso che un nuovo concetto di corpo «come veicolo per esplorare nuovi linguaggi e acquisire nuove identità» si afferma nella società: «tatuaggio e piercing diventano amplificatori del linguaggio corporeo»1 e la pelle si fa sede di una messa in mostra del proprio modo di essere, comunicando agli altri e a se stessi messaggi a tal punto indelebili da restare per sempre in mostra sotto gli occhi di tutti. A ciò non può dirsi estranea ad esempio, ma non solo, l’educazione fisica, ai cui insegnanti già i programmi del 1982 affidavano il delicato compito di “vigilare” sulla «travagliata ricerca di una identità personale, nella quale si realizza il passaggio all’età adulta», mediante il «ricorso ai metodi di individualizzazione e ad una continua valutazione dello sviluppo e della differenziazione delle tendenze personali.Tale azione, ovviamente, investe la responsabilità di tutti i docenti della scuola secondaria superiore;

← Il telefonino come specchio di se stessi, Wikimedia commons.


ma in modo accentuato quella dei docenti di educazione fisica»2.

Selfie Surgery —

Scuola / Sono più brutto del mio avatar

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Certo non si tratta solo di tatuaggi o di corpi scolpiti. Tali pratiche si inseriscono all’interno di un contesto culturale in rapida trasformazione che sta investendo in modo non marginale il mondo giovanile: la crescente e quasi spasmodica attenzione per il proprio fisico rappresenta infatti una caratteristica sempre più evidente della nostra società, dove programmi televisivi e social network veicolano una concezione del corpo come “mezzo” per raggiungere inedite idee di popolarità legate al mondo di Internet (si pensi ad esempio alla figura dello youtuber, il ragazzo o la ragazza che diventano famosi e apprezzati dai coetanei grazie a una serie di filmati di ogni genere pubblicati sul famoso sito per la condivisione e visione di video). Nel caso dei social network, il corpo Nel caso dei social è addirittura scisso da network, il corpo è sé facendosi immagine addirittura scisso da ritoccata, modificata sé facendosi immagine e “postata” sulla rete. ritoccata, modificata e Mentre per i tatuaggi il legame con il corpo “postata” sulla rete. rimane intimo e personale, il selfie sui social media dimostra invece il rapporto (e in alcuni casi persino la sudditanza) che il proprio sé ha con gli altri: si tratta infatti di un soggetto che si rapporta al proprio fisico vedendolo dall’esterno, come lo guarderebbe un’altra persona. Svanisce quindi l’intimità dell’esperienza iniziatica del tatuaggio per lasciare spazio, come vedremo, all’attenzione narcisistica per i dettagli della rappresentazione virtuale. Scrive Maria Luisa Iavarone: «in questo panorama nasce un’emergenza educativa palpabile che richiede di infittire la trama del tessuto relazionale tra giovani e adulti, sempre più sgranata a causa di specchi deformanti la vita reale che finiscono per riflettere la fatica del processo identitario»3. La studiosa ci mette davanti al gap generazionale che dev’essere tenuto presente da chiunque voglia occuparsi di educazione in questi tempi di grandi cambiamenti. Un divario che si sta trasformando sempre più in un gigantesco burrone a causa dell’ingresso della virtualità nella vita dei giovani, i quali si trovano a sperimentare il proprio

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processo di costruzione della personalità anche in relazione a un contesto diverso da quello concreto4. Si tratta di un’esperienza di autoaffermazione non sperimentata dagli adulti della generazione precedente, che dunque necessita di un enorme sforzo intellettuale ed empatico per essere compresa appieno. Possono esistere infatti situazioni complesse in cui la vita online (virtuale) e quella offline (reale, concreta) si confondono generando profondi disagi nelle persone. Una situazione più che nota a Beatrice Borromeo, autrice del docufilm Selfie Surgery – Vorrei essere il mio avatar (2016), nel quale viene raccontata soprattutto l’esperienza di due giovani ragazze romane, Flaminia e Ludovica (rispettivamente 25 e 22 anni), così ossessionate dalle loro foto sui social (i loro avatar) da volerci assomigliare quanto più possibile. È noto infatti che i selfie possono essere ritoccati tramite appositi software per modificare le immagini.Con dei semplici click è possibile ridurre, ad esempio, le dimensioni del naso o lo spessore della mascella, rendendo il soggetto della fotografia decisamente differente dalla persona reale. «La chirurgia mi va a modificare quei punti che io modificavo prima con le applicazioni»5,dice Flaminia nell’intervista.La scelta delle due ragazze, compiuta con disarmante leggerezza, consiste allora nell’agire concretamente sul loro corpo esattamente come si potrebbe fare con un selfie: la chirurgia plastica diventa la soluzione per porre fine a questo disagio. L’idea che emerge dal docufilm è che, secondo il punto di vista delle due ragazze, il fisico reale non può reggere al confronto con quello virtuale, e che dunque a questo debba adeguarsi. Esso diviene un oggetto rimaneggiabile, scomponibile e ricomponibile a seconda dei capricci e dei disagi delle due ragazze. Liposcultura, filler nel naso e attorno agli occhi, rimodellamento del seno sono tra le operazioni a cui decidono di sottoporsi per eguagliare il loro alter ego virtuale, per non sentirsi meno attraenti dell’avatar. In questa vicenda, la vita online e quella offline non si confondono (e si fondono) semplicemente, ma la seconda travalica prepotentemente i suoi limiti fino a ergersi come esempio al quale la realtà deve adeguarsi per essere considerata migliore dalle due protagoniste. La fotografia, la copia del reale, diventa il modello a cui la persona in carne e ossa deve assomigliare per entrare in sintonia con se stessa: è il


NOTE 1. M.L. Iavarone, Il valore della corporeità nella ricerca pedagogica, in Abitare la corporeità. Nuove traiettorie di sviluppo professionale, a cura di M.L. Iavarone, FrancoAngeli, Milano 2013, p. 26. Per un’interessante trattazione in tema di tatuaggi cfr. A. Castellani, Storia sociale dei tatuaggi, Donzelli, Roma 2014.

