I QUADERNI
Quaderni della Ricerca: proposte metodologiche e aggiornamento didattico.
I libri pubblicati nella collana sono reperibili in libreria o presso le agenzie di zona. Indice e prime pagine sono disponibili sul sito de «La ricerca».
I Quaderni della Ricerca sono anche online www.laricerca.loescher.it/quaderni
Magnum alterius spectare laborem
Ci poteva essere momento migliore (o peggiore, a seconda dell’accento che si vuol dare alle cose) per parlare di benessere a scuola? Benessere come auspicio, o proposito, o antidoto al malessere trasudante da ogni mattone di aule studio in cui si sfregia, si molesta, si abborda, si bullizza, si deride, si scazzotta… tutto quasi sempre in favore di videocamera.
A scuola si sta male, sembra. E tanto. Leggevo l’intervista a una psicologa che sostiene essere cresciuto del 70% il rischio di suicidio nei corridoi scolastici. Non so come interpretare il dato: 70% in più rispetto a cosa? A quando?
“ Un numero sul benessere: come auspicio, o proposito, o antidoto al malessere. Perché a scuola si sta male, sembra. E tanto. „
E come si quantifica il rischio? Intendo dire: posso fare statistica dei suicidi avvenuti e confrontarli con quelli passati. Ma come faccio a contare quelli solo immaginati, o desiderati, o minacciati senza essere giunti (fortunatamente) a compimento? E se il rilevamento misurasse invece soprattutto la maggiore sensibilità verso il fenomeno? Sarebbe una buona notizia (significherebbe che oggi, più che in passato, si monitorano i segnali di pericolo), ma non abbastanza da eliminare del tutto l’apprensione che provoca il crudo fatto che di tentazioni suicide si stia parlando. A scuola!
Noi de «La ricerca», quando in primavera abbiamo deciso l’argomento di questo numero, non immaginavamo un tale scoppiettante inizio di anno scolastico. Eravamo alla fine delle reclusioni pandemiche e ci aspettavamo che il ritorno alla normalità potesse essere foriero di tanti sospiri di sollievo e qualche disagio. Ci aspettavamo, soprattutto, che gli effetti del forzato isolamento imposto a tanti giovani e adulti potessero diventare un problema da gestire, alla ricerca di possibili mediazioni tra le nuove insicurezze e le incontrollabili esuberanze figlie della pandemia.
Beh, sembra che “ci abbiamo preso” al di sopra (o al di sotto, sempre per l’accento…) delle nostre aspettative. O meglio, e più probabilmente, sembra che abbiamo sottovalutato gli effetti nefasti del periodo su una delle due componenti: quella che immaginavamo più forte e strutturata. Come interpretare, altrimenti, le molestie della dirigente al ragazzo, la ciocca di capelli tagliata alla ragazza, la birra offerta dal docente alla minorenne, l’invito a denudarsi rivolto dall’insegnante alla studentessa, il commento omofobo rivolto al ragazzo supposto gay («la tua compagna è così sexy da farti cambiare sponda!»), il pugno nello stomaco dato dal giovane prof al ragazzo «scemo» (così, testualmente, la madre della “vittima”)?
Protetto dalla lontananza fisica e temporale che mi separa dal mio antico, amato mestiere, guardo ai miei ex colleghi con il misto di compassionevole sollievo suggerito da Lucrezio in un celebre incipit: «Bello, mentre la tempesta infuria sul mare aperto, standosene a terra, guardare l’immane fatica degli altri…»
Sandro Invidia, direttore editoriale di Lœscher.
/ N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
La ricerca
La ricerca
Periodico semestrale
Anno 10, Numero 23 Nuova Serie, dicembre 2022 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480
Editore Lœscher Editore
Direttore responsabile Mauro Reali
Direttore editoriale
Ubaldo Nicola
Coordinamento editoriale Alessandra Nesti - PhP
Impaginazione
Ubaldo Nicola
Copertina
Emanuela Mazzucchetti, Davide Cucini
Pubblicità interna e di copertina VisualGrafika - Torino
Stampa Vincenzo Bona S.p.A. Strada Settimo, 370/30 – 10156 Torino (TO)
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Redazione
Beatrice Bosso, Simone Giusti, Sandro Invidia, Francesca Nicola, Ubaldo Nicola, Mauro Reali.
Hanno scritto su questo numero Sonia Bacchi, Giuseppe Burgio, Chantal Camden, Linda Cavadini, Antonia De Vita, Mélissa Généreux, Massimo Gezzi, Jonathan Glazzard, Terra Léger-Goodes, Giada Letonja, Catherine Malboeuf-Hurtubise, Trinity Mastine, Sabina Minuto, Rachele Montanelli, Cristina Nesi, Francesca Nicola, Pier Olivier, Elena Rausa, Mauro Reali, Simone Romagnoli, Irene D. M. Scierri, Samuel Stones, Valentina Tobia, Aluisi Tosolini, UNICEF, Sara Urbani, Francesco Vittori.
© Lœscher Editore via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino
https://laricerca.loescher.it/ ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (online)
Sommario
Benessere e malessere nella scuola cross-COVID
saperi
Il surf come metafora della salute mentale Sara Urbani
Un binomio possibile Irene D. M. Scierri
Il bullismo femminile a scuola Francesco Vittori, Antonia De Vita, Giuseppe Burgio
Benessere scolastico, pandemia e DSA Rachele Montanelli, Valentina Tobia
Valutare e promuovere “ben-essere” nella scuola cross-COVID Simone Romagnoli
L’età del benessere Cristina Nesi
Benessere e malessere nelle aule di Roma antica Mauro Reali
Tre poesie di Massimo Gezzi dossier
I dati di una crisi globale UNICEF
Il malessere dei giovani USA Francesca Nicola
La scuola non può diventare un ospedale Jonathan Glazzard, Samuel Stones
L’eco-ansia: una nuova forma di malessere, soprattutto giovanile
scuola
Scuola uguale casa, comunità, cura Aluisi Tosolini
Hansel, Gretel e la strega cattiva Elena Rausa
Chiamami col mio nome Giada Letonja
La polvere sotto il tappeto Sonia Bacchi
Tra fare bene, stare bene e fare meglio Linda Cavadini
«Noi siamo passanti, non studenti» Sabina Minuto
Terra Léger-Goodes, Catherine Malboeuf-Hurtubise, Trinity Mastine, Mélissa Généreux, Pier Olivier, Chantal Camden
Il surf come metafora della salute mentale
Due rapporti dell’UNICEF
(Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia) sul benessere psicologico di bambini e adolescenti segnalano che la crisi pandemica ancora in corso ha avuto un impatto rilevante sulle persone più giovani.
di Sara UrbaniLa pandemia di COVID-19 si è abbattuta sull’intera umanità all’improvviso, come un’onda anomala che ci ha travolto e di cui ancora non vediamo la fine. In questo scenario inedito ogni persona ha reagito in maniera unica, tracciando un proprio percorso all’interno della crisi globale. Gli effetti della pandemia hanno toccato la vita di tutti, a prescindere dall’età, ma studi recenti indicano che i giovani hanno sofferto di più, a livello di disagio psicologico. Anche se questo gruppo è quello che corre il rischio minore dal punto di vista sanitario, le vite di chi è in età scolare sono state sconvolte dalla chiusura delle scuole, dalle misure governative che hanno confinato intere famiglie e comunità nelle proprie case per mesi e, in alcuni casi, dal confronto diretto con la malattia, propria o dei propri cari. In pratica, anche se la raccolta dati è solo all’inizio, molti segnali sembrano indicare
Le scuole più belle d’Italia. Il progetto, curato da Guendalina Salimei, della scuola primaria e dell’infanzia Mazzacurati, nel quartiere Corviale di Roma (rendering a cura delTstudio Architecture and Design).
che siamo di fronte a una potenziale pandemia all’interno della pandemia.
La situazione a livello globale
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Per una prima visione panoramica sulla situazione ci viene in aiuto il rapporto UNICEF La condizione dell’infanzia nel mondo 2021 - Nella mia mente: tutelare la salute mentale, che analizza lo stato di salute mentale in bambini, adolescenti e in chi se ne prende cura. Dall’indagine emerge che anche prima del COVID-19 le persone più giovani soffrivano di varie forme di disagio psichico senza che ci fossero investimenti significativi per affrontarle.Infatti si legge che, a livello globale, i finanziamenti destinati alla salute mentale corrispondono a circa il 2% dei fondi governativi stanziati per la salute.
