La ricerca n. 19

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La ricerca N°19

Gennaio 2021 Anno 9 Nuova Serie – 6 Euro  laricerca.loescher.it

«Fondata sul lavoro» RI20 - Charlie Chaplin, Tempi moderni, 1936. Fotogramma.© Photo 12 / Alamy Stock Photo Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale-D.L. 353/2003 (conv. In L 27/20/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 19 anno 2021

La scuola e il mondo visti attraverso l’Articolo 1

SAPERI

Il lavoro nel mondo di oggi

DOSSIER

L’apprendistato in Germania

SCUOLA

Il lavoro nella scuola di oggi


I QUADERNI Quaderni della Ricerca: proposte metodologiche e aggiornamento didattico.

I libri pubblicati nella collana sono reperibili in libreria o presso le agenzie di zona. Indice e prime pagine sono disponibili sul sito de «La ricerca».

I Quaderni della Ricerca sono anche online https://laricerca.loescher.it/quaderni/


editoriale

Disorientamento

M

i evoca ricordi, questo numero de «La ricerca». Ricordi legati al mio passato scolastico e formativo. Uno su tutti: quattordici anni, adolescente brufoloso e zazzeruto, sono in piedi in mezzo a decine di coetanei nell’atrio porticato del Liceo della mia città, dove mi sono iscritto per dare soddisfazione alla mia voglia identitaria e all’ansia di promozione sociale della famiglia.Tutto l’orientamento necessario si era concentrato nella frase dell’insegnante di lettere delle medie: «Ma sì, è bravo… può fare il Classico!» … Arriva il preside per il saluto di benvenuto e sovrasta la folla assiepata, salendo i tre gradini che danno accesso a una delle ali dell’edificio. Il discorso è probabilmente noioso, motivo per cui non ne ricordo quasi nulla, se non questo passaggio: «Saluto in voi la futura classe dirigente!». C’è orgoglio, nel tono; forse anche supponenza: «siete qui» sottintende «e per questo solo fatto un Lasciamo in eredità un mondo nuovo, giorno vi sarà dato il potere!». Mi guardo attorno e vedo qualcuno meno scontato, se non del tutto ignoto. sorridere. Non so se ho mai riportato quella frase ai miei genitori, ma oggi sono certo che a loro non sarebbe parsa peregrina: da Sicuramente più impervio. „ quel mio avvio agli studi classici, in fondo, credo si attendessero realmente la palingenesi familiare auspicata da generazioni. Impiegato lui, casalinga lei, bersagli orgogliosi di qualche invidia parentale per quel 27 del mese che si offriva in garanzia alle cambiali, i miei non negavano a sé stessi il gusto del risentimento moralistico verso chiunque sembrasse approfittare del clima di sbracatura politico-economica che imperava in quegli anni (su tutti una coppia di vicini, disinvolti baby pensionati, sempre in caccia di occasioni di guadagno aggiuntivo). Erano tempi più facili di quelli odierni, mi capita spesso di pensare: l’ascensore sociale funzionava per tutti, almeno sulla carta; il welfare, nutrito di conti sbagliati, assicurava a chiunque una parità di opportunità mai sperimentata prima; la società attorno prometteva ricompense più che adeguate agli sforzi profusi. Poi, tutto è inevitabilmente evaporato. A me, impegnato nel mio cammino di crescita personale e sociale, favorito da una contingenza che ora so fortunata, i mutamenti sono apparsi chiari solo a posteriori: entrato nel mercato del lavoro appena in tempo per assistere alla fatica dei conoscenti più giovani, mi sono ritrovato a insegnare a classi sempre più smarrite di liceali, e a interloquire con genitori sempre meno sicuri dell’istituzione che rappresentavo. Cambiato ambito lavorativo, ho visto trasfigurare in pochi anni mestieri antichi e blasonati, spesso soppiantati da professionalità inattese, vantate in curricoli tessuti di competenze e abilità, attitudini e propensioni, certificazioni ed esperienze lavorative precarie, frammentarie, spesso incongrue… Un mondo nuovo, insomma; meno scontato, se non del tutto ignoto. Sicuramente più impervio per le generazioni cui lo lasciamo in eredità. Penso a questo, quando guardo ai giovani di oggi, temendone il risentimento generazionale. Penso a questo quando guardo i miei figli, nati a cavallo del millennio. A loro, in debito di fantasia e di coraggio, ho provato a proporre, nel corso degli ultimi due decenni, la stessa idea di “carriera” che in famiglia avevamo maturato mezzo secolo fa. Senza successo, per fortuna. Senza darmi retta quasi mai, hanno infatti preferito anteporre alla mia saggezza il loro entusiasmo; ai miei consigli i loro talenti. Non so come andrà a finire per loro, se riusciranno a realizzarsi davvero, e a trovare la collocazione professionale più adatta alle loro attitudini. So però che li vedo, soddisfatti, seguire le proprie vocazioni, e questo credo sia un viatico per nulla scontato in questo presente così inquieto e disorientato.

Sandro Invidia, direttore editoriale di Lœscher.


La ricerca Periodico semestrale Anno 9, Numero 19 Nuova Serie, gennaio 2021 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480 Editore Loescher Editore Direttore responsabile Mauro Reali Direttore editoriale Ubaldo Nicola Coordinamento editoriale Alessandra Nesti - PhP Impaginazione Ubaldo Nicola Copertina Emanuela Mazzucchetti, Davide Cucini Pubblicità interna e di copertina VisualGrafika - Torino Stampa Vincenzo Bona S.p.A. Strada Settimo, 370/30 – 10156 Torino (TO)

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Distribuzione Per informazioni scrivere a: laricerca@loescher.it Autori di questo numero Tiziana Andina, Silvia Contarini, Claudio Gentili, Vera Gheno, Simone Haasler, Michael Lanford, Francesca Nicola, Tattiya Maruco, Pietro Meloni, Maurizio Milani, Mahmut Ozer, Paola Parente, Matjaž Perc, Mauro Reali, Gianluca Spolverato, William G. Tierney, Annalisa Tonarelli, Andrea Valzania. Hanno collaborato alla redazione di questo numero Beatrice Bosso, Simone Giusti, Francesca Nicola © Loescher Editore via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino https://laricerca.loescher.it/ ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (online)


Sommario Il lavoro nel mondo di oggi

saperi 6

Lavoro, pensioni e giustizia Tiziana Andina

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Letteratura e lavoro

17

I confini sempre più incerti del lavoro

21

Spazi di vita e spazi di lavoro

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Digitalizzazione del lavoro e occupazione femminile

Silvia Contarini

Andrea Valzania

scuola 50

Paola Parente

58

63

68

71

dossier L’apprendistato in Germania Luci e ombre del modello tedesco

38

Il sistema tedesco funziona, ma è inesportabile

Francesca Nicola

Michael Lanford, Tattiya Maruco, William G. Tierney

43

Il caso tedesco e l’effetto Matteo

47

I problemi di genere dell’educazione professionale tedesca

Mahmut Ozer, Matjaž Perc

Simone Haasler

Studio e lavoro: un’alleanza necessaria Gianluca Spolverato

Vera Gheno

34

Lavoro e beni culturali: qualche esperienza Mauro Reali

Pietro Meloni

Questioni di lingua e di vita in un presente (iper)complesso

L’eclissi del lavoro nelle politiche scolastiche Claudio Gentili

Annalisa Tonarelli

29

Il lavoro della scuola, il lavoro nella scuola

Orientare i bambini, a scuola Maurizio Milani


saperi

Saperi / Lavoro, pensioni e giustizia

6

Lavoro, pensioni e giustizia Preservare l’equità tra generazioni, quella che chiameremo equità transgenerazionale, è vitale per limitare le diseguaglianze in ambito sociale. Il mercato del lavoro e i sistemi pensionistici stanno attraversando cambiamenti profondi, e sono ambiti esemplari entro cui misurare l’importanza della transgenerazionalità.

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

di Tiziana Andina

A

ll’inizio era una promessa di felicità, di libertà e di emancipazione: cose a cui gli uomini, almeno in teoria, aspirano. Libertà da vincoli fisici invasivi e libertà da molti lavori manuali e usuranti, sostituiti dalle macchine e dall’intelligenza artificiale. Lo sviluppo tecnologico avrebbe agevolato la mobilità, la rapidità e avrebbe liberato gli uomini dal dover compiere le mansioni più faticose e logoranti. Infine, l’intelligenza artificiale avrebbe affiancato quella naturale e gli esseri umani avrebbero pensato e immaginato di più e lavorato di meno. Il disegno complessivo o,comunque,la narrazione positiva di questo disegno vede nello sviluppo tecnologico un ausilio fondamentale al miglioramento netto della qualità della vita delle persone.


7 SAPERI / Lavoro, pensioni e giustizia

Archeologia industriale. Interno di una fabbrica abbandonata.


La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Saperi / Lavoro, pensioni e giustizia

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Eppure, come dimostra la cronaca, la storia non è andata esattamente in questo modo.Consideriamo per esempio la ricchezza: se è vero che è stata prodotta nuova ricchezza, è d’altro canto ugualmente vero che la sua redistribuzione in genere è stata e continua a essere insufficiente. Inoltre, in un mondo estremamente sofisticato sotto il profilo tecnologico e largamente globalizzato, la complessità finisce per essere l’elemento che caratterizza in modi decisivi l’assetto e le dinamiche sociali. Per muoversi efficacemente in contesti di questo tipo, la cultura e la formazione continua sono probabilmente l’unico strumento davvero utile. Ora,che gli esseri umani debbano investire sulla propria cultura per essere in grado di dominare la complessità che li circonda sembra una buona notizia, così come sembra essere una notizia non cattiva il fatto che i nuovi assetti che stanno assumendo le società 4.0 prevedano che i lavori meno sofisticati siano gradualmente appaltati alle macchine, oggetti altamente performanti e vantaggiosi sotto il profilo economico. In questa situazione ci stiamo progressivamente accorgendo di due cose: in primo luogo che non di rado gli esseri umani resistono al loro perfezionamento intellettuale e morale per indole naturale o perché la condizione sociale rende loro questo processo particolarmente gravoso. In secondo luogo, che il risultato di questa resistenza ha comportato, in molte circostanze, un aggravarsi della diseguaglianza sociale, poiché la forbice tra lavori prestigiosi, ben pagati e ad alta densità intellettuale e lavori precari, mal pagati e a bassa densità intellettuale si è non solo ampliata, ma ha anche dato corso a un processo di progressiva desertificazione dell’umano, nel senso che le macchine stanno appunto sostituendo gradualmente gli esseri umani, per cui coloro i quali vogliono o vorrebbero continuare a svolgere lavori a basso contenuto intellettuale spesso si trovano nell’impossibilità di farlo, sostituiti da macchine più e meglio performanti. Un secondo punto mi pare debba essere considerato con attenzione: si tratta del grave rischio di precarizzazione a cui stanno andando incontro, oramai da oltre quindici anni, le nuove generazioni. In una realtà fortemente competitiva, in cui persone e cose si muovono in tempi molto contratti e la produzione industriale è in grado di raggiungere numeri elevatissimi,il peso delle trasformazioni dei cicli produttivi nell’industria è stato spesso spostato sui lavoratori. A parte alcune eccezioni, la gran parte delle imprese produce sulla base di quello che il mercato richiede. I lavoratori, perciò, spesso sono considerati funzionali allo scopo, ovvero alla soglia di produzione da mantenere o agli obiettivi fissati dal mercato: perciò generalmente le aziende individuano una quota fissa di persone che sostengono la produzione in pianta stabile e

che rappresentano l’ossatura dell’impresa e una quota variabile che viene fatta lavorare soltanto in caso di necessità. Questa quota di lavoratori è destinata a essere mantenuta precaria nel caso in cui l’aumento della domanda si riveli variabile, oppure viene dismessa nel caso in cui la richiesta si affievolisca. Il dato significativo sotto il profilo scientifico, ma devastante dal punto di vista dell’equilibrio sociale, è che la quota di lavoratori precari, o addirittura a chiamata, sta diventando sempre più ampia. Questo è vero sia nel settore privato sia in quello pubblico. Per dare l’idea di quanto la situazione sia paradossale sarà sufficiente rappresentare un tipico caso italiano di cui sono protagoniste persone in carne e ossa: Federica, Alessandra, Laura e Andrea1, che per qualche tempo hanno “lavorato” per la Biblioteca Nazionale di Roma, la più grande biblioteca italiana. Il fatto che lavorassero per la Biblioteca Nazionale significa che erano state loro affidate le mansioni che normalmente vengono assegnate a un lavoratore di una biblioteca. Pur svolgendo mansioni del tutto normali, l’istituzione li considerava alla stregua di lavoratori fantasma: lavoravano senza che di fatto fossero riconosciuti né sotto il profilo economico – né il salario né le modalità di erogazione dello stesso erano equiparabili a quelli degli altri lavoratori – né sotto il profilo sociale.Tutti loro, infatti, formalmente non erano dipendenti pubblici,pur lavorando per il settore pubblico. In realtà, non erano nemmeno dipendenti e, a guardar meglio, non erano nemmeno lavoratori. Come ha mostrato l’inchiesta giornalistica che ha portato il caso all’attenzione dei media, Federica, Alessandra, Laura e Andrea per più di cinque anni vennero pagati utilizzando dei voucher: venivano riconosciuti loro circa 400 euro per un part-time di 24 ore settimanali.Tecnicamente,dunque,non erano lavoratori, eppure lavoravano. Erano classificati come volontari “Avaca” – Associazione volontari attività culturali e ambientali,un’associazione che molto assomigliava a un fornitore di manodopera qualificata. Il concetto di lavoratore occulto presenta una casistica piuttosto ampia. Sono considerati lavoratori particolari anche quei giovani che accedono a un tirocinio o a uno stage: in questo caso l’idea di fondo è che la formazione abbia un prezzo e che, in qualche modo, sia il lavoratore a dover pagare per poter accedere alla formazione sul campo. In questo modo il lavoratore, quando addirittura non paga per lavorare, e per imparare, accetta di lavorare quasi gratis, poiché l’idea è che il compenso principale sia nel trasferimento di competenze che riceve. Questi pochi esempi rendono bene l’idea di come le forme del lavoro siano diventate, nel tempo, assai più difficile da catturare.Esiste un certo novero di domande che hanno a che fare con la natura del lavoro e del lavoratore come, per esempio: chi


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rivedere il modo in cui generalmente concettualizziamo il lavoro – e a essere cambiati, casomai, sono i luoghi, i tempi e gli investimenti necessari in termini di conoscenze che sono diventati imprescindibili e che dovranno essere ingenti. Circa i luoghi e i tempi, è presto detto: è sufficiente un buon collegamento a internet e la sede di lavoro può essere ovunque. Poiché il lavoro spesso non è più rigidamente vincolato a luoghi definiti anche i tempi sono diventati più flessibili: se il luogo è mutevole, il tempo è completamente dilatabile purché lo si voglia o purché le specifiche dinamiche lavorative lo richiedano. È ormai possibile lavorare da casa con una certa facilità e in un futuro non troppo lontano sarà probabilmente possibile trasformare persino l’automobile in uno studio mobile, perfettamente connesso. Questa situazione, in continua e profonda trasformazione, le cui dinamiche sono state accelerate dalla pandemia, innesca una serie di problemi di giustizia sociale, poiché non di rado si verifica la circostanza per cui uno stesso mercato del lavoro presenta disparità rilevanti per quanto attiene ai diritti fondamentali goduti dai lavoratori: da un lato abbiamo un mondo del lavoro composto da lavoratori – spesso si tratta dei più anziani – che possono godere una serie di diritti e di tutele che proteggono la loro professionalità, dall’altro lato, nuove generazioni che tardano moltissimo a stabilizzarsi e perciò a essere tutelate. Definiamo questo fenomeno come iniquità transgenerazionale, ovvero come una condizione

SAPERI / Lavoro, pensioni e giustizia

è che lavora per davvero? E quando lo fa? Possiamo identificare luoghi deputati al lavoro? Oppure, ancora, per quale motivo definiamo “volontari” persone che a tutti gli effetti svolgono una mansione lavorativa di otto ore al giorno? Altre questioni riguardano il ruolo che le istituzioni svolgono nella creazione,nella difesa e nella reinterpretazione del lavoro: per esempio, perché lo Stato non si assume l’onere di tutelare e difendere il lavoro? Perché, anzi, lo Stato è molto spesso ufficiosamente un datore di lavoro in nero o un datore di lavoro a condizioni che sono lesive della dignità personale, come è avvenuto nel caso dei “volontari” della Biblioteca Nazionale? A questo proposito, nonostante il fatto che la definizione tradizionale di lavoro rimanga sostanzialmente invariata, ovvero «una attività umana rivolta alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale» (Treccani), la tendenza più diffusa sembra essere da un lato quella di remunerare, in termini di denaro e di diritti, solamente il lavoro altamente qualificato, quello cioè che non può essere surrogato da una macchina, dall’altro quella di precarizzare e impoverire in maniera drammatica il lavoro di bassa qualità, che è appunto quanto è accaduto ai lavoratori della Biblioteca Nazionale e quanto accade ogni giorno a migliaia di giovani stagisti. Ripartiamo dunque da qui, ovvero dal fatto che nelle società 4.0 la definizione di lavoro non è cambiata – nonostante esistano buone ragioni per

↑ I locali vuoti di una fabbrica abbandonata.


permanente di ingiustizia tra generazioni che caratterizza il mondo del lavoro contemporaneo. L’iniquità transgenerazionale implica un problema importante, ovvero che in una medesima condizione lavorativa due individui, appartenenti a generazioni diverse, godano di diritti diversi, per esempio i più giovani subiscano una riduzione significativa del welfare. Per intenderci, i lavori flessibili (nel tempo e nello spazio) sono anche quelli che generalmente consentono l’accesso a un welfare ridotto, nonostante il fatto che questi lavori, come tutti gli altri, contribuiscono al benessere collettivo in termini di fiscalità generale. La tesi che vorrei sostenere è che a monte di una situazione di iniquità transgenerazionale troviamo un deficit di transgenerazionalità, ovvero una generale sottovalutazione dell’importanza cruciale che i legami tra generazioni conservano all’interno delle nostre società2.

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Saperi / Lavoro, pensioni e giustizia

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Che cos’è la transgenerazionalità

→ Edificio industriale in abbandono.

— Incominciamo, dunque, da una riflessione sul “che cos’è”.Per comprendere la natura della transgenerazionalità può infatti essere utile partire dall’opposto, ovvero da quelle società che mostrano di essere chiaramente poco attente alla dimensione transgenerazionale.Qualche considerazione circa le società – ovvero le istituzioni e le persone – che negligono la dimensione transgenerazionale ci porterà a sviluppare alcune interessanti osservazioni. La transgenerazionalità è un legame sociale che si fonda su di un doppio riconoscimento: da un lato, il rapporto biologico che lega i genitori ai figli, ovvero la “transgenerazionalità primaria”3, dall’altro il legame che unisce le diverse generazioni che appartengono a un medesimo contesto politico, ovvero la “transgenerazionalità secondaria”. Mentre la transgenerazionalità primaria è un vincolo che ha carattere biologico, la transgenerazionalità secondaria è un vincolo sociale, cioè un vincolo che emerge dalla struttura sociale che lega una generazione all’altra e che costituisce la condizione di possibilità dell’esistenza di Stati e metaStati. Già Kant negli scritti politici osservava che senza il passaggio generazionale l’umanità non sarebbe in grado di dispiegare le sue potenzialità e – aggiungiamo noi – ogni Stato avrebbe una durata circoscritta alla vita di poche generazioni. Gli esseri umani hanno bisogno di tempi lunghi, a volte lunghissimi, per imparare, organizzare buone pratiche, creare sapere: «Nell’essere umano (come unica creatura razionale sulla terra) quelle disposizioni naturali che sono dirette all’uso della ragione possono svilupparsi pienamente solo nel genere, ma non nell’individuo»4. Perciò il lascito generazionale è tanto prezioso: per un certo tratto della storia umana esso è cresciuto di generazione in generazione.

Se questo è vero, è altresì necessario che l’azione politica messa in campo dagli Stati tenga conto del fatto che il vincolo transgenerazionale esiste, è una delle condizioni che consente alle formazioni politiche di durare nel tempo, e deve essere messo in conto non soltanto nelle occasioni in cui una generazione avanza a un’altra delle richieste,reclamando, per esempio, dei diritti, ma anche quando è necessario prevedere dei doveri che accompagnino quei diritti. Torniamo alla questione di che cosa significhi non essere transgenerazionali. Il legame transgenerazionale interno al mercato del lavoro assume almeno una duplice forma: quella che prevede il passaggio di competenze da una generazione a un’altra, e quella che prevede la “collaborazione” tra coloro i quali lavorano e coloro i quali sono in quiescenza,ovvero hanno lavorato per molti anni e, a un certo punto della vita, godono della pensione. L’assegno dei pensionati come è noto viene pagato dai lavoratori attivi, secondo un esemplare scambio transgenerazionale. Ora, credo sia interessante considerare un vecchio caso italiano. È il 1973, il governo Rumor vara un provvedimento che sarà noto con il nome di “baby pensioni”: il D.P.R 10925 (cfr., in particolar modo, l’articolo 42). Si tratta di un provvedimento che accorda condizioni estremamente generose al pensionamento di alcune categorie di dipendenti pubblici: 14 anni,6 mesi e 1 giorno è il tempo fissato affinché le lavoratrici sposate con figli possano andare in pensione. 20 anni di lavoro, e di contributi, è quanto occorre agli altri lavoratori statali,mentre ai dipendenti degli enti locali occorrono 25 anni di contributi versati. L’opportunità di uscita anticipata venne sfruttata da circa 400.000 persone, per una spesa che è stata stimata di circa 7,5 miliardi di euro all’anno. Le pensioni baby vennero abrogate nel 1992 dal governo Amato, quando l’Italia rischiò una crisi valutaria che indusse quel governo a disegnare una manovra di rigore fondata sulla revisione del sistema pensionistico, sull’introduzione di una tassa sulla casa e su di un prelievo forzoso dai conti correnti. Vediamo di considerare la misura dal punto di vista del patto transgenerazionale: da un lato abbiamo le generazioni che hanno avuto accesso a una pensione agevolata in termini di contributi versati e di età del lavoratore che ha avuto accesso alla misura pensionistica, dall’altro lato le generazioni che hanno sostenuto e che sosterranno quella misura e che, a loro volta, dovranno prima o poi accedere alla pensione. Il provvedimento Rumor ha lasciato conseguenze pesanti e protratte nel tempo: un considerevole ammontare di denaro pubblico è stato utilizzato per pagare pensioni a persone che ancora erano nel pieno della produttività e che avrebbero tranquillamente potuto


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continuare a lavorare per altri venticinque anni, contribuendo alla ricchezza propria e a quella del proprio Paese. Veniamo alle conseguenze di quella decisione. Anzitutto ve ne sono state sul piano della giustizia tra le generazioni,poiché le generazioni successive a quelle coorti di baby-pensionati, oltre a dover sostenere parte della spesa per pagare gli assegni, sarebbero state soggette a trattamenti pensionistici assai meno vantaggiosi, sia in termini economici sia in termini di diritti, per esempio in riferimento alla età pensionabile. In una parola, sarebbero dovuti andare in pensione decisamente più tardi e con assegni più bassi, questo per consentire la sostenibilità del sistema. Per poter garantire pensionamenti anticipati nel lungo periodo – per poterli cioè accordare negli anni anche alle generazioni future, come sarebbe stato giusto in un’ottica di equità intergenerazionale – avrebbero dovuto verificarsi, congiuntamente, alcuni fattori: il saldo della curva della popolazione residente in Italia avrebbe dovuto rimanere positivo e la crescita economica avrebbe dovuto mantenersi sostenuta. E, invece, accade l’opposto: la crescita della popolazione residente, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, tese a rallentare in modo sostanziale fino a fermarsi negli anni Ottanta. Il livello più basso venne toccato nel 2017. In questo quadro,al prodotto interno lordo,come è facile immaginare, non tocca una sorte migliore, e infatti il rapporto debito/PIL è andato crescendo in modo costante dagli anni Settanta del secolo scorso sino al 1994, per poi prendere ancora una volta a risalire a partire dal 20086. Considerando i dati, la situazione non è, evidentemente, delle più allegre: a partire dagli anni Settanta del secolo scorso la situazione debitoria italiana si è progressivamente aggravata a causa di una spesa pubblica elevata – il comparto pensionistico è una delle voci che incidono in maniera più significativa. Questo dato s’accompagna a una marcata riduzione del tasso di natalità, a un considerevole aumento dell’età della popolazione e a una riduzione progressiva del PIL. La domanda a questo punto diventa chiaramente questa: tutto ciò era prevedibile nel 1973, ovvero all’epoca del DPR Rumor? Come insegna il filosofo Hans Jonas7, quando parliamo di questioni transgenerazionali – e le pensioni lo sono dato che le conseguenze di una decisione presa in questa materia si misurano su tempi assai lunghi – le previsioni peggiori vanno considerate con attenzione al momento di decidere. Il governo italiano, nella persona di Rumor e del parlamento tutto, non lo fecero e preferirono assumere una decisione che poteva garantire vasto consenso ai partiti di governo.Governo e parlamento non furono all’altezza del compito di governare per il bene dello stato, ovvero per il bene dei concittadini e dei cittadini futuri.


Saperi / Lavoro, pensioni e giustizia

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↑ Fabbrica in disuso.

Iniquità transgenerazionale

— Le riflessioni sulle questioni di giustizia – nel caso specifico, meglio sarebbe dire ingiustizia sociale – sollevate da questo provvedimento meritano ancora qualche considerazione. Il sistema pensionistico di un Paese rappresenta un tassello importante dello Stato sociale, che in genere è piuttosto difficile da mantenere in equilibrio. Determinata un’età congrua per il ritiro dal lavoro, qualunque legge che regoli questa materia deve fondarsi su considerazioni che investono almeno due piani: da un lato deve tenere presente considerazioni che attengono alla sfera della giustizia sociale e distributiva e che tengano conto delle diverse tipologie di lavori, del tipo di usura o di fatica che richiedono, delle differenze di genere e così via. Dall’altro lato sono necessarie considerazioni che mirano a perseguire la giustizia tra generazioni: che tendano cioè a porre padri e figli in condizioni almeno analoghe relativamente ai diritti di cui godono e ai doveri a cui vanno soggetti. La legge Rumor ha sovvertito la direzione del lascito generazionale di cui parlava Kant, ponendo le basi per un netto indebitamento – in questo caso impoverimento poiché il debito non è stato usato per creare nuova ricchezza – delle generazioni future. Esaminando il sistema italiano di previdenza, si possono agevolmente verificare le numerose riforme a cui è stato sottoposto8. Consideriamo brevemente le tappe fondamentali. La previdenza

sociale in Italia nasce nel 1898 con l’obiettivo di tutelare l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Nel 1919 l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia diventa obbligatoria per i lavoratori dipendenti privati. S’introduce l’istituto della pensione di invalidità e vecchiaia. Sempre nel 1919 viene introdotta l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione.Tra il 1927 e il 1941 viene introdotta la Cassa Integrazione guadagni, importante per tutelare i guadagni delle persone che perdono il lavoro, il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia viene portato a 60 anni per gli uomini, 55 per le donne, viene istituita la pensione di reversibilità. Nel periodo che va dal 1968 al 1972, il sistema retributivo basato sulle ultime retribuzioni percepite sostituisce quello contributivo. Nascono la pensione di anzianità e la pensione sociale erogata a tutti i cittadini al di sopra dei 65 anni di età e al di sotto di una certa soglia di reddito. Nel 1992 il legislatore eleva l’età minima a 65 anni per gli uomini e per le donne e il requisito assicurativo minimo a 20 anni. A partire dal 1995 vengono introdotti una serie di correttivi che mirano a calcolare le pensioni su alcuni principi: l’ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa, la durata prevista della prestazione pensionistica, la speranza di vita. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, l’idea di fondo è che l’allungamento delle aspettative di vita debba incidere sulle modalità di calcolo degli assegni. E, in effetti, se le persone godono di


Approfondire —

• T. Andina, Transgenerazionalità. Una filosofia per le generazioni future, Carocci, Roma 2020. • T. Hobbes, Leviathan, a cura di C.B Macpherson, Penguin, Harmondsworth 1968. • H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt/M 1979; trad. it. Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. P. Rinaudo, Einaudi, Torino 1990. • A. Schützenberger, The Ancestor Syndrome: Transgenerational Psychotherapy and the Hidden Links in the Family Tree, Routledge, London 1998.

si vogliano ridisegnare completamente i sistemi sociali così per come li conosciamo. NOTE 1. I dati completi si possono ricavare dall’inchiesta giornalistica pubblicata da R. Ciccarelli su «Il Manifesto» il 4 giugno 2014, dal titolo Manuale per uccidere una biblioteca nazionale. 2. Per una trattazione sistematica della questione transgenerazionale mi permetto di rimandare a T. Andina. Transgenerazionalità. Una filosofia per le generazioni future, Carocci, Roma 2020. 3. Per un approfondimento delle questioni relative alla transgenerazionalità primaria rimandiamo a A. Schützenberger, The Ancestor Syndrome: Transgenerational Psychotherapy and the Hidden Links in the Family Tree, Routledge, London 1998. 4. I. Kant, Idea per una storia universale in un intento cosmopolitico, trad. it. M. C. Pievatolo, in Sette scritti politici liberi, Firenze University Press 2011, p. 28. 5. Per il testo completo si rimanda a: http://www.comune.jesi.an.it/MV/leggi/dpr1092-73.htm. 6. Per una interessante comparazione dinamica degli andamenti delle economie dei principali paesi industrializzati tra il 1960 e il 2017 cfr. il World GDP by Country (http://digg.com/video/top-10-countries-bygdp-1960-2017). 7. Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. P. Rinaudo, Einaudi, Torino 1990, ed. or. Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt/M 1979. Jonas affronta la questione dell’importanza del futuro per la strutturazione dei modelli sociali, soffermandosi soprattutto sul ruolo e sulle potenzialità della tecnica. La tesi di fondo, in buona sostanza, è questa: poiché lo sviluppo tecnologico ha accelerato in maniera consistente le possibilità dell’uomo di intervento sulla natura e poiché mai come nell’ultimo secolo lo sviluppo tecnico si è mostrato in grado di alterare gli equilibri profondi della natura, l’uomo deve assumersi il compito di elaborare previsioni che si facciano carico anche delle conseguenze più negative. Per Jonas, perciò, costruire il mondo sociale significa prima di tutto prendersi carico delle conseguenze delle decisioni e delle azioni sociali, dunque fare i conti con il futuro. 8. INPS: https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default. aspx?sPathID=%3b0%3b51646%3b&lastMenu=51646&iMenu=11&p4=2.

Tiziana Andina è professoressa ordinaria di filosofia teoretica all’Università di Torino. Tra i suoi libri recenti ricordiamo: Transgenerazionalità. Una filosofia per le generazioni future (2020), Filosofia dell’arte. Da Hegel a Danto. Nuova edizione (2019), Ontologia sociale. Transgenerazionalità, potere, giustizia (2016).