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2. Nuovi programmi d’insegnamento di educazione fisica negli istituti di istruzione secondaria superiore, nei licei artistici e negli istituti d’arte approvati con d.p.R. 1° ottobre 1982, n. 908, in M. Ferrari, M. Morandi, I programmi scolastici di “educazione fisica” in Italia. Una lettura storico-pedagogica, FrancoAngeli, Milano 2015, p. 165. 3. Iavarone, Il valore della corporeità cit., p. 28. 4. A questo proposito cfr. soprattutto H. Gardner, K. Davis, Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale (2013), Feltrinelli, Milano 2014, nonché S. Turkle, Alone Together. Why we expect more from technology and less from each other, Basic Books, New York 2012. 5. B. Borromeo, Selfie Surgery. Vorrei essere il mio avatar, FremantleMedia, 2016. 6. Al riguardo sono di grandissimo interesse i dati statistici e le argomentazioni contenuti in M.Spitzer,Solitudine digitale. Disadattati, isolati, capaci solo di una vita virtuale? (2015), trad. it. di C. Tatasciore, Corbaccio, Milano 2016. 7. Due esempi tra i più famosi sono certamente G. Orwell, 1984 (1949), Mondadori, Milano 2010 e A. Huxley, Il mondo nuovo (1932), Mondadori, Milano 2015.

Davide Schieppati ha conseguito nel 2018 la laurea magistrale in filosofia. Si è classificato terzo al Concorso Letterario Nazionale La Lettera: “ti scrivo perché”, con conseguente pubblicazione di quattro poesie nella raccolta Florilegium. Ha pubblicato dodici poesie nella raccolta Quattro poeti da leggere - Quinto volume, Carta e Penna Editore, Torino 2016..

↑ Un selfie fra realtà e immaginazione, www.pxhere. com.

Scuola / Sono più brutto del mio avatar

virtuale a dettare le regole. Il corpo si fa invece oggetto di importanti (e costose) modificazioni che hanno la propria radice in un nuovo tipo di disagio: l’invidia verso la bellezza “estetico-virtuale” (ma forse non meno reale!) dell’avatar. Pur trattandosi di una situazione limite, la dipendenza da smartphone e social network è un fenomeno in continuo sviluppo6 che, come abbiamo visto, può insinuarsi nel processo di crescita dei giovani, a volte opponendosi a un sereno processo di maturazione. Si tratta di elementi facenti ormai parte della nostra quotidianità e capaci di modificare il rapporto dei giovani (ma anche degli adulti) con se stessi e con gli altri. Si tratta, a mio parere, non solo di una situazione da osservare e studiare con grande cura e attenzione,ma anche di una condizione sociale sempre più simile agli infausti scenari di una certa letteratura che, a partire dal secolo scorso, ha cominciato a tematizzare il timore riguardo al sempre maggiore influsso della tecnologia all’interno della vita dei singoli, puntando i riflettori sulle capacità delle innovazioni tecnologiche di rendere l’esistenza sempre meno caratterizzata da sani legami umani7. È rifacendosi a queste preoccupazioni, vecchie ormai di decenni, che può svilupparsi l’interesse verso quella che potremmo definire a tutti gli effetti una pedagogia della distopia, ossia lo studio (e il conseguente intervento educativo a contrasto) di quei fattori indesiderabili o spaventosi sviluppatisi e ormai inseritisi nella vita di tutti i giorni, in grado di modificare la socialità in modo radicale rispetto a come veniva intesa dalla generazione precedente, esattamente come viene raccontato nei romanzi di letteratura distopica. Il cambiamento è un fattore fondamentale per lo sviluppo di una società ma, com’è noto, ogni mutamento ha un prezzo. Dunque è bene tenere alta la guardia contro escamotages virtuali capaci di rendere la nostra vita più comoda: lo scotto da pagare potrebbe essere alto.


Stile di vita attivo esercizio e motivazione Ecco il giusto mix per prevenire l’obesità e crescere sani: lo dicono i dati dell’OMS sulla salute dei bambini. E famiglia e scuola giocano il ruolo principale. 62

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Scuola / Stile di vita attivo, esercizio e motivazione

di Luca Correale e Matteo Vandoni

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ttualmente le malattie croniche rappresentano la principale causa di morte/morbilità nei Paesi industrializzati e sono imputabili, oltre che a fattori genetici, a fattori ambientali e comportamentali. Questi fattori, se presenti nei bambini, favoriscono l’insorgenza precoce di patologie croniche nell’adulto. I dati mondiali ricavati dal progetto COSI (Childhood Obesity Surveillance Initiative) dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) descrivono in modo allarmante la situazione: 41 milioni di bambini sotto i 5 anni sono in sovrappeso o obesi1. In Italia, grazie al progetto Okkio alla Salute (sistema di sorveglianza su sovrappeso e obesità nella scuola primaria) del Ministero della Salute, si attesta che il 21,3% dei bambini tra i 6 e i 10 anni è sovrappeso e il 9,3% obeso. A livello regionale si registra la prevalenza più alta in Campania con il 26,2% di bambini tra gli 8 e i 9 anni di età in sovrappeso e il 17,9% obeso, mentre la regione con le percentuali più basse è la Valle d’Aosta: 15,6% e 4,2%. Rispetto ai primi dati nazionali del 2008 (23,2% in sovrappeso e 12% obeso), abbiamo assistito a un lieve calo di queste percentuali; tuttavia i valori di sedentarietà giovanile rimangono elevati e non mostrano variazioni significative2. L’OMS definisce l’attività fisica come «ogni movimento corporeo prodotto dai muscoli scheletrici che comporti un dispendio energetico»3. In questa definizione rientrano quindi non solo le attività sportive strutturate, ma anche semplici movimenti quotidiani quali camminare, andare in bicicletta, saltare, lanciare, o le normali attività di vita quotidiane come dedicarsi ai lavori domestici. È fondamentale però riconoscere le differenze tra attività fisica, esercizio fisico e gioco.A differenza dell’attività fisica,l’esercizio fisico viene considerato come un’attività pianificata e organizzata al fine di migliorare o mantenere la performance fisica; mentre il gioco è invece definito come qualsiasi attività, individuale o di gruppo, cui si dedicano bambini o adulti per passatempo o svago4.Queste differenti attività determinano diversi benefici sia a livello fisico sia a livello mentale e psicologico, tra cui la socializzazione e lo sviluppo del carattere e della personalità, ma anche molti altri aspetti della psicologia e della sfera emozionale. La combinazione dei due livelli, fisico e psicologico, permette di potenziare al meglio gli effetti benefici del movimento sulla salute sia a breve che a lungo termine.