Ma il dato più allarmante contenuto nel rapporto è che quasi 46.000 adolescenti si tolgono la vita ogni anno: più di uno ogni 11 minuti. Il che fa del suicidio una tra le prime cinque cause di morte per questa fascia d’età, e nell’Europa Occidentale fra gli adolescenti dai 15 ai 19 anni è la seconda (con 4 casi su 100.000), preceduta solo dagli incidenti stradali (5 casi su 100.000). Inoltre, a livello globale più di 1 adolescente su 7 (tra i 10 e i 19 anni) convive con un disturbo mentale diagnosticato, tra questi 89 milioni sono ragazzi e 77 milioni sono ragazze. La depressione e l’ansia rappresentano circa il 40% delle diagnosi; osservando le macro-aree geografiche, le percentuali più alte di casi si trovano in Europa Occidentale, Nord America, Medio Oriente e Nord Africa.
Eppure, come ha dichiarato l’ex direttrice generale dell’UNICEF Henrietta H. Fore, «La salute mentale è una parte della salute fisica – non possiamo permetterci di continuare a vederla in altro modo. Per troppo tempo, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, abbiamo visto troppo poca comprensione e troppo pochi investimenti in un aspetto essenziale per massimizzare il potenziale di ogni bambino. Tutto questo deve cambiare». Altrimenti, secondo questa analisi, bambini e adolescenti potrebbero sentire l’impatto della crisi pandemica di COVID-19 sul loro benessere per molti anni a venire.
Uno sguardo all’Italia
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Ma se questa è la situazione fotografata da ricerche condotte su scala globale, che cosa succede invece nel nostro Paese? Per provare a rispondere si può leggere un altro report pubblicato a ottobre 2021 e intitolato Vite a colori - Esperienze, percezioni e opinioni di bambinə e ragazzə1 sulla pandemia di COVID-19 in Italia (di Viola F.,Centrone M.R.e Rees G.) che fa parte di un progetto internazionale avviato a marzo 2020 e coordinato dal Centro di Ricerca UNICEF Innocenti, UNICEF Office of Research – Firenze. In seguito alla crisi pandemica è stata condotta una serie di
studi per valutarne l’impatto su bambinə e ragazzə di tutto il mondo; al progetto hanno collaborato vari uffici nazionali e regionali dell’UNICEF e una rete di ricercatori ed esperti esterni provenienti da università e istituti di ricerca dislocati in diversi continenti (come Italia, Canada, Angola, Lesotho e Madagascar).
Il report italiano mette in luce le difficoltà e le sfide che le persone più giovani hanno affrontato durante la pandemia, le loro riflessioni su ciò che hanno imparato e su come sono cresciute grazie alle esperienze vissute, oltre alle loro speranze e paure per il futuro. I dati sono stati raccolti online tra febbraio e giugno 2021 attraverso focus group, interviste singole e contributi inviati via email. Il progetto ha coinvolto un totale di 114 partecipanti tra i 10 e i 19 anni, frequentanti le scuole superiori del primo e del secondo ciclo di 16 regioni italiane. Le loro storie mostrano uno spaccato di cosa significhi essere adolescenti nel nostro Paese in questo particolare periodo storico.
Nel report salta subito agli occhi una scelta molto azzeccata: per raccontare la complessità di queste storie viene usata una metafora insolita ma efficace, quella del surf. Ecco dunque ə adolescenti intervistatə descrittə come surfistə debuttanti che devono imparare ad affrontare le prime onde e si trovano a farlo proprio durante la pandemia di COVID-19, paragonata a un maremoto. Nelle pagine del documento si parla anche di onde anomale, tavole da surf, tecniche per rimanere in piedi e varietà di surfing spot. Perché, come scrive Murakami Haruki nel romanzo Kafka sulla spiaggia: «Il surf è uno sport molto più profondo di quanto non possa sembrare. Noi attraverso il surf impariamo a non entrare mai in conflitto con la natura. Per quanto possa essere infuriata»2
Passato, presente e futuro
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Tra ə giovani che hanno partecipato alla ricerca italiana sembra esserci molta consapevolezza delle loro responsabilità nei confronti degli altri. Nonostante il COVID-19 e le misure governative per contenerlo abbiano sconvolto le loro vite, sono preoccupatə per ə parenti più anzianə e si sono volontariamente sacrificatə per proteggerli,seguendo le regole e adattandosi a una quotidianità instabile. La pandemia ha infatti costretto ə partecipanti a interrompere molte delle loro attività e abitudini, provocando stress e frustrazione. Tuttavia, questa nuova situazione ha dato loro l’opportunità di scoprire nuovi interessi e competenze, non senza alcune difficoltà. Soprattutto durante il primo lockdown, bambinə e ragazzə dicono di aver avuto tempo per dedicarsi ad attività che altrimenti non avrebbero mai iniziato. Raccontano della scoperta di nuove passioni,riportano anche storie positive di adattamento e creazione di “nuove normalità”. Fra
tutte le novità, quella che più spesso viene citata è la didattica a distanza (DAD), su cui i pareri espressi non sono concordi.
Oltre ai cambiamenti delle attività quotidiane e dei propri spazi sociali, dalla ricerca emerge anche un altro tipo di cambiamento che moltə bambinə e ragazzə riconoscono: un cambiamento interiore. L’analisi dei dati mostra infatti la crescita di chi ha partecipato alla ricerca, anche grazie alle difficoltà affrontate in pandemia. Tra le righe si intuisce una certa consapevolezza, una maggior coscienza di sé e, anche se spesso avevano la sensazione di essere fragili e “piccolə”, la scoperta di importanti risorse interiori. Forse la pandemia ha dato loro più tempo per pensare e per pensarsi, o per capire quali sono le cose che per loro contano davvero.
Il report però non mostra solo la situazione dei mesi passati, ma racconta anche di prospettive future, cercando di capire cosa ə partecipanti prevedono, temono, sperano per i prossimi anni. Dalle loro parole si evince incertezza nei confronti del futuro più prossimo e, spesso, un ritorno alla “normalità” sembra essere l’unico modo per immaginarlo. Chi ha preso parte alla ricerca però sa anche che la pandemia potrebbe durare ancora a lungo e le ulteriori varianti del virus fanno paura. Hanno poi grandi sogni per il loro futuro lontano, da persone adulte, ma sentono che sarà caratterizzato da grandi sfide, soprattutto dovute alla crisi economica e a quella ambientale. C’è però la speranza, anzi, la certezza che tutto si possa affrontare, trovando unità e mettendo da parte il proprio individualismo per un maggior benessere collettivo.
Focus su alcuni gruppi specifici
In generale, il gruppo di partecipanti si è detto preoccupato per la propria salute mentale e capacità relazionale, soprattutto per le conseguenze della pandemia di COVID-19. Tuttavia, al di là della crisi pandemica,ə intervistatə sembrano un gruppo che considera un valore aggiunto la varietà, etnica e di genere, che lo contraddistingue. Infatti, grazie al confronto diretto con loro, il report italiano dedica ampio spazio a focus interessanti su alcuni sottogruppi specifici: chi si identifica come LGBTQI+3 (circa il 10% delle persone intervistate), minori stranieri non accompagnati (MSNA) e adolescenti con un background socioeconomico svantaggiato.
La crisi pandemica rischia di amplificare le disuguaglianze già esistenti e di crearne di nuove. Soprattutto quando gli individui sono costretti a mescolarsi di meno con gli altri, e la tendenza a segregare aumenta: per esempio, MSNA che hanno passato più tempo tra loro limitando i contatti con persone al di fuori della propria comunità; ragazzə che si identificano come LGBTQI+ sono rimastə più a lungo nella loro bolla di amici dove si sentono capitə e rispettatə; chi ha un background socioeconomico svantaggiato ha trascorso più tempo in case piccole, spesso affollate per la mancanza di lavoro dei genitori e senza il sostegno che trovavano a scuola, nei luoghi pubblici o nei contesti associativi.