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una maggiore speranza di vita e hanno accesso a una migliore qualità della vita è auspicabile che rimangano attive nel mondo del lavoro più a lungo. Questo almeno in termini generali e fatte le dovute eccezioni sui singoli casi o relativamente ad alcune categorie di lavoratori. Niente da eccepire in teoria, se non fosse appunto che all’interno di questo trend generale il governo Rumor ha consentito che si allontanasse prematuramente dal lavoro una intera generazione, ponendo le premesse per creare una situazione di vera e propria ingiustizia generazionale nei confronti di quei cittadini che non solo non hanno più potuto godere dei medesimi diritti per via di una composizione demografica, sociale ed economica che nel frattempo era molto cambiata, ma che anzi in molti casi hanno dovuto sostenere i diritti di quei baby-pensionati a scapito dei propri. Se assumiamo l’idea che un individuo debba lavorare per il proprio benessere e per il benessere collettivo sino all’approssimarsi della vecchiaia, possiamo concordare sulla tesi secondo cui il limite per accedere alla tutela pensionistica può variare in riferimento a diversi fattori, ma che tuttavia non deve andare a sostituirsi anzitempo all’attività lavorativa poiché un sistema in cui l’età della popolazione cresce, le nascite sono in costante diminuzione e l’immigrazione non riesce a sostituirsi in modo ottimale alla perdita di popolazione attiva, può essere sostenibile solo se le persone lavorano (dunque si auto-sostengono) il più a lungo possibile. A meno, è ovvio, che non


Letteratura e lavoro

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La realtà condiziona profondamente l’immaginario letterario: ne dà conferma la produzione letteraria contemporanea, abbondante e diversificata, che prende a tema la questione del lavoro. di Silvia Contarini

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S → Ciminiere abbandonate.

i riscontra nell’ultimo ventennio una rinnovata attenzione al lavoro che mancava dalla fortunata stagione della letteratura cosiddetta industriale, quella che aveva preso avvio agli inizi degli anni Sessanta in corrispondenza al boom economico e a una trasformazione profonda del tessuto produttivo: l’Italia passava da Paese agricolo a Paese industriale, vivendo anche una forte migrazione interna, dalle campagne alle città, dal Sud al Nord. La letteratura si interessa allora al mondo della fabbrica, alla vita degli operai e alle loro lotte, all’inurbamento. Pietra miliare del dibattito su come rappresentare il mondo del lavoro è il numero 4/1961 della rivista il Menabò, diretta da Vittorini e Calvino, intitolato «Industria e letteratura». L’editoriale, a firma di Vittorini, si interroga proprio sulla necessità di adattare la forma letteraria alla nuova realtà produttiva, agli effetti socio-economici, culturali e personali dell’industrializzazione. Sono pubblicati, tra gli altri, la poesia di Vittorio Sereni Una vista in fabbrica, e il lungo testo di Ottiero Ottieri Taccuino industriale. Di Ottieri erano già usciti i romanzi Tempi Stretti (1957), incentrato sulla trasformazione della realtà industriale a Milano, e Donnarumma all’assalto (1959), una specie di romanzo-diario di ispirazione autobiografica, acuta analisi del funzionamento di un sistema che integra solo chi ha competenze lavorative, mentre tutti hanno la necessità di avere un lavoro. Nel pri-

mo numero del Menabò era già uscito il romanzo di Lucio Mastronardi Il calzolaio di Vigevano (1959), primo di una trilogia (Il maestro di Vigevano, 1962, Il meridionale di Vigevano, 1964) in cui si intersecano i temi del lavoro,dell’industrializzazione e della migrazione. Lo stesso anno escono altri due romanzi fondamentali, Vita agra di Luciano Bianciardi, dura critica della società del “miracolo economico”


Un nuovo interesse della letteratura per il mondo lavorativo si riscontra, in modo altrettanto marcato, agli inizi degli anni Duemila, in corrispondenza con grandi trasformazioni economiche, rapidamente riassumibili in termini di globalizzazione e nuove tecnologie; pur mostrando incrinature, impera a livello mondiale un modello economico che comporta la generalizzazione della flessibilità del lavoro. L’azienda – termine onnicomprensivo – ha sostituito la fabbrica, il terziario avanzato ha soppiantato l’industria, la produzione si astrae e si concettualizza, le attività si delocalizzano, i flussi finanziari derealizzano il denaro e la finanza domina l’economia, le tecnologie smaterializzano il lavoro, la precarietà e l’atipicità della prestazione lavorativa diventano norma; a questi fenomeni si aggiunge la spinta di popolazioni migranti che premono per entrare nei mondi idealizzati dello sviluppo e della pace subendo in realtà al loro arrivo condizioni lavorative abusive. In tale quadro che coinvolge in Occidente i cosiddetti Paesi sviluppati, l’Italia conserva alcune sue peculiarità: la purtroppo sempre attuale questione meridionale, esasperata a livello economico da un accentuato divario Nord/Sud; il peso specifico dell’economia sommersa e criminale, inclusiva di lavoro nero e traffici mafiosi; la forte disoccupazione giovanile e femminile, di cui non vanno sottovalutate le conseguenze socio-culturali (la permanenza dei giovani in famiglia, il calo delle nascite ecc.); la miriade di piccole-medie imprese – i distretti industriali all’origine del Made in Italy, la “fabbrichetta” – che, quando non trasferiscono altrove gli impianti produttivi, segnano il territorio; l’arrivo sul mercato dei cosiddetti “extra-comunitari” o “clandestini”, mano d’opera concorrenziale, sfruttabile e sfruttata. Non stupisce allora che le tematiche della nuova letteratura del lavoro siano diverse, tanto è diverso il contesto sociale ed economico,e parzialmente diversi sono i problemi: precariato, disoccupazione, poor workers, mobbing, rottamazione, delocalizzazione, morti bianche, caporalato... Potremmo aggiungere che sono diversi anche gli scrittori e le ragioni del loro interesse,poiché chi racconta non guarda al mondo del lavoro da fuori o dall’alto, ma lo sperimenta molto spesso sulla propria persona; molti giovani autori appartengono alla “generazione precaria”, sono essi stessi “ad alta flessibilità”. La realtà economica influenza quindi direttamente tutta una generazione di scrittori e ha addirittura suscitato vocazioni e libri di esordio d’impronta, appunto, autobiografica. Facendo opera di denuncia e di testimonianza, la nuova produzione letteraria descrive insomma il mondo del non-lavoro, quello della fabbrica dismessa e delle miniere chiuse, della perdita di certezze, di crisi e nuove povertà; tuttavia essa prospetta anche una nuova “arte dell’arrangiarsi”,

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(Bianciardi, che in quegli anni lavorava presso case editrici e riviste, aveva già pubblicato Il lavoro culturale nel 1956), e Memoriale di Paolo Volponi, anch’egli come Ottieri e altri intellettuali dirigente d’azienda, e quindi capace di portare uno sguardo dall’interno sulle contraddizioni del sistema industriale. Emergono, da questi e altri romanzi ascrivibili alla medesima corrente letteraria, come Il padrone di Goffredo Parise, del 1965 (ma si pensi anche alle poesie di Fortini o Giudici), non solo i problemi che più interpellano gli intellettuali, ma anche un’auto-riflessione sul proprio ruolo e le proprie aspirazioni, in un periodo storico in cui ideali di uguaglianza e democrazia animavano anche imprenditori riformisti come Adriano Olivetti, il quale aveva fatto entrare nella realtà della fabbrica intellettuali e scrittori proprio con l’idea di renderla più umana e attenuare le spinte della modernizzazione. A conclusione emblematica di questo denso momento letterario vogliamo collocare Vogliamo tutto di Nanni Balestrini (1971),romanzo che segna un punto di non ritorno dell’utopia riformista, perché esprime il rifiuto del lavoro in fabbrica in quanto tale; come dice l’operaio protagonista del romanzo, «la cosa che non aveva differenza era la nostra volontà la nostra logica la nostra scoperta che il lavoro è l’unico nemico l’unica malattia […] Compagni rifiutiamo il lavoro […] dobbiamo lottare perché non ci sia più il lavoro». Si sviluppa ora una visione emancipatrice e liberatoria del precariato, del lavoro saltuario e autonomo, in antitesi al mito del posto fisso come orizzonte unico di realizzazione personale e al mito della produzione, contro ogni subordinazione al capitale e l’assoggettamento dell’uomo alla macchina. Una visione sovversiva presto soppiantata dall’avvento di una flessibilità imposta e generalizzata, come pure si dissolve l’ideale riformista: epilogo quasi postumo della letteratura industriale può considerarsi il romanzo di Paolo Volponi Le mosche del capitale (1989), maturato fin dagli anni Settanta e ambientato nel 1979-1980, con il quale si profila la fine dell’utopia di una fabbrica umanizzata e il predominio di un neocapitalismo feroce. Questa prima fase di produzione letteraria interessata al mondo del lavoro e ai lavoratori resta ancora oggi di grandissimo interesse non solo perché testimonia l’urgenza di rappresentare il mondo lavorativo dei primi decenni del Dopoguerra, ma anche perché è caratterizzata da una straordinaria ricerca di linguaggi nuovi atti a esprimere la nuova realtà e i suoi effetti sull’individuo, da uno sperimentalismo formale affatto gratuito, il cui duplice obiettivo è dire la fabbrica, svelarne i più intimi meccanismi, e dare la parola a chi ci lavora. La stagione della letteratura industriale tende insomma a coincidere con una stagione di forti sperimentalismi.


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delineando forme di resistenza e resilienza, modi di vita non rinunciatari, volontà, azione, speranza. Emblematici sono i romanzi di Alberto Prunetti in cui si rivendica una cultura subalterna internazionale e irriducibile, si celebra l’esistenza di una working class contrapposta per valori e linguaggio alla classe dominante. La campionatura è comunque vastissima. Un picco di questa nuova letteratura del lavoro potrebbe situarsi nel 2006, anno in cui escono tre libri, diversi tra loro, ma significativi del disagio giovanile, del precariato e del lavoro cognitivo non riconosciuto: l’opera satirica di Andrea Bajani, Mi spezzo ma non m’impiego. Guida di viaggio per lavoratori flessibili; il docudrama di Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, libro realizzato sulla base di interviste; il romanzo di Michela Murgia, Il mondo deve sapere, romanzo tragicomico di una telefonista precaria, tratto da un blog basato sull’esperienza diretta dell’autrice. Lo stesso anno escono anche Generazione mille euro di Incorvaia e Rimassa, Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati, Le risorse umane di Angelo Ferracuti; pochi anni prima erano usciti Pausa caffè di Giorgio Falco, Ferita di guerra di Giulia Fazi, La dismissione di Ermanno Rea, quest’ultimo letto come il de profundis della fabbrica fordista ed emblema delle delocalizzazioni. Negli anni successivi, per non citar che alcuni dei titoli più discussi, escono Personaggi precari, di Vanni Santoni, e Acciaio di Silvia Avallone. Il fenomeno letterario suscita fin dall’inizio l’interesse dei lettori, della critica accademica e della stampa: da Repubblica al Sole 24 ore, si plaude un nuovo genere letterario. Il fenomeno è anche editoriale: oltre alla moltitudine di romanzi, tra il 2005 e il 2012 sono pubblicate sul tema del lavoro – spesso col sostegno di sindacati e associazioni – numerose antologie di racconti, narrazioni plurali in cui si esprime l’impegno civile transgenerazionale degli scrittori: da Dacia Maraini e Carmen Covito a Nicola La Gioia e Christian Raimo, passando da Antonio Pascale e Tommaso Pincio. Nell’ampissima produzione “aziendale” degli ultimi vent’anni, fanno apparizione nuove figure (telefoniste,corrieri,clandestini,badanti,trader...), tra cui primeggiano incontestabilmente i flessibilissimi operatori del “cognitariato”, precari che svolgono lavori di tipo intellettuale o creativo. Anche le ambientazioni cambiano: significativi sono i “non luoghi” dell’economia del nuovo millennio, come il call center, i paesaggi periferici segnati da fabbrichette e capannoni, le aree abbandonate, di cui colpiscono la desolazione e la disumanizzazione. Affiora talvolta una sorta di nostalgia per un mondo scomparso, quand’anche fosse stato quello del duro lavoro nelle miniere o alla catena di montaggio: il mondo del lavoro di ieri (per molti aspetti non certo migliore di quello attuale) è rimpianto o cantato con toni epici perché visto come un mondo

in cui il sacrificio del lavoro era “ricompensato” dall’utopia di una radicale trasformazione sociale. Includiamo infine in questa panoramica, ampia ma affatto esaustiva, tre recenti romanzi che impongono una scomoda riflessione: Works di Vitaliano Trevisan (2016) è un memoir in cui l’autore/protagonista racconta vent’anni di esperienze lavorative fallimentari, esprimendo una forma di resistenza individuale al lavoro che trova infine soluzione nella carriera letteraria; Robledo di Daniele Zito (2017) si presenta come un’edizione postuma degli appunti di un giornalista, Michele Robledo, che ha investigato su una misteriosa organizzazione clandestina rivoluzionaria i cui membri, dei Ghost Class Heroes, si liberano dal precariato suicidandosi sul posto di lavoro. La donna capovolta di Titti Marrone (selezione premio Strega 2019) racconta le storie parallele di una professoressa la cui anziana madre necessita assistenza, e della badante moldava che la sostituisce nell’ingrato ruolo di cura; alternando i punti di vista mette profondamente in questione le assegnazioni di genere, svela la porosità tra intimità e sfera lavorativa, evidenziandone la portata politica. Per concludere, sottolineiamo un punto in comune della letteratura del lavoro degli ultimi anni con la precedente letteratura industriale: la ricerca di nuovi linguaggi, che prende tuttavia direzioni diverse, orientandosi verso innovanti forme di realismo e privilegiando le modalità spurie della “non fiction”: utilizzo di testimonianza, documento, intervista, inchiesta, reportage, cronaca, (auto) biografia, saggio; ricorso a un’ampia gamma di materiali, generi paraletterari, registri linguistici bassi. Si tratta insomma di una produzione letteraria esperienziale,ibrida,fattuale più che finzionale, sempre in stretto contatto con l’attualità. E in effetti, questi libri, parlando di lavoro o di non lavoro, parlano di tutta la società italiana oggi, mettendo sotto la lente di ingrandimento quanto avviene sotto i nostri occhi, le situazioni con cui ci confrontiamo giorno per giorno. Non solo danno linfa vitale alla letteratura, rilanciando la sua capacità di conoscenza, di comprensione, di prefigurazione, ma ci invitano a ripensare il mondo in cui viviamo, a essere cittadini consapevoli, attori del presente, soggetti responsabili del futuro, nostro e delle generazioni che verranno.

Silvia Contarini è professoressa ordinaria di letteratura e civiltà dell’Italia contemporanea all’Université Paris Nanterre. Codirige il Centre de Recherches Italiennes (CRIX) e dirige la rivista Narrativa. Si occupa di avanguardie/neoavanguardie, letteratura e lavoro, letteratura ipercontemporanea, letteratura coloniale, postcoloniale, migrante, nonché studi femminili e di genere.


I confini sempre più incerti del lavoro Nel corso del tempo il rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero ha subìto una radicale trasformazione, passando da una netta separazione a una situazione di sempre maggiore commistione, enfatizzata in questo periodo storico dalla crisi pandemica.

C

om’è noto, dall’affermazione del tempo lineare newtoniano e dell’orologio meccanico, che lo hanno reso astratto, misurabile e separabile dai ritmi della natura propri delle società arcaiche, il tempo è progressivamente diventato l’epicentro dell’organizzazione del lavoro e della sua divisione tecnica e sociale, incidendo non poco nel disciplinare il comportamento degli uomini. Tuttavia, la grande trasformazione che ha interessato il lavoro tra la fine del Novecento e i primi decenni del nuovo secolo ha costituito uno spartiacque tra un prima (epoca fordista), nel quale è nato e si è poi consolidato un modello di società fondato sulla netta separazione tra tempo di lavoro e tempo libero, e un dopo (epoca contemporanea), che lo ha messo radicalmente in crisi. L’avvento del neoliberismo ha impresso a questo rapporto un nuovo segno, rendendo i loro confini ancora più incerti. I processi di accelerazione che stanno interessando la società palesano infatti una sempre maggiore commistione tra sfere di lavoro e non lavoro, soprattutto nell’ambito del lavoro cognitivo, che possiamo considerare una sorta di avanguardia delle trasformazioni neoliberiste in corso d’opera. E tutto ciò non appare messo in discussione nemmeno dalla presenza di imprevedibili fasi di decelerazione, quali la crisi pandemica che stiamo tutt’ora vivendo. Anzi, al contrario, la confusione tra i campi sembra aumentare. In questo articolo proveremo a discuterne i motivi principali attraverso una riflessione sul percorso storico che ha portato a questa situazione.

Prima del neoliberismo

— Nel corso del Novecento un’ampia tradizione di pensiero ha dibattuto a lungo sul rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero dividendosi in due filoni teoricamente separati, anche se talvolta politicamente convergenti. La giornata lavorativa ha rappresentato infatti, da una parte, la prova empirica dell’asimmetria di potere tra capitale e lavoro, risolvibile esclusivamente capovolgendone i rapporti di forza, mentre da un’altra, un ambito prioritario di lotta per migliorare la vita dei lavoratori attraverso una riduzione dell’orario. In questo iato si sono contrapposti tra loro i fautori della liberazione dal lavoro, figli di una lettura del tempo libero come un prodotto di quello occupato e pertanto necessariamente alienante (è questa, ad esempio, la tesi proposta dai francofortesi ma anche di una parte significativa dell’operaismo italiano), e i fautori della liberazione nel lavoro, che invece sostenevano la necessità di superare orari e turni eccessivamente lunghi e oppressivi rispetto al tempo di vita dell’individuo (ad esempio, la tradizione sindacale). In particolare, la posta in gioco era rivolta sulla possibilità di creare le condizioni per un tempo scelto e non più subìto dall’individuo, finalizzato a una proposta politica in grado di trasformare, dall’interno, il sistema di dominio capitalistico1.Ma tutta questa riflessione resta oggi chiusa all’interno di una specifica cornice di senso, che si era sviluppata intorno alla figura dell’operaio di chapliniana memoria e alle successive varianti dell’operaio massa. Rispetto a questo quadro, infatti, la crisi del fordismo apriva scenari decisamente nuovi, evidenziando l’ingresso in scena

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di un tempo “plurale”, frammentato, e comunque non più legato alla sua esclusiva monetizzazione, che sarà poi alla base della rivendicazione politica delle numerose differenze di genere, generazionali, culturali proprie dei movimenti sociali di quei decenni. Nasceva insomma durante questa fase storica, almeno sulla carta, la possibilità di sperimentare un tempo “vissuto”, per dirla con Minkowski, in totale discontinuità con il tempo unico del capitalismo (ovvero l’unità di tempo di cui parlava Marx, poi imposta a tutti attraverso la sua precisa misurazione) fino ad allora dominante. Per questi motivi, tra gli anni Ottanta e Novanta si comincia a rivendicare un tempo di lavoro diverso, flessibile e meno totalizzante rispetto a quello fordista, che consenta uno spazio adeguato da dedicare alle altre attività umane. Uno slogan piuttosto esemplificativo che viene rilanciato in quegli anni è, tra l’altro, “lavorare meno, lavorare tutti”2.La tesi di fondo che si sostiene è che il lavoro, così come lo si è conosciuto nella modernità, sia finito, reso superfluo dallo sviluppo tecnologico (l’automazione sostituirà progressivamente il lavoro degli uomini, si afferma), e che la prospettiva alle porte sia la creazione di una società duale nella quale siano ancora più forti rispetto al passato le disuguaglianze sociali. Da qui la proposta di ridurre l’orario di lavoro, garantendo però a tutti un reddito di base: «la riduzione della durata del lavoro eteronomo libera il tempo solo se ognuno è libero di impiegarlo come gli garba. Il necessario deve essere assicurato in altro modo. Le attività del tempo libero, in quanto produttive, riguarderanno dunque l’autoproduzione del facoltativo, del gratuito, del superfluo, in breve del non necessario che dà sapore e valore alla vita: inutile come la vita stessa, la esalta come il fine, che fonda tutti i fini»3. Con il passaggio del secolo, tuttavia, questo dibattito, che aveva avuto una assoluta centralità politica durante gli anni Novanta (si pensi alla discussione sulle 35ore in Francia e alla caduta del governo di Prodi sulla scia di una proposta di legge presentata proprio su questi argomenti), prende una piega differente. Il capitalismo post-fordista muta velocemente pelle e, nel giro di pochi anni, spazio e tempo sono interessati da processi di compressione e allungamento (stretching) senza eguali, con profonde ricadute nella sfera lavorativa (flessibilità temporale,lavoro a distanza,telelavoro, lavoro nei giorni festivi ecc.). Lavorare a distanza, in qualsiasi posto ci si trovi a essere, rende forse meglio di qualsiasi altro esempio il senso di queste epocali trasformazioni. Così come essere sempre connessi al web, ricevendo continuamente informazioni e messaggi e, di fatto, restando sempre al lavoro. Sono questi i prodromi di quella che sarà poi l’era dello smart working, nella quale il tempo di lavoro diventa un’altra cosa, e tende a confondersi con i tempi di vita e gli spazi sociali più vari fino

a perdere i connotati che ricopriva nel passato. Il contesto di riferimento è nel frattempo profondamente mutato, ed è caratterizzato dalla definitiva affermazione del modello neoliberista e dai suoi processi di accelerazione.

L’accelerazione neoliberista

— In effetti,il neoliberismo non ha soltanto profondamente mutato la natura del lavoro, trasferendo sui lavoratori tutti i rischi sociali, ma lo ha fatto all’interno di un disegno più generale di accelerazione della società,che ha interessato sia l’organizzazione sistemica che le pratiche quotidiane. Sulla scia delle conquiste tecnologiche prodotte soprattutto attraverso lo sviluppo dell’informatica, infatti, ha separato il capitale dal lavoro, permettendogli di circolare con estrema facilità senza più confini nazionali o territoriali ma rispondendo alle esclusive logiche del mercato finanziario.Tuttavia, non è stato solo il capitale ad accelerare. Anche gli individui occidentali (per certi versi il discorso è estendibile questa volta anche agli abitanti delle metropoli di altre zone del mondo),più o meno indistintamente, hanno iniziato a farlo. Da questo punto di vista, un indicatore esemplificativo resta, banalmente, la mobilità spaziale, che si è sviluppata in maniera incomparabile rispetto al passato grazie alla facilità con la quale è stato possibile incentivarla e alla generalizzata diminuzione dei suoi costi. In tal senso, la crescita degli spostamenti nel mondo non ha interessato solo le classi più ricche, ma anche ampi strati della popolazione dei paesi più poveri, come si può evincere dall’andamento dei processi migratori, divenendo uno dei principali motori della cosiddetta globalizzazione. In parallelo e in conseguenza di questi processi, la vita quotidiana è diventata sempre più frenetica e caratterizzata da una generalizzata esigenza di celerità. Insomma, sia che lo si guardi dal lato del capitale e dei sistemi economici, sia che lo si guardi dal lato delle trasformazioni più generali della società e delle ricadute sulla vita degli individui, quello che abbiamo avuto di fronte negli ultimi decenni è una delle più grandi fasi di compressione spazio-temporale della storia. All’interno di questi scenari, i tempi di lavoro sono stati oggetto di profonde trasformazioni. Innanzitutto, sono stati ovviamente interessati dal processo di morfogenesi del lavoro che è avvenuto tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo, prima con le trasformazioni post-fordiste (lavoro cognitivo) e poi, in maniera ancora più profonda, con quelle neoliberiste (lavoro precario). In particolare, si è assistito a una progressiva dilatazione del tempo di lavoro, che ha perduto i connotati attraverso i quali, seppur in forme differenti e con alterne fortune, aveva garantito un confine certo rispetto al tempo libero, consentendo agli uomini la possibilità di rallentare.


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Nel nuovo contesto post-fordista avviene un primo momento di accelerazione della società nel quale il tempo diventa sempre più scarso (da qui deriva l’espressione di senso comune, oramai universalmente diffusa, “non ho tempo”) e l’individuo ha la sensazione di non riuscire a rispondere ad aspettative sempre crescenti, in una sorta di scissione tra aspettative e realtà. Cercando di rispettare la scadenza, l’individuo tende a semplificare ciò che si trova davanti erigendo a criterio guida delle proprie scelte la velocità e sacrificando ciò che richiede riflessione e approfondimento. Più in generale, ciò che si va imponendo è una sorta di presentismo che esclude il passato (e la memoria storica), da una parte, e qualsiasi proiezione verso il futuro, dall’altra, costringendo l’individuo a una visione schiacciata sull’oggi. Seguendo questo paradigma temporale, il tempo di lavoro si differenzia al proprio interno e si frantuma; nasce l’uomo flessibile, che non ha più la possibilità di costruire una carriera lavorativa omogenea ed è costretto sempre a “ripartire da zero” nel cambiamento da un lavoro all’altro, cancellando le esperienze precedenti. Le parole d’ordine principali diventano “mobilità” (spaziale e lavorativa), “adattabilità” (essere flessibili come un ramo che flette al vento ma che poi ritorna al proprio posto), “successo” (con la rimozione – anche psicologica – del fallimento). Il neoliberismo,da questo punto di vista, rappresenta un punto di non ritorno, perché nega tutti i tempi improduttivi che non rientrano nella logica del profitto. In questo senso, la soggettivazione del lavoro è il processo che forse meglio rappresenta la razionalità neoliberista, la cui finalità principale è «modellare i soggetti per trasformarli in imprenditori [...] pronti a mettersi in gioco nel processo permanente della concorrenza»4. All’interno di questa logica imprenditoriale e prestazionale che assume il lavoro, spazi e tempi subiscono quindi un’ulteriore e più radicale trasformazione rispetto al passato. Se ciascuno è imprenditore di sé stesso, infatti,il proprio luogo di lavoro diventa facilmente la propria abitazione, e il tempo di lavoro – di fatto – si confonde con il tempo di vita, durante il quale rimane sempre più difficile separare le attività lavorative da quelle non lavorative: «lo spazio si è enormemente ridotto, è una pennetta. Il tempo è quasi scomparso con le connessioni veloci. A questo punto,non c’è molto da fare: che lo si voglia o no, in ogni momento siamo al lavoro, cioè a contatto con il nostro archivio (perché questo, essenzialmente, sembra essere il lavoro nel postmoderno), e in ogni momento il nostro lavoro è interrotto da un flusso di notizie anche non richieste»5. Queste trasformazioni producono anche nuove patologie sociali. Il lavoratore, infatti, è costretto a vivere in un contesto nel quale le relazioni con gli altri si consumano facilmente, così come le emozioni,in una sorta di continua collezione espe-

rienziale, rischiando spesso derive narcisistiche. La separazione tra ambiente e tempo di lavoro, d’altronde, non lo facilita, impedendogli spesso il contatto con gli altri. Iper-individualista, prigioniero del mito dell’imprenditore di sé stesso,il lavoratore si sente in dovere di produrre anche quando nessuno glielo chiede, finendo per svolgere attività non richieste ma percepite come necessarie: «così ci sentiamo alienati quando lavoriamo ogni giorno fino a mezzanotte, senza che nessuno ci dica di farlo e anche se ciò che realmente vorremmo sarebbe di andare a casa presto (magari l’abbiamo anche promesso alla nostra famiglia)»6.

Decelerazioni e questioni aperte

— Poi è arrivata la pandemia da Covid-19 che ha costretto tutti a una imprevista stasi. L’autotreno della modernità, che non poteva fermarsi e che si alimentava nella velocità con la quale procedeva verso il futuro, sembra essersi definitivamente fermato. Ma siamo così sicuri che l’accelerazione sia davvero finita? E, in questo quadro, che cosa sta succedendo ai tempi di lavoro?

↑ Impianto industriale in disuso.


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Le risposte, come sempre succede quando parliamo di trasformazioni sociali di così ampia portata, per altro in corso d’opera, sono ardue se non al momento impossibili. È pertanto ancora più importante del solito usare la cautela necessaria. Proviamo semmai qui a evidenziare due questioni aperte: la prima riguarda i processi di accelerazione neoliberisti, e la seconda il tempo di lavoro. Già molto prima della pandemia,il mondo aveva vissuto significativi momenti di decelerazione e prodotto forme più o meno attive di resistenza. Ad esempio, gli eventi dell’11 settembre 2001 e alcuni cataclismi naturali, tra i quali l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima nel 2011 in seguito a uno tsunami, hanno senza dubbio rappresentato momenti nei quali si sono avute fasi decelerate, talvolta accompagnate da timide discussioni sulla tenuta del modello generale di sviluppo. Ciò nonostante, tutto era poi ripartito come prima, e forse anche più velocemente di prima, rimuovendo di fatto ciò che era successo. L’autotreno aveva solo rallentato, in fondo. Il dato nuovo (e l’interrogativo aperto) è oggi proprio questo: è possibile ripartire dopo la pandemia come e più di prima? Mai,infatti, il sistema infrastrutturale globale che consente i processi di accelerazione e la mobilità di oggetti, persone e dati, ha dovuto fare i conti con una decelerazione imprevista di tale portata, se non con

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Approfondire —

• L. Baier, Non c’è tempo! Diciotto tesi sull’accelerazione, trad. it. O. Barbero Lenti, Bollati Boringhieri, Torino 2014. • P. Basso, Tempi moderni, orari antichi. L’orario di lavoro a fine secolo, Franco Angeli, Milano 2016. • F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017. • T.H. Eriksen, Fuori controllo: un’antropologia del cambiamento accelerato, trad.it. C. Melloni, Einaudi, Torino 2017. • A. Greenfield, Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana, trad.it. M. Nicoli, M. Ferrara, C. Veltri, Einaudi, Torino 2017. • S. Lorusso, Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori, nessuno è sicuro, Krisis Publishing, Brescia 2018. • H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino 2015 (trad. it. E. Leonzio). • H. Rosa, W. Scheuerman (a cura di), High-Speed Society. Social Acceleration, Power and Modernity, University Park, Pennsylvania State, 2009.

una vera e propria situazione di blocco di numerose attività. Molte attività non hanno rallentato, si sono fermate. Sarà possibile resettare e ripartire (ad esempio spostarci con voli low cost per andare a fare fine settimana in giro per il mondo e acquistare un bene facendoselo arrivare il giorno dopo) oppure questo modello accelerato neoliberista è giunto alla fine? Il tempo di lavoro, invece, sembra essere oggetto di un ulteriore dilatazione rispetto a quella già piuttosto avanzata che abbiamo descritto finora. Lo smart working, termine sotto il quale si nasconde la possibilità di fare lavorare le persone da casa invece che facendole andare nel luogo di lavoro, sta diventando la risposta prevalente alla pandemia e, chi può permetterselo (su questo aspetto si sta infatti aprendo una partita che ricorda da vicino una nuova lotta di classe), non rallenta affatto le proprie attività lavorative,ma le confonde con le altre attività. Per altro, confonde lavoro e non lavoro in un medesimo luogo – la propria abitazione – che ha sempre rappresentato in passato la separazione tra le differenti sfere di vita (in particolar modo tra privato e pubblico). In questo nuovo frame, il tempo di lavoro diventa sempre più desueto, perché implicito al raggiungimento di un obiettivo e non più legato a un orario. L’orario, del resto, finisce nel momento stesso in cui si è sempre al lavoro, ed è forse questa, secondo i critici più attenti, la nuova frontiera neoliberista: non distinguere più tra lavoro e non lavoro e, di conseguenza, non avere più bisogno di tempo libero. NOTE 1. È questa la posizione prevalente in campo marxista; si veda: O. Negt, Tempo e lavoro, trad. it. L. Lo Campo, Edizioni Lavoro, Roma 1984. 2. Per un approfondimento si veda G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti. Venti proposte, trad. it. M. Marsili, A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1994. 3. A. Gorz, Addio al proletariato, trad. it. G. Viale, Edizioni Lavoro, Roma 1982, p. 72. 4. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, trad. it. R. Antoniucci, M. Lapenna, Derive e Approdi, Milano 2013, p. 235. 5. M. Ferraris, Sans papier. Ontologia dell’attualità, Castelvecchi, Roma 2007, p. 171. 6. H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, trad. it. E. Leonzio, Einaudi, Torino 2015, p.95.