Stile di vita attivo —

L’attività fisica ricopre da sempre un ruolo importante nella vita delle persone: sin dall’antichità, uomini, donne e bambini hanno dedicato del tempo a svariate forme di attività fisica (addestramento militare,gare e discipline sportive,palestra,tornei,danze,


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giochi),nelle quali,pur con finalità e scopi diversi, corpo e movimento giocavano un ruolo primario. Tuttavia, bisogna sottolineare che solo attualmente vi è una consapevolezza scientifica dell’importanza dell’attività fisica per la promozione della salute. Uno dei principali determinanti del benessere a lungo termine è lo stile di vita, inteso come insieme di abitudini e comportamenti che mantengono attivi. Siccome avere uno stile di vita attivo già da bambini influenza le abitudini in età adulta, è importante stimolare i giovani a muoversi e allenarsi regolarmente, anche alla luce del fatto che il movimento e l’attività fisica prevengono il rischio di sviluppo di molte patologie come l’ipertensione, il diabete, l’obesità, patologie cardiovascolari e tumori5. Inoltre, è importante considerare che

lo stile di vita di un bambino è direttamente connesso con l’ambiente che lo circonda, e, in questo senso, i genitori hanno un ruolo essenziale nella sua caratterizzazione. Essendo responsabili dell’educazione del bambino, possono influenzare quegli aspetti comportamentali modificabili che incidono sullo sviluppo delle patologie croniche. Spesso, in quest’ottica, influenzano anche le scelte a livello di disciplina sportiva o attività motoria dei figli, purtroppo non sempre in maniera costruttiva. Paul Thomas Young nel 1952 presenta la “teoria della motivazione”6, basata sull’assunto che, se le persone traggono piacere da una determinata attività (come la pratica dell’attività fisica), è probabile che cercheranno di ripetere nel tempo questa esperienza. Al contrario, se le persone durante la pratica della stes-

↑ Un’immagine dell’attività didattica al Sante De Sanctis, una “scuola speciale” degli anni Trenta riservata ad alunni diversamente abili. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.


aumentare il bagaglio motorio esperienziale degli alunni più giovani, incrementando il numero di ore impiegate in attività motorie strutturate e diversificate. NOTE 1. World Health Organization (WHO), Statistics Report 2016. 2. Okkio alla Salute, Sintesi dei risultati 2016. 3. K. Demofonti – Ufficio III (Rapporti con l’OMS e altre agenzie ONU), Informativa OMS: Attività Fisica, 2014. 4.G.Devoto,G.C.Oli,Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 2002. 5.A.Sartorio,J.M.Buckler,Obesità infantile: un problema in crescita. I consigli dei medici ai genitori, Vita e pensiero, Milano 2008. 6. P. T. Young, The role of hedonic processes in the organization of behavior, in «Psychological Review», 59 (1952), 4, pp. 249-262. 7. P. Ekkekakis, S.J. Petruzzello, Analysis of the affect measurement conundrum in exercise psychology: IV. A conceptual case for the affect circumplex, in «Psychology of Sport and Exercise», 2002, 3, pp. 35-63. 8. P. Ekkekakis, G. Parfitt, S.J. Petruzzello, The pleasure and displeasure people feel when they exercise at different intensities, in «Sport Med», 2011, pp. 641-671.

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↑ Una lezione di educazione fisica all’aria aperta della Scuola Elementare “C. Battisti” di Sozzigalli di Soliera (Modena). Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.

sa attività provano sensazioni negative, come dispiacere, stanchezza o disagio, le probabilità che i soggetti la ripetano nel tempo saranno molto basse. Un altro fattore che influenza l’aderenza all’attività fisica è poi rappresentato dall’autonomia, intesa come la possibilità di un individuo di poter scegliere in maniera autonoma e indipendente la tipologia di esercizio con cui allenarsi7. Infine, recenti studi8 hanno dimostrato che la riduzione dell’autonomia dei soggetti, attraverso l’imposizione agli stessi dell’attività da svolgere, porta a una scarsa motivazione, che nel tempo provoca un abbandono della pratica. In quest’ottica la pratica dell’attività motoria e sportiva va incentivata, considerando le naturali predisposizioni dei bambini verso attività ritenute piacevoli e gratificanti. Il ruolo del genitore deve essere quello di una “saggia guida” che incentiva, consiglia e motiva i figli, ma che non influenza né prevarica le scelte dei giovani. In aggiunta al supporto dei genitori, la scuola primaria, ancora una volta, può essere determinante nel contribuire ad

Luca Correale è LAB Manager LAMA, laureato magistrale in Scienze e Tecniche delle Attività Motorie Preventive e Adattate, dottorando in Psicologia, Neuroscienze e Statistica Medica presso l’Università di Pavia e docente a contratto del corso di Fitness Cardiometabolico. Si occupa di ricerca sulle risposte psico-fisiologiche all’allenamento in condizioni patologiche, in particolare: sclerosi multipla, diabete e obesità.

Matteo Vandoni è responsabile scientifico del Laboratorio di Attività Motoria Adattata (LAMA) dell’Università di Pavia. Dopo il diploma di laurea ISEF e la laurea in Scienze Motorie, ha conseguito il dottorato di ricerca in Aspetti Biomedici e Metodologici delle Attività Fisiche Preventive ed Adattate presso l’Università degli Studi di Roma Foro Italico. È ricercatore M-EDF 02 presso l’Università degli Studi di Pavia e docente del corso di Teoria, Tecnica e Didattica delle Attività Ricreative e del Tempo Libero. Si occupa di ricerca su attività motoria adattata alle patologie cardiometaboliche e delle implicazioni dell’esercizio fisico sulla salute in generale.


L’inclusione degli alunni disabili Una scuola inclusiva è una scuola che pensa e progetta tenendo a mente proprio tutti. L’inclusione degli studenti con disabilità nella scuola italiana si attua da ormai quarant’anni. Vediamo come.