In particolare, per quanto riguarda il gruppo LGBTQI+, uno studio condotto su adolescenti transgender e queer mostra che questə giovani
SAPERI / Il surf come metafora della salute mentale
10 La ricerca / N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
sono statə ad alto rischio di isolamento durante le fasi più critiche della pandemia e che ciò ha aumentato ansia, depressione, autolesionismo e pensieri suicidi 4. Tuttavia, confrontando i dati relativi a questi sottogruppi di adolescenti con quelli di tutti gli altri intervistati, essə non apparivano più provatə o negativamente colpitə almeno dal punto di vista emotivo. Questo aspetto potrebbe sorprendere, ma non troppo se si pensa che questə bambinə e ragazzə hanno già dovuto affrontare delle grandi prove nella vita. In pratica hanno dovuto imparare a surfare molto presto, usando spesso una tavola di scarsa qualità, o comunque molto piccola per la loro giovane età, e hanno surfato a ridosso di coste pericolose con la costante consapevolezza di potersi fare male. Probabilmente, alcunə di loro si sono già feritə in passato: per esempio, c’è chi ha dovuto affrontare un lungo viaggio migratorio spesso in solitudine, chi un percorso interiore alla ricerca del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere, e chi ha iniziato a lavorare molto presto per sostenere la famiglia abituandosi a vivere con poco. Insomma, con le loro esperienze pregresse hanno probabilmente acquisito buone capacità di reazione e adattamento, che sono tornate utili con l’arrivo della pandemia.
In qualche caso, durante questi mesi, hanno anche sviluppato una coscienza politica, come alcunə MSNA e adolescenti transgender, consapevoli dell’importanza di lottare per promuovere i propri diritti politici e civili. Per queste persone, infatti, la maggior parte dei problemi quotidiani non sono legati all’impatto della pandemia ma a criticità già esistenti nei sistemi burocratici e amministrativi che non consentono loro di vivere senza ansie, preoccupazioni e paure. Timori purtroppo fondati anche legati alla possibilità non remota di essere vittime di razzismo e omolesbobitransfobia: per loro la più grande speranza per il futuro è poter «essere quello che si è», come dice C. di 16 anni.
Le sfide della pandemia di COVID-19 rappresentano un ulteriore aggravio per chi già affronta ogni giorno altri ostacoli, come difficoltà economiche, attesa dei documenti, un percorso di ricerca interiore, un confronto quotidiano con episodi di intolleranza ecc. È come se queste persone imparassero a surfare in un ambiente ostile, roccioso, in mezzo a squali e tempeste; e in questo quadro già complicato è arrivato anche lo tsunami pandemico a rendere ancora più difficile cavalcare le onde. Come racconta A. di 15 anni: «Problemi come omofobia, transfobia, razzismo sono ancora molto presenti, serve un'ulteriore sensibilizzazione sulle tematiche sociali che sembra qualcosa di scontato e detto e ridetto però è un problema che ancora troppo persiste in Italia e che si aggiunge a tutta la situazione di pandemia».
Qualche consiglio da ragazzə
Queste sono solo alcune delle molte ricerche condotte (e altre ne arriveranno) per valutare l’impatto della pandemia di COVID-19 sulla vita deə più giovani, analizzando in particolare i potenziali rischi per la loro salute mentale e il loro benessere psicologico. Ma oltre all’importante lavoro di chi studia questi fenomeni, da documenti come Vite a colori arrivano anche suggerimenti dalle stesse persone intervistate. Per esempio, sono interessanti alcune risposte date durante i focus group, alla domanda su quali aree tematiche le istituzioni dovrebbero intervenire per sostenere il loro presente e la loro crescita. Ecco cosa suggerisce V. di 13 anni: «Una cosa che è stata messa a disposizione della nostra scuola e che mi ha fatto molto piacere, infatti ne ho usufruito, è il fatto di un sostegno psicologico, quindi degli psicologi all’interno delle scuole... è una cosa molto positiva, che andrebbe approvata in tutte le scuole d’Italia.»
Parole come queste, che vengono dalla viva voce di chi studia nella scuola italiana, non dovrebbero restare inascoltate. Perché, come dice anche il medico Jon Kabat-Zinn in uno dei suoi libri sulla mindfulness, «Non puoi fermare le onde, ma puoi imparare a surfare»5
NOTE
1. Nel report il gruppo di ricerca ha scelto di usare quasi sempre lo schwa (ə) perché le persone intervistate mettevano in discussione una categorizzazione rigida e binaria dell’identità di genere. Questa scelta riflette la sensibilità nei confronti delle tematiche di genere espressa da chi ha partecipato allo studio, l’approccio stilistico è stato approvato durante un laboratorio di validazione dei risultati; e da qui in avanti lo useremo anche noi.
2. Trad. it. di G. Amitrano, Einaudi, Torino 2008.
3. Adolescenti che si identificano come lesbiche, gay, bisessuali,transessuali/transgenere,queer/questioning, intersex: questi aggettivi sono stati scritti da chi ha partecipato alla ricerca completando anonimamente la frase «Il COVID mi fa sentire…» con tre aggettivi o locuzioni.
4. Paceley, M. S., Okrey-Anderson, S., Fish, J. N., McInroy, L., & e Lin, M. (2021), Beyond a shared experience: Queer and trans youth navigating COVID-19, in «Qualitative Social Work» 20(1-2), pp. 97-104.
5.Dovunque tu vada,ci sei già,trad.it.di G.Arduin,Corbaccio, Milano 2017.
Sara Urbaniè laureata in scienze naturali con un master in comunicazione della scienza, e lavora per la casa editrice Zanichelli. Scrive anche per Odòs–libreria editrice e per il magazine online «La Falla»
Un binomio possibile
L’accezione più comunemente diffusa di valutazione è quella di un accertamento dei risultati raggiunti, mediante un voto o un giudizio sintetico. Ma il senso della valutazione è ben più ampio e il suo significato preminente altrove: è un processo profondamente connesso alla didattica, che accompagna e promuove l’intero percorso di apprendimento degli studenti favorendone processi cruciali quali l’autoregolazione, la motivazione e l’autoefficacia. Quale valutazione può davvero contribuire al benessere inteso (anche) come piena realizzazione delle proprie capacità cognitive?
di Irene D. M. ScierriAny conceptualisation of assessment must recognise that, if it is to impact on learning, it must form part of learning.
Ruth Dann1binomio possibile
Pensando al benessere e alla valutazione nel contesto scolastico a molti potrebbe risultare difficile trovarvi una relazione positiva. Appare più semplice riconoscere come la valutazione possa incidere negativamente sul benessere di studentesse e studenti: l’ansia e lo stress legati alle prove di valutazione sono ben noti ai discenti di ogni ordine e grado. La visione di un rapporto benessere/ valutazione in termini negativi è comprensibile se alla valutazione attribuiamo l’accezione, comunemente più diffusa, di un accertamento e di un voto o giudizio espresso sul lavoro degli studenti. Eppure il significato della valutazione va ben oltre questa accezione.
Valutare significa attribuire un valore a qualcosa in relazione agli scopi che colui che valuta intende perseguire 2. Sono dunque gli scopi che guidano e danno senso all’intero processo valutativo e, di
conseguenza, non esiste un solo approccio alla valutazione. Potremmo aggiungere che non esiste nemmeno un unico soggetto che valuta anche se, tradizionalmente, la responsabilità valutativa viene riconosciuta esclusivamente al docente. Valutare significa anche far emergere il valore di qualcosa, far comprendere perché qualcosa ha o dovrebbe avere un certo valore; ciò richiede, affinché l’azione abbia senso,partecipazione e coinvolgimento degli studenti al processo.
Un cambiamento di prospettiva
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La necessità di un “nuovo” approccio valutativo è in realtà questione ormai datata sebbene non ancora pienamente tradotta sul piano della quotidiana pratica valutativa. Essa assume particolare rilevanza alle soglie del XXI secolo ovvero all’affacciarsi della cosiddetta “società della conoscenza” che ha portato con sé nuove esigenze formative.
L’era industriale vedeva un’ottima coerenza tra istruzione, apprendimento e valutazione: «La pratica […] dell’istruzione pubblica nell’era industriale può essere riassunta come segue: istruzione: trasmissione della conoscenza; apprendimento: memorizzazione meccanica; e valutazione: test standardizzati»3. Nel contesto italiano i termini appaiono un po’ diversi: le nostre prove “tradizionali” sono di altro genere rispetto ai test, tuttavia l’obiettivo resta l’accertamento dell’assimilazione della conoscenza, da parte del discente, così come trasmessa dal docente.
Nella società della conoscenza (e dell’apprendimento) ciò che è diventato indispensabile è la stessa capacità di acquisire nuove conoscenze in modo indipendente e di usarle in contesti nuovi per risolvere problemi complessi e non prevedibili.Ciò si è tradotto nel bisogno di formare persone critiche, capaci di comunicare e cooperare con gli altri e in grado di autoregolarsi, con la conseguente necessità di cambiamenti nell’implementazione della didattica e della valutazione. Per quanto attiene a quest’ultimo ambito, si è passati da una cultura del testing (“controllo”, “verifica”) a una cultura dell’assessment (“valutazione”). Birenbaum4 rileva come le differenze sostanziali tra le due culture sia marcata anche semanticamente: “testing” ha origine da “testum”, ovvero uno strumento per esaminare la purezza dei metalli, “assessment” da “assidere”,
che significa sedersi accanto a qualcuno.