Andrea Valzania è professore associato presso il Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena. Sul tema ha scritto: Tempo sociale e neoliberismo. Velocità, competizione e nuove forme di alienazione, Carocci, Roma 2016.


Spazi di vita e spazi di lavoro

di Pietro Meloni

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urante il lockdown causato dalla pandemia da Covid-19, con alcune colleghe 1 dell’Università di Siena abbiamo portato avanti una ricerca di etnografia digitale sull’uso degli spazi domestici. L’idea era quella di capire come stanno cambiando le relazioni tra persone e come la casa sia stata attraversata da interessi di tipo sociale, culturale e lavorativo nel momento in cui mutano le relazioni, gli spazi di prossimità, il rapporto tra pubblico e privato. I dati che abbiamo raccolto riguardano principalmente interviste fatte attraverso canali digitali (Meet, Skype, telefonate e videochiamata tramite Smartphone e applicazioni come WhatsApp) a un campione variegato di persone (differenti per genere, età, classe sociale).Altri dati sono stati raccolti in modo più informale attraverso conoscenti, colleghi, familiari. A queste persone abbiamo chiesto di raccontarci la loro vita quotidiana durante il lockdown,e come si sono adattate alle alterazioni che il Covid-19 ha imposto nella gestione degli spazi e delle relazioni sociali. In questo breve intervento vorrei provare a ricostruire alcuni quadri etnografici per cercare di restituire la complessità di questo momento storico, focalizzandomi principalmente sulla negoziazione tra spazi di vita e spazi di lavoro.

Spazi di vita quotidiana

— Carlotta vive a Parigi in un appartamento di medie dimensioni, circa 70 mq. La famiglia è composta da quattro persone, due bambini piccoli e il marito. Prima della pandemia avevano una babysitter sudamericana che si occupava dei figli, ma con il lockdown francese hanno dovuto rinunciarvi, e lei si è trasformata per alcuni mesi in una mamma a tempo pieno. Il marito è adesso in smart working (termine che in realtà non sempre coincide con il suo significato effettivo) e ha bisogno di una stanza interamente per sé. La vita di Carlotta e dei figli si svolge principalmente tra la cucina e la camera da letto, mentre il piccolo soggiorno è riservato al marito per svolgere il suo lavoro. Ovviamente si tratta di una soluzione che non sempre funziona, e che i familiari ridefiniscono di volta in volta. Mente parliamo su Skype, infatti, Carlotta si sposta in cucina, che risulta essere comunicante con il soggiorno, dato che posso scorgere dietro di lei il marito al computer. Usano entrambi le cuffie per non disturbarsi e lei tiene in braccio la bambina, perché non vada a disturbare il padre. Sara vive a Milano, è una giornalista freelance. Abita in una casa di circa 60 mq nella periferia Nord della città. Anche loro sono in quattro: lei, il marito e due figli. Il marito è impegnato tutto il giorno nello smart working e ha occupato la camera da letto,adattandola a ufficio provvisorio.Si chiude

21 SAPERI / Spazi di vita e spazi di lavoro

Come cambia la casa in tempo di Covid-19? Uno studio etnografico indaga i mutamenti avvenuti nella vita quotidiana delle persone durante i mesi di confinamento a casa: lavoro, scuola, famiglia, relazioni, oggetti, ridefiniti e rinegoziati alla ricerca di un nuovo assetto e di un nuovo equilibrio.


Saperi / Spazi di vita e spazi di lavoro

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tutto il giorno in quella stanza perché ha bisogno di concentrarsi. Lei quindi si occupa dei figli e cerca di scrivere articoli per delle testate giornalistiche nazionali. È meno produttiva, perché il tempo per concentrarsi sulla scrittura si è ridotto e le richieste dei committenti sono tutte intorno al Covid-19. Nel parlarmi della gestione degli spazi, mi dice come in alcuni momenti sia stato difficile fare delle interviste telefoniche. Si è spesso chiusa in bagno, una stanza di emergenza che però non la isola dai figli. Allora, in alcuni particolari casi, come ad esempio una intervista a un ministro, si è rifugiata in macchina, un “luogo privato” all’esterno della propria abitazione che, in questo momento particolare, si è rivelato un prezioso spazio aggiuntivo, un prolungamento dello spazio domestico. Una parte di casa fuori dalla casa,per chi ha poco spazio, può diventare fondamentale. Può anche garantire una privacy che in casa si è del tutto persa. In strada, infatti, non c’è nessuno, la macchina è quindi uno spazio privato a tutti gli effetti. Alessandra si connette per le lezioni universitarie dalla camera che divide insieme a una coinquilina. È seduta sul letto davanti al computer e usa le cuffie perché, poco distante da lei, si intravede l’altra studentessa, anche lei in cuffie e impegnata in un’altra lezione online. Occupano entrambe lo stesso spazio fisico ma si trovano in luoghi virtuali differenti. Michele invece è un ricercatore italiano che lavora in Ontario.È rimasto bloccato in Italia durante il lockdown, in una casa che aveva preso in affitto. È felice di non dover tornare in Canada e di poter trascorrere in Italia tutta l’estate.È però dispiaciuto della lontananza con la sua compagna, che vive in Ungheria e che non può andare a trovare.Durante la giornata, mentre lavora, chiama in video la compagna e poggia poi lo smartphone vicino al computer, in modo che i due possano vedersi mentre ognuno è impegnato nel proprio lavoro quotidiano. Sono fisicamente distanti ma si sentono virtualmente vicini. Si vedono e così, in qualche modo, riescono a ridurre la distanza che li separa.

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Spazi densi e spazi dematerializzati

— Questi primi esempi di vita quotidiana ci dicono molto sui cambiamenti occorsi nella sfera domestica delle persone durante la pandemia da Covid-19. Gli sconvolgimenti che hanno interessato gli spazi della casa sono stati molteplici, a partire dall’ansia dell’igienizzazione, che ha trasformato le case in zone contese tra la purezza e il pericolo, per dirla nei termini di Mary Douglas2. L’antropologa britannica, infatti, ha scritto un illuminante saggio negli anni Sessanta del Novecento sulla relazione tra puto e impuro, intese come categorie che utilizziamo per mettere in ordine il mondo materiale e sociale nel quale viviamo. Per dirla in soldoni, l’idea di Douglas è che il puro e l’impuro

sono rappresentazione dell’ordine e del disordine; quest’ultimo diventa sporco perché si ritrova fuori posto – le scarpe da ginnastica sul tavolo della cucina, per riportare un noto esempio di Douglas. La riorganizzazione degli spazi domestici in spazi lavorativi ha subito questa tensione tra il mondo ordinato – e puro – e quello disordinato – impuro. Per essere trasformato in luogo da lavoro, il tavolo della cucina viene pulito con attenzione, come se le briciole di pane, le tazze, il cartone del latte fossero agenti contaminanti che possono danneggiare il computer, o rendere il lavoro meno agevole. Messa da parte la paura del contagio – ovviamente sempre presente tra le principali preoccupazioni di tutte le famiglie – è stata la riorganizzazione degli spazi e la ridefinizione degli oggetti a stabilire nuove forme di socialità e di convivenza. Molte famiglie hanno sperimentato un fenomeno che potremmo chiamare di “densificazione” degli spazi3.Chi vive in case piccole ha sperimentato una contrazione degli spazi, una riduzione sistematica del proprio spazio vitale e della propria privacy, rimessa in discussione dalle esigenze degli altri conviventi. Il lavoro, in primo luogo, ha costretto a ripensare le case, seguendo linee già sperimentate altrove (in Nord America, ad esempio) ma perlopiù assenti in Italia. Negli studi antropologici sugli spazi domestici nella Silicon Valley4, dove ingegneri e informatici spesso lavorano da casa come dipendenti o come liberi professionisti, emerge come la casa abbia subito delle trasformazioni dovute alla necessità di conciliare due momenti della vita che abbiamo sempre vissuto come separati: il lavoro e la vita privata. Così le case più grandi hanno sempre uno studio, una stanza dedicata al lavoro quotidiano che rimane nettamente separata dal resto, per dare la sensazione di aver lasciato il lavoro in un proprio spazio, distante dal vissuto intimo della famiglia. Le cose invece cambiano quando ci troviamo di fronte a spazi domestici ridotti, a nuclei familiari di medie o grandi dimensioni che non possono contare su luoghi autonomi, privati, dove esercitare il proprio – seppur provvisorio – lavoro. Il caso della giornalista milanese citato poco sopra, che cede al marito l’unico spazio “privato” perché il suo lavoro non è sacrificabile, mostra bene i problemi causati dal Covid-19 alla vita quotidiana delle persone. Possiamo cercare di andare un po’ in profondità, provando a ricostruire la vita sociale delle cose e degli spazi proprio a partire dagli usi sociali degli oggetti quotidiani. Il tavolo – quello della cucina o del soggiorno – è un buon esempio di questo cambiamento, di questa necessità di ripensare gli oggetti per far fronte a esigenze generate da un attore non umano5 – il Covid-19 – che improvvisamente ha fatto irruzione nelle nostre vite quotidiane. Antonio mi racconta come è cambiata la rou-


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tine della sua famiglia durante il lockdown. Lui e la moglie lavorano entrambi da casa. Lui è un designer, lei un’insegnante presso l’Accademia di Belle Arti. Hanno due figli, di dieci e quindici anni. La mancanza di spazi da destinare interamente come zona produttiva li ha costretti a ridefinire due spazi – il soggiorno e la cucina – come luoghi di lavoro condiviso. La mattina dopo aver fatto colazione tutti insieme devono infatti liberare il tavolo, perché verrà utilizzato sia per la didattica a distanza di uno dei figli, sia per il lavoro di lui, che si connette con lo studio per il quale lavora per fare riunioni e confrontarsi con gli altri sui progetti che hanno in corso. Sia lui sia il figlio lavorano in cuffia, così da non darsi fastidio. In questa relazione, vi è un ulteriore particolare che mi colpisce. Nel raccontare questa nuova condivisione degli spazi6 e questa nuova risemantizzazione degli oggetti, per Antonio, lavorare in cucina è anche un modo per esercitare un controllo nei confronti del figlio. Può infatti facilmente verificare che stia realmente seguendo le lezioni e che non stia navigando su internet o giocando con lo smartphone. Il figlio, di conseguenza, si sente sottoposto a una doppia sorveglianza, quella dell’insegnante di scuola e quella del genitore – dove quest’ultimo solitamente non partecipava della vita scolastica del figlio in quanto veniva esperita in uno spazio separato.

Finite le ore di scuola, sparecchiano la tavola per preparare il pranzo.Antonio ha un lavoro flessibile e può quindi decidere in autonomia quando fare delle pause. I computer portatili vengono riposti in camera da letto, perché il tavolo del soggiorno è occupato dai computer della moglie e della figlia, i cui impegni prevedono di avere una postazione fissa. Dopo mangiato, la cucina ritornerà a svolgere la funzione di ufficio. Il padre ricomincerà a lavorare mentre il figlio si mette a fare i compiti, sotto lo sguardo vigile paterno.

Conclusioni

— La trasformazione di uno spazio domestico in luogo di lavoro crea diversi gradi di mescolanza tra gestione delle attività e delle relazioni quotidiane. Non soltanto gli spazi fisici vengono ridefiniti, spesso generando disordine sull’uso effettivo che dei luoghi e delle cose deve essere fatto. Le tecnologie digitali cambiano anche la percezione degli spazi occupati e, di conseguenza, delle regole di presentazione del sé7 da seguire. Nel primo periodo di pandemia le persone sono sembrate meno preoccupate di “perdere la faccia”. C’è stata spesso una sovrapposizione tra backstage e front stage, tra luoghi destinanti alle relazioni pubbliche e luoghi riservati alla preparazione del sé. Potendo lavorare

↑ Operai e operaie in una fabbrica siderurgica.


Saperi / ISpazi di vita e spazi di lavoro

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da casa, molte persone hanno smesso di prestare attenzione ai modi in cui ci si presenta in pubblico. Una camicia è risultata a molti un indumento sufficientemente formale per le riunioni di lavoro, rimanendo poi magari con i pantaloni della tuta e in ciabatte – talvolta anche in mutande. Questo livello di libertà è stato reso possibile da una prospettiva visuale che si è concentrata su una rappresentazione mediale, inquadrando soltanto il mezzo busto delle persone. È successo qualcosa di simile anche per l’uso dei trucchi e del profumo, non più ritenuti indispensabili in una relazione a distanza. Ma le webcam e le telecamere dei nostri device, in questo modo dominato dai polymedia8, non ci hanno solo protetto: ci hanno spesso anche esposto agli sguardi dell’altro. Le gaffe prodotte dal cattivo uso di applicazioni quali Meet, Zoom, Webex, Microsoft Teams ecc. sono moltissime. Le più note a livello globale riguardano giornalisti americani che si presentano in giacca e cravatta e poi, alzandosi per un qualche motivo, rivelano di essere in mutande. Oppure un collegamento di un esperto viene interrotto da un bambino che improvvisamente irrompe nella stanza piangendo, chiedendo al padre di intervenire in una lite con il fratellino. In Italia è girata sui social la gaffe di uno studente magistrale di antropologia che, insoddisfatto del voto ottenuto, si lascia andare a una serie di insulti senza accorgersi di essere ancora collegato con la commissione, che ascolta tutto e lo rimprovera. Ho personalmente assistito a diverse situazioni imbarazzanti dovute a questi spazi confusi. Ci avviamo verso un futuro in cui, probabilmente,il mondo del lavoro sarà sempre più presente – in forma virtuale – dentro le nostre case. La sfida sarà quella di capire come vivere in questi spazi contesi,

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Approfondire —

• G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodilibet, Macerata 2020. • M. Bassinelli, Covid-Home. Luoghi e modi dell’abitare, dalla pandemia in poi, Letteraventidue, Siracusa 2020. • D. Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino 2020. • A. Guigoni, R. Ferrari, Pandemia 2020. La vita quotidiana in Italia con il Covid-19, M&J Publishing House, Danyang 2020. • L. Molinari, Le case che saremo. Abitare dopo il lockdown, Nottetempo, Milano 2020. • S. Žižek, Pan(dem)ic! Covid-19 Shakes the World, Polity Press, Cambridge 2020.

difendendo per quanto possibile la divisione tra sfera del lavoro e sfera domestica. Se è vero infatti che lo smart working è stato letteralmente la salvezza per molti lavoratori, è anche vero che proprio l’uso del digitale ha aumentato il capitalismo della sorveglianza9 ad opera principalmente dei privati, che hanno preteso, metaforicamente, di entrare nelle case dei propri dipendenti, per verificare la produzione del lavoro digitale. Nella nostra indagine, che si è conclusa a giugno 2020, e nella nostra esperienza di docenti e ricercatori, abbiamo sperimentato un aumento dei ritmi di lavoro. In parte ciò è stato causato dalla straordinarietà dell’evento, dall’insolito uso dei medium e dal bisogno di stare insieme, seppur lontani nello spazio. D’altra parte, però, il lavoro digitale ha reso molti di noi sempre reperibili e, forse talvolta inconsapevolmente, sempre disponibili a essere coinvolti in diverse attività,dal ricevimento con gli studenti la domenica,ai convegni quasi giornalieri organizzati in qualunque parte del mondo. La vita domestica era l’oggetto della nostra indagine.Il lavoro ne rappresenta soltanto una parte.Le persone con cui abbiamo fatto ricerca, infatti, sono riuscite, talvolta con difficoltà, a riappropriarsi di una quotidianità che la permeabilità prodotta dal digitale sembrava aver sottratto a noi tutti. NOTE 1. La ricerca è stata condotta insieme alle antropologhe Simonetta Grilli e Carolina Vesce. 2. M. Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, trad. it. A. Vatta, il Mulino, Bologna 1993. 3. A. Weiner, Cultural Difference and Density of Objects, in «American Ethnologist», 21 (2), 1994, pp. 391-403. 4. H. Horst, D. Miller (a cura di), Digital Anthropology, Berg, London 2012. 5. A. Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggio sulla condizione globale, Cortina, Milano 2013. 6. B. Latour, Reassembling the Social: an Introduction to Actor-Network-Theory,Oxford University Press,Oxford 2005. 7. E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, trad. it. M. Ciacci, il Mulino, Bologna 2009. 8. M. Madianou, D. Miller, Polymedia: Towards a New Theory of Digital Media in Interpersonal Communication, «International Journal of Cultural Studies»,16 (2),pp.169-187,2012. 9. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, trad. it. P. Bassotti, Luiss University Press, Roma, 2019.

Pietro Meloni insegna Antropologia sociale e culturale presso l’Università di Perugia. I suoi temi di ricerca riguardano l’etnologia europea, l’antropologia visiva e il patrimonio. Tra le sue pubblicazioni Il tempo rievocato. Antropologia del patrimonio e cultura di massa in Toscana (2014) e Antropologia del consumo. Doni, merci, simboli (2018).


Digitalizzazione del lavoro e occupazione femminile Come la smaterializzazione dell’economia e la pandemia in corso agiscono nel mondo del lavoro: tra rischi e opportunità, una prospettiva di genere. 25

di Annalisa Tonarelli Mettere il femminile a valore?

— In linea teorica sarebbe più che legittimo nutrire un certo, cauto ottimismo. Se il fordismo è stato caratterizzato dalla produzione materiale delle merci, che utilizzava a tal fine la forza del corpo (maschile), il capitalismo cognitivo incarna l’epoca della produzione della conoscenza che valorizza facoltà relazionali,comunicative e cognitive considerate,a torto o a ragione,tipicamente femminili.Anche tralasciando di entrare nel dibattito, pure vivacissimo, che si è sviluppato attorno alla pretesa “naturalità” delle competenze emotivo-relazionali nelle donne1, è indubbio che la smaterializzazione del lavoro, annullando almeno in parte l’importanza della forza fisica, renda il sesso del lavoratore una variabile neutra. Ma c’è di più. Come è noto, la forma che nel contesto del capitalismo contemporaneo tende ad assumere il lavoro ingloba, infatti, sempre più tempo e qualità soggettive; in questo senso, l’universo femminile, considerato naturalmente portato alla mobilitazione della soggettività, rappresenterebbe un modello cui si guarda con crescente interesse. Il fatto che nell’ambito di un’economia della conoscenza la qualità e la creatività del lavoro diventino fattori insostituibili della competitività delle imprese dovrebbe accompagnarsi così a una crescente femminilizzazione dell’occupazione. Le cose sembrano però andare diversamente. Le fonti statistiche disponibili a livello internazionale, ad esempio quelle messe a disposizione dall’OECD2 o i rapporti sul Global Gender Gap prodotti dal World Economic Forum, se da un lato mettono in risalto come le aziende guidate da donne siano maggiormente redditizie e assicurino ai propri azionisti un terzo di utili in più rispetto a imprese omologhe guidate da uomini, dall’altro evidenziano come le percentuali di donne in organico e quelle in posizioni apicali restino estremamente basse proprio nei settori più innovativi e, per questo, maggiormente al riparo dal rischio automazione.

SAPERI / Digitalizzazione del lavoro e occupazione femminile

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on la prima Rivoluzione industriale, grazie alla velocità e alla destrezza delle loro mani, le donne hanno visto crescere le opportunità d’impiego in molti rami dell’industria che andava meccanizzandosi; ugualmente, contribuendo a creare posti di lavoro puliti e poco faticosi all’interno degli uffici, l’informatizzazione ha reso più abbordabile per le donne il lavoro. Eppure, né nel primo caso, né nel secondo, l’aumento quantitativo delle opportunità ha contribuito, se non in modo minimo, ad annullare le differenze che persistono tra l’occupazione femminile e quella maschile; in nessuno dei due casi le donne hanno visto rimessa in discussione la loro prioritaria assegnazione ai compiti domestici e di cura. Ciò accade perché la divisione sessuale del lavoro non evolve con lo stesso passo dell’innovazione tecnologica,ma è sottomessa a una pesantezza storica che non consente altro che lo spostamento della frontiera tra ciò che è considerato prerogativa di maschile e femminile, senza mai rimettere completamente in discussione un meccanismo di allocazione delle opportunità e dei rischi fondata più sul genere che su altri fattori quali aspirazioni, competenze e talenti. A questo proposito possiamo chiederci quali effetti stia avendo sul lavoro delle donne il processo di smaterializzazione dell’economia cui stiamo assistendo ormai da anni e che, nel contesto eccezionale determinato dall’emergenza Covid-19, ha subito in pochi mesi una brusca accelerazione. In particolare, per focalizzarsi su un tema oggi centrale e affrontato anche in altri contributi di questo fascicolo, vale la pena domandarsi se la diffusione del lavoro agile, o comunque da remoto, prima osteggiato e oggi non solo previsto dai DPCM ma anche più appetito dalle imprese interessate a ridurre i costi di gestione, contribuisca o meno a ridurre le asimmetrie che ancora persistono tra le due componenti di genere.


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Se, dunque, il “femminile” viene visto dal mondo produttivo come una risorsa, resta tuttavia ancora limitata la capacità di valorizzarla sul piano occupazionale. Di chi è la colpa? Una facile retorica tende a responsabilizzare le donne stesse,poco presenti in quei percorsi formativi in grado di garantire maggiori e migliori opportunità, come quelli denominati STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Certo, in tutti i paesi occidentali le studentesse continuano a mostrare, anche in virtù di una socializzazione allo studio fortemente condizionata da stereotipi di genere, una minore propensione verso lo studio delle materie scientifiche, ma questo dato, da solo, aiuta poco a spiegare gli esiti che si determinano sul mercato del lavoro. Se in Europa solo 29 laureate su mille hanno compiuto studi nel settore STEM, soltanto 4 di esse hanno la possibilità di trovare impiego nell’ambito in cui hanno studiato. Al di là di una segregazione di genere che continua a caratterizzare i percorsi formativi superiori, persistono, dunque, forti barriere d’ingresso che ostacolano una penetrazione delle donne, anche di quelle che hanno acquisito le competenze richieste oggi dal mercato, all’interno dei segmenti più innovativi del mondo del lavoro. Il caso italiano è a tale proposito emblematico.Grazie anche all’introduzione di distorsioni positive, come la riduzione delle tasse universitarie per le studentesse che optavano per queste filiere, le donne rappresentano oggi poco meno della metà dei laureati STEM – una delle percentuali più alte a livello OECD – mentre i principali indicatori di riuscita degli studi universitari (durata e votazione finale) le vedono in una situazione di netto vantaggio rispetto ai colleghi. Eppure, anche in questo settore, le donne restano fortemente penalizzate nel mondo del lavoro sia sul piano dell’occupazione che delle retribuzioni. Secondo i dati Almalaurea, a cinque anni dal conseguimento del titolo il tasso di occupazione degli STEM è del 92% per gli uomini contro l’83% delle colleghe, e mentre i primi dichiarano di percepire una retribuzione mensile netta pari a 1.527 euro la cifra si ferma a 1.308 euro per le donne. Si tratta di uno scarto di retribuzione a parità di lavoro che a livello generale contraddistingue in negativo l’Italia – al 125° posto su 177 paesi – nelle classifiche mondiali. I fattori che concorrono a produrre questo esito sono molti. Nello stilarne una classifica, il World Economic Forum attribuisce il primo posto ex aequo alle discriminazioni inconsapevolmente operate dal management (maschile) e alla mancanza di opportunità di conciliazione tra vita lavorativa e vita privata.

Cosa fa la differenza

— Partiamo dal primo aspetto. Quando si parla di discriminazione non si tratta soltanto di evidenziare

la persistenza al governo delle aziende di network maschili che condizionano pesantemente le strategie di reclutamento, ma anche di sottolineare la “normalità” con cui, nelle pratiche quotidiane sui luoghi di lavoro, le donne vengono penalizzate in quanto tali.Sono molte le ricerche che evidenziano la presenza di comportamenti fortemente discriminatori nei confronti delle donne: questi vanno dall’esclusione dagli ambiti dove vengono prese decisioni strategiche per le imprese alle pressioni per accorciare i congedi di maternità; dall’essere destinate a mansioni meno qualificate dei colleghi maschi pur a parità di competenze all’accusa generalizzata di essere troppo aggressive; dagli apprezzamenti sessuali alle molestie. Poco serve, dunque, che le competenze richieste da certi settori produttivi siano ormai alla portata delle donne – perché le hanno acquisite attraverso percorsi formativi o perché ciò che viene messo a valore sono capacità considerate semplicisticamente come “tipicamente femminili” – se i contesti organizzativi nei quali il processo produttivo si realizza restano dominati da un ethos professionale maschile. Le donne continueranno a essere discriminate sia in modo diretto – si accorda una preferenza esplicita al lavoro degli uomini – che indiretto, rendendo più complessa la conciliazione tra vita lavorativa e quei compiti familiari che restano ancora largamente a loro carico. A questo proposito va citato il fenomeno delle opting out, vale a dire le donne che abbandonano il mondo del lavoro sotto la spinta congiunta delle pressioni familiari e delle barriere che sperimentano nei loro percorsi di carriera; l’importanza quantitativa di questo fenomeno è testimoniata dalla quota sempre più consistente di dimissioni volontarie da parte delle lavoratrici madri. Si tratta di donne, in alcuni casi molto qualificate, che si trovano a gestire la conciliazione come se si trattasse di una loro personale difficoltà piuttosto che di un problema di divisione e organizzazione sociale del lavoro. E veniamo qui al secondo aspetto penalizzante, quello della conciliazione. Lo sviluppo di un’economia immateriale può certo aiutare a trovare quella flessibilità di tempi e di spazi che consente alle donne di meglio accordare la necessità (o il desiderio) di dedicarsi alla famiglia con il bisogno (o l’aspirazione) di avere un ruolo produttivo. Questa maggiore “possibilità di arrangiarsi”, tuttavia, non contribuisce necessariamente a rimettere in discussione il fatto che il lavoro riproduttivo (sia remunerato che non) e quello per il mercato vengano diversamente divisi tra uomini e donne. Sul piano quantitativo sono ormai molti gli studi che hanno evidenziato come le piattaforme digitali favoriscano l’accesso al mercato del lavoro proprio di quelle componenti sociali, come le donne, che normalmente ne restano ai margini3. Le ragioni che spingono le donne verso l’economia digita-


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gravare ancora largamente sulle loro spalle.Non va inoltre dimenticato che la strada dell’autoimprenditorialità non è solo più incerta, ma ripropone accentuandolo il tema delle diseguaglianze: tra i lavoratori autonomi le donne guadagnano, infatti, meno della metà degli uomini.

Non c’è cambiamento senza uguaglianza

— Al di là di ciò che sarebbe ragionevole aspettarsi, è necessario non solo guardare al modo in cui il processo che sta modificando totalmente il volto delle imprese e del lavoro si stia o meno traducendo in una disponibilità di maggiori e migliori opportunità d’impiego al femminile, ma, più in generale, verificare se, grazie all’organizzazione flessibile e condivisa del lavoro che sta al centro di questo nuovo modello, vengono rimessi in discussione i princìpi stessi sui quali si è sedimentata la divisione sociale e sessuale, e cioè che ci sarebbero delle occupazioni considerate “da uomo” e altre ritenute “da donna” (come si rende evidente nella persistenza di fenomeni come la segregazione orizzontale e quella verticale) che, tendenzialmente il lavoro fatto degli uomini “vale” più del lavoro fatto dalle donne (ne è indicativo il fatto che sulla base dei dati del WEF, a parità di occupazione le donne guadagnano il 43% in meno degli uomini). Attraverso i dati disponibili non è possibile rintracciare la presenza di significativi scostamenti rispetto a questo modello: le professioni svolte dalle donne, generalmente meno qualificate, presentano un maggiore livello di volatilità perché tendenzialmente più interessate dall’introduzione della tecnologia, come avviene tipicamente nel lavoro d’ufficio, in quello di servizio e nel commercio (rinvio alla lettura del rapporto WEF, The Future of

↑ L’ambiente di lavoro nell’era del Covid.