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i docenti della scuola italiana oggi si richiede di rispondere ai diversi e specifici bisogni di ogni singolo alunno. Gli attuali orientamenti nell’ambito pedagogico e didattico,infatti,affermano la dignità della diversità, valorizzandola come risorsa per l’intero gruppo classe in grado, attraverso la valorizzazione delle potenzialità di ciascuno, di diventare una classe inclusiva. Il compagno o la compagna disabile diventa un soggetto attivo,che potrà portare agli altri la propria disabilità.Una scuola inclusiva è una scuola che pensa e progetta tenendo a mente proprio tutti, partendo dalla modifica del contesto e non agendo solo sul soggetto, ma trovando strategie specifiche, adatte alla disabilità, utili alla collettività. Nella scuola inclusiva hanno diritto e dignità di personalizzazione e individualizzazione «tutti gli studenti intesi come persone»1. Oggi si parla di inclusione, ma precedentemente venivano usati i termini inserimento e integrazione. Quali differenze si riscontrano? Negli anni Settanta in Italia, la chiusura delle scuole speciali (L. 517/1977) ha portato all’inserimento degli alunni disabili nelle classi comuni. Con gli anni e l’avanzare della ricerca pedagogica, il termine “inserimento” venne considerato troppo statico e incapace di esprimere il lavoro di co-educazione esistente tra gli alunni. Per questo motivo si è passati a parlare di “integrazione”, termine che meglio esprimeva l’idea che il compagno disabile non solo era fisicamente presente in “Il termine inclusione è stato scelto classe, ma condivideva l’attività didattica dei compagni, integrandosi, appunto, al lavoro della classe con l’intento di evidenziare una con le dovute modifiche, riduzioni, adattamenti e reciproca permeabilità e scambio il supporto dell’insegnante di sostegno. A partire tra alunni con potenzialità diverse dalla metà degli anni Novanta però, si cominciò a all’interno di una stessa classe. „ interrogarsi sulla valenza del termine “integrazione”, che rischiava di assumere connotati negativi, puramente compensatori, dimenticando aspetti unici legati alla persona umana, quali l’originalità, l’autenticità e la libertà. In quest’ottica è nato il termine “inclusione”, con l’intento di evidenziare una reciproca permeabilità e scambio tra alunni con potenzialità diverse all’interno di una stessa classe. L’inclusione è un fenomeno biunivoco, in cui non solo il compagno disabile si adatta al comportamento dei compagni non disabili, ma anche l’intera classe deve sforzarsi di adattarsi e comprendere la disabilità del compagno, imparando e cambiando mediante

Scuola / L’inclusione degli alunni disabili

di Paola Vicari e Federica Pramaggiore

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↑ Un momento di una partita di pallavolo seduta, Wikimedia commons.

l’esperienza con le persone con disabilità e viceversa. Con il nuovo termine di “inclusione”, quindi, si intende un processo, una filosofia dell’accettazione, ossia la capacità di fornire una cornice dentro cui gli alunni possano essere ugualmente valorizzati, trattati con rispetto e forniti di uguali opportunità.Si tratta di un approccio globale, non unicamente centrato sul singolo disabile, ma che si rivolge a tutti gli alunni e a tutte le loro potenzialità2.

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L’inclusione nelle scienze motorie e sportive

— L’inclusione degli studenti con disabilità nella scuola italiana si attua da ormai quarant’anni nella scuola regolare e nelle classi normali, e si realizza mediante l’individualizzazione e la personalizzazione delle attività didattiche,partendo dalle differenze e dalle potenzialità di ogni alunno disabile, valorizzate nel contesto del gruppo classe. Nel processo di individualizzazione della didattica si prevedono, per gli alunni disabili, attività necessarie affinché sia possibile raggiungere conoscenze e abilità comuni al resto della classe.Obiettivi comuni quindi al gruppo classe, ma

metodologie diverse, individualizzate, che tengano conto delle potenzialità, capacità e abilità personali dell’alunno disabile,che divengono risorsa, tentando di eliminare i fattori che originano o mantengono la difficoltà. Una didattica personalizzata prevede invece il raggiungimento di obiettivi differenti da quelli della classe, perché costruiti ad hoc sulla disabilità del singolo alunno, valorizzandone i punti di forza. In questo modo, considerando specificamente l’abilità diversa dell’alunno come una peculiarità sua propria, sarà data all’alunno la possibilità di sviluppare appieno le proprie potenzialità e dargli l’opportunità di trasmettere la propria abilità diversa agli altri. Prima di parlare di inclusione nelle scienze motorie e sportive curriculari italiane, bisogna chiarire due concetti fondamentali che la riguardano, quali APA e APE. L’Attività fisica adattata (APA) «individua un’area interdisciplinare di saperi e attività che include le attività di educazione fisica, tempo libero, danza, sport – fitness, riabilitazione per individui con impedimenti di qualunque età e lungo il ciclo della vita»3.


golamentata dalla legge 104/92, viene attuata compilando i seguenti moduli: DF o Diagnosi funzionale, PDF o Profilo dinamico funzionale, PEI o Piano educativo individualizzato. Il docente di scienze motorie e sportive partecipa alla progettazione e stesura di tali documenti che vengono redatti per l’alunno disabile, dando indicazioni rispetto allo sviluppo senso-percettivo, abilità motorie, condizione fisica, autonomia, abilità relazionali, rispetto delle regole. Come progettare un percorso motorio per l’alunno disabile? Seguendo questi step successivi: • analisi della situazione, dei bisogni, potenzialità e difficoltà del soggetto; • competenze, abilità e conoscenze possedute a livello motorio; • definizione degli obiettivi; • pianificazione delle attività; • descrizione delle attività,contenuti del percorso; • adattamenti alle attività (correzione, assistenza, linguaggio); • indicazioni metodologiche; • modificazioni della programmazione (minimali, parziali, totali); • strumenti e criteri di valutazione; • verifica e valutazione. Di seguito una breve descrizione di tre sport adattati: il baskin, il sitting volley e il torball.