È da questo cambio di prospettiva, da questo sedersi accanto, che possiamo iniziare a intravedere il nesso positivo tra valutazione e benessere.
Benessere e competenze esistenziali
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Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il benessere «esprime la disposizione in cui l’individuo è in grado di sfruttare le proprie capacità cognitive ed emozionali per rispondere alle esigenze della routine quotidiana, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, adattarsi costruttivamente alle condizioni esterne e ai conflitti interni»5. Nel contesto scolastico ciò implica lavorare insieme a studentesse e studenti affinché sviluppino al meglio queste capacità. Sebbene tutte le competenze possano rivestire un ruolo importante in questo processo, una posizione centrale è assunta da quelle competenze che possono essere definite “esistenziali” in quanto ritenute utili per la vita. Si tratta di competenze che incidono profondamente sulla capacità delle persone di diventare più resilienti e di gestire le sfide e i cambiamenti della vita personale e professionale in un mondo in continua evoluzione6
Nello specifico, si fa riferimento a tre aree di competenze: personali, sociali e di apprendimento. Per quanto attiene al nostro discorso, è impor-
tante porre l’attenzione sulla meta-competenza relativa all’apprendimento, definita Learning to Learn (“Imparare a imparare”). Tale meta-competenza è costituita a sua volta da tre competenze: mentalità di crescita, pensiero critico e gestione dell’apprendimento. Quest’ultima competenza, in modo particolare, fa riferimento alla capacità di autoregolazione dell’apprendimento: l’insieme dei processi attraverso cui gli studenti stabiliscono i propri obiettivi di apprendimento e poi cercano di monitorare, regolare e controllare la propria cognizione, motivazione e comportamento per raggiungere tali obiettivi, guidati anche dalle caratteristiche contestuali dell’ambiente 7 L’autoregolazione dell’apprendimento è essenziale per apprendere in modo autonomo e gestire al meglio le proprie capacità cognitive e può essere promossa anche attraverso pratiche valutative.
Quale valutazione può dunque essere efficace in relazione alla piena realizzazione delle capacità cognitive degli studenti?
Una valutazione che guarda al futuro
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Una valutazione in linea con le esigenze formative e le competenze esistenziali sopra richiamate non può che essere una valutazione multidimensionale, integrata a una didattica attiva e partecipativa, in grado di produrre molteplici fonti di informazione per sostenere il processo didattico.
Prendendo spunto da una descrizione della valutazione che si sviluppa su sette continuum 8 , possiamo individuare una serie di caratteristiche che contraddistinguono una valutazione che vuole promuovere le competenze di apprendimento degli studenti: uso di compiti autentici contestualizzati; rappresentazione della competenza di uno studente attraverso un profilo basato su misure multiple; valutazione delle dimensioni più complesse dell’apprendimento (non solo la riproduzione della conoscenza); valorizzazione delle diverse dimensioni dell’intelligenza; integrazione della valutazione nel processo di apprendimento; condivisione della responsabilità valutativa con i discenti; utilizzo equilibrato dei diversi approcci valutativi (ponendo al vertice gli approcci che sostengono l’apprendimento).
La questione relativa ai diversi approcci valutativi non è di facile sintesi poiché le interpretazioni in letteratura non sono univoche. Proviamo a darne una visione di massima.
È possibile, in primo luogo, riconoscere una valutazione sommativa e una valutazione formativa. La distinzione tra i due approcci è abbastanza nota: la prima è una valutazione che accerta gli apprendimenti conseguiti dagli studenti; la seconda è una valutazione finalizzata a migliorare il processo di insegnamento-apprendimento. L’approccio della valutazione formativa
è entrato nella riflessione docimologica 9 e nel sistema scolastico italiani fin dagli anni Settanta del secolo scorso. Probabilmente meno diffusi nel contesto scolastico italiano sono i successivi concetti di assessment for learning (“valutazione per l’apprendimento”) e di assessment as learning (“valutazione come apprendimento”) che possono essere considerati specificazioni ulteriori della valutazione formativa e che, in parte, si contrappongono all’assessment of learning (“valutazione dell’apprendimento”) che ricade invece sotto l’approccio sommativo. Potremmo collocare questi tre approcci lungo un continuum in cui il livello di attivazione, partecipazione, autonomia e responsabilità degli studenti all’interno del processo valutativo va da un minimo (valutazione dell’apprendimento) a un massimo (valutazione come apprendimento). Al secondo polo di questo continuum l’attenzione è posta sullo sviluppo della capacità di apprendimento a lungo termine, nell’ottica di una valutazione che vuole essere sostenibile , ovvero attenta non solo ai bisogni di apprendimento presenti ma anche alla necessità di preparare gli studenti a soddisfare i loro bisogni di apprendimento futuri10.
Al di là della distinzione peculiare tra gli approcci valutativi, quello che dovrebbe apparire chiaro è come non sia possibile continuare ad assegnare alla valutazione un significato e un utilizzo preminentemente sommativo quando il suo significato più autentico e la sua efficacia risiedono altrove. In merito all’efficacia della valutazione formativa (assumiamo il termine generale), è ormai noto come non sia limitata ai risultati di apprendimento ma interessi, tra l’altro, la motivazione intrinseca, l’autoefficacia percepita e la sopra richiamata capacità di autoregolazione dell’apprendimento11
La recente introduzione del giudizio descrittivo nella valutazione intermedia e finale nella scuola Primaria è indice di una sempre maggiore attenzione a una valutazione realmente formativa. Tuttavia,non è pensabile arrivare a formulare quei giudizi descrittivi senza che dietro vi sia un intero percorso didattico che attribuisca alla valutazione il senso di un processo dinamico continuo e non di singoli eventi valutativi di tipo sommativo.
Valutazione come cura del percorso di apprendimento
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Come integrare la valutazione nella pratica didattica con la funzione di promuovere da un lato il raggiungimento di specifici obiettivi di apprendimento, dall’altro la più ampia competenza di imparare a imparare? In primo luogo è possibile fare riferimento alle cinque strategie chiave della valutazione formativa: chiarire, condividere e far comprendere gli obiettivi di apprendimento e i criteri per il conseguimento del risultato; proget-
binomio possibile
tare discussioni, domande e compiti che suscitino molteplici evidenze dell’apprendimento; fornire feedback tempestivi e puntuali per far avanzare gli studenti nell’apprendimento; attivare gli studenti come proprietari del proprio apprendimento (per esempio attraverso l’autovalutazione); attivare gli studenti come risorse di insegnamento e apprendimento reciproco (per esempio attraverso la valutazione tra pari)12. In maniera progressiva è poi necessario coinvolgere sempre più attivamente gli studenti nella valutazione, per esempio: lavorando insieme alla stesura dei criteri di valutazione e di rubriche valutative; chiedendo agli studenti di rivedere il proprio lavoro o il lavoro dei pari usando criteri condivisi e/o definiti insieme; proponendo esempi dei prodotti o delle prestazioni attese e chiarendo ciò che rende quei modelli “di qualità”; chiedendo di utilizzare il feedback ricevuto per rielaborare il proprio lavoro; proponendo di valutare le azioni intraprese, le strategie utilizzate e il livello di raggiungimento degli obiettivi (per esempio attraverso un portfolio o una biografia cognitiva).
Queste sono alcune delle strategie valutative che connotano una valutazione indirizzata a rendere gli studenti autoregolati e capaci di sfruttare le proprie capacità cognitive per rispondere alle esigenze e alle sfide della vita quotidiana e della futura vita professionale. Si tratta di una valutazione che dà valore al processo di apprendimento, che si prende cura del percorso intrapreso dal discente offrendogli gli strumenti per proseguire fino a diventare autonomo nella gestione dell’apprendimento. Ciò richiede di pensare alla valutazione come un processo costante, strettamente integrato alla didattica, in cui il docente raccoglie e fornisce informazioni ben al di là delle valutazioni intermedie e finali e coinvolge attivamente gli studenti nel processo.
Tale approccio alla valutazione richiede molto ai docenti in termini di tempo, fatica, competenze. Aspetti che non possono ricadere esclusivamente nell’ambito della responsabilità individuale dei docenti ma che richiedono riflessione e impegno a diversi livelli se vogliamo una scuola che supporti realmente la crescita, l’apprendimento e il benessere di tutti gli studenti.