SAPERI / Digitalizzazione del lavoro e occupazione femminile

le piuttosto che verso quella tradizionale sono prevalentemente legate alla possibilità di meglio gestire la conciliazione tra esigenze diverse. Tuttavia, al di là del dato quantitativo, l’impatto che il lavoro attraverso le piattaforme digitali può avere sul gender gap è ancora poco chiaro. Ad esempio, uno studio realizzato da JPM nel 2016 ha messo in evidenza come più della metà dei partecipanti alle piattaforme che organizzano il lavoro da remoto le abbandoni dopo dodici mesi e, nella stragrande maggioranza dei casi a lasciare sono proprio le donne. Per l’Italia, l’Istat rileva come un contributo importante alla nuova imprenditoria provenga proprio dalla componente femminile4.In particolare, le neo imprenditrici, tendenzialmente più giovani e più istruite rispetto ai maschi, sono maggiormente presenti nei settori più innovativi. Questo dato va tuttavia inserito all’interno di un andamento più generale che vede, a partire dal 2008, un peggioramento del profilo occupazionale delle donne autonome. A ciò va aggiunto che soltanto meno di un quarto delle imprenditrici italiane, contro una media OECD prossima al 40%, manifesti un’attitudine verso il lavoro autonomo; meno della metà di queste dichiara di avere una percezione positiva rispetto al proprio business mentre solo 7 su 100 (sono 21 nella media dei paesi OECD) è convinta che questo avrà un’evoluzione positiva nell’arco dei successivi sei mesi. Esistono, dunque, elementi fondati per pensare che quella del lavoro autonomo rappresenti per le donne italiane di oggi (così come è avvenuto in passato) più che una scelta vocazionale l’unica occasione, certo resa più facile e più appetibile dalla digitalizzazione, per riuscire a trovare un accordo tra aspirazioni professionali, la difficile penetrazione nel mercato e i carichi familiari che continuano a


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the Job) l’innovazione si accompagna alla crescita di posti qualificati per gli uomini e di quelli meno qualificati per le donne. È dunque evidente che se i settori economici innovativi continueranno a crescere in modo non proporzionale alla capacità delle lavoratrici di penetrarvi,queste rischieranno sia di veder svanire le opportunità occupazionali attuali sia di rimanere escluse da quelle migliori che si creeranno in futuro. In questa prospettiva, permanendo l’attuale divisione sessuale del lavoro, l’innovazione tecnologica non solo non avvantaggerà le donne, ma rischierà di penalizzarle pesantemente. Spostare l’asse del valore verso la dimensione della conoscenza, sottolineare l’importanza dei talenti femminili (secondo l’espressione usata in proposito dal World Economic Forum5), riconoscere l’impulso positivo che le donne possono dare all’economia non basta, dunque, perché automaticamente si riducano gli svantaggi legati all’appartenenza di genere. La persistenza di meccanismi di allocazione del lavoro basati su un differenziale di potere tra uomini e donne continua a manifestare i sui effetti anche nel contesto della produzione immateriale. L’adozione di distorsioni temporanee, come l’introduzione delle quote rosa (Legge Golfo-Mosca del 2011) o l’abbassamento delle tasse universitarie per le ragazze che si iscrivono nei percorsi STEM, può certo generare effetti positivi, ma non esiste tuttavia nessun automatismo che consenta di immaginare che da queste azioni volte a “riconoscere” un posto alle donne ne derivino effetti virtuosi per quanto riguarda la redistribu-

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Approfondire —

• I. Biemmi, S. Leonelli, Gabbie di genere. Retaggi sessisti e scelte formative, Rosenberg & Sellier, Torino 2016. • J.Hall,A.Krueger,An analysis of the Labour Market for Uber’s driver-partners in the United States, Working Paper Princeton University, gennaio 2015. • ISTAT, I profili dei nuovi imprenditori, 23 dicembre 2017. • J.P. Morgan Chase, The Online Platform Economy: Why Growth Has Growth Peaked?, 2016. • OECD, The Global Gender Gap Report 2020. • N. Palmarini, Le infiltrate: storia di ragazze e tecnologia, Egea, Milano 2016. • A.M.Ponzellini (a cura di),Quando si lavora con le tecnologie. Donne e uomini nelle professioni dell’Information & Communication Technology, Edizioni Lavoro, Roma 2006. B. Gelli, G. Lavango, M. Mandalà, (a cura di), Essere donne al tempo delle nuove tecnologie, Franco Angeli, Milano 2007.

zione delle opportunità tra i sessi: le donne che siedono nei board non necessariamente avranno la capacità, la forza o la voglia di rendere ugualmente vantaggioso per le imprese il reclutamento di altre donne; non sarà perché ci sono più laureate STEM che le imprese smetteranno di preferire degli uomini e di pagarli meglio. Allo stesso modo, non sarà semplicemente grazie alla maggiore diffusione dello smart working indotta dalla pandemia che si riequilibrerà lo scarto di genere.Al contrario; la possibilità di operare più comodi aggiustamenti tra lavoro per il mercato e attività di cura rischia, paradossalmente, di legittimare un modello tradizionale di divisione del lavoro. I dati di ricerca relativi all’impatto della pandemia 6 ci dicono in modo unanime che le donne sono state le più penalizzate sia sul piano quantitativo, vista la loro segregazione in settori che maggiormente hanno sofferto per il lockdown (come il turismo, la ristorazione, la cura) sia su quello qualitativo (lavorare da casa ha aggravato il carico di stress soprattutto per le madri). È quindi solo se uomini e donne potranno, e vorranno, ugualmente beneficiare del lavoro a distanza, ma ancora più se i carichi familiari saranno più equamente distribuiti che le trasformazioni in atto potranno rappresentare un passo avanti nella rivoluzione incompiuta delle donne. NOTE 1. Si rimanda qui, tra i molti, al saggio di N. Le Feuvre, N. Benelli, S. Rey, Relationnels, les métiers de service?, «Nouvelles Questions Féministes», XXXI (2), 2012, pp. 4-12. 2. https://www.oecd.org/gender/. 3. Si vedano in proposito, tra gli altri, L.F. Katz, A.B. Krug, The Rise and Nature of Alternative Work Arrangment in the United States, 1995-2015, NBR Working Paper, N° 22667, sept. 2016; OECD, How technology and globalisation are transforming the labour market, 2017. 4. Si rinvia, in proposito, al Rapporto I profili dei nuovi imprenditori pubblicato dall’Istat il 23 dicembre 2017. 5. The Future of the Job pubblicato dal World Economic Forum (WEF), 2016, consultabile all’indirizzo http://www3. weforum.org/docs/WEF_Future_of_Jobs.pdf. 6. Per riferimenti puntuali all’ampia documentazione in merito, si rinvia alla consultazione della rivista on line InGenere.it e in particolare all’articolo https://www. ingenere.it/articoli/perche-la-pandemia-non-ci-rende-tutti-uguali.

Annalisa Tonarelli dottoressa di ricerca in sociologia e ricerca sociale, insegna Problemi Sociali presso l’Università di Firenze, ed è membro del Laboratorio sulle Diseguaglianze Sociali dell’Università di Siena. Nella sua attività di ricerca, sia in ambito accademico sia come libera professionista, si è occupata dei temi del lavoro e delle diseguaglianze di genere.


Questioni di lingua e di vita in un presente (iper)complesso

di Vera Gheno

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a molti anni, confrontandomi con i miei studenti universitari – e con quelli più giovani, conosciuti in centinaia di incontri che ho potuto fare nelle scuole d’Italia – ho la percezione che, durante il percorso degli studi obbligatori, si ragioni poco o niente sulla rilevanza della competenza linguistica; in altre parole, a parte alcune eccezioni, solitamente si fa moltissimo esercizio “tecnico” (ortografia, sintassi, morfologia, ecc.) e poca riflessione metalinguistica. Rilevo, ad esempio, una bassa consapevolezza sia dei meccanismi di funzionamento del codice linguistico sia degli scopi della lingua, che possono essere sintetizzati in tre funzioni principali: quella di atto di identità individuale («Io sono le parole che uso»), quella di atto di identità collettivo («Identifico la mia appartenenza a una determinata tribù grazie alla lingua che impieghiamo»), quella di concettualizzazione del mondo («L’essere umano nomina il mondo e, in questo modo, lo comprende meglio ed è in grado di parlarne, senza fermarsi a ciò che è immanente»)1. Queste nozioni non dovrebbero essere considerate ancillari al resto, perché solo partendo da una sana e robusta (auto)consapevolezza linguistica si può, a mio avviso, abbracciare la complessità del sapere linguistico, molto spesso limitato a una percezione monolitica, bianca/nera, della propria lingua madre. Non è un caso se già vent’anni fa Alberto Sobrero si lamentava della scarsa mobilità di registro esibita dalla maggior parte dei suoi studenti: «Quando si fa notare a un ragazzo che menare le mani non

è un’espressione adatta a un articolo di giornale o a un verbale di polizia, la sua reazione – se non è di compunzione servile – è di sincero stupore. Per lui – o lei – si dice e si scrive “menare le mani”: sempre, dovunque e con chiunque»2. Eppure, ci ricorda Luca Serianni3, «Ogni parlante madrelingua parla nelle varie situazioni quotidiane con assoluta naturalezza, come quando respira o deglutisce, senza porsi il problema del “come si dice” […] Ma non parliamo sempre in condizioni di spontaneità: possiamo trovarci a sostenere le nostre ragioni in un contesto formale e tendenzialmente ostile (un esame, un colloquio di lavoro, un interrogatorio di polizia). Allora diventa decisivo non solo che cosa diciamo, ma anche come: la strategia espositiva, il lessico scelto, il controllo della gittata periodale, e magari la mimica,la prossemica,l’abbigliamento». Non basta, insomma, saper parlare e scrivere bene, “secondo la norma”; è altrettanto importante sapersi adeguare: al contesto, all’interlocutore, alle finalità comunicative.

La scuola? Resta indietro

— Personalmente, ritengo che l’enfasi sulla “tecnica della lingua” fosse necessaria e sufficiente finché il primo scopo era quello di arrivare all’italofonia e, contemporaneamente, la realtà e la società in cui vivevamo era relativamente meno complessa di oggi: in fondo, si poteva vivere tutta una vita senza incontrare mai davvero la diversità, se non in determinati momenti4. Al progressivo complessificarsi della realtà corrisponde, invece, anche una complessificazione della conoscenza, che dovrebbe

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Una riflessione sulla necessità (sia a scuola sia fuori dalla scuola) del pensiero metalinguistico per gestire le crescenti difficoltà comunicative date dal continuo incontro con le diversità.


Saperi /Questioni di lingua e di vita in un presente (iper)complesso

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diventare non tanto più vasta in termini di nozioni, quanto più critica, più argomentata, meno perpetuata, meno trasmessa “così com’è” e più ragionata. Questa, a mio avviso, è la grande “chiamata alle armi” alla quale, da educatori e genitori, dobbiamo rispondere5. Ci stiamo,credo,accorgendo sempre più di come la scuola sia spesso un passo indietro rispetto al presente e al futuro al quale dovrebbe preparare i propri discenti. Questo, da un lato, è inevitabile, dato che chi oggi insegna si è formato su paradigmi cognitivi di almeno un decennio fa, normalmente anche di più; in aggiunta, la distanza intergenerazionale è sicuramente aumentata a causa delle “nuove tecnologie” (che ormai tanto nuove non sono). Un modo particolarmente cruento (e scandaloso) tramite il quale emerge questo disallineamento sono le numerose segnalazioni di testi presenti in libri scolastici, che spesso perpetuano – in larga parte involontariamente – stereotipi (etnici, di genere ecc.) creando sconcerto nel largo pubblico, che ovviamente, come da manuale, chiede la testa di qualche “colpevole”, che siano l’autore, la casa editrice o addirittura i docenti che hanno adottato il libro lasciandosi sfuggire una tale “indecenza”: l’“odio dei giusti” è davvero una delle grandi questioni del presente6.Ricordo,giusto per fare qualche esempio, il caso della mamma che stira e cucina e del papà che lavora e legge7 o quello del bambino nero che dice “Quest’anno io vuole imparare italiano bene”8. In entrambi i casi, non occorre pensare a misoginia o razzismo espliciti e volontari, quanto piuttosto alla riproposizione di pregiudizi così radicati nella nostra società da passare, agli occhi di molti, come “normalità”. Certo, è particolarmente grave che la stereotipia compaia proprio nei libri su cui studiano le nuove generazioni, la cui coscienza sociale e politica (nel senso ampio di “appartenenza alla polis”) è tutta da formare e rischia, per l’appunto, di plasmarsi su presupposti vetusti.

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Questioni di genere

— Uno degli argomenti sicuramente più discussi di questi mesi è quello delle questioni linguistiche di genere; ed è interessante notare che anche in questo caso si possono individuare due “movimenti” apparentemente contrapposti: quello di chi chiede di riservare particolare attenzione a queste istanze, considerate da molti spie (se non addirittura portatrici) di dissimmetrie sociali, e quello di quasi totale disinteresse nei confronti di queste istanze, che spesso vengono ritenute del tutto superate soprattutto dai più giovani, dai discenti stessi. Diciamo che l’uguaglianza di genere viene da molti data come assodata («Ma noi ormai siamo fluidi,prof,non ci importa niente di maschio o femmina o altro»); peccato che tale presupposto

è spesso destinato a venire smontato nel momento dell’immissione nel mondo del lavoro, nel quale sopravvivono molte disuguaglianze, non solo in termini retributivi ma soprattutto rispetto alle possibilità aperte a ragazzi e ragazze.

I nomina agentis femminili

— Più nello specifico, l’argomento di cui mi occupo spesso in prima persona, quello dei nomina agentis al femminile (ministra, assessora, questora, ma pure minatrice o agricoltrice) è affetto da tale doppio movimento: molte sono le persone che lo ritengono di importanza capitale, e altrettante sono quelle che invece alzano gli occhi al cielo commentando con una dose di benaltrismo («I problemi delle donne sono ben altri») o sollevando eccezioni molto spesso di rilevanza reale (o meglio, scientifica) assai marginale («Suonano male», «Sono una corruzione dell’italiano», «Storicamente non esistono», «Le cariche sono neutre»). Se l’argomento fosse solo di natura linguistica, sarebbe semplice e immediato spiegarlo collocandolo correttamente sia in diacronia che in sincronia.Da una parte,infatti,uno sguardo alla storia del latino prima e della nostra lingua poi conferma che i nomi di agente al femminile compaiono in maniera piuttosto regolare tutte le volte che in un dato contesto lavorativo compariva una donna (non a caso, il tanto vituperato ministra non solo esisteva già nel latino classico, ma la sua rilevanza storica è tale da essere lemmatizzato a parte in Treccani9). Dall’altra, l’analisi dei meccanismi morfologici della nostra lingua (con la macrodivisione in sostantivi di genere fisso, comune, promiscuo e mobile e con il conseguente diverso comportamento nella creazione dei femminili10) e una riflessione sulla necessità di una lingua viva di rispecchiare fedelmente le caratteristiche della società e della cultura in cui è calata (a più donne in ruoli professionali tradizionalmente maschili corrisponde un maggior uso di nomina agentis al femminile) sono ampiamente sufficienti per giustificare e spiegare il funzionamento dei femminili professionali. Appare evidente che la questione non sia prettamente linguistica, a questo punto, ma principalmente sociale e culturale. Eppure, l’uso dei femminili di professione non è irrilevante. Come ci ricorda Cecilia Robustelli11,«Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del Paese. E il linguaggio è uno strumento


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sessant’anni (da quando è de facto lingua degli italiani) grandi capacità di adattamento a contesti e mezzi di comunicazione nuovi; non è un caso se Tullio De Mauro amava spesso dire che l’italiano sta benissimo, e che casomai sono gli italiani ad avere una salute “culturale” un po’ cagionevole13. Per quanto riguarda il benaltrismo, occorre di certo tenere conto del fatto che i problemi delle donne sono molti; anzi, direi che in una società viziata da caratteristiche patriarcali non sono solo le donne a soffrire,ma anche gli uomini,dai quali ci si aspetta una serie di comportamenti altrettanto stereotipati quanto quelli femminili. In tutto questo, può sembrare davvero superfluo o superficiale occuparsi di parole; se non che, occorre ricordare che le parole non sono quasi mai “solo” parole, ma sono piuttosto dei ganci che si portano dietro veri e propri grappoli di significati, di relazioni, di visioni della realtà e di connotazioni. Quando guardiamo alla lingua, alle parole, da un punto di vista relazionale, si comprende anche più facilmente come queste abbiano una loro effettiva rilevanza nei discorsi vòlti alla parità di genere. E a proposito di “relazionalità” della parola, questo è quanto scrive Robert Bringhurst: «Lascia cadere una parola nell’oceano del significato e si formeranno delle increspature concentriche. Definire una singola parola significa cercare di catturare quelle increspature. Nessuno ha mani così veloci. Ora lascia cadere due o tre parole alla volta. Le increspature

↑ Donne marines al lavoro, 1918, Stati Uniti.

SAPERI / Questioni di lingua e di vita in un presente (iper)complesso

indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile?». Se è vero che ciò che viene nominato si vede meglio,come mai tanta resistenza,davvero? Le questioni sono varie.Da una parte,sopravvive la convinzione diffusa che le leggi linguistiche siano incise nella pietra, e che i femminili professionali entrerebbero in collisione con tali norme. Accanto a questa, è radicata l’idea che esistano enti come l’Accademia della Crusca preposti a vigilare e legiferare sull’italiano, così come un vocabolario e una grammatica ufficiali della nostra lingua. Al momento non esiste nulla di tutto questo, e la nostra lingua, in un certo senso, si “autoregola”, soprattutto per rimanere aggiornata rispetto alla realtà che deve rispecchiare (pena la decadenza ed eventualmente la morte12); del resto, come abbiamo visto, i femminili professionali sono perfettamente in linea con la norma dell’italiano; questo mi spinge addirittura a dire, in maniera un po’ provocatoria, che la vera posizione ideologica è quella di usare il maschile là dove il sistema dell’italiano prevederebbe l’uso del femminile. Allo stesso modo, è fuori strada anche chi teorizza il mito della purezza della lingua italiana, dato che non solo l’italiano è crocevia di influssi esogeni ed endogeni a causa della posizione geografica dello Stivale, ma è anche una lingua particolarmente vitale che ha dimostrato, nel corso degli ultimi


→ Le programmatrici dell’ENIAC, il primo computer della storia, 1946. In quegli anni la programmazione era considerata un’occupazione prettamente femminile.

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interferiscono tra loro, qui rinforzandosi, là cancellandosi a vicenda. Catturare il significato delle parole non vuol dire catturare le increspature che queste provocano; significa catturare l’interazione tra queste increspature.Questo è il significato della parola ascoltare; questo è il significato della parola leggere. È un processo estremamente complesso, eppure gli esseri umani lo compiono quotidianamente e molto spesso, allo stesso tempo, ridono e piangono»14.

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Un invito a problematizzare

— Un altro errore prospettico che si fa spesso è quello di tarare la questione sulla propria esperienza; càpita che sia maschi sia femmine dicano «a me discriminazioni del genere non sono mai capitate» o altre frasi simili. Ora, tentando la strada del ragionamento scientifico, è sempre ingannevole rifarsi al proprio “esperito”; ma del resto, bisogna pur ricordare come sia difficile comprendere per davvero le vittime,soprattutto in casi che per molti non sembrano per nulla degni di attenzione – nei quali,di conseguenza,viene pure negata l’esistenza di un’eventuale vittima. Minimizzare, non ascoltare le istanze di chi si sente ferito da un certo comportamento linguistico è una tendenza alla quale occorre resistere, passando invece all’ascolto attivo. Al di là di ciò che ci può essere successo personalmente,pensiamo allargando il campo agli altri e alle altre15.

Questo invito non è rivolto solo ai maschi, ma anche alle femmine; a queste chiederei, in prima persona, di fermarsi a riflettere sulle motivazioni che si danno per preferire, nel caso, l’uso del nomen agentis al maschile. Alcune, infatti, affermano cose come «Ho lavorato tanto per avere il titolo di x, adesso non voglio slavarlo con il femminile», dimostrando così di essere le prime a pensare che il femminile sia svilente, in un evidente problema di autopercezione. Altre temono invece di passare da “femministe” qualora insistessero per il femminile, dove “femminista” è ovviamente usato in un’accezione negativa; una connotazione che, ovviamente,non condivido.E non è nemmeno una questione di “politicamente corretto”: da quando in qua può essere definito politicamente corretto chiamare le cose con il loro nome16? Da educatrice e da madre di una giovane donna di tredici anni, vedo una strada preferenziale per il nostro futuro, linguistico e socioculturale: quella della problematizzazione delle nozioni e dell’esercizio argomentativo, nel settore delle questioni di genere come in altri. Lungi dal ritenere buona e giusta l’imposizione di determinati costumi linguistici («Devi dire sindaca altrimenti ti dimostri una vittima del patriarcato introiettato»), consiglio di partire da una serie di scelte personali; una sorta di ecologia della comunicazione esercitata nel quotidiano, nelle piccole questioni che ci tangono giorno dopo giorno, cercando, al contempo, di smontare gli stereotipi e i preconcetti ai quali


tutti, inevitabilmente, siamo esposti più o meno consciamente. In un mondo che vorrebbe certezze, la strada del recupero del valore generativo del dubbio mi pare quella più immediata per iniziare un vero cambiamento, linguistico, cognitivo ed esistenziale. Mi viene da citare,come nume tutelare,Gianni Rodari, grande cantore del cambiamento linguistico “destrutturato”, fuori dalle aule, e della sua poesia Una scuola grande come il mondo.

G. Rodari, Il libro degli errori, Einaudi, Torino 1964 NOTE 1. Cfr. F. Faloppa, Brevi lezioni sul linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 16-35. 2. A. Sobrero, Nell’era del post-italiano, in «Italiano & Oltre», 18, 5, 2003, p. 272-277. 3. Sul sito dell’Accademia della Crusca in un articolo intitolato La norma linguistica, consultabile online all’indirizzo https://accademiadellacrusca. it/it/contenuti/la-norma-linguistica/7384. 4.V.Gheno,B.Mastroianni,Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi, Milano 2018, pp. 174-175. 5. Su questo, consiglio la lettura di P. Dominici, Dentro la società interconnessa. La cultura della complessità per abitare i confini e le tensioni della civiltà ipertecnologica, FrancoAngeli, Milano 2019, e di G. Xhaet,#Contaminati: Connessioni tra discipline, saperi e culture, Hoepli, Milano 2020. 6. Cfr. V. Gheno, Se gli hater siamo (anche) noi: gli errori comuni su social e giornali, su «Agenda Digitale», 16

Vera Gheno sociolinguista e traduttrice dall’ungherese, collabora stabilmente con la casa editrice Zanichelli. Autrice di varie monografie divulgative su questioni sociolinguistiche, attualmente conduce una trasmissione quotidiana sulla lingua sulle frequenze di Radio1Rai: Linguacce, con Carlo Cianetti.

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C’è una scuola grande come il mondo. Ci insegnano maestri e professori, avvocati, muratori, televisori, giornali, cartelli stradali, il sole, i temporali, le stelle. Ci sono lezioni facili e lezioni difficili, brutte, belle e così così… Si impara a parlare, a giocare, a dormire, a svegliarsi, a voler bene e perfino ad arrabbiarsi. Ci sono esami tutti i momenti, ma non ci sono ripetenti: nessuno può fermarsi a dieci anni, a quindici, a venti, e riposare un pochino. Di imparare non si finisce mai, e quel che non si sa è sempre più importante di quel che si sa già. Questa scuola è il mondo intero quanto è grosso: apri gli occhi e anche tu sarai promosso!

luglio 2020, consultabile all’indirizzo https://www. agendadigitale.eu/cultura-digitale/gli-hater-siamo-anche-noi-la-piaga-del-noivoismo-spiegatabene/). 7. Cfr. l’articolo apparso su «La Repubblica» e consultabile all’indirizzo https://www.repubblica. it/scuola/2019/02/26/news/stereotipi_sessisti_libro_scuola_elementare-220214615/). 8. Cfr. l’articolo apparso su «Il Giornale» e consultabile all’indirizzo https://www.ilgiornale.it/ news/cronache/io-vuole-imparare-italiano-vignetta-col-bimbo-nero-sul-bimbo-1892540.html. 9. Si veda il lemma “ministra” sul vocabolario online Treccani, consultabile all’indirizzo https:// www.treccani.it/vocabolario/ministra/; cfr. V. Gheno, Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, EffeQu, Firenze 2019, pp. 33-48. 10. Cfr. https://dizionaripiu.zanichelli.it/cultura-e-attualita/le-parole-del-giorno/parola-del-giorno/femminile/. 11. Cfr. l’articolo apparso sul sito dell’Accademia della Crusca e consultabile all’indirizzo https:// accademiadellacrusca.it/it/contenuti/infermiera-si-ingegnera-no/7368. 12. Cfr. Faloppa, Brevi lezioni sul linguaggio cit., pp. 45-51. 13. Cfr. ad es.A.Testa, Italia dealfabetizzata, ma l’italiano sta bene. Lo dice Tullio De Mauro,apparso su «Nuovo e Utile» il 6 ottobre 2014, consultabile all’indirizzo https://nuovoeutile.it/italia_dealfabetizzata/. 14. R. Bringhurst, La forma solida del linguaggio, ed. it. a cura di L. Passerini, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2006, originale The Solid Form of Language, Gaspereau Press, Kentiville 2004. 15.F.Faloppa,#Odio: manuale di resistenza alla violenza delle parole, UTET, Torino 2020, p. 234 e segg. 16. Sul politicamente corretto, consiglio la lettura di F. Faloppa, PC or not PC? Some reflections upon Political correctness and its influence on the Italian language, in G. Bonsaver, A.Carlucci, M. Reza (a cura di), Cultural Change Through Language and Narrative: Italy and the USA, Legenda, Oxford 2018; per un approfondimento sulla questione linguistica dei nomina agentis e sulle eccezioni sollevate, cfr. V. Gheno,Ministra, portiera, architetta: le ricadute sociali, politiche e culturali dei nomi professionali femminili, «Linguisticamente», prima parte 25 luglio 2020, consultabile all’indirizzo https://www.linguisticamente.org/nomi-femminili/, seconda parte 27 luglio 2020, consultabile all’indirizzo https://www. linguisticamente.org/nomi-femminili-2/).


dossier

Dossier / Luci e ombre del modello tedesco

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Ombre e luci del modello tedesco Una via italiana al sistema di apprendistato tedesco dovrebbe superare l’obiettivo immediato dell’occupazione di breve durata, puntare all’educazione integrale della persona e non canalizzare gli studenti precocemente e lungo traiettorie di genere. di Francesca Nicola

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

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embra impossibile affrontare il tema dell’istruzione professionale senza citare il caso tedesco, e noi non faremo eccezione in questo Dossier. Da decenni, infatti, questo sistema è ammirato e studiato in tutto il mondo. Anche in Italia: nel 2014 un protocollo di intesa tra Italia e Germania ha attivato una task force bilaterale per lo studio e la diffusione del modello duale (della quale,per la verità,si sono poi perse le tracce) e il piano della “Buona scuola”, nel capitolo dedicato al lavoro, si richiama espressamente al modello tedesco di apprendistato. Non è il caso qui di insistere sui suoi pregi: riduzione della dispersione scolastica; alto tasso di occupazione giovanile e disponibilità di mano d’opera altamente qualificata, essenziale per mantenere il primato nell’industria manifatturiera. Più interessante ci è parso affrontare questioni solitamente meno indagate: quali sono i difetti del sistema tedesco? Per quali motivi, pur suscitando tanta ammirazione, non ha mai trovato veri imitatori?


35 Dossier / Luci e ombre del modello tedesco

Apprendisti al lavoro nella sala macchine di una scuola professionale, 1924.


La canalizzazione precoce

Dossier / Luci e ombre del modello tedesco

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— Il sistema formativo tedesco è strutturato in modo rigido e conferisce agli insegnanti un forte potere decisionale sul percorso scolastico degli alunni, il cui destino è stabilito a un’età molto precoce, 10-11 anni. Quando termina i quattro anni delle elementari, un bambino non può scegliere autonomamente a quale corso di studio iscriversi. È la scuola a deciderlo in base al profitto conseguito: per iscriversi al Gymnasium (l’equivalente del Liceo italiano) deve aver avuto nelle materie fondamentali voti superiori al nostro 8. In caso contrario, la scuola raccomanda l’iscrizione a una scuola professionale o l’inserimento nel sistema di apprendistato duale (scuola-lavoro). Solo in alcuni Länder tedeschi queste “raccomandazioni” della scuola possono essere contestate, ma per entrare nel Gymnasium lo studente dovrà superare un esame di ammissione. E i percorsi così stabiliti rimangono rigidi; se è facile passare dal Gymnasium a un corso professionalizzante, non lo è affatto il contrario.

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Motivi di inapplicabilità in Italia

— Vi sono molti motivi che rendono impensabile l’introduzione in Italia di un simile sistema. Il più immediato è che si conferirebbe alle maestre un potere decisionale tale da richiedere un radicale e complessivo ripensamento della loro professionalità e del loro ruolo sociale. Il più profondo è che tale sistema potrebbe essere giudicato incompatibile con la nostra Costituzione, perché, se pure non negando alcun articolo specifico, sembra opporsi al personalismo che ispira la nostra Carta e fa dello Stato uno strumento finalizzato al pieno sviluppo della personalità dei singoli cittadini. Il più politico è che esso

smonterebbe la riforma che nel 1962 ha portato a unificare il percorso scolastico di tutti i cittadini sino al quattordicesimo anno di età, cioè la “scuola unica”, universalmente salutata sia come una riforma di civiltà pedagogica, perché è impensabile che a quell’età un ragazzo abbia espresso tutto il suo potenziale cognitivo, sia come l’introduzione nella scuola di un elemento di democrazia, in polemica con la prassi fascista, che nel sistema messo a punto da Gentile obbligava le famiglie (non le scuole) a scegliere fra indirizzi alternativi quando i loro figli avevano 9-10 anni. Si denuncerebbe la negazione del diritto allo studio (un tratto essenziale dello sviluppo personale costituzionalmente garantito) e il ritorno a una scuola classista, discriminatoria e quindi di stampo fascista. Se questi pericoli in Germania vengono riconosciuti ma non considerati decisivi è perché il sistema tedesco riperpetua una tradizione che continua inalterata dalla seconda metà dell’Ottocento, attraversando le mutevoli vicende politiche del Paese senza riforme sostanziali. Per questo, la discriminazione sociale che esso produce non è immediatamente posta in connessione a una specifica ideologia politica; si tende a considerarla come uno svantaggio inevitabile e ben compensato dagli effetti benefici generati dal sistema.

Fattori di debolezza crescente

— Oltre a questi motivi, strettamente connessi alla storia italiana, altri ve ne sono di natura più generale, sui quali si soffermano gli articoli del Dossier. Il primo articolo indaga i fattori culturali, sociali ed economici che potrebbero ostacolare il successo del modello tedesco in altri Paesi. In Germania i costi degli apprendistati per le aziende sono giustificati da una par-

te con una cultura aziendale di Mitbeststimmung (cogestione) per cui i lavoratori partecipano attivamente alle decisioni aziendali e tendono a sviluppare un rapporto di fedeltà nel tempo con il datore di lavoro che li ha formati: dall’altra le aziende si allineano con le aspettative sociali diffuse, presenti nelle economie di mercato coordinate, secondo cui è giusto che le aziende si accollino alcuni oneri economici per il bene della collettività. Questo non avviene nelle economie liberali, in cui il mercato del lavoro è strutturalmente volatile e le aziende non investono nel formare lavoratori con cui, generalmente, non avranno rapporti a lungo termine. Il secondo articolo si concentra sulle conseguenze della canalizzazione precoce sull’apprendimento e sulle opportunità di vita degli studenti. Se alcuni sostengono che separare i ragazzi in percorsi educativi differenti in base al loro rendimento consente di formare classi omogenee, favorendo l’apprendimento di obbiettivi formativi alla portata di tutti, è altrettanto vero che il rendimento scolastico è spesso influenzato dal contesto socio-economico e culturale di provenienza.Numerose ricerche, di cui l’articolo dà conto, mostrano che quanto più precocemente gli studenti sono orientati, tanto più le loro prestazioni dipendono dal retroterra familiare. Una canalizzazione troppo anticipata sembra dunque rafforzare le disuguaglianze di partenza. Infine, il terzo articolo mette in luce un altro limite del modello formativo tedesco: contribuisce alla segmentazione di genere del mercato del lavoro. Alla base vi è lo scarso investimento riservato alle scuole professionali, tradizionalmente frequentate da studentesse e specializzate nel formare competenze spendibili nel settore dei servizi sociali e alla persona.