Baskin

— Il baskin (abbreviazione di basket integrato) è un gioco a squadre pensato per far giocare insieme nella stessa squadra ragazzi disabili e non disabili. È uno sport che prende spunto dalla pallacanestro, della quale utilizza la struttura generale, mantenendone gli obiettivi, ma ne cambia le regole adattandole ai vari tipi di disabilità presenti. Possono giocare gli alunni con qualsiasi tipo di disabilità (fisica e/o mentale), purché capaci di tirare a canestro. Il gioco nasce a Cremona nel 2001 presso la scuola media “Virgilio” come attività extracurricolare e coinvolge un gruppo misto di circa 12/13 ragazzi dei quali 5 con diversi tipi di disabilità. Nel 2006 è nata l’Associazione baskin onlus che costituisce il riferimento di questa attività. Il regolamento è composto da 10 regole che valorizzano il contributo di ogni ragazzo/a all’interno della squadra: il successo comune, infatti, dipende realmente da tutti. Vengono adattati:

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L’Educazione fisica adattata (APE) è quella praticata nel contesto scolastico dagli studenti con bisogni educativi speciali e disabili. Nasce negli anni Cinquanta in America e alcuni la considerano come una specializzazione dell’APA, una «sottodisciplina dell’Educazione Fisica generale che si occupa in modo particolare dell’educazione fisica per gli studenti con disabilità»,che «permette le esperienze di sicurezza, personale soddisfazione e successo agli studenti con differenti abilità»4. Cosa significa adattare nelle scienze motorie e sportive? Significa cambiare, modificare in relazione ai dati osservati e alle potenzialità della persona disabile. L’adattamento è «l’arte, la scienza del saper controllare e modificare le variabili del movimento, in modo da ottenere i risultati voluti»5. Gli adattamenti per favorire la partecipazione degli alunni disabili alle attività motorie e sportive possono essere di tre tipologie: educativo/metodologico (didattica e metodologia); tecnico (regole e regolamenti); strutturale (attività motoria creata per una specifica tipologia di disabilità,come, ad esempio, il torball), come citato nella Carta europea dello sport per tutti. Le persone con disabilità (Consiglio d’Europa, 1987). Gli adattamenti o modificazioni sono di grado diverso in relazione alle caratteristiche della disabilità e alle potenzialità del singolo soggetto6. Le modificazioni possono essere minime, moderate e considerevoli. Gli adattamenti promuovono nel disabile sicurezza, divertimento e successo nelle attività; possono riguardare prassi e procedure quali: la dose/risposta, l’ambiente e i materiali, l’organizzazione, le condizioni esecutive, le scelte metodologiche. Il docente di scienze motorie e sportive quindi, nella sua progettazione, deve cercare degli obbiettivi per l’alunno disabile che si avvicinino il più possibile a quelli della classe o, viceversa, in una relazione reciproca. La didattica inclusiva si realizza mediante: • la cultura del compito, che prevede che tutto il gruppo in apprendimento partecipi al processo di insegnamento-apprendimento. • l’analisi del compito (task analysis) che prevede che i compiti complessi vengano destrutturalizzati e scomposti in compiti più semplici. L’integrazione degli alunni disabili, re-


• il materiale: si usano più canestri, due normali e due laterali più bassi (eventualmente sostituiti da scatoloni); è possibile sostituire la palla da mini-basket con una di dimensione e peso diversi; • lo spazio: sono previste zone protette per garantire il tiro nei canestri laterali; • le regole: ogni giocatore ha un ruolo definito dalle sue competenze motorie e ha di conseguenza un avversario diretto dello stesso livello. Questi ruoli sono numerati da 1 a 5 e hanno regole proprie; • le consegne: è possibile assegnare un tutor, un giocatore della squadra che può accompagnare più o meno direttamente le azioni di un compagno disabile.

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Sitting volley (pallavolo seduta) Un momento di una partita di torball, Wikimedia commons. ↓

— Il sitting volley è uno sport derivato dalla pallavolo, inventato in Olanda nel 1957 come sport adattato per la pratica sportiva delle persone diversamente abili, e deriva dalla combinazione della pallavolo

tradizionale con un gioco tedesco chiamato “palla seduta” (Sitzbälle). Consiste in una pallavolo giocata stando seduti sul pavimento, con il campo ridotto e la rete più bassa. La formazione della squadra è simile a quello della pallavolo normale: i giocatori sono seduti per terra disposti su due linee come nella pallavolo (prima e seconda linea), le posizioni in campo dei sei giocatori sono determinate dall’appoggio del gluteo sul pavimento e non dalla posizione di mani e gambe. Lo scopo del gioco è quello di inviare la palla sopra la rete, affinché cada a terra nel campo rivale,e di evitare che ciò avvenga sul proprio campo. La palla si mette in gioco con la battuta, e ogni squadra ha a disposizione tre tocchi per rinviarla nel campo avversario. L’azione di muro per intercettare la palla non è conteggiata come uno dei tre tocchi. È possibile effettuare un muro quando la palla è nella prima linea del campo avversario, cercando di intercettare la palla al di sopra della rete. I giocatori di seconda linea devono difendere i palloni attaccati dagli avversari e passare la palla per


Torball (palla rotante)

— Il torball è un gioco sportivo a squadre per non vedenti, in cui si fronteggiano due team composti ciascuno da 3 giocatori (con 3 riserve). È lo sport più praticato dai non vedenti in Italia, e prevede l’impiego di un pallone sferico di 500 grammi al cui interno sono presenti dei campanelli, in modo che il suono, e quindi la traiettoria del pallone, siano percepiti e intuiti dai giocatori. Il campo di gioco, diviso in due metà da tre cordicelle tese dotate di campanellini, è lungo 16 metri e largo 7 metri.La porta ha la stessa larghezza del campo e un’altezza di 1,30 metri. I giocatori (che possono essere non vedenti assoluti o ipovedenti) sono dotati di una benda oculare che impedisce completamente la vista e hanno come punto di riferimento un tappetino che consente l’orientamento. Lo scopo è tirare con le mani la palla verso la porta avversaria per segnare i gol facendola passare sotto le cordicelle che dividono il campo. Se il pallone tocca le cordicelle, si commette un fallo, con conseguente uscita momentanea di chi ha effettuato il tiro per la durata dell’azione successiva (punizione a tempo fermo) in modo da scontare la penalità; ogni tre falli si assegna un rigore agli avversari (punizione di squadra a tempo fermo con un solo giocatore per squadra in campo). La partita dura 10 minuti effettivi di gioco ed è divisa in due tempi; le punizioni si eseguono a tempo fermo. Vince la squadra che totalizza il maggior numero di reti.