NOTE
1.R.Dann,Promoting assessment-as-learning: Improving the learning process, Routledge, New York 2002, p. 6.
2. G. Domenici, Manuale della valutazione scolastica, Laterza, Roma-Bari 1993.
3. M. Birenbaum, New insights into learning and teaching and their implications for assessment, in M. Segers, F. Dochy, E. Cascallar (Eds.), Optimising new modes of assessment: In search of qualities and standards (pp. 13-36), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2003, p. 16 (traduzione di chi scrive).
4. M. Birenbaum, Assessment 2000: Towards a Pluralistic Approach to Assessment, in M. Birenbaum, F. Dochy (Eds.), Alternatives in Assessment of Achievement, Learning Processes and prior Knowledge (pp. 3-29), Kluwer Academic, Boston 1996.
5. S. Bacchi, S. Romagnoli, La classe senza voto, I Quaderni della Ricerca, vol. 48, Loescher,Torino 2019, pp. 87-88; per approfondimenti: World Health Organization, Measurement of and target-setting for well-being: an initiative by the WHO Regional Office for Europe, 2012.
6. European Commission, Joint Research Centre, A. Sala, Y. Punie, V. Garkov, M. Cabrera Giraldez, LifeComp: The European Framework for personal, social and learning to learn key competence, Publications Office of the European Union, Luxembourg 2020.
7. P.R. Pintrich, The role of goal orientation in self-regulated learning, in M. Boekaerts, P. Pintrich, M. Zeidner (Eds.), Handbook of self-regulation (pp. 451-502), Academic Press, San Diego 2000.
8. M. Segers, F. Dochy, E. Cascallar, The era of assessment engineering: Changing perspectives on teaching and learning and the role of new modes of assessment , in M. Segers, F. Dochy, E. Cascallar (Eds.), Optimising new modes of assessment: In search of qualities and standards (pp. 1-12), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2003.
9. B. Vertecchi, Valutazione formativa , Loescher, Torino 1976.
10. D. Boud, Sustainable assessment: rethinking assessment for the learning society, in «Studies in Continuing Education», 22(2), pp. 151-167, 2000.
11. I.D.M. Scierri, Strategie e strumenti di valutazione formativa per promuovere l’apprendimento autoregolato: una rassegna ragionata delle ricerche empiriche, in «Journal of Educational, Cultural and Psychological Studies», 24, pp. 213-227, 2021. Si veda anche: I.D.M. Scierri, D. Capperucci, La valutazione per promuovere l’apprendimento permanente: il rapporto tra formative assessment e self-regulated learning, in «Education Sciences & Society», 2, pp. 62-75, 2021.
12. D. Wiliam, Embedded formative assessment (2nd ed.), Solution Tree Press, Bloomington 2018.
Irene D. M. Scierri
è cultrice di Pedagogia sperimentale presso l’Università degli Studi di Firenze dove sta conseguendo il dottorato di ricerca in Scienze della Formazione e Psicologia. Tra le sue pubblicazioni: Differenze di genere nell’editoria scolastica. Indagine empirica sui sussidiari dei linguaggi per la scuola primaria (Nuova Cultura 2016, con C. Corsini), In/sicurezza fra i banchi. Bullismo, omofobia e discriminazioni a scuola: dati, riflessioni, percorsi a partire da una ricerca nelle scuole secondarie umbre (FrancoAngeli 2021, con F. Batini).
Il bullismo femminile a scuola
Tra disagio post-lockdown e la necessità di adottare posture epistemologiche di genere, i primi risultati di una ricerca nazionale su un fenomeno in crescita ma ancora difficile da individuare.
di Francesco Vittori, Antonia De Vita, Giuseppe BurgioLa pandemia, il lockdown, la crisi economica, il vissuto di questi ultimi due anni hanno per sempre cambiato le esistenze di ognuno di noi. Niente è più come prima. Giovani e meno giovani hanno vissuto direttamente o indirettamente un dramma senza precedenti. Il biennio di COVID-19 ha comportato lutti, distanziamento fisico, disuguaglianze, sofferenze di ogni genere. Vite spezzate. Abbracci spezzati. L’economia in crisi. La distanza fisica. Il controllo sociale. I primi mesi di pandemia sono stati questo e altro. Scuole chiuse. Smart working e DAD. Difficoltà sistemiche nella riorganizzazione pratico-logistica della scuola, dell’università, della pubblica amministrazione, di interi settori produttivi e commerciali.Tutti ci siamo forzatamente riadattati a questa nuova realtà digitale e polverizzata. A pagare maggiormente le conseguenze di tutto ciò sono state le categorie sociali “tradizionalmente” escluse e messe ai margini: indigenti, anziani, migranti, disoccupati e appunto i giovani, le/gli studenti.
quota non trascurabile di alunne/i ha segnalato un peggioramento della situazione economica delle famiglie (29,4%), in particolare tra le/gli studenti stranieri che hanno sofferto maggiormente delle disuguaglianze digitali o digital divide , specie in relazione alla didattica a distanza.Anche nella vita extra-scolastica si assiste a un netto divario tra italiani e stranieri. Viaggiare, uscire, frequentare cene, aperitivi e feste sono attività mancate molto più agli studenti italiani. Lo stesso vale per la pratica sportiva2, rimarcando ulteriormente la già evidente esclusione sociale dei coetanei stranieri.
Una riflessione utile a comprendere l’impatto generale del COVID-19 sui ragazzi è quella proposta dal dott. P. Rabajoli, psicologo e psicoterapeuta dell’età evolutiva dello Sportello TiAscolto, pubblicata dal Gruppo Abele3:
L’ultimo rapporto ISTAT1 su benessere scolastico e pandemia delinea un quadro preoccupante. L’indagine, condotta lo scorso anno nelle scuole secondarie, mostra come il distanziamento fisico abbia causato un crollo della frequentazione di amici (-50,5% delle/i studenti) e un incremento del ricorso a chat e social (+69,5% delle/i studenti).Una
Al netto dell’impatto delle chiusure sugli aspetti di apprendimento, penso che per molti ragazzi i lockdown abbiano rappresentato una marcata interruzione all’esplorazione del mondo e della vita sociale, che la pandemia ha reso un luogo percepito come pericoloso, e alla possibilità di instaurare e coltivare quei legami esterni al contesto famigliare che permettono confronto e contatto sia con altri adulti che con i pari età. Questo senza considerare tutte quelle situazioni in cui il contesto famigliare non rappresenta un ambiente protetto ma una fonte di problemi, che la chiusura di luoghi e attività educative ha esacerbato, così come le situazioni già di fragilità si sono acuite in conseguenza alle chiusure di spazi che hanno funzione di supporto individuale e sociale.
L’impatto del COVID-19 sul benessere scolastico ed extra-scuola dei giovani
↑
Una
Pur non essendo venuto meno il bisogno di stare con gli altri, tra i giovani sono tuttavia aumentati i rischi per la salute mentale 4. In ambito scolastico-adolescenziale, alcuni studi internazionali mostrano come anche gli episodi di violenza, bullismo e cyberbullismo siano recentemente aumentati. Già il report Behind the numbers ending school violence and bullying5 evidenziava come il bullismo fosse molto diffuso nel contesto scolastico a livello globale. Tale rapporto faceva riferimento a dati raccolti da due indagini internazionali condotte su larga scala nel lungo periodo, ovvero la Global school-based student health survey (GSHS)6 dell’OMS e la Health Behaviour in School-aged Children (HBSC) dell’HBSC Consortium7, le quali mostrano globalmente che un terzo degli studenti è stato nel corso dell’esperienza scolastica vittima di bullismo. Non di meno, l’organizzazione di beneficienza Time for Inclusive Education (TIE) nel 2020 ha studiato gli effetti del lockdown sul benessere dei giovani in Scozia, mostrando come le esperienze di bullismo online risultino essere cresciute notevolmente8. Altre ricerche condotte in Nord America e Asia hanno rilevato un aumento di episodi di cyberbullismo durante il lockdown9 e investigato l’impatto che la pandemia sta avendo sull’ansia e la depressione giovanile, confermando una certa correlazione tra distanziamento fisico e aumento di casi di autolesionismo e tentativi di suicidio10.
Il bullismo tra ragazze: un fenomeno in crescita?