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L’orizzonte del life learning

— A questo proposito ci si può chiedere se un sistema ideato all’epoca della prima rivoluzione industriale e finalizzato a promuovere una mano d’opera ultra specializzata nel settore manifatturiero sia in grado di reggere alle sfide connesse alla rivoluzione in atto nei modi di produzione e di creazione della ricchezza. Se ad esempio consideriamo il Paese che si pone al polo op-

posto alla Germania nella classificazione mondiale dei sistemi educativi in base all’età fissata per la canalizzazione formativa troviamo gli Stati Uniti, in cui la scelta può in molti casi essere posticipata sino al secondo anno di università e in cui lo studente usufruisce sino ad allora di una formazione di tipo generale. E se il sistema tedesco è ammirevole per l’eccellente manodopera specializzata che produce, quello americano lo è per la capacità innovativa. Recenti ricerche hanno constatato che oggi i giovani tedeschi formati con il sistema duale hanno ancora buone possibilità di essere immediatamente assunti, ma si trovano sempre più in difficoltà nel corso della vita lavorativa, in cui vedono diminuire sia l’occupabilità sia il reddito. Ciò accade perché il valore delle competenze specialistiche da loro acquisite diminuisce molto più rapidamente del passato per la rapidità dei cambiamenti tecnologici. Oggi non è affatto infrequente che una professionalità conquistata con un duro tirocinio si riveli improvvisamente insufficiente o addirittura superata dall’au-

tomazione e dall’innovazione tecnologica, specialmente nelle economie in rapida crescita. Passando in rassegna la pubblicistica pedagogica più recente si rimane colpiti dalla frequenza con cui si ripropone il valore dell’istruzione generale, che, se pure non produce immediata occupazione, fornisce un’attitudine alla versatilità essenziale per apprendere diverse professioni più tardi nella vita. Del resto, è una considerazione condivisa anche da numerose famiglie tedesche,dato che negli ultimi anni si registra una crescente tendenza degli studenti a posticipare la scelta di passare dalla scuola a tempo pieno al sistema duale scuola-lavoro,una decisione che oggi viene presa in media a 18 anni. La conclusione è che la pedagogia del prossimo futuro dovrà concentrasi sul life learning, ma questa è, come si dice, un’altra storia.

Francesca Nicola è antropologa culturale e autrice di manuali scolastici.

↑ Operaie al lavoro nello stabilimento della Zeus di Parabiago. Si veda l’approfondimento a pagina 49.

Dossier / Luci e ombre del modello tedesco

Al contrario degli apprendistati in azienda, frequentati per lo più da studenti maschi e che preparano a carriere tradizionalmente maschili nelle industrie e nel settore manifatturiero, la formazione degli istituti professionali è poco regolamentata, poiché delegata ai singoli Stati (e non gestita a livello federale), non è pagata, garantisce poche probabilità di trovare un lavoro stabile e prepara a professioni meno retribuite. E questo nonostante la crescente espansione del settore dei servizi originato dal passaggio a una economia post-fordista.


Il sistema tedesco funziona, ma è inesportabile

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Dossier / Il sistema tedesco funziona, ma è inesportabile

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Il modello di formazione professionale tedesco è studiato e ammirato in tutto il mondo, ma si fonda su fattori difficilmente riproducibili in altri Paesi. di Michael Lanford, Tattiya Maruco, William G. Tierney

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na delle ragioni principali del rinnovato interesse per l’istruzione e per la formazione professionale tedesca è l’invidiabile tasso di disoccupazione del Paese. Nel 2012 era il 5,5%, della forza lavoro complessiva, mentre negli Stati Uniti era l’8,2%. E le statistiche sull’occupazione giovanile sono ancora più impressionanti. Secondo i dati dell’OCSE, nello stesso anno,il tasso di disoccupazione dei cittadini tedeschi di età pari o inferiore a 24 anni era l’8,1%, contro il 16,2% degli americani. È diffusa la convinzione che la solidità del mercato del lavoro tedesco si fondi sui programmi di apprendistato, condotti in sintonia con gli istituti professionali, tanto che altri Paesi hanno preso esempio dalla Germania. Fra questi, Penang, uno dei tredici Stati della Malesia, che ha recentemente annunciato l’implementazione di piani per adottare il modello tedesco (“In race”, 2015), presumibilmente per attrarre multinazionali interessate alla delocalizzazione o a costruire basi operative in Oriente (George, 2014). Del resto anche la Germania ha riconosciuto i potenziali vantaggi

dell’esportare il proprio approccio all’istruzione professionale. Nel 2012 l’ambasciata tedesca a Washington DC ha lanciato una “Skills Initiative” finalizzata a sviluppare in vari Stati dell’Unione programmi di educazione e formazione professionale che supportino sia le esigenze di forza lavoro delle aziende tedesche operative negli Stati Uniti sia le richieste delle aziende americane interessate a formare operai altamente specializzati. [...]

La formazione professionale in Germania —

La Germania è una delle poche nazioni dell’Europa occidentale (insieme ad Austria e Paesi Bassi) a mantenere un sistema educativo altamente differenziato che separa gli studenti di livello secondario in scuole diverse in base alla certificazione delle loro capacità scolastiche. Nonostante i numerosi cambiamenti politici e culturali avvenuti nel Paese negli ultimi due secoli, la configurazione tripartita del sistema educativo tedesco è rimasta essenzialmente intatta sin dall’epoca delle corporazioni artigiane del primo Ottocento (Baldi 2010). In effetti, per via della sua longevità e influen-

za, quello tedesco è il caso più studiato fra i percorsi educativi altamente differenziati.

La Hauptschule —

La canalizzazione formativa degli studenti tedeschi avviene immediatamente dopo il completamento del ciclo di istruzione primaria della Grundschule (scuola elementare), generalmente all’età di dieci anni (Ertl 2000). Dopo le raccomandazioni degli insegnanti e le consultazioni con i genitori, i ragazzi vengono orientati verso una delle tre tipologie di scuola: Hauptschule, Realschule o Gymnasium. La Hauptschule è la scuola secondaria dell’obbligo di base,che si concentra sull’acquisizione delle competenze legate alla matematica, alla lettura e alla scrittura. Dopo cinque o sei anni, gli studenti ricevono l’Hauptschulabschluss, un certificato che consente l’accesso all’istruzione e formazione professionale e che quindi funge come requisito minimo per la maggior parte delle professioni. Tradizionalmente coloro che escono dalle Hauptschule entrano immediatamente nel “sistema duale” tedesco, cioè lavorano per due o tre anni


come apprendisti, integrando quest’esperienza pratica con le lezioni in classe uno o due giorni alla settimana. Dopo il diploma di scuola professionale (Berufsschule), gli apprendisti generalmente trovano lavoro nei settori dell’industria, del commercio o dell’artigianato (Baldi 2010).

La Realschule —

Il Gymnasium —

La scuola secondaria più prestigiosa è il Gymnasium. Fondata sul concetto classico di Bildung, che predilige la ricerca umanistica e l’indagine teorica alla formazione professionale o pratica, il Gymnasium ha formato

la maggior parte dell’élite tedesca sin dal XIX secolo. In queste scuole gli studenti intraprendono un programma di studi liberali di nove anni che include corsi di storia, letteratura e (in molti casi) greco e latino. Con un diploma di Allgemeine Hochschulreife gli studenti che escono dal Gymnasium possono candidarsi all’ammissione in Università e dunque ad assumere impieghi prestigiosi, come avvocati, magistrati, medici, amministratori statali o professori universitari. Gli storici dell’educazione hanno ipotizzato che ogni riforma del sistema educativo tripartito sia stata storicamente impedita dalle élite tedesche (note come Bildungsbürgertum), formate sulla base dei princìpi educativi forniti dal Gymnasium (Wilborg 2010).

La debolezza delle scuole private —

Dato che il sistema educativo pubblico canalizza gli studen-

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Operaie al lavoro nello stabilimento della Zeus di Parabiago. Si veda l’approfondimento a pagina 49. ↓

Dossier / Il sistema tedesco funziona, ma è inesportabile

La Realschule rappresenta il livello di istruzione “intermedio”, prevedendo sei anni di corsi in cui gli studenti ricevono sia un’istruzione generale sia una formazione orientata alle materie tecniche come ingegneria, scienze e lingue straniere. I diplomati ricevono un Realschulabschluss, che offre una gamma più ampia di opzioni rispetto all’Hauptschulabschluss. Oltre che permettere l’ingresso nel “sistema duale”, infatti, questo diploma consente di chiedere l’ammissione a una scuola tecnica superiore, a un istituto professionale a tempo pieno, oppure, se lo studente

supera esami speciali chiamati Fachhochschulreife, a un politecnico. Avendo molte opzioni a disposizione, i diplomati alle Realschule coprono impieghi diversi nello spettro della forza lavoro tedesca. Dopo la seconda guerra mondiale, queste scuole hanno attraversato un lungo periodo di successo, poiché i suoi diplomati erano apprezzati per la capacità di combinare conoscenze pratiche e teoriche in un dato settore (Ertl 2000). Oggi sfornano molti di coloro che lavorano nella burocrazia statale. Questo settore educativo intermedio tende nel suo complesso a essere meno segnato dalla disuguaglianza sociale rispetto alla Hauptschule o al Gymnasium.


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↑ Operaie al lavoro nello stabilimento della Zeus di Parabiago. Si veda l’approfondimento a pagina 49.

ti precocemente, ci si potrebbe aspettare la fioritura di un sistema educativo privato parallelo. Questo in Germania non è successo per due motivi. In primo luogo, le scuole private riproducono in gran parte la tripartizione del sistema pubblico. In secondo luogo, il prestigio delle singole università tedesche non è così gerarchico come in altri Paesi, ad esempio Stati Uniti e Regno Unito. Di conseguenza, in Germania non si sono sviluppate scuole superiori d’élite e “feeder” (istituti prestigiosi che preparano o facilitano l’ammissione a università prestigiose, N.d.T) come Eton e Harrow nel Regno Unito o la Phillips Exeter Academy e Groton negli Stati Uniti.

Diversi sistemi scolastici per tipi di capitalismo —

Per valutare un sistema scolastico è necessario considerare il sistema economico in cui si inserisce e le particolarità di quello tedesco sono state ben chiarite da Hall e Soskice nel

loro testo Varieties of Capitalism: The Institutional Foundations of Comparative Advantage (2001).Tra le economie di mercato, i due economisti politici distinguono quelle liberali (LME), rappresentate da Paesi come l’Australia e gli Stati Uniti, e quelle coordinate (CME), come Germania, Belgio, Paesi Bassi, Paesi scandinavi, Austria e Giappone. Le caratteristiche distintive dei primi sono la concorrenza, la contrattazione formale, la tendenza delle aziende a reagire rapidamente alle fluttuazioni del mercato e la capacità (se necessario) di ristrutturare le loro operazioni. In questo tipo di economie capitaliste i salari sono generalmente negoziati tra azienda e lavoratori e la sindacalizzazione è scarsa. I settori di specializzazione sono legati all’high-tech e alle nuove tecnologie (Christensen,1997) o alle innovazioni radicali nell’elettronica (Akkermans, 2009). Il comportamento delle economie di mercato coordinate, invece, è più deliberativo, incentrato sulla cooperazione e

sulla collaborazione tra diversi stakeholder, inclusi management, dipendenti e azionisti. Rispetto alle economie di mercato liberali, le imprese sono più disponibili a includere nel loro processo decisionale anche fattori non strettamente legati al profitto industriale. Il tasso di sindacalizzazione è alto e i salari sono generalmente basati sulle aspettative di settore, piuttosto che su trattative tra lavoratori e datori di lavoro. Dal momento che concentrano le energie su mercati di nicchia (soprattutto manifatturieri), queste economie prosperano innovando i loro prodotti (Breznitz, 2012) o specializzandosi in migliorie radicali dei macchinari e dei mezzi di trasporto (Akkermans, 2009). Le differenze fra queste due varianti di capitalismo si riflettono nei rispettivi sistemi educativi. Come tutti gli altri sistemi liberali, anche gli Stati Uniti, sebbene abbiano promosso programmi di formazione professionale attraverso lo Smith-Hughes National Vocational


Il modello Mittelstand —

Questo sistema di educazione e formazione professionale si fonda su due realtà che contraddistinguono la Germania rispetto agli altri Paesi, denominate Mittelstand e Mitbestimmung. Mittelstand sono le aziende di medie dimensioni a conduzione familiare che si trovano spesso nelle città più piccole. Generalmente esistono da generazioni e impiegano circa il 70% della forza lavoro tedesca. Il loro successo è attribuibile a quattro fattori chiave (Girotra, 2013): si concentrano su un unico prodotto; sono efficienti; hanno una catena di comando gestionale snella; intrattengono un rapporto consolidato con le scuole locali, con cui mettono a punto apprendistati e percorsi professionali. Ciò che le contraddistingue è soprattutto la notevole fedeltà dei loro dipendenti, il cui tasso di abbandono annuale è bassissimo, solo il 2,7% (German lessons, 2014).

Il sistema della cogestione —

Uno dei motivi per cui i dipendenti tedeschi sono così fedeli al loro Mittelstand ha a che

fare con Mitbestimmung, un concetto un po’ più complesso codificato dal diritto tedesco e traducibile come “cogestione”: le aziende tedesche sono tenute a inserire tra un terzo e la metà dei membri del consiglio di sorveglianza con rappresentanti dei lavoratori. Tale consiglio (Aufsichtsrat) sceglie i membri del consiglio di amministrazione (Vorstand), che gestisce quotidianamente le operazioni aziendali. È una disposizione che garantisce una notevole influenza dei dipendenti sulle decisioni importanti che riguardano la loro azienda, comprese quelle sulla sicurezza,i benefit dei lavoratori e le pratiche di assunzione. Forse, cosa ancora più importante, la Mitbestimmung mitiga l’influenza degli azionisti sulla missione e sulle decisioni a lungo termine dell’azienda. Naturalmente, anche in altri Paesi esistono piccole e medie imprese, ma in genere, come negli Stati Uniti, sono molto più dipendenti dalle grandi società e dal capitale privato rispetto alla Germania. E sono anche meno longeve: secondo i dati del Bureau of Labor Statistics, il tasso di sopravvivenza delle piccole imprese americane è piuttosto debole: solo la metà dura più di cinque anni e solo un terzo va oltre il decimo. Collegare queste aziende con le scuole e i college delle varie comunità sarebbe un obiettivo lodevole, ma richiederebbe di implementare una versione americana del Mittelstand.

La difficile esportabilità del sistema —

Se le aziende di piccole e medie dimensioni fossero collegate alle scuole superiori e ai college, la volatilità del settore imprenditoriale potrebbe tradursi in un aumento dei lavori temporanei. Del resto, perlomeno in California, molte grandi aziende come Boeing, Chevron, Southern Ca-

lifornia Edison, Kaiser Permanente, Pacific Gas and Electric e Verizon stanno già finanziando il Linked Learning movement in California, una coalizione di organizzazioni legate all’istruzione, industrie e comunità locali finalizzata a promuovere la formazione professionale nelle scuole). Ma senza un accordo di cogestione simile al Mitbestimmung, queste grandi aziende dimostreranno lealtà verso i dipendenti che nel frattempo avranno contribuito a formare? Probabilmente no, secondo la logica delle economie di mercato liberali proposta da Hall e Soskice. Nelle economie liberali, la struttura dei mercati finanziari lega l’accesso al capitale e la capacità di resistere delle aziende alla redditività attuale. Nel caso di perdita di quote di mercato, l’unica soluzione praticabile in questo tipo di aziende sta nell’approfittare della fluidità del mercato del lavoro, che consente loro di licenziare velocemente i lavoratori. Al contrario, le aziende tedesche possono sostenere un eventuale calo dei rendimenti perché il sistema finanziario fornisce loro l’accesso al capitale indipendentemente dalla redditività e tentano più a lungo di mantenere la propria quota di mercato perché le istituzioni del lavoro in queste economie si battono per strategie occupazionali a lungo termine che rendono difficile licenziare. In breve, nei sistemi economici simili agli Stati Uniti, essendo guidate principalmente dalle esigenze degli azionisti, le aziende sono costrette a valorizzare la redditività e l’efficienza rispetto al benessere dei propri dipendenti formati in apprendistato. Ed è ben difficile esportarvi riproduzioni fedeli del Mittelstand e del Mitbestimmung, soprattutto per le differenze filosofiche e strutturali tra le economie di mercato liberali e le economie di mercato coordinate.

41 Dossier / Il sistema tedesco funziona, ma è inesportabile

Education Act del 1917 e il Carl D. Perkins Vocational and Technical Education Act del 1984, non hanno mai messo al centro dell’educazione la formazione professionale, prediligendo al contrario un’istruzione generale completa, con un’attenzione particolare allo sviluppo del pensiero critico. In questi Paesi le scelte legate alla carriera lavorativa sono tradizionalmente posticipate all’istruzione post-secondaria. Al contrario, le industrie tedesche hanno sempre beneficiato di un sistema che canalizza gli studenti precocemente, formando gruppi selezionati per carriere professionali molto specializzate.


Gli apprendistati sono convenienti? —

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Anche l’accessibilità economica degli apprendistati richiede una riflessione. I suoi sostenitori, come Olinsky e Ayres (2013), affermano che «gli apprendistati sono tra gli strumenti più efficaci ed efficienti di sviluppo della forza lavoro che il settore pubblico ha a disposizione, soprattutto perché i loro costi sono sostenuti quasi interamente dai datori di lavoro e dai sindacati». E pur ammettendo che «non vi sono prove rigorose sui costi e i vantaggi dell’apprendistato per i datori di lavoro statunitensi», Lerman (2014) ricorda che le aziende che investono in apprendistati da una parte risparmiano sui costi di reclutamento e di formazione,dall’altra si avvantaggiano dall’avere una manodopera immediatamente disponibile. Tuttavia, non è affatto scontato che in Paesi liberali come gli Stati Uniti le industrie private comincino a sostenere finanziariamente l’apprendistato in modo simile a quanto avviene Germania. Come spiega bene Deissinger (2004), la questione cruciale è che «il requisito essenziale per il successo della formazione professionale sta in un’affidabile partecipazione finanziaria delle imprese». Attualmente, il costo degli apprendistati in Germania è ripartito tra pubblico e privato. Il tempo in aula dedicato alla formazione professionale è finanziato dai contribuenti, mentre quello nelle aziende è a carico dei datori di lavoro. Durante questo periodo gli studenti accettano salari più bassi nella consapevolezza che questi aumenteranno una volta che avranno ottenuto la qualifica di lavoratori certificati (Lazaryan, 2014).

Le aspettative sociali —

I costi della formazione, tuttavia, possono essere onerosi per

i datori di lavoro, soprattutto se consistono in corsi pluriennali. In South Carolina, dove oltre 28.000 lavoratori sono impiegati in aziende tedesche come la BMW, gli apprendistati sono rapidamente aumentati. Ma solo con l’aiuto dello Stato, che ha approvato un credito d’imposta annuale di 1.000 dollari per apprendistato per aiutare le piccole e medie imprese (Schwartz, 2013). In realtà, come hanno scoperto Harhoff e Kane (1997), «i datori di lavoro tedeschi, o perlomeno quelli più grandi e legati alle grandi industrie, affrontano costi elevati nella formazione degli apprendisti anche tenendo conto dei bassi salari con cui li pagano». Non solo: spesso le aziende tedesche sottoscrivono apprendistati «per conformarsi alle aspettative sociali, anche se in effetti potrebbero aumentare i loro profitti eliminandoli e assumendo apprendisti formati altrove». È questo senso di impegno sociale, tipico di una economia coordinata di mercato, l’elemento necessario per un finanziamento continuo di apprendistati.

La lealtà della forza lavoro mobile —

Bisogna però aggiungere che l’impegno sociale non è solo da parte delle aziende verso i lavoratori, ma anche viceversa: nell’economia globalizzata di oggi, dove il cambiamento tecnologico favorisce l’imprenditorialità e la produzione di conoscenza, raramente i lavoratori svolgono un solo lavoro (o due) nel corso della loro vita (Manyika, 2014). Secondo il Bureau of Labor Statistics (2015), i baby boomer nati fra il 1957 e il 1964, tra i 18 e i 48 anni hanno accettato una media di 11,7 lavori. Le generazioni più giovani, soprattutto negli Stati Uniti, cambiano lavoro e carriera a un ritmo ancora più rapido. Le statistiche relative a Gennaio 2014 hanno rivelato che

la lunghezza media di un lavoro era di 4,5 anni per le donne e di 4,7 anni per gli uomini (Bureau of Labor Statistics, 2014). Ne consegue che, in un’economia di mercato liberale, le industrie possono essere riluttanti a formare una forza lavoro altamente mobile. L’apprendistato e l’istruzione professionale sono costosi, perché richiedono tutoraggi individuali con esperti e investimenti in attrezzature specializzate. Non sappiamo se gli eventuali investimenti pubblici e privati americani verrebbero compensati non solo da un senso di responsabilità sociale da parte dei datori di lavoro ma anche dal senso di lealtà dei lavoratori verso le aziende che li hanno formati. Tratto da M. Lanford, T. Maruco, W. Tierney, Prospects for Vocational Education in the United States, Pullias Center for Higher Education University of Southern California, Rossier School of Education, University of Southern California, October 2015. Traduzione di Francesca Nicola. La bibliografia di questo articolo è reperibile online sul sito de «La ricerca», all’indirizzo: https:// laricerca.loescher.it/il-sistema-tedesco-funziona-ma-e-inesportabile/. Michael Lanford insegna alla Rossier School of Education, University of Southern California.

Tattiya Maruco lavora per il Pullias Center for Higher Education, University of Southern California.

William G. Tierney insegna al Pullias Center for Higher Education, University of Southern California, di cui è anche co-direttore. È stato presidente dell’Association for the Study of Higher Education (ASHE) e dell’American Educational Research Association (AERA).


Il caso tedesco e l’effetto Matteo Anche se favorisce l’avviamento al lavoro dei giovani in cerca di occupazione, la canalizzazione educativa precoce che contraddistingue il sistema educativo tedesco finisce per influire negativamente sull’uguaglianza delle opportunità.

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e conseguenze sia intenzionali che non intenzionali della canalizzazione formativa precoce rappresentano una questione molto discussa (Bol e Van de Werfhorst,2013). Ci si chiede in particolare quale sia il loro impatto a lungo termine sull’educazione e sulle opportunità di vita degli studenti.

Utilità e svantaggi delle classi omogenee

— Un argomento spesso addotto in favore della canalizzazione è che, separando gli studenti che apprendono rapidamente da quelli intellettualmente più lenti, è possibile progettare curriculum specializzati e classi omogenee, così da favorire l’apprendimento, che diventa più facile quando tutti gli studenti di un gruppo hanno la stessa capacità di concentrarsi sugli obiettivi formativi (Jacobs e Wolbers, 2018). Tuttavia non tutti sono della stessa idea. Molti sostengono che la canalizzazione formativa svantaggi ulteriormente gli studenti che hanno prestazioni in-

feriori, gli stessi che spesso provengono da ambienti che non incoraggiano sufficientemente l’istruzione. Se consideriamo le relazioni fra pari, notiamo che classi eterogenee portano a un aumento dell’efficienza, e ciò dimostra che gli studenti che rendono meno hanno maggiori opportunità di aumentare le loro competenze se possono intrattenere discussioni di gruppo e condividere le motivazioni di quelli che vanno meglio (Hanushek e Woessmann, 2006). Portando a classi omogenee, una canalizzazione precoce può privare gli studenti di queste opportunità (Zimmer, 2003).

Canalizzazione e disuguaglianza

— Un’altra preoccupazione comune è che la canalizzazione precoce porti a una disuguaglianza di opportunità, perché gli studenti con scarse abilità sono raggruppati in scuole di livello inferiore in cui il background familiare è determinante (Hanushek, 2019). E la conseguenza è che questi studenti svantaggiati hanno meno possibilità di frequentare

l’università e di trovare occupazioni di prestigio (Müller e Shavit, 1998). Diversi ricercatori hanno esplorato l’impatto della relazione fra canalizzazione e disuguaglianza usando i sistemi di valutazione internazionale su larga scala come PISA, TIMSS e PIRLS. Hanushek e Woessman (2006) hanno confrontato Paesi con canalizzazioni messe in atto in età diverse, concludendo che quelli con la più alta disuguaglianza tra scuole primarie e superiori sono anche quelli in cui la canalizzazione è precoce. Al contrario, i Paesi con la più bassa disuguaglianza tra scuole di primo e di secondo grado sono quelli in cui la canalizzazione avviene oltre l’età media stabilita da PISA. La Germania è il Paese con il più alto tasso di disuguaglianza, e guarda caso anche quello in cui è presente una canalizzazione formativa molto precoce (Woessmann, 2009).

Il peso del contesto familiare

— È noto che il contesto familiare sia uno dei fattori che incide

Dossier / Il caso tedesco e l’effetto Matteo

di Mahmut Ozer e Matjaž Perc


Dossier / Il caso tedesco e l’effetto Matteo

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↑ Operaie al lavoro nello stabilimento della Zeus di Parabiago. Si veda l’approfondimento a pagina 49.

maggiormente sul rendimento scolastico (Woessmann, 2009). Se si considera che questo impatto avviene anche prima della canalizzazione, dobbiamo riconoscere che la disuguaglianza esiste anche a livello dell’istruzione primaria. Pertanto, la canalizzazione basata sul rendimento scolastico peggiora ulteriormente la posizione di svantaggio di coloro che hanno uno scarso rendimento, approfondendo ulteriormente le disuguaglianze. Di solito si definisce questo tipo di disparità come una “disuguaglianza di opportunità” (Betts e Roemer, 2007). Schuetz e altri (2008) hanno approfondito il rapporto fra rendimento scolastico, background socioeconomico e politiche educative di diversi Paesi,scoprendo che la disuguaglianza di opportunità diminuisce notevolmente quando l’età della canalizzazione è ritardata. In altre parole, quanto più precocemente gli

studenti sono orientati verso differenti percorsi formativi, tanto più le loro prestazioni dipendono dal retroterra familiare. Focalizzandosi sulla relazione tra la canalizzazione e l’uguaglianza di opportunità, anche Woessmann (2009) ha mostrato che la differenza nelle prestazioni degli studenti provenienti da contesti socioeconomici diversi è piuttosto ampia in Paesi con una canalizzazione precoce. Bol e Van de Werfhorst (2013) hanno invece studiato gli effetti della canalizzazione sulle funzioni educative: quanto essa aumenta, aumenta anche il peso del background socioeconomico sui punteggi dei test scientifici e quindi l’uguaglianza di opportunità diminuisce.

Istruzione e riproduzione sociale

— Recentemente diversi studi (Bernardi 2016; Breen, 2005;

2010; Reicheltet, 2019) si sono concentrati sul ruolo dell’istruzione nella riproduzione sociale, un tema affrontato già nel 1973 da Pierre Bourdieu in Cultural reproduction and social reproduction. Queste ricerche assumono come un importante indicatore il grado di trasferibilità dello status economico delle famiglie attraverso le generazioni e si focalizzano quindi sui fenomeni connessi alle relazioni intergenerazionali e alla mobilità intergenerazionale del reddito. Ad esempio, Dustmann (2004) ha mostrato che l’elevata correlazione generazionale che caratterizza la Germania ha strettamente a che fare con la precoce canalizzazione scolastica. Meghir e Palme (2005) hanno invece approfondito l’impatto della riforma scolastica svedese negli anni Cinquanta sul reddito degli studenti provenienti da famiglie meno istruite, concludendo che essa ha portato a un aumento


Paesi, dall’altra gli effetti diretti dell’eredità educativa e dell’origine sociale diventano più forti se la canalizzazione aumenta (Reichelt, 2019).

Canalizzazione e senso civico

— Infine, la canalizzazione influisce anche sui comportamenti civici dei cittadini. Hyland (2006) ha dimostrato che gli atteggiamenti democratici si mantengono generalmente ad alti livelli quando la composizione delle classi è più eterogenea, mentre, al contrario, Janmaat e Mons (2011) hanno mostrato che nei Paesi in cui vi è maggiore canalizzazione essi sono meno pronunciati. Infine, Bol e Van de Werfhorst (2013) hanno studiato gli effetti della canalizzazione sulle funzioni educative, concludendo che la possibilità degli studenti di diventare cittadini attivi diminuisce quando il grado di canalizzazione aumenta. Sulla base di questi studi sembrerebbe che la canalizzazione precoce porti anche a una riduzione della cittadinanza attiva.

L’effetto Matteo

— Sebbene non sia centrale nella letteratura sulla canalizzazione formativa, l’effetto Matteo è fondamentale per capirne le conseguenze negative a lungo termine (Perc,2014). L’effetto Matteo postula che il successo generi successo, che un ricco diventi più ricco. È stato anche definito vantaggio cumulativo, o attaccamento preferenziale, tutte espressioni che definiscono il fatto che ogni vantaggio tende a generare un ulteriore vantaggio.Nell’istruzione ciò comporta semplicemente che gli studenti che iniziano bene finiscono ancora meglio rispetto a quelli che partono male. Di conseguenza, se la canalizzazione formativa avviene precocemente, coloro che inizialmente hanno presta-

zioni scadenti, spesso anche a causa di altri fattori, ad esempio quelli economici, accumulano uno svantaggio intrinseco sempre più difficile da superare col passare del tempo. L’effetto Matteo è stato reso popolare per la prima volta dal sociologo Robert K. Merton (1968), che si è ispirato al Vangelo di San Matteo, dove si dice che «A chiunque ha, sarà dato in abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quel poco che ha». Merton ha utilizzato questa frase per spiegare le discrepanze nel riconoscimento ricevuto per lo stesso lavoro da eminenL’effetto Matteo ti scienziati e postula che il successo da ricercatori generi successo, che un sconosciuti. ricco diventi più ricco. Ma già alcuni È stato anche definito anni prima il fisico Derek J. vantaggio cumulativo de Solla Price o attaccamento ( 1 9 6 5 ) a ve preferenziale. va osservato un fenomeno simile studiando la rete di citazioni tra articoli scientifici, solo che aveva usato l’espressione vantaggio cumulativo. Il concetto oggi è impiegato per descrivere il modello generale di auto-rinforzo della disuguaglianza legata alla ricchezza economica, al potere politico, al prestigio, alla conoscenza e all’istruzione (Rigney, 2013). [...]