Approfondire —

• S. Cabano, S. Cazzoli, S. Conte, L. Eid, P. Vicari, Nuova APA per l’inclusione. Attività fisica adattata nell’educazione fisica e sportiva, CAPDI & LSM (Confederazione associazioni diplomati ISEF e laureati scienze motorie) Mestre-Venezia 2018, disponibile presso www.capdi.it.

NOTE 1. L. 53/2003; L. 104/1992; L. 170/2010; C.M. 06/03/2013. 2. P. Vicari, Attività fisica adattata. Buone prassi per l’inclusione, G. D’Anna, Firenze 2017; Legge quadro 104/1992, MIUR 2009-Linee guida per l’integrazione scolastica e degli alunni con disabilità, ONU 2006-Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità ratificata con legge 18/2009, Legge 107/2015 La Buona Scuola-Inclusione e equità. 3. K. De Pauw, S. Gavron, Disability Sport, Human Kinetics Publishers, Champaign (Illinois) 2000. 4. J.P. Winnick, Adapted Physical Education and Sport, Human Kinetics Publishers,Champaign (Illinois) 2005. 5. C. Sherill, The physical self: From motivation to well-being, Human Kinetics Publishers, Champaign (Illinois) 1997. 6. S. Cazzoli, Scuola Inclusiva, 2014, p. 42-43, in L’educazione fisica che vogliamo. Nuove competenze motorie dai 3 ai 19 anni, CAPDI.

Paola Vicari è insegnante di scienze motorie e sportive e APA, e co-autrice della monografia Nuova APA per l’inclusione. Attività fisica adattata nell’educazione fisica e sportiva, CAPDI &LSM (Confederazione associazioni diplomati ISEF e laureati scienze motorie) Mestre-Venezia 2018.

Federica Pramaggiore è insegnante di scienze motorie e sportive presso il liceo scientifico sportivo A. Pacinotti di La Spezia.

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l’alzatore, ma non possono attaccare in prima linea. In fase difensiva i giocatori attendono a muro la palla e si posizionano in modo adeguato per intercettare l’attacco avversario. Si può effettuare il muro anche con una sola mano. L’azione termina quando la palla tocca terra o finisce fuori dal campo, o quando l’arbitro fischia un fallo.Viene utilizzato il sistema di punteggio Rally point system (RPS), cioè si assegna il punto all’attacco e alla difesa se la palla non ritorna nel campo avversario. Quando la squadra sbaglia servizio, gli avversari prendono un punto, e la battuta in questo caso passa all’altra squadra.Nel momento in cui la squadra in ricezione vince uno scambio e il servizio, le posizioni dei giocatori devono ruotare di un posto in senso orario.


SCUOLA

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Il Comitato paralimpico italiano (CIP) e le Special Olympics I ragazzi con disabilità sono inclusi nel percorso dello sport, a tutti i livelli e lungo l’arco della vita, mediante organizzazioni sportive e federazioni sportive, tra cui CIP (Comitato paralimpico italiano) e Special Olympics. Diverse le premesse, diversa la filosofia che muove le due organizzazioni. Mentre il Comitato paralimpico opera coerentemente con i criteri dei Giochi olimpici con gare competitive riservate ai migliori, Special Olympics è un programma educativo che propone e organizza allenamenti ed eventi solo per persone con disabilità intellettiva e per ogni livello di abilità ovunque nel mondo e a ogni livello (locale, nazionale ed internazionale). Le manifestazioni sportive sono aperte a tutti e premiano tutti, sulla base di regolamenti internazionali continuamente testati e aggiornati. Grazie all’approvazione del Decreto legislativo n. 43 del 27 febbraio 2017, il Comitato italiano paralimpico ha ottenuto il riconoscimento formale di Ente pubblico per lo sport praticato da persone disabili, mantenendo il ruolo di Confederazione delle federazioni e discipline sportive paralimpiche, sia a livello centrale che territoriale, con il compito di riconoscere qualunque organizzazione sportiva per disabili sul territorio nazionale e di garantire la massima diffusione dell’idea paralimpica e il più proficuo avviamento alla pratica sportiva delle persone disabili. IL CIP disciplina, regola e gestisce le attività sportive per persone disabili sul territorio nazionale, secondo criteri volti ad assicurare il diritto di partecipazione all’attività sportiva in condizioni di uguaglianza e pari opportunità. Per quanto ri-

guarda l’agonismo di alto livello, il CIP coordina e favorisce la preparazione atletica delle rappresentative paralimpiche delle diverse discipline, in vista degli impegni nazionali ed internazionali e soprattutto dei Giochi paralimpici, nelle stesse sedi e strutture utilizzate per le Olimpiadi. Il CIP riconosce 28 Federazioni sportive paralimpiche, 8 Discipline sportive paralimpiche, 13 Enti di promozione sportiva paralimpici, 5 Associazioni benemerite. I valori che ispirano il suo operare sono quelli della piena,possibile e,anzi,doverosa integrazione delle persone disabili nel tessuto sociale attraverso la pratica sportiva, strumento di benessere psicofisico. La sua mission è garantire a tutti i soggetti disabili, in ogni fascia di età e di popolazione, a qualunque livello e per qualsiasi tipologia di disabilità, il diritto allo sport, quale formidabile mezzo di crescita personale attraverso la sfida con se stessi e collettiva e attraverso l’incontro-confronto con l’altro, affinché ciascuna persona disabile abbia l’opportunità di migliorare il proprio benessere, recuperare la propria autostima e trovare una giusta dimensione nel vivere civile.