Sebbene ci sia da tempo una crescente attenzione sul tema, reso più visibile dalle piattaforme social, solo da alcuni anni i media tradizionali si stanno occupando di questo fenomeno dando maggior enfasi e – a tratti – spettacolarizzando le aggressioni tra ragazze. Come evidenziato dall’UNESCO11, la percentuale di maschi che subiscono atti bullistici risulta infatti poco più elevata di quella delle ragazze. Stando ai dati GSHS, nel 30,4% dei casi, le vittime tra i 13 e i 15 anni sono femmine e nel 34,8% dei casi sono maschi. I dati HBSC mostrano una fotografia simile, dove nel 28,2% dei casi le vittime sono femmine e, nel 30,5%, maschi.
Dal punto di vista quantitativo il bullismo maschile e femminile hanno quindi una rilevanza pressoché identica. Tuttavia, a livello qualitativo, le manifestazioni di sopraffazione tra ragazze/i risultano scarsamente indagate nelle loro differenze. Tale gap trova riscontro nella propensione epistemologica delle scienze umane e sociali ad adottare approcci neutri (e quindi maschili) nell’interpretazione delle cause e delle articolazioni dei fenomeni sociali, come ad esempio il bullismo. Questa tendenza non agevola la piena comprensione delle differenze strutturali e strutturanti dei fenomeni sociali. Sappiamo ad esempio come, nel bullismo, venga attaccato chi è percepito dal gruppo di pari come diverso/a sulla base dell’aspetto fisico, della provenienza etnica, dell’appartenenza religiosa, dell’orientamento e dell’identità sessuale e di genere12. Nonostante le evidenze empiriche mostrino delle specificità a partire dal genere e dalle diversità significanti, il bullismo viene tendenzialmente affrontato sulla base dell’età dei soggetti coinvolti, dell’ambito di dispiegamento (scuola, extra-scuola, carceri minorili ecc.), della condizione personale (psicologica, relazionale ecc.), mentre manca quasi del tutto uno sguardo analitico di genere e intersezionale. Quello femminile è un tipo di bullismo caratterizzato proprio dal genere in cui si identifica la persona che lo agisce/subisce. Trattandosi di un fenomeno in prevalenza intra-genere 13, le bulle attaccano soprattutto le altre ragazze 14, privilegiando gli spazi della relazione15. Al contrario, i ragazzi tendono a prevaricare indistintamente femmine e maschi, adottando prevalentemente forme dirette di bullismo, privilegiando la forza fisica al fine di infliggere il maggior danno possibile e affermare la propria personalità16. Le ragazze sono invece in prevalenza vittime di aggressioni verbali, esclusione ed emarginazione sociale, violenze psicologiche17 e cyberbullismo18. Il bullismo femminile, specie in ambito scolastico, è difficile da individuare. Spesso non è riconosciuto né dalle/i insegnanti né dalle famiglie. È un fenomeno
complesso, composto da molteplici elementi che caratterizzano la specificità delle relazioni aggressive e violente tra ragazze 19, frutto di interazioni articolate, trasversali e multidimensionali. Erroneamente il bullismo femminile viene rappresentato come tendenza recente. Tuttalpiù, ciò che emerge dalla letteratura scientifica è la necessità di adottare approcci teorici e analitici di genere capaci di entrare ed evidenziare il più possibile le sfumature e caratterizzazioni di tale fenomeno.
La ricerca nazionale sul bullismo femminile
A seguito della pubblicazione del volume collettaneo Comprendere il bullismo femminile, curato da Giuseppe Burgio, è emersa l’esigenza di avviare in Italia un’indagine che potesse arricchire il dibattito accademico e istituzionale sul tema. Nel 2018 è stata così avviata una ricerca esplorativa che ha coinvolto 48 studentesse maggiorenni di tre scuole secondarie di Verona, realizzando 5 focus group sui significati e le rappresentazioni del bullismo femminile21. Questa prima fase è servita per definire in seguito il progetto di ricerca nazionale Il bullismo femminile a scuola. Un’indagine intersezionale mixed-method, coinvolgendo ragazze/i tra i 14-16 anni. Lo studio, impiegando coerentemente metodologie qualitative e quantitative, amplia la comprensione del bullismo femminile in una prospettiva di genere e intersezionale e ne misura l’incidenza quantitativa nei territori coinvolti tra Nord (Verona, Milano e Genova), Centro (Arezzo e Perugia) e Sud Italia (Foggia e Palermo).Il progetto, sotto la supervisione scientifica dei proff. Antonia De Vita (Università di Verona) e Giuseppe Burgio (Università di Enna “Kore”), ha coinvolto gli atenei di Milano-Bicocca, Genova, Perugia, Foggia, Verona, Enna “Kore”. La ricerca, avviata nel 2020, ha fatto i conti con l’emergenza COVID-19.I lockdown hanno imposto la riprogettazione del disegno di ricerca. Sono state adottate metodologie di ricerca innovative, online e con dinamiche partecipative Student’s Voice per rendere il più efficace possibile il lavoro a distanza con le/gli studenti22.
Le prime risultanze e considerazioni finali
Le prime elaborazioni dei dati (De Vita e Burgio, in pubblicazione) mostrano come le relazioni con gli adulti (genitori, insegnanti e educatori) arrivino “dopo”, essendo il bullismo tra ragazze un esempio di “relazioni-in-situazione”, legato al contesto condiviso tra pari, lontano e/o poco decifrabile dagli adulti di riferimento. Queste relazioni si concretizzano come accadimenti relazionali di spazi fisici, di materialità e immaterialità, di situazioni e atmosfere. Un altro aspetto evidenziato
è l’impatto delle rappresentazioni culturali nel palcoscenico del bullismo. La svalutazione del femminile è un tratto caratteristico e un pilastro del dominio patriarcale. C’è una rappresentazione situata dei significati e del valore socioculturale che attorno al genere, alle relazioni intra-genere e alle espressioni di aggressività, violenza, rabbia sono mobilitati e consentono di comprendere al meglio la fenomenologia del bullismo. Emerge con forza la necessità di unire i saperi, approcci epistemologici e metodologie provenienti da più discipline, tradizioni e esperienze di lavoro sul campo per raggiungere una più onnicomprensiva interpretazione del bullismo femminile. Tale processo interpretativo richiede la necessità di includere le ragazze come persone competenti da coinvolgere nel processo di elaborazione di azioni di contrasto al bullismo.
Condurre questa ricerca in pandemia, ripensare al disegno della ricerca, alle possibilità offerte dal digitale, alle disponibilità delle scuole, delle/i ragazze/i,delle loro famiglie e insegnanti,non è stato affatto semplice e immediato. Al di là dei ritardi inevitabili che ciò ha comportato, la lontananza tra noi ricercatrici e ricercatori e le comunità scolastiche ha imposto in primis la definizione e l’adozione di approcci il più possibile inclusivi ed esplicativi per colmare le distanze e guadagnare la fiducia e la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti. L’esperienza di ricerca, con i focus group e con il questionario online, ha consentito di entrare in contatto con migliaia di studenti in piena adolescenza, nel mezzo di una crisi senza precedenti. I limiti e le perplessità affiorati nella riprogettazione online sono stati risolti via dal vissuto delle/i studenti. La dimensione digitale della ricerca ha permesso di entrare nelle stanze delle/i adolescenti, nelle loro case, nel loro intimo e questo ha reso possibile un’interazione inaspettata. Il safe space costruito grazie all’interazione con le/gli insegnanti e la cura relazionale co-costruita con le/i ragazze/i ha reso tutto molto conviviale e partecipativo. È emersa una notevole voglia di parlarsi, di ascoltarsi, di sentirsi meno sole, di rendersi conto che esistono possibilità per uscire dai buchi neri e dagli interstizi violenti dei social. Partecipare (per loro) è stato qualcosa di gratificante,confortante e rincuorante.È stata una “terapia di gruppo”, oltre che azione capacitante e coscientizzante. La stanza online si è rivelata un contesto privilegiato per co-costruire spazi di mutuo aiuto-ascolto. La quiete e la fiducia costruita grazie all’intimità co-definita ha incentivato (in particolare le ragazze) ad aprirsi e a condividere vissuti per noi inimmaginabili.
Ci hanno parlato delle scuole medie come girone infernale del bullismo femminile, di modelli di femminilità corretta, di genitori che non ascoltano o arrivano “troppo tardi”, di conseguenze dram-
bullismo femminile a scuola
SAPERI / Il bullismo femminile a scuola
↑ L'EcoKid
Kindergarten a Vinh, in Vietnam (foto Archdaily. com).
matiche causate dalla prevaricazione e dal disagio nel non sentirsi mai giuste. Episodi dolorosi. Vite spezzate. Reputazioni da costruire e ricostruire. Identità fluide. Identità in costruzione. Ne è emerso un quadro decisamente complesso e ricco di spunti di riflessione sul ruolo che la scuola deve assumere, in quanto momento chiave delle identità in formazione degli adolescenti e in qualità di istituzione e comunità di pratica, chiamata a individuare percorsi e soluzioni in grado di fronteggiare questa che non è un’emergenza, ma realtà con cui ci si deve misurare.