Le spirali sociali

— L’effetto Matteo contribuisce anche a una serie di altri fenomeni conosciuti nelle scienze sociali come “spirali sociali”. Alcuni esempi includono le dinamiche dell’inflazione, della disoccupazione e del debito pubblico, fenomeni tutti condizionati dalla possibilità che si inneschino processi di positive feedback loop, in cui cioè le tendenze in atto si autoalimentano sino a provocare aumenti esponenziali e fuori controllo. Un’ottima e approfondita sintesi di questo meccanismo in campo educativo è quella di

45 Dossier / Il caso tedesco e l’effetto Matteo

della mobilità del reddito intergenerazionale. Una ricerca simile è quella di Pekkarinen (2006), che si focalizza sull’impatto della riforma scolastica finlandese negli anni Settanta sulla mobilità del reddito intergenerazionale, mettendo in luce come essa abbia portato a una diminuzione del 20% della correlazione generazionale del reddito. Le due caratteristiche fondamentali di questa riforma sono state il rinvio dell’età della canalizzazione da 11 a 16 anni e l’aver presentato lo stesso curriculum, intensificato nei contenuti accademici,a tutti gli studenti fino all’età di 16 anni. Posticipare la canalizzazione formativa sembrerebbe quindi portare da una parte alla diminuzione del ruolo del background familiare sul livello di istruzione e dall’altra all’aumento della mobilità educativa e alla diminuzione dell’elasticità del reddito intergenerazionale. Inoltre, il curriculum con contenuti accademici rafforzati ha un effetto positivo sul reddito degli studenti provenienti da famiglie non benestanti, generando di conseguenza una diminuzione della correlazione intergenerazionale del reddito (Pekkarinenet, 2006). Reichelt e altri (2019) hanno studiato l’effetto della canalizzazione formativa sulla riproduzione sociale attraverso tre indicatori, ovvero l’età in cui viene messa in atto, la percentuale di differenziazione del curriculum e il numero di scuole. I risultati hanno rilevato che una diminuzione dell’età e un aumento della differenziazione fra curricula sono legati a una maggiore eredità educativa, cioè al peso delle famiglie di provenienza, e che il numero di tipologie di scuole è strettamente correlato al peso della condizione sociale di provenienza. Da un lato, il rapporto tra il livello di istruzione della famiglia e lo status professionale è positivo e significativo in tutti i


Dossier / Il caso tedesco e l’effetto Matteo

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La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

↑ Operai al lavoro nello stabilimento della Zeus di Parabiago. Si veda l’approfondimento a pagina 49.

Stanovich (2008), dal titolo L’effetto Matteo nella lettura: alcune conseguenze delle differenze individuali nell’acquisizione della literacy. Essa offre un inquadramento concettuale utile per pensare lo sviluppo delle differenze individuali nella capacità di lettura, con particolare enfasi sulle relazioni reciproche. Gli studenti bravi a leggere diventano sempre più bravi e quelli meno capaci sempre meno capaci. A causa dell’effetto Matteo, le carenze di partenza nell’alfabetizzazione possono alimentare problemi di acquisizione di altre competenze, a volta destinati a durare tutta la vita. E rimanere indietro durante gli anni formativi della scuola primaria può creare svantaggi difficili da compensare perfino in età adulta (Stanovich, 2008). Secondo l’effetto Matteo e sulla base dei dati forniti dalle ricerche sulla riproduzione sociale,

ma anche,più banalmente,sulla saggezza dei racconti popolari, essere nati in povertà aumenta notevolmente la probabilità di rimanere poveri e ogni ulteriore svantaggio rende sempre più difficile sfuggire alla risacca economica. Lo stesso vale per la canalizzazione formativa precoce: orientando i giovani verso programmi formativi accademicamente meno impegnativi sulla base delle prestazioni scolastiche iniziali, essa chiude molte porte che altrimenti rimarrebbero aperte. Per questi motivi è fortemente consigliabile che la canalizzazione venga, se non abolita, per lo meno posticipata molto più in là di quanto avviene in Germania, e che laddove sia implementata essa sia il più aperta possibile, garantendo agli studenti la possibilità di cambiare idea e di scegliere in seguito un percorso formativo differente.

Tratto da: M. Ozer, M. Perc, Dreams and realities of school tracking and vocational education, in «Palgrave Communications», 2020, 6, pp. 1-7. Traduzione di Francesca Nicola. La bibliografia di questo articolo è reperibile online sul sito de «La ricerca»,all’indirizzo https:// laricerca.loescher.it/il-caso-tedesco-e-leffetto-matteo/.

Mahmut Ozer è stato Ministro dell’Educazione Nazionale in Turchia.

Matjaž Perc insegna Scienze Naturali e Matematica all’Università di Maribor, in Slovenia e fa parte del Complexity Science Hub di Vienna.


I problemi di genere dell’educazione professionale tedesca Rispetto agli apprendistati, frequentati prevalentemente da studenti maschi, gli istituiti professionali, a predominanza femminile, godono di minori tutele contrattuali e preparano a posizioni lavorative meno remunerate.

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ebbene la formazione tramite apprendistato risalga al Medioevo, perlomeno per quanto riguarda l’artigianato e il commercio (Deissinger,1994),in Germania essa è stata introdotta per formare le competenze lavorative richieste dall’industria ed è stata poi completata, tra il 1890 e il 1920, con la creazione degli istituti professionali (Hanf, 2007). Lo scopo era sia fornire competenze standardizzate alle fabbriche, in quel periodo in rapido sviluppo, sia tenere sotto controllo la crescente massa di giovani proletari iscrivendoli a corsi di formazione per lo più all’interno delle aziende (Greinert, 2007).

e l’apprendistato in azienda. A seconda della specializzazione, gli apprendisti passano dal 15% al 25% della loro formazione, di solito triennale, nelle scuole professionali, e il resto in fabbrica. Nelle scuole professionali gli studenti ricevono l’istruzione tipica delle secondarie superiori approfondendo sia le materie fondamentali (come matematica e lingua tedesca) sia le conoscenze teoriche relative alla loro specializzazione A partire dalla seconda metà del XX secolo, in questo sistema duale sono state inserite anche le professioni legate ai servizi, e, con il progressivo ampliamento di questo settore, la loro percentuale è salita sino il 60%.

L’apprendistato duale (fabbrica-scuola)

Le scuole professionali a tempo pieno

— Ne è derivato un sistema duale che combina l’educazione relativa alle materie generali di base nelle scuole professionali

— All’epoca in cui gli apprendistati furono introdotti nelle industrie,per gli ambiti professionali che non facevano parte del siste-

ma di formazione artigianale o industriale, come l’educazione, l’assistenza sociale e l’assistenza sanitaria, furono create le scuole professionali a tempo pieno. Pensate per dare alle giovani ragazze un’istruzione dignitosa e prepararle al ruolo di casalinghe, governanti o impiegate nei servizi alla persona (Friese,2013), queste scuole si sono sviluppate fino a diventare un vero e proprio segmento della formazione professionale, che forma i giovani nei campi dell’assistenza all’infanzia, nell’infermieristica, nell’assistenza agli anziani, nella logopedia, nella fisioterapia e in altre professioni prevalentemente correlate ai servizi alla persona (Hall, 2012). Oggi, la formazione professionale scolastica include oltre 100 programmi, a predominanza femminile,i quali servono nel loro complesso quasi un quarto dei giovani che scelgono la formazione professionale. La maggior parte di questi programmi

Dossier / I problemi di genere dell’educazione professionale tedesca

di Simone Haasler


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richiede qualifiche di ingresso relativamente alte: oltre l’80% di tutti gli iscritti ha un diploma di livello intermedio o di scuola secondaria superiore, contro un 70% delle iscrizioni nel sistema duale. Anche i programmi professionali scolastici sono a doppio binario, nel senso che includono sia la teoria generale sia l’apprendimento di un lavoro,e sono quindi tesi a stimolare competenze sia teoriche sia pratiche (Leschinsky, 2008). Durano fino a tre anni e forniscono un certificato pienamente qualificante. I giovani tedeschi che vogliono intraprendere una carriera lavorativa hanno quindi due percorsi possibili, il sistema duale fabbrica-scuola o la formazione professionale scolastica. Organizzati secondo diversi quadri normativi e strutture di governance, questi percorsi conferiscono status differenti, determinando una serie di svantaggi per i diplomati nelle scuole professionali.

La disparità fra i due percorsi

— Attualmente vi sono in Germania 325 programmi di apprendistato secondo il sistema duale, disciplinati dalla legge sulla formazione professionale (Berufs-bildungsgesetz), che garantisce sia il coinvolgimento delle parti sociali sia l’attuazione di curricula standardizzati e strettamente monitorati a livello nazionale (Füssel, 2008). Il settore della formazione professionale scolastica, invece, è gestito dai sedici Stati federali tedeschi, e sia la qualità sia la tipologia dei corsi dipende dai singoli istituti. Poiché circa la metà di questi si basa su regolamenti federali nazionali, i curricula sono eterogenei, meno standardizzati e difficili da valutare complessivamente in termini di quantità e qualità (Hall, 2014). Oltre a richiedere requisiti di

ingresso piuttosto alti, i giovani che vi si iscrivono godono dello status di studenti, tanto che pagano le tasse a differenza di coloro che entrano nel sistema duale, i quali ricevono un salario durante l’apprendistato. Inoltre, in molti settori, gli studenti devono avere 18 anni per iniziare la formazione, mentre la formazione duale può iniziare già a 15.In termini di transizione scuola-lavoro, poi, i diplomati delle scuole professionali hanno molte meno probabilità di trovare un’occupazione stabile, almeno nel breve periodo: solo il 15% risulta avere un contratto a tempo indeterminato entro tre mesi dal completamento della formazione, contro il 47% degli iscritti al sistema duale. E un anno dopo il completamento del programma, circa un terzo si iscrive a un altro corso di formazione (Zöller, 2013).

Prospettive occupazionali differenti

— Per quanto riguarda l’occupazione futura, i settori a cui prepara la formazione scolastica sono caratterizzati da percorsi di sviluppo professionale limitati, mentre il sistema duale ha un sistema consolidato di progresso di carriera e di tutele lavorative, assicurato dal coinvolgimento delle parti sociali. Basta pensare che gli operai formati nel sistema duale, dopo qualche anno di lavoro, possono migliorare la loro carriera tornando a studiare in corsi di specializzazione a loro riservati, ottenendo così le qualifiche di Meister e di Techniker,dal 2014 riconosciute nel German and European Qualifications Framework come equivalenti a una laurea triennale. E oltre a facilitare ingresso nell’istruzione superiore, queste ulteriori qualifiche sono uno strumento fondamentale per la progressione di carriera sia nel settore manifatturiero sia nell’industria (Haasler, 2014). Diverse ricerche hanno anche

dimostrato che la qualifica di Meister è collegata a condizioni lavorative più alte, incluso un reddito superiore (Wicht, 2019). Per quanto riguarda i percorsi professionali scolastici, invece, una corrispondente qualifica avanzata esiste solo in alcuni settori, come l’assistenza infermieristica. Di conseguenza, gli stipendi nel settore dei servizi a partire dal primo anno successivo all’inserimento lavorativo sono inferiori rispetto a molte aree per le quali ci si forma con il sistema duale (Hall, 2012).

Il problema di genere

— Il modello tedesco che abbiamo qui descritto produce un’evidente differenziazione di genere. Infatti,mentre nel sistema duale le femmine sono una minoranza (41%), nelle scuole professionali raggiungono il 70% (Hall, 2012). E i settori in cui le ragazze sono prevalenti sono in genere denominati, secondo un diffuso pregiudizio di genere, come “semi-professionali”. Se l’espansione del welfare state e del settore pubblico tra gli anni Sessanta e Novanta ha fortemente promosso l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro, ha anche contribuito alla femminilizzazione del settore (Esping-Andersen, 2002). La partecipazione alla forza lavoro femminile in Germania è aumentata in modo significativo, dal 57% nel 1991 al 72% nel 2018 (Statistisches Bundesamt, 2019), ma la segmentazione di genere del mercato del lavoro si è fatta sempre più marcata, come in altri Paesi occidentali. È un processo che ha pesanti conseguenze anche sull’orario di lavoro, la retribuzione e la rappresentanza nelle gerarchie professionali (Schäferet, 2012). Il sistema di welfare ha giocato un ruolo cruciale, perché il lavoro a tempo pieno, continuo e tutelato, è fortemente legato alla carriera di lavoratori qualificati (maschi) nelle industrie


Tratto da: S. Haasler, The German system of vocational education and training: challenges of gender, academisation and the integration of low-achieving youth, in «European Review of Labour and Research», 2020;26 (1):57-71. Traduzione di Francesca Nicola. La bibliografia di questo articolo è reperibile online sul sito de «La ricerca», all’indirizzo https://laricerca.loescher.it/i-problemi-di-genere-delleducazione-professionale-tedesca/. Simone Haasler insegna al Karlsruhe Institute of Technology (KIT) e al GESIS Leibniz Institute for the Social Sciences, Germania.

Un’esperienza italiana —

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(Baethge, 1998). L’aumento della partecipazione femminile alla forza lavoro dagli anni Novanta, al contrario, è avvenuta soprattutto in segmenti non standard e marginali (Bundesagentur für Arbeit, 2012). Indipendentemente dal fatto che abbia acquisito una crescente importanza, il settore dei servizi è caratterizzato da bassi salari, da due decenni in costante regresso rispetto a quelli del settore industriale (Bispinck, 2013). Per ridurre la disparità di genere fra il sistema formativo duale e le scuole professionali si sta valutando la possibilità di integrare entrambe in un unico quadro normativo. Si tratta di una proposta in fase di discussione e piuttosto impegnativa, dal momento che comporterebbe una ristrutturazione di tutto il sistema di formazione professionale tedesco nel suo complesso. Si tradurrebbe infatti in un ampliamento e una ridefinizione dei profili professionali, delle modalità di formazione e dei criteri di certificazione. Misure concrete che vadano in questa direzione devono ancora essere prese (Zöller, 2013).

Le immagini in questo Dossier, da pagina 37 a pagina 49, documentano la storia della scuola di avviamento professionale fondata e finanziata (con 20 milioni di lire più altri 6 milioni per le macchine dei laboratori) nel secondo Dopoguerra a Parabiago, vicino a Milano, da Gaetano Rapizzi, uno dei tanti imprenditori che nel corso del Novecento hanno costruito dal nulla il sistema industriale italiano. La sua azienda, la Zeus, elaborò numerosi e importanti brevetti nel campo dei dispositivi magnetici, degli interruttori in particolare, crescendo sino a esportare in 40 Paesi del mondo ben prima della globalizzazione. L’intera documentazione di questa esperienza è oggi conservata nel Museo Elettrico Virtuale “La Luce”, consultabile in rete digitando il titolo in un motore di ricerca. La scuola cresciuta accanto all’azienda è sopravvissuta al suo declino ed è stata trasformata in un istituto professionale statale, perdendo però la specializzazione che la caratterizzava agli inizi.


SCUOLA

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Il lavoro della scuola, il lavoro nella scuola Il lavoro della scuola è un percorso che porta alla conoscenza di sé, alla conoscenza del mondo e al sapersi pensare nel mondo: per diventare grandi, per prepararsi al lavoro. di Paola Parente

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a scienza continua ad aprire a un mondo di illimitate possibilità, mettendo in moto le energie di chi deve abitare la storia. Questa continua creazione,che si svincola dal destino, è opera di un lavoro di persone in grado di pensare al mondo come a una forma in cambiamento: un mondo per sé e un mondo dove vivere. Si tratta di una straordinaria rivoluzione permanente, che oggi è schiacciata sull’applicazione, l’utilizzo e la praticabilità degli aspetti tecnico-organizzativi e commerciali, e che ripiega il più ampio concetto di innovazione a pratiche limitate al quotidiano. In linea con questa visione ristretta di futuro è la ricerca di soluzioni che ci facciano sentire adeguatamente protetti, attraverso la promessa di una realtà senza problemi. Una ricerca di soluzioni in cui è impegnata anche la scuola, per individuare modalità, procedure, compromessi, per arrivare a un’offerta formativa garanzia di uno sbocco di lavoro per le nostre ragazze e ragazzi, un’offerta che supporti la

Il personale di un’agenzia di servizi, 1980, wikicommons.


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convinzione che una scuola realmente efficiente deve portare “risultati” in quella specifica direzione. Ma come realizziamo questa scuola? In che modo possiamo pensarci, noi orientatori e insegnanti, e far sì che la comprensione dei termini della questione ci consenta di superare nello stesso tempo la paura di non farcela e la rassegnazione di non esserne in grado? Per orientarci in queste domande possiamo riflettere su due fondamentali parole, che ci permettono di ri-percorrere la strada di senso prima di chiudere al loro univoco e ormai indifferenziato significato. Parlo innanzitutto della parola “lavoro” che, oltre alla sua radice latina labor (fatica), ha una radice più antica nel sanscrito labh, che in senso letterale significa afferrare, ma in senso figurato vuol dire orientare la volontà, il desiderio, l’intento, oppure intraprendere, ottenere. Oggi una parte del significato della parola in esame è quasi del tutto trascurata nei percorsi di istruzione, formazione e orientamento, e spesso intendiamo per “lavoro” il “posto di lavoro” - seconda parola -, ovvero lo svolgimento di una attività all’interno di un contesto produttivo in cambio di una retribuzione. Ammettendo di dare ad entrambe le parole lo stesso significato, perché allora nella nostra lingua, quando i ragazzi non arrivano al “lavoro”, non diciamo mai che sono dis-lavorati? Non lo diciamo perché le parole ci guidano e tra lavoro e occupazione (“posto di lavoro”) ci sono ragionamenti importanti che ci permettono di costruire un dialogo tra formazione e mercato del lavoro. I differenti significati permettono l’articolazione del nostro pensiero che rende possibile la comprensione, la condivisione, le scelte e le decisioni. Il “posto di lavoro” è concreto: si tratta di svolgere determinate attività incardinate in un ruolo e in una posizione, implicando uno scambio, ovvero il “passaggio” dalla persona alla risorsa umana. Ad esempio, non si è solo ingegneri, ma anche responsabili di un settore produttivo o della direzione di un team, quindi oltre alle competenze tecniche devo mettere a disposizione dell’organizzazione visione d’insieme, capacità di analisi, comunicazione, mediazione ecc. Il “posto di lavoro” rende evidente il professionista, ovvero la persona che svolge quel lavoro; noi non diciamo «la mia casa è stata costruita dall’architettura» o «mi

ha curato la medicina» e, quando diciamo «mi ha curato il mio medico», l’aggettivo possessivo racchiude i molteplici aspetti che fanno di quella persona un bravo medico, o meglio il medico che abbiamo scelto, e comprendiamo che l’essere non viene dopo il fare, e che questi due verbi trovano la loro sintesi proprio nella personale traduzione delle conoscenze in competenze per arrivare alla performance. Il lavoro è quindi un concetto ampio che guarda alla persona, alla sua crescita, maturità, responsabilità.

L’attenzione al passaggio —

La relazione tra queste due parole ci fa comprendere che esiste un passaggio – da immaginare e costruire – che porta dal “lavoro” al “posto di lavoro”: questo “passaggio” non si realizza magicamente a 18 anni e un giorno,dopo l’esame di maturità o dopo la laurea, ma si costruisce con il tempo. Affinché si possa agire la professionalità (il medico, il mio medico, il capo reparto, il capo reparto dell’azienda X...) occorre che la persona,nel suo percorso di crescita, faccia esperienza di conoscenze fondamentali, la prima delle quali è la conoscenza del proprio sé, la seconda è la conoscenza del mondo (compreso quello del lavoro), infine la terza è il sapersi pensare nel mondo, elaborare una visione che poi diviene progetto. Se ripartiamo dalle parole, possiamo accogliere la parola “lavoro” nel suo significato orientativo, per condividerla con la scuola, negli anni fondamentali della crescita, per continuare a definire il percorso che ci ri-conduce alla naturale energia che anima l’essere giovani, che sarà abbastanza forte da non precludere nessuna conquista. Non sono in gioco potenze misteriose e incalcolabili, ma un processo di continua fiducia nei nostri ragazzi, la certezza che ogni percorso di crescita prevede difficoltà, smarrimenti, dubbi, che non cesseranno mai di esistere in quanto parte dell’essere (umano), in grado di affrontare le sue scelte prendendosi il rischio dell’errore. Senza il nostro esserci, il mondo (del lavoro) non ci vede,non sono chiari i nostri desideri, ambizioni, scelte, rimaniamo sospesi senza tempo, senza una direzione che muove dal passato verso il nostro futuro per arrivare fin dentro le aziende che attendono gli innovatori. L’obiettivo non è soltanto il conseguimento di un diploma e una laurea, ma


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il diventare “grandi”, il permettere alla conoscenza di trasformare le nostre vite per prenderci la responsabilità delle nostre decisioni con l’impegno di dover rendere visibile la nostra unicità, la nostra “bellezza”: non una semplice somma di compiti e di risultati, ma la faticosa e fragile espressione della nostra identità: quella che non si disperde o si clona nel grande mondo della rete, ma che si crea nella relazione in presenza tutti i giorni nelle nostre scuole. Nella reciprocità della relazione, la conoscenza si fa esperienza, ripercorrendo ricorsivamente tre parole introdotte dal “con” che indica l’unione, la collaborazione, la compagnia, e sono dell’insegnante come dell’allievo: considerare, comprendere, conquistare. Considerare sé stessi e considerare chi abbiamo davanti, comprendere nel suo significato di fare propria la conoscenza e la conoscenza dei propri allievi, conquistare la loro attenzione e, per i ragazzi, la consapevolezza delle proprie azioni e scelte. Al “posto di lavoro” si arriva, dunque, dopo aver compreso le proprie possibilità

(l’equilibrio tra me, i miei desideri, i miei valori e il mondo), e appreso a presentarsi in quanto consapevoli del proprio percorso e con capacità combinatorie al massimo delle proprie possibilità: ci si arriva da persone consapevoli dell’attività della memoria (diversa da un archivio dati) e, per questo, in grado di elaborare e rielaborare le proprie risorse in funzione delle molteplici combinazioni dei saperi che hanno imparato a gestire (perché conquistati), per fornire risposte sempre competenti. La scuola è presente in questo “passaggio”, alla fine del quale,varcata la soglia dell’azienda, avremo davanti a noi un professionista, ovvero la persona in grado di realizzare performance in un ambiente organizzato e in continuo mutamento, perché le aziende pagano la capacità di raggiungere risultati tangibili. E non dobbiamo andare molto lontano per vedere un professionista in azione, perché è tale la persona (professore, maestro, educatore) che, entrando ogni giorno in aula, possa organizzare consapevolmente le proprie risorse per raggiungere il suo obiettivo e far sì che il lavoro della scuola

↑ Apprendisti muratori, 1950.


prosegua nonostante tutto. In definitiva, la parola “lavoro”, se intesa nel senso proposto dell’Enciclopedia Treccani, di energia (azione) finalizzata alla produzione di un bene, potrà assumere in concreto questo significato solo a conclusione di un lungo “passaggio”, e su questo non sono previste scorciatoie o rimedi salvifici.

Pensare il futuro

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Scuola per parrucchieri, 1952. ↓

— Sulla base di queste riflessioni, possiamo dire che a finire, come è avvenuto in altre epoche storiche, non è il “lavoro”, ma i “posti di lavoro”. Il lavoro finisce se viene meno il lavoro della scuola, nella sua accezione più ampia di pensare il futuro, avere una visione. Il lavoro della scuola non è destinato al sistema economico e tecnologico perché lo crea nella sua continuità spazio-temporale, per poter immaginare e agire il divenire, al di là di ogni possibile crisi. La condizione per continuare ad avere posti di lavoro risiede nel doppio impegno delle giovani generazioni, quello del creare il mondo e quello di abitarlo. Più la scienza e la tecnologia mostrano la loro straordinaria potenza, più c’è bisogno di integrare tutto questo in un contesto sociale ampio, progettando e

costruendo le condizioni affinché la stessa scienza possa continuare a svilupparsi come fattore fondamentale del progetto di sviluppo futuro. L’attenzione alle competenze, che è stata fondamentale per realizzare l’incontro domanda e offerta di lavoro negli anni prima dell’ultima crisi, coglie i nostri ragazzi impreparati sulle qualità umane: la ricerca di senso, l’immaginazione, la relazione empatica, l’etica e tanto altro non sono facilmente valutabili, ma ci permettono di fare la differenza in un mondo dove si impongono nuovi temi e nuovi spazi e il credere (in un mondo nuovo) deve ri-trovare la strada dell’intelligere e del discernere, in altre parole del comprendere per compiere scelte sociali ed economiche. Un mondo dove l’orientamento diventa ambientale, prima che tecnico operativo. Non a caso il premio Nobel Amartya Sen, nel suo capability approach, introduce la riflessione sulle capacità umane o meglio sulle «capacità-azioni» e sottolinea come le risorse individuali non siano un bagaglio dato, ma possano evolvere in base a tutte le esperienze della nostra vita e sulla base di condizioni esterne favorevoli, introducendo il legame tra capacità e opportunità. Sen dice che «La capacità


a un cambio d’epoca, come scrive Paolo Benanti nel suo ultimo libro Digital Age2, che ri-chiede fortemente l’interdipendenza tra scienza e dimensione valoriale, tra pensare alle innovazioni in sé e creare un ordine che le contiene per alimentarle e giustificarle. Il mondo (digitale) ci ri-propone concetti ai quali avevamo dato una collocazione e una spiegazione, concetti che oggi ri-chiedono una nuova riflessione: sono lo spazio e il tempo, il privato e il pubblico, il vicino e il lontano, l’autoctono e lo straniero, la coscienza e l’automa, il navigare, il viaggiare e il restare fermi, e la metafisica riprende il volo nella sua costante ricerca di un universo possibile. Noi pensavamo “verticale”, loro, i ragazzi, devono pensare “orizzontale”; noi siamo stati cresciuti alla competitività (e la perpetuiamo nei nostri figli) perché ci confrontavamo tra umani,loro devono essere cresciuti alla collaborazione, trasversale tra umani e tra umani e macchine (se ci mettiamo al servizio delle macchine o ci proponiamo in alternativa la partita è sicuramente persa); noi sceglievamo tra elementi certi, la loro visione orizzontale invece allarga fisicamente lo sforzo dei loro sensi, e quindi le capacità di elaborazione cognitiva si espandono di conseguenza, in un continuo divenire, nella modificabilità della realtà. Se non li supportiamo sulla comprensione, sul senso, sui significati, sulla complessità della visione orizzontale ci perdiamo la positività di questa nuova cultura, e anche in questo caso siamo spacciati. La connessione permette lo scambio libero di idee, il confronto, l’ampliamento delle nostre prospettive, l’esplorazione dei limiti conosciuti: il genio in questo modo vola alto, e si può diffondere con minori discriminazioni (studi, aree geografiche, sesso…); inoltre consente di riconsiderare il concetto di distanza, e non solo per evitare un virus, ma per andare oltre le nostre conoscenze. L’allargamento della nostra visione ci restituisce autonomia e sovranità, e questo renderà possibile evitare l’aggrovigliamento che si traduce in un’ossessione da interazioni costanti e continue. Tra la connessione e l’aggrovigliamento c’è il lavoro della scuola che permette ai ragazzi di muoversi e di agire in un mondo di dati per trovare continue relazioni e significati: persone in grado di con-dividere sapendo chi sono e che cosa cercano, persone in grado di sposare il limite per consentire, come affermava

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di una persona riflette le combinazioni alternative dei vari funzionamenti che la persona può acquisire»1, dove il “può” sta per il “non è impedito”, e questo dipende da condizioni favorevoli e dalla straordinaria diversità umana. Se appiattiamo il significato della parola “lavoro” su “posto di lavoro” barattando il valore dei percorsi di crescita con infinite liste di competenze, accresceremo solo l’ansia del “posto di lavoro”, con la conseguenza di svuotare in toto il lavoro della scuola e il percorso della conoscenza. Come è accaduto che l’obiettivo di crescita di uomini e donne sia diventato il bisogno di adattarsi a un compito (prima scolastico e poi in un posto di lavoro), smarrendo ogni passione per l’oltre, per l’operare in comune verso una ricerca della felicità, tema ormai uscito dai percorsi di crescita dei nostri ragazzi? Parole inglesi quali performance o productivity stanno entrando nei sistemi scolastici per fornire indicazioni a breve termine e di facile ma anche prevedibile valutazione, e l’eccellenza si costruisce quale somma di risultati certificabili.Allo stesso tempo, diciamo anche che il mercato del lavoro sta cambiando velocemente, e che non sappiamo quale sarà il 65% dei futuri posti di lavoro; nell’incertezza,aumenta l’ansia e la corsa a trovare rimedi. Ci siamo innamorati delle soluzioni facili, delle risposte immediate, della velocità, e abbiamo trascurato la complessità del “passaggio”, dello scambio tra economia e società,questo ci sta portando a una crescita delle aziende che si svincola dalla crescita occupazionale e assistiamo a un impoverimento delle qualità/capacità umane che possono ancora spostare in avanti la conoscenza ma soprattutto fornire un senso e una direzione a quello che definiamo innovazione e nuova occupazione. Rincorriamo i “posti di lavoro” trascurando l’orientamento, l’elemento essenziale dell’employability: la capacità dei ragazzi di leggere sé stessi e il contesto in questo mondo, di leggere la complessità. La richiesta di un orientamento maturo si basa su tutti i saperi compresi quelli che abbiamo relegato in fondo alle possibili scelte educative dei nostri ragazzi (lettere, filosofia, storia...), per tracciare un percorso di crescita che attribuisca dignità e libertà ai nostri ragazzi, e oggi questo impegno è direttamente proporzionale allo sviluppo tecnologico e al diffondersi di una cultura del digitale. Siamo


Karl Jasper, «all’esistenza di divenire di volta in volta consapevole di sé»3. Il mercato del lavoro vuole vedere la persona nel suo insieme, il suo essere attraverso la sua storia, che lo ha condotto proprio a quel colloquio, questo insieme che è la rappresentazione della nostra meravigliosa unicità ci rende sempre speciali (condizione insita dell’essere umani e ancora non programmabili) e per questo non facilmente sostituibili: ecco perché l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è così complesso.