Le Special Olympics

— Special Olympics è un movimento globale di allenamenti e competizioni per persone con disabilità intellettiva che, attraverso questa proposta, possono vivere quotidianamente momenti di sport e manifestazioni in cui liberare la gioia di fare attività fisica e sperimentare nuove discipline. Il fine è l’utilizzo dell’attività motoria per il miglioramento dell’au-


Special Olympics Italia

— Special Olympics Italia ONLUS, Associazione benemerita del CONI e del CIP, è presente in Italia da 34 anni e opera in tutte le regioni,dove i team locali seguono l’allenamento degli atleti nel rispetto dei programmi internazionali e attraverso convenzioni stipulate con alcuni tra i maggiori Enti di promozione sportiva italiani. I potenziali beneficiari del programma in Italia sono più di 1.000.000 e sono circa 16.500 gli atleti aderenti al programma, in circa 180 eventi organizzati annualmente di cui 45 tradizionali e 135 unificati. Gli atleti partecipano ogni anno ai Giochi regionali e nazionali delle varie discipline. Rappresentative italiane gareggiano, inoltre, nei Giochi europei e mondiali, estivi e invernali. Sono circa 4.500 i volontari di cui il 70% proveniente da istituti scolastici, circa 3.000 i famigliari e 1.100 gli allenatori. Special Olympics in Italia è particolarmente attivo nei Progetti scuola, volontari e Unified Sports®.

Il Progetto scuola Special Olympics

— In Italia il Progetto scuola è indirizzato a tutti gli ordini e gradi di scuola. Ogni

istituto può sviluppare il programma secondo le proprie caratteristiche e adeguare il percorso in base alle proprie esigenze, inserendolo nel Piano dell’offerta formativa. Il progetto parte dal corso di informazione, che conduce gli insegnanti interessati a conoscere appieno le finalità e le modalità operative di Special Olympics. Il percorso didattico da portare avanti nella scuola prevede, oltre a momenti di preparazione teorica coerente con le altre materie curricolari, una fase dell’azione in cui c’è l’impegno pratico. Le attività sono finalizzate alla formazione di un team scolastico: un gruppo di insegnanti, personale non docente, famigliari e volontari organizzati intorno agli alunni con disabilità, oppure preparati a collaborare con i team del territorio. Tenendo conto che nelle scuole gli alunni con disabilità sono quasi 235.000, pari al 2,7% del numero complessivo degli alunni frequentanti, di cui il 65,3% (152.551 alunni) presenta una disabilità intellettiva, si desume quanto sia di fondamentale importanza supportare i docenti con progetti mirati all’integrazione dell’alunno con disabilità intellettiva, che possano trovare piena sensibilità e informazione durante tutto il percorso scolastico1. Gli alunni con disabilità intellettiva rappresentano la maggioranza in ogni ordine e grado di scuola: raggiungono il 69% del totale nella scuola primaria e il 71,9% nella scuola secondaria di promo grado. Il Progetto scuola recepisce appieno le Linee Guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (nota MIUR 4274 del 4/8/2009) in particolare nella realizzazione della dimensione inclusiva della scuola, nella tipologia di lavoro in rete (Team Special Olympics) e nella collaborazione con le famiglie. Nel Progetto scuola si parla di sport unificato, dove gli atleti (persone disabili) e partner (persone non disabili) si allenano e competono insieme nella stessa squadra.Gli sport unificati più praticati nelle scuole sono il calcio a cinque, il basket e la pallavolo. NOTE 1. Dati del Servizio statistico del MIUR aggiornati al settembre 2015.

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tonomia e delle condizioni di vita delle persone con disabilità intellettiva e delle loro famiglie, ponendoli nelle condizioni di ottenere le giuste occasioni di gratificazione e riconoscimento sociale. Special Olympics consente di sperimentare le diverse abilità,creando occasioni di conoscenza e quindi di maggiore disponibilità all’accoglienza della diversità in generale. La fondatrice di Special Olympics è Eunice Kennedy Shriver, che nel 1968 diede il via ufficiale al movimento con i primi Giochi internazionali di Chicago, in Illinois. Il giuramento dell’atleta Special Olympics è: «Che io possa vincere, ma se non riuscissi che io possa tentare con tutte le mie forze». I programmi di Special Olympics sono adottati in più di 172 Paesi. Si calcola che nel mondo ci siano 5.657.652 atleti, 627.452 famiglie e 1.156.397 volontari che ogni anno collaborano alla riuscita di 108.821 grandi eventi nel mondo. Special Olympics è riconosciuto dal Comitato olimpico internazionale, così come dal Comitato paralimpico.


Ci interessa una scuola interessante?

La ricerca / N. 14 Nuova Serie. Maggio 2018

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«Ma Prof, la scuola non è vita!», potreste sentirvi dire. Un insegnante di scienze motorie e sportive avanza alcune proposte per smentire una tale affermazione. A partire dalla corsa per non perdere il bus della scuola. di Fabrizio Lo Faro

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io figlio non mi sente,eppure io urlo e sono certo della bontà del suo udito. Quello che accade fuori dal finestrino del traghetto supera il mio richiamo: siamo attenti per davvero a una cosa per volta,e io sono in coda.Quante volte a scuola i nostri ragazzi guardano fuori dalla finestra, o peggio, annegano nei quattro pollici dello schermo di un cellulare, alla ricerca di qualcosa di interessante. Hanno deciso, con l’arroganza tipica della pubertà, che il loro interesse va riposto altrove; non c’è gara, a volte non si comincia neppure a competere. Esito di un processo che troppe volte ha disatteso le aspettative degli studenti, il desiderio di una scuola interessante ora viene esaudito da un nuovo modo di interpretare la formazione: creare competenze, prima ancora di pensare alla valutazione, e così il sapere diventa esperienza e serve davvero. Ai concetti (arci)noti di conoscenza e abilità si affianca il principio,tutt’altro che teorico,della competenza.In modo più che sintetico si può affermare che i tre termini rispondono ad altrettante domande: CONOSCENZA: che cosa sa? ABILITÀ: che cosa sa fare?


← Le attività in palestra contribuiscono a creare nuovi modelli relazionali.