NOTE
1. ISTAT, I ragazzi e la pandemia: vita quotidiana “a distanza” , «Le nuove generazioni e il covid», https://bit.ly/giovaniepandemia, Roma, 2022.
2. Ibidem, p. 5.
3. T. Castellano, Le fragilità del mondo adulto e gli effetti della pandemia sui più giovani, https://www.gruppoabele. org/, 12 maggio 2021.
4. L. Papa, Giovani adulti in pandemia tra solitudine e resilienza , consultabile all’indirizzo https://bit.ly/psicologinews, 24 maggio 2021.
5. UNESCO, Behind the numbers ending school violence and bullying, Paris 2019.
11. Cfr. indagini GSHS e HBSC.
12. UNESCO, Behind the numbers ending school violence and bullying, cit. 2019; G. Burgio (a cura di), Comprendere il bullismo femminile. Genere, dinamiche relazionali, rappresentazioni, FrancoAngeli, Milano 2018; Out in the open: education sector responses to violence based on sexual orientation and gender identity/expression, Paris 2016.
13. K. Schlieper, Experiencing Bullying between Genders: A Quantitative Study done at UNH , «Perspectives», 4(1), 4, 2012.
14. E. Nigris, I conflitti a scuola. La mediazione pedagogico-didattica, Bruno Mondadori, Milano 2002.
15. A. De Vita e F. Vittori, Bullismo femminile e costruzione dell’identità di genere, in «Fragilità contemporanee. Fenomenologie della violenza e della vulnerabilità», a cura di A. De Vita, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni 2021, pp. 139-161.
16. A.C. Baldry, D.P. Farrington e A. Sorrentino, School bullying and cyberbullying among boys and girls: Roles and overlap, in «Journal of Aggression, Maltreatment & Trauma», 26(9), 937-951, 2017.
17. J.L. Viljoen, M.L. O’Neill e A. Sidhu, Bullying behaviors in female and male adolescent offenders: Prevalence, types, and association with psychosocial adjustment, cit.
18. C. Barlett e S.M. Coyne, (2014). A meta-analysis of sex differences in cyber-bullying behavior: The moderating role of age, in «Aggressive behavior», 40(5), pp. 474-488, 2014.
19. G. Burgio (a cura di), Comprendere il bullismo femminile. Genere, dinamiche relazionali, rappresentazioni, cit.
20. Ibidem.
21. A. De Vita e F. Vittori, Bullismo femminile e costruzione dell’identità di genere, cit.
22. In totale sono state/i coinvolte/i oltre 4000 ragazze/i in tutto il Paese.
Francesco Vittori
assegnista di ricerca presso l’Università di Verona (Dip. Scienze Umane). Dal 2018 fa parte del coordinamento del progetto di ricerca nazionale “Il bullismo femminile a scuola. Un’indagine intersezionale mixed-method”. Dottore di ricerca in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro (Università di Bergamo), si occupa di pedagogia sociale e di genere, di movimenti sociali e di transizione ecologica.
La ricerca / N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
6. Condotta tra il 2003 e il 2017.
7. Condotta tra il 1982 e il 2018.
8. TIE, Online in lockdown. Wellbeing, bullying and prejudice , consultabile all’indirizzo https://bit.ly/timeforinclusiveedu, Time for Inclusive Education, 2020.
9. C.P. Barlett, A. Rinker e B. Roth, Cyberbullying perpetration in the COVID-19 era: An application of general strain theory, in «The Journal of Social Psychology», 161, 4, pp. 466-476, 2021.
10. D. Courtney et al., COVID-19 impacts on child and youth anxiety and depression: challenges and opportunities, in «The Canadian Journal of Psychiatry», 65(10), pp. 688-691, 2020.
Antonia De Vita
professoressa associata in Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Verona (Dip. Scienze Umane). Dal 2018 coordina con Giuseppe Burgio il progetto di ricerca nazionale “Il bullismo femminile a scuola. Un’indagine intersezionale mixed-method”.
Giuseppe Burgio
professore associato in Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Enna “Kore” (Facoltà di Studi Classici, Linguistici e della Formazione). Dal 2018 coordina con Antonia De Vita il progetto di ricerca nazionale “Il bullismo femminile a scuola. Un’indagine intersezionale mixed-method”.
Benessere scolastico, pandemia e DSA
Il periodo di lockdown e le altre restrizioni associate alla pandemia di COVID-19 hanno avuto degli effetti su tanti aspetti della vita delle ragazze e dei ragazzi, tra i quali il modo in cui si vive la scuola, e come si sta a scuola. Analizziamo il caso dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, tra criticità e opportunità.
Il benessere scolastico è un costrutto “multidimensionale”, che si riferisce a vari aspetti emotivi e relazionali che i bambini e i ragazzi vivono nel contesto scolastico 1 le emozioni che si attivano quando sono in classe, ma anche quando stanno studiando a casa per un compito in classe; il sentirsi apprezzati – o, al contrario, sottovalutati – dai propri insegnanti; sentirsi parte del gruppo classe, oppure avere preoccupazioni e paure associate alle relazioni con i compagni; percepirsi come efficaci a scuola, oppure sentire di non farcela. Il benessere (o malessere) scolastico si costruisce a scuola, nella quotidianità, che è la quotidianità principale dei ragazzi, quella che occupa gran parte delle loro giornate, tolte le ore di sonno. Con l’arrivo della pandemia, questa quotidianità è stata fortemente alterata, e l’ambiente scolastico ha allargato i suoi confini. Il benessere scolastico ha iniziato a includere anche aspetti quali come ci si sente a seguire le lezioni a distanza, le emozioni che si provano durante le verifiche e interrogazioni fatte da soli davanti al pc (o telefono!), la relazione con i propri genitori che spesso erano a pochi metri dai ragazzi durante il tempo della scuola. Ormai abbiamo diverse informazioni relative a quello che è accaduto in questi anni nella mente dei ragazzi, perché sono moltissimi gli studi che hanno provato a indagare questo aspetto, chiedendolo direttamente a loro, ma anche ai loro genitori e insegnanti, analizzando l’andamento degli apprendimenti, le variazioni negli accessi ai servizi di salute mentale ecc.
Sappiamo che il periodo adolescenziale è già di per sé critico, in quanto caratterizzato da importan-
ti cambiamenti,repentini e marcati,che coinvolgono l’aspetto fisico, lo stato emotivo e la personalità. Il realizzarsi di condizioni ambientali che possono originare stress, quali lo svilupparsi della situazione pandemica da COVID-19 con le conseguenti restrizioni nella vita di relazione, hanno avuto sicuramente un significativo impatto sulla vita di chi attraversa questa delicata fase. È infatti emerso come alle misure restrittive sia seguito un incremento dei casi di disagio psicologico meritevoli di attenzione clinica, soprattutto nella fascia di età dai 10 ai 18 anni. In generale, la recente letteratura a riguardo ci presenta un quadro caratterizzato da un significativo peggioramento delle condizioni di tipo internalizzante, con aumento dei livelli di ansia e depressione, correlabili, tra le altre cose, al senso di isolamento e solitudine2. Le indagini condotte durante il primo lockdown hanno inoltre posto in evidenza la centralità per i ragazzi del ruolo della scuola e delle attività di studio, pur in assenza dell’attività didattica in presenza. L’attività a cui essi dedicavano la maggior parte del loro tempo era infatti rivolta, anche nella condizione di didattica a distanza, alle attività scolastiche3. In questa nuova esperienza/modalità di approccio didattico, sono stati individuati quali fattori di protezione dall’insorgere di disturbi psicologici: uno stile genitoriale positivo e supportivo,l’uso di social-media per il mantenimento di rapporti interpersonali, e la possibilità di usufruire di sistemi di tele-supporto tramite i quali interagire con professionisti della salute mentale, se necessario4 Allo stesso tempo sono invece risultati elementi in grado di aumentare i livelli di ansia e di depressione: l’appartenenza al genere femminile, il frequentare la scuola secon-
Benessere scolastico, pandemia e DSA
SAPERI / Benessere scolastico, pandemia e DSA
daria di II grado – quindi avere un’età tra i 14 e 18 anni, l’essere preoccupati per il conseguimento del diploma e per l’assegnazione di un quantitativo di compiti/esercizi superiore a quelli assegnati durante la didattica in presenza5. Sembra che quindi alcune variabili scolastiche, legate al poter mantenere i contatti con i compagni, al carico di lavoro percepito, ma anche al supporto genitoriale – che può essere importante nell’organizzazione del lavoro scolastico a casa –, abbiano giocato un ruolo importante nel modulare il benessere psicologico dei ragazzi.