I nostri ragazzi: gli innovatori —

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Corso di falegnameria, 1960. ↓

I ragazzi oggi sono frammentati, o forse è meglio dire segmentati, da attività, progetti, informazioni, e devono saper e poter ricostruire l’insieme,la loro identità che prende forma e vita nella definizione del “passaggio”, un cammino continuo che permette di ampliare sempre più gli orizzonti dell’innovazione. Non parlo qui di un esercito di scienziati, ma della capacità di ciascuno di pensare e di avere una visione nei più piccoli gesti quotidiani, quelli che prevedono una ca-

pacità di collegare saperi tra loro anche apparentemente separati, per vivere il mondo (digitale). Walter Isaacson, dopo essersi impegnato nella ricostruzione bibliografica di alcuni personaggi che hanno contribuito a cambiare la nostra vita negli ultimi anni, nell’ultimo capitolo del suo libro Gli innovatori, dice che tutto dipenderà dalla formazione, o meglio dalle capacità di pensare in modo trasversale, e di appassionarsi al design e all’ingegneria, all’arte e alla scienza: «il futuro verrà da persone capaci di collegare la bellezza all’ingegneria, la poesia ai processori»4. In altre parole, arriverà dagli eredi spirituali di Ada Lovelace, creatori capaci di fiorire nell’incontro dell’arte con la scienza e dotati di uno stupore che li apre alla bellezza di entrambi. Questa visione innovativa diventa rivoluzionaria nel momento in cui assume per la sua diffusione e per il suo utilizzo una dimensione culturale, quando se ne capisce il valore e le possibilità di creare prosperità. È la cultura dei confini (fisici e scientifici), del tempo, dello spazio, dell’intelligenza, della comprensione, della relazione: una nuova geografia che deve entrare nelle


se non rinunciamo noi, loro non avranno motivo per farlo. Per realizzare questi percorsi non è mai troppo tardi, ma bisogna evitare quella assurda estraneità che ci allontana dalla realtà, dalla capacità di pensare e di pensarci portandoci verso uno scoraggiamento aprioristico che sviluppa una cultura dominante negativa, dove la parola “lavoro” viene appiattita sul “posto di lavoro” senza un punto di inizio, un poi, un durante, senza la ricchezza della persona che resta in attesa non avendo appreso a occuparsi di sé stessa nel mondo, e in questo dis-orientamento il valore umano,le sue qualità,differenza,fragilità, finitezza, immaginazione, irrequietezza, rischiano di diventare il suo limite. La scuola sa costruire percorsi e lo può fare, uscendo dall’ansia e dalla segmentazione degli interventi possiamo guardare alla persona nel rispetto dei tempi e delle modalità espressive di ciascuno. Se non ri-torniamo a riflettere sulle parole, sul “passaggio”, non solo ci continueremo a trovare in una crisi occupazionale che penalizza anche le fasce giovanili, ma rinunceremo alla definizione di un mondo nuovo, quello pensato dai nostri ragazzi, che con buona probabilità sarà migliore di quello che abitiamo oggi. NOTE 1.A.Sen,Lo sviluppo è libertà, Mondadori,Milano 2000, p. 79. Dello stesso autore si veda anche Il tenore di vita. Tra benessere e libertà, a cura di L. Piatti, Marsilio, Venezia 1993; Diritti personali e capacità, in id., Risorse, valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 2. P. Benanti, Digital Age. Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società,Edizioni San Paolo, Milano 2020. 3. K. Jaspers, Filosofia. Chiarificazione dell’esistenza, a cura di U. Galimberti, Mursia,Milano 1978. 4. W. Isaacson, Gli Innovatori. Storia di chi ha preceduto e accompagnato Steve Jobs nella rivoluzione digitale, trad. it. S. Crimi, L. Fusari, L. Vanni, Mondadori, Milano 2014. 5. I. Calvino, Visibilità, in Lezioni americane, Mondadori, Milano 2016.

Paola Parente è esperta di processi di orientamento alle scelte (scuola università, mercato del lavoro) e valorizzazione delle risorse umane in azienda. È co-fondatrice di QUIDD - Qualità Umane Innovazione Differenti Direzioni.

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scuole, per ri-stabilire il legame tra la nostra esistenza e quella del mondo, altrimenti rischiamo di perderci il nucleo centrale della rivoluzione digitale e le sue prospettive future, riducendo il tutto all’uso individuale di supporti digitali che comportano un aggrovigliamento senza senso e una delega della nostra intelligenza. Italo Calvino apre una delle lezioni americane5 con una citazione di Dante nel Purgatorio (XVII, 25) che dice «Poi piovve dentro a l’alta fantasia»: dobbiamo continuare a permettete che la pioggia bagni i nostri ragazzi e soprattutto che loro sentano la pioggia: aprire grandi ombrelli per proteggerli serve nel breve periodo, ma non li prepara al mondo (del lavoro). Nel confronto con le macchine, se tutto diventa una ricerca di risposte usciamo già perdenti, se la strada delle ipotesi, dei dubbi, delle domande si chiude davanti alle rassicuranti indicazioni degli algoritmi allora il lavoro della scuola non serve, ma con esso finiranno anche i “posti di lavoro”, perché si ferma il tempo e con esso il futuro. Per lavorare su questo non ci sono soluzioni facili e rassicuranti, non è solo un problema di gap di competenze, ma di curiosità, attenzione, saggezza, partecipazione: creare il “passaggio” significa sviluppare un orientamento maturo che considera alcuni aspetti fondamentali: l’espressione della volontà, ovvero la percezione intima del proprio io come persona cosciente, per definire le identità e agire la volontà come forza che abilita le scelte individuali; l’espansione dell’esplorazione, non più e non solo imprenditori di sé stessi ma ricercatori, persone in grado di accogliere una riflessione analitica sul mondo per superare positivamente miti, stereotipi, credenze e costruire memoria; la consapevolezza delle scelte, per definire un personale orientamento e una maturità attraverso la quale restituisco al mondo il mio contributo; la padronanza della capacità combinatoria, il riconoscimento e l’acquisizione del metodo attraverso il quale si compongono e si scompongono i singoli saperi, partendo dal funzionamento della nostra memoria che, come dicono i neuroscienziati, è la nostra essenza. Questo percorso richiede impegno e la definizione di una traiettoria temporale, un periodo di tempo necessario per compiere dei passi; non prevede soprattutto che ci si possa accontentare o rinunciare:


L’eclissi del lavoro nelle politiche scolastiche

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Scuola / L’eclissi del lavoro nelle politiche scolastiche

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Nella Repubblica «fondata sul lavoro» il lavoro ha subito una progressiva, inarrestabile eclissi, proprio all’interno del sistema educativo. Ecco come è successo, e che fare per rimediare. di Claudio Gentili

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el novembre 1676 Gottfried Wilhelm Leibniz entra in una casa di mattoni rossi alla periferia settentrionale dell’Aja e incontra Baruch Spinoza. L’incontro dura poche ore, o forse qualche giorno. Durante una delle tante controversie che affrontano, Leibniz sentenzia: «La cultura libera dal lavoro». «Ogni uomo colto che non conosca un mestiere, prima o poi diventa un furfante», replica Spinoza; nella stanza buia e stretta dove accanto a un piccolo tavolo pieno di appunti fa bella mostra di sé un tornio per molare le lenti. Leibniz si fa interprete del pregiudizio idealista che contrappone cultura e lavoro. L’autore dell’Ethica more geometrico demonstrata, che faceva l’ottico e il filosofo, interpreta invece non solo il valore culturale, ma anche il senso morale del lavoro e del lavoro ben fatto. Non a caso il “capolavoro” costituiva l’esame di maturità degli apprendisti delle botteghe artigiane. La cultura idealistica imperniata sulla antica contrapposizione otium-negotium ha veicolato la percezione di una distanza incolmabile tra scuola e lavoro. Già la regola di San Benedetto («ora, lege et labora») capovolgeva questo paradigma. In Italia però il pregiudizio rimane, e spinge le famiglie a optare per i licei e considerare scuole “di serie B” gli indirizzi tecnici e professionali. Per una singolare eterogenesi dei fini, l’idealismo tipico del pensiero politico della destra storica si è gradualmente diffuso in ampi settori della cultura progressista e del mondo sindacale. «La riforma della scuola approvata dal governo il 1° febbraio 2001 riporta l’orologio del Paese indietro di decenni, quando studiare era un privilegio per pochi e lavorare precocemente una certezza per tanti». Così il leader della Cgil Scuola Panini stigmatizzava una riforma (poi smontata) che intendeva valorizzare il filone tecnico-professionale e introduceva, nell’art. 4, l’alternanza scuola-lavoro. Negli stessi anni, diverso era il punto di vista dei progressisti francesi. In un Manifesto per l’educazione globale pubblicato su «Le Monde Education» nel gennaio 2002 e firmato da Jean-Luc Melenchon, all’epoca Ministro dell’istruzione, si afferma: «Tutto il sistema educativo deve essere riorganizzato in modo tale da garantire che a partire dai 15 anni fino ai più alti livelli universitari nessun anno di studio sia concluso senza la possibilità di un accesso a un titolo professionalizzante». Il documento francese si conclude puntando il dito contro «i discorsi fumosi sulla fine del lavoro» e insiste sulla necessità di sviluppare sistemi di alternanza proprio per rispondere alle esigenze degli studenti. Il Rapporto Ocse 2019 «Education at a glance» mette in luce come l’assenza di un corposo canale professionalizzante sia uno dei limiti del sistema educativo italiano. Le ricerche internazionali suggeriscono modalità di apprendimento basati su didattica laboratoriale, work-based


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Dalla scuola al lavoro —

Il rapporto tra cultura e produzione, tra sistema delle conoscenze e sviluppo economico, è uno dei fondamenti della civiltà occidentale. Oggi non si può essere professionali senza avere quelle spiccate doti di comunicazione e capacità di lavorare in squadra che proprio gli studi superiori promuovono. Né si può dimenticare che ben poche competenze professionali sono acquisibili senza quella elevata capacità di sintesi, astrazione, concettualizzazione che solo una buona scuola può dare. Non può esistere un’educazione generale senza un’educazione al lavoro, e quest’ultima ha senso in relazione alla prima. L’educazione al lavoro non può essere relegata negli indirizzi tecnico-professionali. Le imprese, dal canto loro, possono offrire alle scuole competenze didattiche e docimologi-

che, aiutare gli studenti nella transizione scuola-lavoro, ospitarli in stage e tirocini, creare prodotti tecnologici che favoriscano l’efficacia dell’insegnamento.

Il piano Medici —

Vorrei citare un concreto esempio di un’altra Italia che pure c’è, operosa, competente, generosa, lungimirante, ma che non conquista i piani alti della politica. Correva l’anno 1959. Il Ministero dell’istruzione era guidato da Giuseppe Medici, un politico che veniva dal mondo dell’agricoltura ma che aveva capito che il futuro dell’Italia era nell’industria. Medici chiese a un istituto di ricerca, lo SVIMEZ, un’indagine per sapere di quanti diplomati tecnici l’apparato industriale italiano avrebbe avuto bisogno nei successivi 10 anni per svilupparsi adeguatamente. Fu istituita una Commissione di esperti presieduta da Mario Martinelli; il segretario di quella Commissione era Giuseppe De Rita. All’epoca gli iscritti alle scuole tecniche in Italia erano 293 mila. La Commissione scientifica suggerì al Ministro che per favorire lo sviluppo industriale sarebbero stati necessari un milione di iscritti.E così avvenne.Nel 1970 gli studenti degli Istituti tecnici erano diventati 951mila. Come è stato possibile ottenere questo risultato? Con un lungimirante, efficace e continuativo impegno di orientamento. Con uno straordinario

↑ Apprendisti saldatori in una scuola professionale.

Scuola / L’eclissi del lavoro nelle politiche scolastiche

learning e compiti di realtà. L’alternanza, istituita in Italia con la legge 53/2003, resa obbligatoria con la legge 107/2015 e sostituita dai cosiddetti Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) con la legge 145/2018, aveva come scopo proprio la ricostruzione del rapporto tra insegnamento e vita reale. Eppure, nella Repubblica «fondata sul lavoro», il lavoro ha subito una progressiva, inarrestabile eclissi, proprio all’interno del sistema educativo.


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↑ Insegnante ed allievo in una scuola di agricoltura.

collegamento tra scuole e imprese (non a caso molti Istituti Tecnici conservano il nome di grandi imprenditori che ne hanno favorito lo sviluppo).Con la grande competenza tecnica di moltissimi presidi che conoscevano il mondo industriale. Con tanto laboratorio. Con un fortissimo raccordo tra offerta formativa scolastica e esigenze delle imprese. Con docenti di materie tecniche che provenivano dal mondo dell’impresa. Periti industriali, elettrotecnici, geometri e ragionieri hanno dato un impulso decisivo al boom economico italiano. Una grande parte degli imprenditori delle piccole e medie imprese italiane provenivano da blasonati Istituti Tecnici, la cui reputation spingeva le famiglie a considerarli vere scuole d’eccellenza. Basti pensare all’Aldini-Valeriani di Bologna, al Quintino Sella di Biella, al Paleocapa di Bergamo, al Carcano di Como, al Kennedy di Pordenone, al Corni di Modena, solo per citarne alcuni. Scuole che hanno formato il ceto imprenditoriale e l’aristocrazia operaia.

L’eclissi del lavoro —

Poi, qualcosa di inaspettato è successo. Nel 1990 gli studenti degli Istituti tecnici nel 1990 raggiungevano il 46% degli

iscritti totali; dopo quel picco si è avviata una progressiva e continua riduzione. Questo fenomeno può essere interpretato in molti modi, e ha certamente comprensibili motivazioni. L’esigenza di fornire ai giovani una solida preparazione di base è stata affrontata in modo riduttivo, sostituendo il modello liceale al modello di apprendimento attraverso il fare e riducendo negli Istituti tecnici e professionali la preparazione tecnica. Il modello di apprendimento legato al sistema di produzione fordista doveva essere abbandonato, ma con quel modello è stata abbandonata la capacità di sviluppare competenze attraverso la soluzione di problemi e la trasformazione della realtà, a favore di un incremento di lezioni teoriche. Il lavoro, le competenze, il laboratorio, hanno via via attenuato la loro importanza didattica. Sono prevalse le discipline, o meglio il disciplinarismo. Ma soprattutto è prevalsa l’idea, tipica della cultura politica italiana dominante, che eguaglianza coincidesse con uniformità. Così come la scuola media unica negli anni Sessanta, l’abolizione dell’avviamento professionale era stata salutata come una conquista che consentiva a tutti gli studenti di avere uguali opportunità formative, eliminando una tipologia scolastica che era di fatto destinata ai meno abbienti, e che determinava una discriminazione inaccettabile (l’orientamento precoce al lavoro per alcuni e la possibilità di accedere ai più alti livelli di studio e di posizione sociale per altri); analogo processo si è andato determinando per gli studenti delle scuole superiori. Alcuni chiamano questo fenomeno liceizzazione. Sta di fatto che gli iscritti all’Istruzione tecnica sono scesi dal 46% al 30%: negli stessi anni, le imprese italiane, per stare sui mercati, raddoppiavano il numero dei tecnici: si passò da 12 tecnici (periti meccanici, elettronici, chimici, tessili ecc.) su 100 assunti a 22, superando la Germania. Contemporaneamente, dunque, in Italia i licei, tradizionale scuola delle élite, superavano per numero di iscritti,di gran lunga, gli Istituti tecnici. Ogni famiglia legittimamente aspirava al meglio. E gli stessi Istituti Tecnici progressivamente si liceizzavano: riduzione drastica del numero di ore destinato alle discipline tecniche; dimezzamento delle ore di laboratorio; indebolimento dei legami con il territorio e con le imprese. Mentre l’impresa chiedeva più tecnici, la


La ciliegina sulla torta —

Il progressivo indebolimento dei percorsi formativi collegati con il lavoro ha un triste epilogo. Nel 2014, il MIUR prende atto formalmente di questa eclissi e ne trae tutte le conseguenze. Dopo anni in cui la Direzione generale dell’Istruzione tecnica aveva accompagnato e favorito il raccordo con le imprese e attraverso i progetti assistiti, temperando le conseguenze dei processi di liceizzazione,arriva la decisione fatale.Dovendo contenere il numero di direzioni generali, in conseguenza delle necessarie politiche di contenimento della spesa pubblica attraverso la spending review, il MIUR deve sopprimerne il 20%. Si decide, tra le altre, di sopprimere la Di-

rezione Generale dell’Istruzione tecnica, che nel corso degli anni è stata la cabina di regia delle politiche scolastiche orientate al lavoro e all’impresa. Nonostante la manifesta opposizione di Confindustria e dei sindacati confederali e i pareri decisamente contrari di personalità attente alle dinamiche del rapporto tra politiche pubbliche e sviluppo industriale, come Romano Prodi e Luigi Berlinguer, la Ministra Carrozza del PD firma questo Decreto. Una scelta discutibile che viene da una parte politica che nella sua storia ha il lavoro come base del suo DNA. In una Repubblica, lo ricordiamo, «fondata sul lavoro», tale scelta appare quanto meno contraddittoria. Ma c’è anche chi la trova naturale e prevedibile. A poco è servito il generoso e ingenuo tentativo della sinistra pragmatica e riformista di salvare il valore educativo del lavoro. Com’è noto, il governo Renzi nel 2015 rende obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro, con un numero di ore forse non compatibile con un sistema scolastico, che specie nelle zone con minore industrializzazione si era andato liceizzando. Chi frequenta le stanze del Ministero dell’Istruzione da molti anni ha registrato la completa eclissi di Ispettori Ministeriali specializzati nei settori industriali. E anche l’alternanza obbligatoria è presto finita in soffitta, sostituita nel 2018 dai famigerati PCTO (percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento). La drastica riduzione delle ore dedicate all’alternanza è un ulteriore preoccupante segnale dell’eclissi del lavoro nella scuola.

Un Paese a vocazione manifatturiera —

Eppure l’Italia resta il secondo Paese manifatturiero in Europa (dopo la Germania), e secondo gli ultimi dati Excelsior mancano all’appello 240.000 profili tecnici e professionali che le imprese cercano, ma non trovano. In passato, a caratterizzare la crescita economica italiana è stato l’incontro tra domanda delle imprese e offerta formativa. Dal 1959 al 1970, mentre il PIL italiano cresceva del 6% ogni anno, il numero dei giovani che sceglievano istituti tecnici e professionali si è quadruplicato. Al contrario, quando la crescita dell’Italia si è fermata,appunto negli anni Novanta, si è accentuato anche il divario tra domanda delle imprese e offerta formativa.

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scuola ne offriva di meno: si era dunque staccata dal lavoro. Didatticamente e pedagogicamente si veniva smarrendo il valore educativo dei compiti di realtà e dell’esperienza del lavoro. Si separavano progressivamente i fabbisogni produttivi e l’offerta formativa, con i risultati che vediamo sotto i nostri occhi, e il disorientamento che pagano soprattutto i nostri giovani. Talentuosi, bravi, determinati, spesso si scontrano con la realtà del lavoro, dopo aver fatto scelte formative sbagliate. L’aver scambiato l’uniformità per eguaglianza ha come conseguenza la disoccupazione giovanile, da noi particolarmente elevata. La Germania ha fatto scelte diverse, conservando all’interno del percorso scolastico una significativa differenziazione tra percorsi liceali e percorsi professionali, che hanno pari reputation e pari dignità. Un Paese che, dotato di un sistema manifatturiero con caratteristiche analoghe a quello italiano, a differenza del nostro ha conservato il valore educativo del lavoro in specifici e molto apprezzati percorsi formativi, fino ai percorsi terziari professionalizzanti. Merita rilevare che mentre le Fachhochscule hanno oltre 800.000 studenti, i nostri ITS si fermano a 10.000 allievi. In Germania i giovani che studiano e lavorano superano il 23% e la disoccupazione giovanile non raggiunge il 3%. Da noi i giovani che studiano e lavorano, in percorsi di apprendistato, sono il 3% e la disoccupazione giovanile supera il 25%. Studi empirici hanno significativamente dimostrato che la diffusione uniforme dei percorsi formativi senza specializzazione crea disoccupazione.


Che fare? —

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Che fare di fronte a questa eclissi della cultura del lavoro nelle politiche pubbliche dell’education? A poco serve strapparsi le vesti. È molto utile moltiplicare le ricerche che studino gli effetti di questa eclissi. Ed è prezioso accendere qualche riflettore che dia visibilità nazionale a scuole che abbiano consolidato il rapporto con le imprese e a programmi formativi ispirati a didattica laboratoriale e work-based learning. Negli ultimi anni, in qualità di direttore scientifico, ho cercato di valorizzare le reti delle scuole tecniche e professionali negli annuali appuntamenti a Verona di Job & Orienta (una fiera giunta alla trentesima edizione che coinvolge 80.000 visitatori). Reti come M2A (istituti meccatronici), Tam (moda), Renaia (alberghieri), Renisa (Agroindustria),

Approfondire —

• C. Barone, Orientamento, equità, scelta degli studi, «Rivista dell’istruzione», Anno 30 (2014), n. 5. • C. Gentili, Scuola e extrascuola, Editrice La Scuola, Firenze 2002. • C. Gentili, Umanesimo tecnologico e istruzione tecnica. Scuola, impresa e professionalità, Armando, Roma 2005. • C. Gentili, Scuola e impresa. Teorie e casi di partnership pedagogica, Franco Angeli, Milano 2012. • C. Gentili, L’alternanza scuola-lavoro: paradigmi pedagogici e modelli didattici, «Nuova Secondaria», n. 10, giugno 2016 - Anno XXXIII. • C. Gentili, “Time out” for Classical Studies? The Future of Italian Liceo Classico in the 4.0 World, Estudios Sobre Educacion, ottobre 2018, pp. 127-143. • D. Nicoli, Istruzione e formazione tecnica e professionale in Italia. Il valore educativo e culturale del lavoro, LAS, Roma 2011. • L. Ribolzi (a cura di), La riforma degli istituti tecnici. Manuale di progettazione, Laterza, Roma-Bari 2010. • L. Ribolzi, C. Gentili, A. Maraschiello, P. Benetti, V. Gallina, Dai saperi alle competenze, il Mulino, Bologna 2020. • M. Stewart, Il cortigiano e l’eretico, Feltrinelli, Milano 2019.

ITEFM (istituti a indirizzo economico) e Rete dell’innovazione (che raccoglie scuole statali e paritari d’eccellenza nel campo della didattica digitale). Tutte reti di scuole che in assenza di politiche nazionali tengono viva nei territori la cultura del lavoro. È strategico investire su queste reti e su scuole polo come centri territoriali di divulgazioni di buone pratiche. L’economia italiana è basata sul settore manifatturiero, eppure troppi continuano a ignorarne l’importanza. Per correggere questo strabismo, queste reti di scuole hanno sviluppato creative azioni di orientamento. Basti pensare alla Notte della moda in collaborazione con Confindustria moda, a Storie di alternanza in collaborazione con UnionCamere, alle Olimpiadi dell’automazione in collaborazione con Siemens o ai progetti di apprendistato di primo livello in collaborazione con Enel. Tutte azioni volte a rafforzare l’identità del filone dell’istruzione tecnica, base del pragmatismo innovativo che caratterizza le imprese italiane e costituisce parte significativa della loro competitività. Molte scuole – penso ad esempio al Carcano di Como, al Leopoldo di Lorena di Grosseto, al Paleocapa di Bergamo – sono supportate da Fondazioni che ne favoriscono lo sviluppo e il raccordo col territorio. Per crescere dobbiamo puntare sul cuore del nostro sistema produttivo: l’industria manifatturiera che ci ha garantito lo sviluppo nel passato e ci offrirà la possibilità di ripresa nei prossimi anni. Un ruolo centrale all’apprendimento sul lavoro (alternanza scuola-lavoro, stage in azienda) per collegare maggiormente l’azione della scuola al territorio e alle imprese, favorendo nei giovani lo sviluppo di una solida formazione iniziale e realizzando un piano nazionale per diffondere l’insegnamento pratico e la didattica sperimentale in laboratorio. Creare percorsi di transizione scuola-lavoro finalizzati a facilitare sia il proseguimento negli studi che l’ingresso nel mondo del lavoro. Claudio Gentili autore di testi sul rapporto tra impresa e formazione, esperto di politiche scolastiche, è stato direttore education di Confindustria dal 1990 al 2018, e ha insegnato Pedagogia del lavoro nelle Università di Siena, Venezia, Padova e Firenze. Direttore scientifico di Job e Orienta e saggista, collabora con «Il Sole 24 Ore».


Lavoro e beni culturali: qualche esperienza Con la cultura si mangia? Di sicuro non è mai troppo tardi per immaginare (e magari esercitarsi nel fare) professioni e lavori in cui mettere a frutto gli studi, anche liceali.

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di Mauro Reali

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er molti anni, in passato, la parola “Liceo” (e soprattutto il Liceo classico) è stata percepita come alternativa al termine “lavoro”. Ciò perché la condizione di studente liceale era (ed è tuttora) considerata propedeutica a quella di studente universitario, tant’è che qualcuno – sminuendo a mio avviso il senso complessivo di cinque anni di scuola – ha voluto assegnare ai Licei la mera funzione di trasmissione di un metodo. Il Liceo, dunque, come studio (più astratto) che prepara ad altro studio (più concreto): il lavoro non sarebbe poi mancato ai figli della classe dirigente, destinati a sostituire i loro padri sul ponte di comando della società italiana. Tale prospettiva emerge anche nel bel romanzo di Gian Arturo Ferrari,Ragazzo italiano,Feltrinelli,Milano 2020, che così descrive i facoltosi liceali milanesi degli anni Sessanta:

↑ Metaponto, Tempio delle Tavole Palatine.


E tuttavia la bizzarria del mondo era tale che ragazzi e ragazze normali, con normali gusti, propensioni, interessi, volizioni, tendenze si trovavano infilati in questo assurdo tritacarne al solo scopo di accedere poi all’università, dove finalmente ci si sarebbe potuti occupare di cose concrete, di come avviarsi a lucrose professioni e impieghi, ossia, in ultima analisi, di come far soldi. (p. 278). In realtà le cose non stavano proprio del tutto come Ferrari descrive, e i Licei furono anche (ad esempio nel suo caso) un importante acceleratore di mobilità sociale. E, comunque, le cose non stanno più così oggi, quando i Licei sono davvero scuola “di massa” (nei loro vari indirizzi costituiscono in Italia oltre il 50 % della popolazione scolastica secondaria di secondo grado): da anni sono assai più i miei studenti di Liceo Classico che temono per il proprio futuro lavorativo (o per il presente dei loro genitori), di quelli che si immaginano avviati verso «lucrose professioni e impieghi». Inoltre, volenti o nolenti, di lavoro a scuola oggi si deve parlare anche nei Licei, in conseguenza dell’attivazione della cosiddetta “Alternanza Scuola Lavoro” (ASL), ex lege 107/2015, attività dall’a.s. 2018-19, burocraticamente ridenominata “Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento” (PCTO). Senza alcuna pretesa di valutare glo-

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→ Un momento dell’incontro di studio sul tema “Conoscere, valorizzare, fruire i Beni Culturali: l’area di Castelseprio e Torba (VA)”.

balmente tale esperienza, in questa sede intendo proporre solo un rapido catalogo di alcune iniziative che sono state svolte presso il Liceo Scientifico e Classico “Antonio Banfi” di Vimercate (MB) – dove insegno – tre delle quali mi hanno visto attivamente coinvolto in fase progettuale e/o operativa. Si tratta di attività di avvicinamento al lavoro nell’ambito dei Beni Culturali,ricco di interazioni con la didattica curricolare come pure di suggestioni emotive, e proprio per questo privilegiato anche in molti altri Licei italiani (soprattutto Classici).

Pulire antichi coccetti —

Nel 2015 si è realizzata – ancor prima che l’ASL diventasse obbligatoria – una convenzione tra l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, la Soprintendenza Archeologica della Lombardia (allora era questo il suo nome), il Comune di Vimercate e il Liceo “Banfi”, per affidare agli studenti una campagna di lavaggio e siglatura di materiale archeologico, per lo più ceramico, provenienti dalle sepolture di età romana (I-IV sec. d.C.) scoperte nell’attuale piazza Marconi di Vimercate tra il 1999 e il 20001. Questa attività didattica, denominata ArcheoBanfi, si è svolta in orario pomeridiano dal 21 al 26 settembre presso il Museo del Territorio Vimercatese (MUST) il cui direttore Ange-


Tutelare e valorizzare i Beni Culturali —

Il 19 ottobre 2016 è stato organizzato un incontro di studio e formazione sul tema Conoscere, valorizzare, fruire i Beni Culturali: l’area di Castelseprio e Torba (VA). Ciò è stato il frutto della collaborazione tra il Liceo “Antonio Banfi”, la Soprintendenza (nella persona dell’allora responsabile dell’Area archeologica di Castelseprio, Francesco Muscolino), e il FAI, proprietario del Monastero di Torba, che – come la vicina area archeologica – è incluso nel Patrimonio UNESCO dal 20112. I 66 ragazzi partecipanti – di Liceo Scientifico e Classico – hanno anzitutto visitato i siti con attenzione non solo alla dimensione storica e artistica, ma anche alla sfera giuridica della loro tutela e a quella della loro valorizzazione. Gli studenti, ad esempio, hanno compreso la differenza tra un’area di pertinenza statale come quella archeologica tardo-antica di Castelseprio (che comprende anche la Chiesa di Santa Maria foris portas, con gli straordinari affreschi del IX sec.), e il vicinissimo monastero di Torba, che – essendo un bene del FAI – è “proprietà privata”. Inoltre, la presenza di un archeologo militante come Muscolino ha consentito ai giovani di toccare con mano alcuni aspetti concreti di questo mestiere, vedere restauri da poco effettuati (come quello del battistero paleocristiano di San

Giovanni a Castelseprio), o scavi allora ancora in corso (come quello della cosiddetta “casa longobarda”). Sono stati poi organizzati tre workshop, ai quali i ragazzi hanno partecipato a turno, gestiti dallo stesso Francesco Muscolino e – insieme con alcune collaboratrici – da Elena Castiglioni di “Archeologistics”, società cui il FAI ha affidato la gestione di Torba. Questi i temi trattati: - a) I mestieri dei Beni Culturali (dal custode di museo, alla guida, al restauratore, al ricercatore, al dirigente etc.); - b) Il ruolo del FAI nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale italiano; - c) Le diverse competenze sui Beni Culturali dello Stato, delle Amministrazioni locali, degli Enti sovranazionali (UNESCO).

Diventare guide specializzate —

Vimercate, oltre che vicus di età romana, fu sede pievana d’epoca medievale. Lo attesta la splendida collegiata romanica di Santo Stefano, completata nel XIII secolo, la cui costruzione ha visto anche il reimpiego di materiale lapideo romano iscritto ancora ben visibile nella torre campanaria 3. Oltre a opere di età successiva, troviamo nella sagrestia tracce di affreschi del XIV secolo, mentre pregevoli statue di scuola campionese, un tempo sulla facciata, sono oggi al MUST. Il Liceo “Banfi” ha voluto promuovere un percorso di formazione di 18 studenti di Liceo Classico affinché diventassero esperte guide per i visitatori di questa chiesa, coinvolgendo l’archeologa Rossella Moioli, docente al Politecnico di Milano nonché responsabile “Progetto di conservazione del patrimonio architettonico della Comunità Pastorale della Beata Vergine del Rosario di Vimercate e Burago di Molgora”. Moioli, insieme con l’archeologa Daniela Massara e due docenti del Liceo (chi scrive, per l’Epigrafia Latina, e Davide Nicolussi, per la Storia dell’Arte), ha lavorato con i ragazzi durante gli aa. ss. 2017-18 e 2018-19: la “restituzione” al pubblico è consistita sia in alcune viste guidate sia nell’organizzazione di un concerto musicale nella chiesa il 4 giugno 2018. Studio, visite guidate, concerti, hanno riguardato negli anni anche altri monumenti ubicati a Vimercate o nei dintorni, valorizzati dai colleghi Franca Radaelli, Davide Nicolussi, Elena Tornaghi: tra gli altri la chiesetta duecentesca di S. Maria in Campo a Cavenago (con la consulenza

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lo Marchesi ha messo a disposizione adeguati spazi di lavoro: ma in precedenza i 18 giovani del “Banfi” selezionati (17 del Classico, 1 dello Scientifico) hanno seguito lezioni di formazione presso l’Università Cattolica e la Soprintendenza, tenute da Furio Sacchi (docente di Archeologia Classica) e da Grazia Facchinetti (funzionario archeologo di zona), che hanno poi monitorato tutto lo stage. Chi scrive è stato designato dal dirigente scolastico Giancarlo Sala referente didattico di tale iniziativa, che ha consentito agli studenti di sperimentare un approccio diretto alla complessità della gestione dei beni archeologici.Hanno infatti compreso che non basta scoprire i reperti del passato, occorre catalogarli, restaurarli, restituirli al pubblico, tutelarli (secondo leggi dello Stato), ma soprattutto studiarli, cosa che gli “archeologi professionisti” avrebbero potuto fare anche grazie al loro lavoro minuzioso e oscuro.


di Graziano Vergani, dell’Università di Macerata), o il Castello di Trezzo (con la collaborazione di Chiara Villa della Associazione Art-U).Antonella Cattaneo, inoltre,ha coordinato il lavoro di alcuni allievi che hanno partecipato alla realizzazione di una mostra fotografica (Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima) al MUST di Vimercate nel maggio 2017. Ragioni di spazio mi obbligano a trascurare altre attività.