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in ogni ambito disciplinare. In sintesi, quello che può risultare interessante è una scuola proiettata nel mondo, fatta da insegnanti che guardano dalla stessa finestra dei ragazzi, ma con l’esperienza e l’istinto educativo di chi non desidera solo insegnare, ma anche capire cosa ci succede. La strada è programmare e,conseguentemente, valutare per competenze. Per risultare più efficace cercherò di declinare il concetto di competenza (programmazione e valutazione), entrando nel merito della mia materia e del mio vissuto. Insegno scienze motorie e sportive, ma mi è ancora cara la definizione di Educazione fisica, valida fino al 2016 nel ciclo della secondaria di primo grado, come se non ci fosse più un’urgenza educativa. C’è ancora, caspita se c’è! Ora lavoro alla Caio Plinio di Como: un istituto tecnico dalla grande storia, un pezzo della città, dove l’urgenza di educare e di essere educati la sentiamo ancora tutti. Prendiamo gli sport di squadra, detti anche sport di situazione perché non ciclici,in qualche modo imprevedibili,come sono la pallavolo,il basket,il calcio ecc. Nell’insegnare i rudimenti della pallavolo, dobbiamo rendere chiaro ai destinatari del sapere che utilizzo potranno

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COMPETENZA: che cosa sa essere? «… non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che sa»1. La competenza è la combinazione miracolosa tra conoscenza e abilità e la chiave d’accesso dell’uomo, non dello studente, nel tessuto sociale da cui la scuola non può essere avulsa e disinteressata. È, in altre parole, lo sviluppo di un’abilità consapevole, figlia della conoscenza, ma spendibile nella vita vera, quella che si vede fuori dalla finestra. Ho sentito dire da una studentessa di buon livello: «…ma Prof, la scuola non è vita!»; se quello che succede a scuola non è davvero interessante, se non è attinente a quello che vale nel mondo, lo sfogo un po’ umorale della mia studentessa diventa una sentenza insuperabile. Occorre, con urgenza, smentire la mia alunna sulla distanza tra vita vera e scuola. Non che la scuola debba piegarsi a chissà quale logica giovanile o di costume; però è bene che non sia un mondo parallelo dove si diventa contenitori bucati, perché alla lunga quello che si impara (e basta),si perde.Se un sapere diventa spendibile, se ha un interesse riconoscibile, se ha una fruibilità immediata o futura, ma possibile, avremo studenti partecipi e davvero tesi ad acquisire competenze


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↑ Fra le cose interessanti che la scuola può offrire vi è anche la scoperta di tutte le potenzialità del proprio corpo.

fare delle competenze raggiunte (o raggiungibili) e, su questi obbiettivi (utili), modulare la valutazione. Nel concreto, esiste una pallavolo giocata nei palazzetti o in televisione (se sei davvero bravo!) ed esiste la pallavolo che si gioca all’oratorio o in spiaggia. Esistono i campionati, le divise, le partite vere ed esiste un modo, non sempre evidente, di fare amicizia o attività all’aria aperta (o entrambe le cose!). Salva la conoscenza dei fondamentali di gioco e delle basilari strategie di attacco e di difesa, costruiti gli automatismi motori per l’esecuzione dei gesti (le capacità), come sfrutto questo patrimonio? Ho la competenza di organizzare una partita tra amici, so organizzare il tempo, lo spazio, il materiale in modo efficace. Saprei organizzare un piccolo torneo tra classi di pari età. Sono in grado di seguire una partita in televisione, apprezzare il dono di atleti più capaci di me, so emozionarmi per la grandiosità di una schiacciata o di una battuta supersonica. Una pallavolo così è utile a tutti: è vita. Se una cosa così succede a scuola,forse,la mia studentessa brontolona avrà più interesse a tornarci. Quanto alla verifica delle competenze in senso stretto, mi sento di dire che se una prova è superabile copiando date e formule dal libro di testo, allora non rappresenta un banco di prova attendibile delle competenze. Semplicemente, misura quanta capacità ho di contenere informazioni, ma non prova che io le sappia spendere dentro e fuori dalla scuola. Rottamiamo le tabelle divise per sesso ed età, da cui ricaviamo un voto che è solo un numero, e che al ragazzo non racconta nulla. Torno a essere pratico: se propo-

niamo una prova sui 1.000 metri non esauriamo l’esperienza al 6 se fai meno di 5’30”, preoccupiamoci di creare competenza sul tema della resistenza, come si allena (metodologia di incremento delle capacità), cosa entra in gioco (fisiologia e substrati energetici coinvolti), che ruolo ha la motivazione (crescita psicofisica di tutto l’individuo, non del solo studente). Mi capita di incontrare ragazzi impauriti dalle prove di resistenza: spesso ricordano solo il voto e non quanti metri hanno percorso; non sanno dire se 3’ sui 1.000 è un buon tempo; hanno solo memoria di aver sofferto inutilmente. Ma se questi ragazzi dovessero correre a prendere l’autobus a 2 km da dove si trovano, se avessero poco meno di 15 minuti, avrebbero la competenza di non perdere il bus? E ancora, se i minuti fossero solo 10, avrebbero la competenza e l’umiltà di pensare già alla corsa successiva? Una scuola che crea competenze è più che utile, interessante. Il termine viene dal latino interesse, che significa «essere in mezzo, partecipare, importare». La scuola interessante è un posto in cui ci si vuole trovare perché si cresce davvero, e si impara a stare non solo tra i banchi ma nel mondo. NOTE 1. G. Wiggins, Assessing student performance, Jossey-Bass Publishers, San Francisco 1993.

Fabrizio Lo Faro è nato a Cantù il 12 giugno 1975. Insegnante di scienze motorie e sportive al Caio Plinio di Como (scuola secondaria di secondo grado), modesto triatleta, marito perfettibile e instancabile papà.


QdR / Didattica e letteratura L

a collana scientifica, dedicata a scuola e università, per riflettere su metodi e strumenti idonei a valorizzare il ruolo degli studi letterari, della scrittura, della lettura e dell’interpretazione delle opere.

DIRETTA DA Natascia Tonelli Simone Giusti COMITATO SCIENTIFICO Paolo Giovannetti (IULM) Pasquale Guaragnella (Università degli Studi di Bari) Marielle Macé (CRAL Parigi) Francisco Rico (Universitad Autònoma Barcelona) Francesco Stella (Università degli Studi di Siena) PROSSIME PUBBLICAZIONI Atlante digitale del ’900 a cura di Carlo Albarello Per le copie cartacee rivolgiti in libreria o chiedi al tuo rappresentante di zona.

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