Tra archeologia e tecnologia —

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Un cenno merita anche un progetto di ASL-PCTO cui non ho partecipato direttamente, ma che è stato coordinato dai colleghi di Storia dell’Arte del Liceo “Banfi” (specialmente Davide Nicolussi e Franca Radaelli) in convenzione con la società “Autòkton”,da anni impegnata nel campo dell’archeologia e della valorizzazione del patrimonio culturale della Basilicata. Durante gli aa. ss. 2017-18 e 2018-19 alcuni gruppi di studenti (circa 150 in tutto) hanno lasciato la Brianza per trascorrere circa una settimana tra Metaponto (nobilitata dal maestoso tempio di Hera e dal moderno Museo Archeologico Nazionale), Pisticci (qui, sul colle dell’Incoronata ha scavato tanti anni l’Università Statale di Milano) e Matera, dove le visite alle antichità locali4 si sono alternate con lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche. Oltre all’introduzione all’archeologia e a cenni di promozione turistica dei Beni Culturali, le archeologhe di “Autòkton” (Barbara Taddei e Paola Iannuziello) hanno iniziato gli studenti all’uso delle più moderne tecnologie di supporto del loro lavoro: dalla fotografia digitale all’uso di Autocad, a quello del termo-scanner e del drone, esperienze – queste – particolarmente gradite ai ragazzi del Liceo Scientifico.

Esperienze positive e formative —

Per concludere, vorrei fare qualche considerazione di ordine generale, evidenziando i risultati positivi di questi percorsi. Lo farò mediante l’illustrazione di tre “parole d’ordine”, cioè - a) le opportunità professionali; - b) il “mestiere di cittadino”; - c) la conoscenza del territorio, dei territori.

a) Le opportunità professionali —

Come si è visto,gli studenti sono entrati in contatto con docenti universitari, arche-

ologi free lance, restauratori, architetti, funzionari delle Soprintendenze, direttori e funzionari di Musei, guide professionali. Hanno lavorato al loro fianco e sotto la loro supervisione, nonché spesso discusso con loro sul “come” siano arrivati a fare quel mestiere tanto particolare. Insomma, se un passato Ministro dell’Economia affermò che «con la cultura non si mangia», si sono resi conto – come ha di recente scritto la studiosa Paola Dubini5, che ciò, almeno in parte, è falso.

b) Il “mestiere di cittadino” —

L’art. 9 della Costituzione afferma che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»: da qui, negli anni, si è originata una copiosa legislazione sulla tutela e la valorizzazione dei Beni Culturali.Si tratta di operazioni complesse che vedono in Italia attori istituzionali, ma che non possono prescindere dai comportamenti dei singoli: è infatti dovere civico dei nostri studenti – cittadini di domani – non solo conservare e proteggere i segni del passato, ma anche conoscerli e divulgarli. Perché, come ha scritto l’antropologo Marc Augé6, le «rovine» non debbono essere declassate a «macerie» per effetto della violenza del nostro mondo contemporaneo: ne va del mantenimento del senso del tempo e dalla coscienza stessa della storia.

c) La conoscenza del territorio, dei territori —

Termine pericoloso, quello di “territorio”, non solo per la sua eterogeneità (comprende sia la dimensione paesaggistica, sia quella antropica,sia quella monumentale), ma anche per certi forzosi risvolti campanilistico-identitari. Avere visto gli esiti degli scavi romani di Vimercate, visitato quelli medievali in corso a Castelseprio oppure operato sul campo nella lontana e greca Metaponto ha comunque dato agli studenti l’idea che l’Italia è sì un insieme di realtà diverse, ma anche un Paese dal patrimonio storico-artistico senza paragoni e senza soluzione di continuità cronologica. Bene, dunque, visitare e conoscere il sito o il Museo vicino a casa, o diventarne orgogliosi testimonial della chiesa locale: ma deve essere il primo tassello di un mosaico fatto di altre visite e altre conoscenze.


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Insomma: non so quanti dei ragazzi cui ho alluso “mangeranno” con i Beni culturali, anche se qualcuno (specialmente tra quelli che hanno “lavato coccetti”) ha intrapreso quel tipo di studi. So però che le competenze acquisite in queste attività potranno risultare utili in qualunque futura professione, e che l’abbandono delle aule – ogni tanto – per frequentare spazi più aperti certo male non fa ai liceali. Testimonianza concreta sono stati l’entusiasmo e la soddisfazione per queste iniziative, che hanno davvero coinvolto tutti. Esemplare il caso di un mio allievo, abitualmente tra i più svogliati e impacciati in classe, che ricordo invece come “guida” spigliata e sicura: proprio davanti agli affreschi di Santo Stefano ha trovato quegli stimoli che né il Dizionario di Latino né la LIM hanno saputo dargli o che forse noi docenti non siamo stati in grado di trasmettergli. Dunque, al Liceo, lavorare con i Beni Culturali “stanca” meno di della (pur necessaria!) consecutio temporum: e, comunque – continuando con le citazioni pavesiane – serve, e non poco, ad attrezzarsi a quel “mestiere di vivere” che tutti i nostri allievi praticheranno. NOTE 1. Sulla storia di Vimercate, dall’antichità ai giorni nostri, si veda A, Marchesi, M. Pesenti (a cura di), MUST. Museo del Territorio, Electa, Milano 2011. 2. Tra la sterminata la bibliografia su questi siti, si veda il recente P.M. De Marchi (a cura di), Castelseprio e Torba: sintesi delle ricerche e

aggiornamenti, SAP, Mantova 2003. 3. Utile la lettura di C. Besana, G. A. Vergani (a cura di), La collegiata di Santo Stefano a Vimercate. Storia e arte in un’antica pieve lombarda, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008. Sui reimpieghi epigrafici vimercatesi, da ultimo, si veda M. Reali, Gli (in)consapevoli errori degli epigrafisti: un esempio dall’Ager Insubrium, in F. Gallo, A. Sartori (a cura di), L’errore in Epigrafia. Atti del Colloquio, Collana “Ambrosiana Graecolatina”, Milano 2019, pp. 157-179. 4. Su Metaponto si veda E.M. De Lellis, Metaponto, Edipuglia, Bari 2001; sul suo tempio L. Lazzarini (a cura di), Il tempio di Hera (delle Tavole Palatine) di Metaponto. Archeologia, archeometria, conservazione, Fabrizio Serra Editore, Roma-Pisa, 2010. 5. P. Dubini, Con la cultura non si mangia? Falso, Laterza,Roma-Bari 2018.Interessante anche S. Cherubini, Marketing della cultura. Per la customer experience e lo sviluppo competitivo, Franco Angeli, Milano 2020. 6. M. Augé, Rovine e macerie: il senso del tempo, Bollati-Boringhieri, Torino 2004.

Mauro Reali docente di liceo, dottore di ricerca in Storia Antica, è autore di testi Lœscher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e direttore responsabile de «La ricerca».

Scuola / Lavoro e beni culturali: qualche esperienza

↑ Attività al corso di formazione di Castelseprio.


Studio e lavoro: un’alleanza necessaria

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Scuola / Studio e lavoro: un’alleanza necessaria

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L’importanza dello studio per costruire il proprio futuro professionale: parola di un avvocato che racconta la sua esperienza e gli insegnamenti che ne ha tratto. di Gianluca Spolverato

L

a scuola ha la grande responsabilità di preparare i ragazzi dando loro un metodo. Il che non ha nulla a che fare con l’insegnare un mestiere, ma significa insegnare a usare quegli strumenti che consentono di comprendere la realtà, ancorandosi a un ragionamento strutturato, che consente di essere autonomi nella formazione di un’opinione, di un’idea. Chiarito questo concetto, c’è un passaggio che la scuola può fare per avviare un confronto costruttivo con il mondo del lavoro: aprirsi al contesto sociale in cui è inserita, inteso non tanto come il primo perimetro in cui è collocata fisicamente, ma come un territorio molto più ampio, che è poi lo stesso che guarda a lei come bacino di nuovi talenti. Penso alle tante esperienze virtuose di imprese e scuole che insieme lavorano per identificare materie, profili professionali, spazi di competenza che daranno ai giovani la possibilità di avere domani un’opportunità di inserimento proficuo nel mondo del lavoro, in una situazione attuale drammatica, che tra l’altro vede una disoccupazione giovanile altissima. Su questo argomento consiglio la lettura di un libro La società signorile di massa di Luca Ricolfi, che analizza le cause di questo fenomeno, nella realtà dei fatti molto diverse da quelle che immaginiamo. La scuola deve aprirsi ai bisogni e al confronto con l’impresa, la pubblica amministrazione, il mondo del lavoro più

Un apprendista calzolaio e il suo tutor. ↓


sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore, dove l’autore Pietro Ichino spiega come nel nostro Paese, a fronte di una tendenza al venir meno di certi posti di lavoro in alcuni settori, ne stiano emergendo tantissimi altri che non trovano però persone capaci di ricoprirli.

La super specializzazione —

Il consiglio da dare ai ragazzi è quindi di super specializzarsi e credere fermamente che il loro futuro lavorativo sia influenzato dalla capacità di diventare esperti in campi ristretti, acquisendo un bagaglio di competenze ed esperienze uniche. Inoltre, la stabilità del rapporto del lavoro è in funzione delle capacità. Se si direziona la ricerca del lavoro verso quei bacini oggi scoperti, e si crede nella necessità di crescere in competenze ed esperienze, rafforzandole con lo studio e la pratica, sarà più facile trovare un’occupazione corrispondente ai propri saperi. Un altro punto di attenzione per gli insegnanti è preparare i ragazzi nell’ottica di un percorso professionale di crescita “per fasi”. O almeno è così che ho vissuto in prima persona il mio percorso di carriera. Io sono un avvocato, guido uno studio di avvocati e consulenti legali che si occupano di tematiche del lavoro, principalmente seguendo aziende e assistendole nei problemi che riguardano la gestione e l’organizzazione del lavoro, delle risorse umane, del personale in generale. Mi occupo poi anche di contenzioso, quindi delle controversie delle imprese con i lavoratori, il sindacato, gli istituti previdenziali o i fornitori. Mi sono laureato in Giurisprudenza nel 1995 e poi ho fatto un dottorato di ricerca in Diritto del lavoro con una specializzazione legata ai temi sindacali. Il mio percorso di formazione è stato di tipo accademico e l’esperienza del dottorato si è rivelata fondamentale per la mia formazione, insieme a un corso breve che ho seguito a Cambridge sul sistema giuridico anglosassone. Quest’ultimo ha poi influenzato buona parte del mio percorso successivo,perché ho capito che il diritto, che siamo abituati a studiare con approccio principalmente teorico, viceversa vive nella realtà, in particolare se pensiamo al tema del lavoro. Questa esperienza mi ha portato a decidere di affrontare la professione di avvocato, che

69 Scuola / Studio e lavoro: un’alleanza necessaria

in generale, per conoscerne i bisogni, ma sempre senza abdicare al suo primo obiettivo, ovvero “dare struttura”, la forma mentale, l’approccio sistematico, attraverso lo studio e la comprensione della realtà. In questo contesto, il ruolo dei docenti è rilevante nel momento che precede l’ingresso al lavoro, per orientare gli studenti allo sviluppo di una forma mentis. Le prime parole chiave nell’approccio al mondo del lavoro sono due: studio e specializzazione, anzi super specializzazione. Le materie che più appassionano e le diverse professionalità, qualunque esse siano, richiedono una conoscenza ampia e sistematica, che si raggiunge con lo studio. Nei giovani va quindi coltivata la passione per lo studio, perché da questo deriva un sapere approfondito. I ragazzi vanno esortati a non accontentarsi di una conoscenza superficiale, a identificare i temi che più li stimolano e incuriosiscono, e ad andare in profondità, perché soltanto la conoscenza approfondita, in questo senso specialistica, permette di avere padronanza e, insieme alla pratica, di avere una visione più limpida del modo in cui procedere. E c’è un altro aspetto legato a questo tema: solo chi domina una materia può esprimere al meglio le proprie capacità e la propria creatività. In definitiva, gli insegnanti dovrebbero spiegare bene agli studenti che senza studio non c’è comprensione, e soltanto una conoscenza approfondita consente di dominare una materia e di esprimersi in modo creativo. Il mondo del lavoro, oggi più che mai, ha bisogno di persone che vogliano fare un lavoro in modo appassionato, qualunque esso sia, anche il più umile, perché senza la passione il lavoro diventa solo fatica. È un concetto difficile da comprendere se pensiamo ai lavori più ripetitivi e manuali,ma anch’essi si possono fare con grande passione. È chiaro che i ragazzi hanno l’ambizione di fare qualcosa che sia importante, che dia loro soddisfazione, che li realizzi. Oggi di opportunità ce ne sono tantissime, soprattutto per i cosiddetti knowledge workers, i “lavoratori della conoscenza”, e c’è un vasto bacino di lavori che non trovano offerta, nonostante la domanda enorme. Su questo tema segnalo un libro molto bello,L’intelligenza del lavoro. Quando


Scuola / Studio e lavoro: un’alleanza necessaria

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La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

↑ Dimostrazione scientifica in una scuola professionale.

prima non avevo messo tra gli obiettivi o le priorità. Sono due quindi i momenti importanti nel mio percorso di formazione: l’uno il dottorato di ricerca e la scelta di un percorso di specializzazione sui temi del lavoro, l’altro l’esperienza a Cambridge dove ho capito l’importanza di portare le competenze che stavo acquisendo a contatto con la realtà e di confrontarle con l’esperienza del lavoro di tutti i giorni, comprendendo meglio il sistema giuridico che studiavo.

Le fasi della vita professionale —

Tornando alle fasi della vita professionale, il primo “periodo” va da dopo l’università fino ai trentadue-trentatré anni, ed è quello della professionalizzazione, cioè della scelta di fare qualcosa che aiuti a crescere professionalmente. La domanda che i giovani si devono fare in questa fase è: il lavoro che sto facendo, l’azienda per cui lavoro, il luogo in cui lavoro, mi aiuta crescere, mi sta dando opportunità di

crescita professionale? Uso sempre l’immagine della spugna: i giovani,ma anche i meno giovani, devono essere come delle spugne che assorbono tutto quello che c’è attorno con curiosità. Successivamente si apre la fase in cui mettere a fuoco bene che cosa si vuole, la materia, il settore, la competenza, la specializzazione, e lavorare sulla super specializzazione, andando in profondità per diventare forti in ciò che si fa. Infine, c’è la fase dell’affermazione, che è un percorso essenzialmente di realizzazione di sé, solo dopo il quale si apre la fase della maturità, che è la fase della “restituzione”: ma questo è un discorso troppo lungo per chi non ha ancora cominciato…

Gianluca Spolverato dottore di ricerca in Diritto del lavoro, è avvocato e socio fondatore di WI LEGAL, SHR Italia, laborability.


Orientare i bambini, a scuola

di Maurizio Milani

H

a senso parlare di lavoro a bambini di 9/10 anni? Lo diciamo chiaramente subito: la nostra risposta è senza dubbio sì. Per una serie di motivi. Il primo è che comunque ai fanciulli passano idee e valori sul mondo del lavoro da parte degli adulti: attraverso i comportamenti, le espressioni verbali, i commenti che ogni giorno i bambini ascoltano e assorbono in famiglia, per strada, alla televisione, sui social media sempre più alla loro portata. E spesso queste idee sono distorte,stereotipate,incomplete.Il secondo motivo: gli studi affermano che un precoce intervento nell’insegnare ai ragazzi un approccio al mondo del lavoro che sia ricco di particolari – pur nel rispetto del loro ritmo di apprendimento – consente loro in età più adulta di assimilare quel processo decisionale che li aiuterà a compiere una scelta della professione consapevole e fondata su criteri efficaci. Non si tratta di indirizzarli a un lavoro, ma di far apprendere loro competenze legate al processo decisionale, in modo da compiere scelte utili a sé e agli altri.

Il contesto

— La Rete BellunOrienta (da qui in poi Rete BO) nasce nel 2012 come naturale prosecuzione delle Reti Territoriali finanziate dal 2002 al 2011 dalla Regione Veneto in materia di orientamento. Vi aderiscono tutti gli istituti scolastici di istruzione e formazione di ogni ordine e grado, statali e paritari, oltre ad associazioni di categoria ed enti pubblici. E questa è la prima cosa che caratterizza l’operato della Rete BO: un lavoro di gruppo che include tutti i possibili portatori di interesse per quanto riguarda il sostegno alla scelta scolastico-professionale degli studenti. La seconda caratteristica della Rete BO sta nell’approccio scientifico alla materia: il nostro lavoro si fonda su assunti teorici presentati dalla comunità scientifica, su modelli appresi e condivisi, su strumenti validati e attendibili. E qui non possiamo non nominare Laura Nota e Salvatore Soresi del dipartimento di Psicologia dell’Università di Padova, che hanno dato un contributo fondamentale alla crescita di una cultura scientifica dell’orientamento in provincia di Belluno. La terza caratteristica risiede nell’aver fatto propri i princìpi del modello educativo compresi nella teoria socio cognitiva, per cui le abilità coinvolte nel processo di scelta

71 Scuola / Orientare i bambini, a scuola

Un orientamento precoce favorisce scelte scolastico-professionali consapevoli: il caso della provincia di Belluno e le attività della rete BellunOrienta, che da anni promuove una continua, intenzionale e precoce azione di formazione, a partire dalle elementari, per allenare i ragazzi a confrontarsi con idee realistiche del lavoro.


→ Aspiranti redattori crescono, wikicommons.

Scuola / Orientare i bambini, a scuola

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si possono apprendere (quindi si possono insegnare) e prima si insegnano meglio è: pertanto le azioni di orientamento della Rete BO si sviluppano dai 9 ai 19 anni, affrontando diversi costrutti dell’orientamento (interessi, attitudini, credenze di efficacia, assertività…) affrontati in diversi momenti dell’evoluzione degli studenti.

La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

I costrutti

— Tra i diversi costrutti presi in considerazione dal modello educativo della teoria socio cognitiva in materia di processo decisionale, abbiamo voluto concentrare l’orientamento precoce verso quattro in particolare: le credenze di efficacia, la gestione di stereotipi e pregiudizi, la scoperta delle professioni, le abilità sociali. Le credenze di efficacia sono uno dei costrutti più affascinanti tra quelli coinvolti nel processo di scelta. Esse sono definite come «credenze nutrite dalla persona a proposito delle proprie capacità di attuare i comportamenti necessari per raggiungere determinati risultati e obiettivi»1. Danno pertanto l’idea della fiducia che ciascuna persona nutre su specifiche proprie capacità, in termini sia di possibilità di realizzarle con successo che di investimento emotivo e cognitivo, in modo da consolidarle e incrementarle.Un intervento educativo sulle credenze che sia precoce, programmato e progressivo può aiutare i fanciulli a maturare in futu-

ro una consapevolezza dei propri punti di forza, l’individuazione di propri obiettivi scolastici e professionali, la formulazione realistica delle cause di successo. «Tutto ciò aumenta la probabilità di favorire scelte più motivate e consapevoli nelle età successive»2. Gli stereotipi vengono definiti come «semplificazioni che la nostra mente costruisce quali scorciatoie per categorizzare il mondo esterno al fine di semplificare la quantità elevata di informazioni che da esso riceve»3. Non sono dannosi in sé, a volte sono persino utili nell’anticipare comportamenti da attuare o monitorare; il problema è che «si attivano in modo automatico e tendono a resistere nel tempo ai cambiamenti, anche in presenza di informazioni che li sconfesserebbero»4. Gli stereotipi di genere, in particolare poi quelli legati ai lavori, danno luogo a una conoscenza distorta e poco funzionale delle professioni e hanno un impatto significativo sulle preferenze dei bambini. Definiamo analisi del lavoro quel «processo finalizzato all’analisi sistematica di una professione e alla raccolta di informazioni dettagliate sullo stesso»5. La necessità di affrontare precocemente l’analisi del lavoro (o job analysis) deriva dalla constatazione che non vi è necessariamente corrispondenza tra sviluppo cognitivo e conoscenza delle professioni. Quest’ultima, infatti, può continuare a rimanere superficiale perché altri fattori (come il contesto educativo, sociale,


Le azioni

— Guidati da questi princìpi base, abbiamo impostato un corso di formazione sui quattro costrutti sopra declinati per insegnanti della scuola primaria (sono

state formate finora 85 maestre dal 2013 al 2020).A ogni costrutto è stata destinata una parte di esposizione dei riferimenti teorici a cui è seguita una parte di costruzione – da parte delle stesse maestre – di strumenti che si immagina adatti a fanciulli e fanciulle che frequentano la scuola primaria. Tali strumenti sono usufruibili sotto forma di quaderni per l’orientamento e sono visibili e accessibili a tutti nel sito www.bellunorienta.it seguendo il percorso “Strumenti-Area pubblica-Scuola primaria”. Questi quaderni sono poi stati utilizzati dalle insegnanti nei vari anni scolastici, solitamente al quarto e quinto anno della scuola primaria. Le azioni continuano tuttora, anche in condizioni di pandemia.Sul sito non risultano aggiornate le attività per semplice carenza di risorse umane e temporali.

I risultati

— Oramai i primi fanciulli che hanno ricevuto l’offerta formativa relativa a un precoce orientamento alle scelte scolastico professionali hanno circa 16 anni. Non abbiamo avviato una ricerca quantitativa relativamente alla ricaduta nel tempo di questi interventi, pertanto non abbiamo dati da presentare. Quello che possiamo riferire, sulla base delle testimonianze delle insegnanti, è quanto segue: a) i questionari ante/post somministrati con i quaderni sugli stereotipi, per quanto non appartenenti alla categoria di strumenti attendibili e validati, hanno evidenziato come con un solo intervento di orientamento intenzionale e programmato, anche se di poche ore, sono cambiati gli atteggiamenti dei fanciulli relativamente allo stereotipo di genere nel mondo del lavoro. Più precisamente, alcuni lavori che prima dell’intervento venivano attribuiti come eseguibili solo dagli uomini, dopo l’intervento venivano considerati come accessibili anche alle donne; b) le iniziative sulle credenze di efficacia («io sono bravo a…») hanno evidenziato come fanciulli di nove anni abbiano imparato velocemente a individuare non solo le loro capacità specifiche ma anche a declinare i fattori che le hanno fatte sviluppare: ora la testimonianza positiva di un adulto significativo di riferimento («il nonno»), ora il sostegno di motivazioni forti («questa attività mi appassiona, mi diverte…»), oppure l’evidenza data dal

73 Scuola / Orientare i bambini, a scuola

ambientale) appaiono determinanti nel costruire la definizione del concetto di lavoro. Helwig6, analizzando lo sviluppo professionale di un gruppo di bambini seguiti per un periodo di dieci anni, dalla seconda elementare alla terza superiore, ha messo in evidenza che con il crescere dell’età le rappresentazioni delle professioni diventano sempre più realistiche grazie all’incremento della conoscenza di sé e del mondo del lavoro. I ragazzi, inoltre, spesso si autolimitano nell’accesso a una professione in base alle competenze possedute al momento della scelta. È chiaro che ne sono privi. Ma se conoscono le caratteristiche che identificano una determinata professione, possono usare queste informazioni non per censurarsi, ma semmai per promuovere un loro personale cammino di crescita nella direzione indicata da quelle competenze (cura della persona, attività investigativa, amore per l’ordine…). Le abilità sociali vengono definite come «comportamenti appresi orientati verso un obiettivo e governati da regole variabili in funzione di situazione e contesto e che si basano su elementi cognitivi e affettivi osservabili e non osservabili in grado di elicitare negli altri risposte positive o neutrali ed evitare risposte negative»7. In questa definizione viene messo in risalto che le abilità sociali sono frutto di apprendimento, non sono predisposizioni (o indisposizioni) innate; come si impara a scrivere e leggere, si impara a stare con gli altri attraverso regole che permettono di prevedere con alta probabilità gli effetti che i propri comportamenti provocano. Il socialmente abile sa quando parlare e quando stare zitto, cosa dire e quando e a chi. Inoltre si evidenzia che le abilità sociali sono strumentali al perseguimento di un obiettivo (raccogliere informazioni, ottenere una collaborazione…). Infine le abilità sono legate al contesto e a situazioni specifiche, cosa che richiede di differenziare i comportamenti sociali, contrariamente a quanto accade alle persone che tendono a fissare i comportamenti (come ad esempio il dare del tu a tutti…).


La ricerca / N. 19 Nuova Serie. Gennaio 2021

Scuola / Orientare i bambini, a scuola

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buon risultato ottenuto («mi viene bene, mi viene facile…»). Queste idee che circolano nella testa di un fanciullo, come si è scritto precedentemente, lo aiutano a maturare fiducia in sé e a individuare obiettivi professionali sostenuti da motivazioni “ok”. c) l’analisi del lavoro aiuta i fanciulli a costruire una descrizione realistica di un lavoro, non legato all’immaginario collettivo veicolato dai mass media (il cuoco dei talent show, la guardia forestale delle serie tv, il veterinario degli spot pubblicitari) come purtroppo stiamo assistendo in base alle testimonianze delle maestre. Inoltre la job analysis consente di verificare che la dizione «voglio fare la dottoressa» si scontra con la molteplicità della realtà, per cui esistono diversi tipi di dottoresse in funzione delle mansioni, dei destinatari, delle competenze richieste (anche se non cambia la funzione, ovvero lo scopo principale per cui esiste quel lavoro). Come altrettanto si può dire, per esempio, dell’insegnante: non solo il mestiere cambia in base alla competenza (insegnante di italiano, di matematica, di botanica…) ma soprattutto in base all’utenza (insegnante di bambini, di ragazzi, di giovani, di persone con disabilità, di persone in carcere, di persone immigrate…). d) in termini di follow up, come si usa dire, l’efficacia degli interventi di orientamento precoce potrebbe, e sottolineiamo il condizionale, spiegare il basso tasso di dispersione scolastica della provincia di Belluno. Anche se non mancano le difficoltà non solo a interpretare questo dato ma persino a documentarlo. La stessa definizione di dispersione scolastica, infatti, cambia a seconda dell’agenzia che la misura. All’interno di questo termine vengono spesso inclusi: - la scolarizzazione non conclusa; - la ripetenza; - i casi di ritardo. Per Eurostat tra coloro che sono interessati al fenomeno della dispersione vanno considerati i giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno conseguito la sola licenza media (livello EQF pari a 1) pur avendo frequentato almeno il biennio delle superiori (istruzione o formazione, livello EQF pari a 2). Sulla base di questa definizione l’Italia raggiunge un dato del 14,5%, mentre la Provincia di Belluno raccoglie l’11,1% (media Veneto 10,5%). Secondo invece i

Centri per l’Impiego della Provincia, che raccolgono tutti i dati degli abbandoni scolastici, si stima una percentuale nettamente inferiore (4%). A questo si aggiunge che la Rete BellunOrienta ha vinto il Veneto Awards, eccellenza premiata dalla Regione Veneto per il numero più alto di utenti raggiunti tra tutte le province venete nei percorsi di orientamento alle scelte scolastiche e professionali.

Conclusione

— Non si nasce con l’abilità di saper prendere una decisione e di operare una scelta tra le molte opzioni scolastiche e soprattutto professionali che si prospettano per i giovani del terzo millennio. Occorre una continua, intenzionale e precoce azione di formazione, a partire dalle elementari, per allenare i ragazzi a confrontarsi con idee realistiche del lavoro, per superare stereotipi e pregiudizi sul mondo del lavoro, per costruire una personale progettualità professionale futura che poggi le fondamenta su motivazioni efficaci. Che, alla fine, produca felicità per sé e per gli altri. NOTE 1. A. Bandura, Self-efficacy: Toward a unifying theory of behavioral change, in «Psychological Review» 1977, pp. 84, 191-215. 2. S. Soresi, L. Nota, L’orientamento come risorsa di prevenzione, in S. Soresi, Orientamento alle scelte, Giunti O.S. Organizzazioni Speciali, Firenze 2007, pp. 306-313. 3. H. Tajfel, Gruppi umani e categorie sociali, trad. it. C. Caprioli, il Mulino, Bologna 1985. 4. L. Arcuri, M.R. Cadinu, Gli stereotipi: dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni sociali, il Mulino, Bologna 1998. 5. S. McIntire, M.A. Bucklan, D.R.Scott, Job Analysis Kit, Psychological Assessment Resources, Odessa, FL,1995. 6.A.A. Helwig, A test of Gottfredson theory using a ten-year longitudinal study, in «Journal of Career Development», 2001, pp. 49-57, 82. 7. J. Chadsey, J.Rusch, Toward defining and measuring social skills in employment settings, in «American Journal on Mental Retardation», 1992, pp. 96, 405-418.

Maurizio Milani è insegnante, fondatore e progettatore degli interventi della Rete BellunOrienta.


QdR / Didattica e letteratura L

a collana scientifica, dedicata a scuola e università, per riflettere su metodi e strumenti idonei a valorizzare il ruolo degli studi letterari, della scrittura, della lettura e dell’interpretazione delle opere.

DIRETTA DA Natascia Tonelli Simone Giusti COMITATO SCIENTIFICO Paolo Giovannetti (IULM) Pasquale Guaragnella (Università degli Studi di Bari) Marielle Macé (CRAL Parigi) Francisco Rico (Universitad Autònoma Barcelona) Francesco Stella (Università degli Studi di Siena)

I libri pubblicati nella collana sono reperibili in libreria o presso le agenzie di zona. Indice e prime pagine sono disponibili sul sito de «La ricerca».

La collana QdR / Didattica e letteratura è anche online https://laricerca.loescher.it/qdr-didattica-e-letteratura/


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n contatto diretto e quotidiano scambio con i suoi lettori, per ampliare le prospettive, accogliere le notizie più attuali in tempo reale, arricchire il dibattito, captare e rilanciare nuovi argomenti. Il sito contiene gli articoli scritti per La ricerca cartacea e il pdf scaricabile, articoli di attualità, istruzione, cultura, la sezione Scritto da voi, un’area dedicata alle normative riguardanti l’istruzione e tutti i Quaderni della Ricerca.


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