Il periodo del COVID-19 per gli studenti con DSA: criticità e opportunità
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N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
La ricerca
mentale, in particolare in merito all’insorgere di disturbi d’ansia8
Se è vero che le restrizioni associate al COVID-19,e la conseguente attivazione della didattica a distanza, hanno avuto un impatto significativo per la maggior parte degli studenti, questo impatto è risultato ancora più marcato per i ragazzi che hanno dei Bisogni Educativi Speciali, tra i quali ci sono quelli con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). I DSA sono definiti come disturbi del neuro-sviluppo che condizionano negativamente le abilità necessarie all’apprendimento di base, in soggetti che sono dotati di un adeguato livello cognitivo e che non presentano disturbi sensoriali, neurologici o avversità psicosociali cui attribuire tali difficoltà d’apprendimento, e che hanno ricevuto un’istruzione adeguata. I soggetti con diagnosi di DSA possono presentare deficit nella lettura (dislessia), nei processi ortografici (disortografia), nelle abilità di calcolo e numeriche (discalculia) e nelle abilità grafiche (disgrafia) (Legge 170/10; APA, 2013). A seguito di un’indagine epidemiologica realizzata nell’anno scolastico 2018/2019, è stato calcolato che il 4,9% degli studenti italiani presentava diagnosi di DSA, in particolare la diagnosi era presente nel 5,9% degli studenti della scuola secondaria di I grado e nel 5,3% di quelli della scuola secondaria di II grado6 Un aspetto importante del profilo dei ragazzi con DSA è che, unitamente alle difficoltà di apprendimento, essi possono altresì presentare, all’interno dell’ambiente e durante le attività scolastiche, varie difficoltà, che sono conseguenze dei problemi negli apprendimenti: si parla di difficoltà nelle relazioni sociali, con tendenza talvolta all’isolamento, nel funzionamento emotivo, con riduzione dell’autostima dovuta agli insuccessi scolastici e nel comportamento, con la messa in atto di meccanismi quali l’evitamento, o con iperattività, oltre che sentimenti di frustrazione e fallimento per i risultati negativi ottenuti a fronte del loro impegno e buona volontà 7. Il conseguente abbassamento del loro benessere in ambito educativo fa sì che questi bambini e ragazzi risultino più vulnerabili anche nei confronti di problemi legati alla salute
Con questo profilo di rischio, gli studenti con DSA rientrano tra quegli studenti “vulnerabili” che sembrano aver subito, da un certo punto di vita, un peggioramento delle loro condizioni a seguito delle misure attivate per la pandemia9. Infatti, oltre alle difficoltà sperimentate da tutti gli adolescenti, si sono osservate delle ricadute sugli apprendimenti in ragazzi che partivano già con uno svantaggio a questo livello. Il particolare, una delle cause di questo esito negativo pare sia stata la mancanza di una continuità della didattica, così come la carenza di un supporto specialistico, quando era necessario10, tenendo conto che solo una parte degli studenti con DSA che seguivano percorsi di potenziamento hanno potuto continuare in modalità di tele-riabilitazione. Questo risulta avvalorato da alcuni dati che indicano come una percentuale variabile tra il 59 e il 63% dei bambini italiani con dislessia non abbia raggiunto, durante il periodo di didattica a distanza, l’incremento medio atteso nello sviluppo delle loro abilità di lettura11. Nonostante, come accennato, per alcuni studenti con DSA già presi in carico da specialisti sia stato possibile portare avanti percorsi di potenziamento tramite strumenti di tele-riabilitazione, non si è potuto utilizzare questi strumenti per effettuare nuove diagnosi, in quanto le associazioni professionali hanno sconsigliato l’iter diagnostico a distanza12. Durante il periodo di didattica a distanza, anche le osservazioni degli indicatori precoci di DSA, che gli insegnanti sono in genere in grado di fare, sono risultate meno affidabili, in quanto influenzate significativamente dalla distanza con i ragazzi e dalla modalità didattica diversa dal solito, con conseguente riduzione, durante questo periodo, della capacità da parte del sistema scolastico di intercettare i casi a rischio di DSA: questo limite è importante, considerando l’importanza della diagnosi precoce per limitare lo sviluppo di vissuti di disistima e le possibili conseguenze psicologiche.
Altri studi hanno però rilevato il realizzarsi di alcuni benefici derivanti dalla didattica a distanza per i ragazzi con DSA, dovuti in particolare alla possibilità, per alcuni studenti, di un rapporto uno-a-uno più continuativo, con un genitore o altro familiare che fosse disponibile, supportivo e capace di aiutare i ragazzi con le giuste strategie13. Inoltre, sono stati individuati alcuni fattori che hanno reso la fase della didattica a distanza positiva, quali la possibilità di continuare l’utilizzo di strumenti compensativi e dispensativi, con l’eventuale assegnazione di compiti adattati alle esigenze individuali.Un altro elemento importante è relativo al naturale ampiamento degli strumenti compensativi abitualmente riservati ai ragazzi con DSA (ad es. il computer) all’uso con tutta la classe; questo ha di fatto eliminato il divario tra studenti
con DSA (utilizzatori abituali) e studenti a sviluppo tipico ai quali lo strumento non era in genere concesso, e annullato la stigmatizzazione percepita da alcuni ragazzi con DSA in relazione all’uso in classe di questi strumenti14. Oltre ai vantaggi psicologici legati al sentirsi uguali nell’utilizzo dei dispositivi da remoto, per gli studenti con DSA la didattica a distanza ha portato anche vantaggi pratici, come la possibilità di rivedere le lezioni registrate e l’avere a disposizione il materiale didattico in anticipo e poter così disporre di un archivio del materiale didattico ben organizzato15.
Cosa rimane?
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Alcuni studenti ricordano con nostalgia quando potevano “nascondersi” dietro una telecamera, se possibile spenta, durante le lezioni. Altri hanno avuto accanto un genitore per farsi dare una mano, per il tempo che serviva, senza fretta, e questo ha fatto la differenza. Altri sentono ancora la sofferenza di non aver potuto avere accanto gli insegnanti, i compagni, gli amici, e per la perdita della quotidianità.
Indipendentemente dal fatto che i vissuti siano stati negativi, positivi o, come nella maggior parte dei casi, un po’ l’una e un po’ l’altra cosa, sappiamo che quello che è accaduto non è acqua passata bensì ha ancora un peso, ed è presente in classe oggi, tra i ragazzi tornati in presenza. Alcuni studenti ne riportano ancora le conseguenze negative – ce lo dice l’aumento degli accessi ai servizi di salute mentale in età evolutiva 16 – altri portano in dote nuove risorse, come una relazione migliore con i propri genitori e fratelli17. Il livello di benessere scolastico dei ragazzi, cioè come si sta a scuola e come si sta rispetto alle questioni, più allargate, legate alla vita scolastica e alle sue relazioni, è adesso, di nuovo, tutti i giorni, sotto gli occhi dei docenti.
NOTE
1. Cfr. A. Konu et al., Factor structure of the school wellbeing model, in «Health Education Research», 17, 732-742, 2002; V. Tobia et al., Children’s Wellbeing at School: A Multi-dimensional and Multi-informant Approach, in «Journal of Happiness Studies», 20, 841-861, 2019.
2. Cfr. E. A. K. Jones et al., Impact of COVID-19 on mental health in adolescents: A systematic review, in «International journal of environmental research and public health»,18,2021; S.Minozzi et al.,Impatto del distanziamento sociale per Covid-19 sul benessere psicologico dei giovani: una revisione della letteratura, Milano 2021.
3. V. Tobia et al., Profili degli adolescenti italiani durante il lockdown 2020: abitudini, sintomatologia ansiosa e disregolazione emotiva, in «Rivista Italiana di Medicina dell’Adolescenza», 18, 39-44, 2020.
4. Ivi.
5. S. Minozzi et al., Impatto del distanziamento sociale per Covid-19 sul benessere psicologico dei giovani: una revisione della letteratura, cit.
6. Ministero dell’istruzione, I principali dati relativi agli alunni con DSA anno scolastico 2018-2019, 2020.
7. Si veda P.E. Fantoni, I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), 2020; A. Moè, R. De Beni e C. Cornoldi, Aspetti emotivo-motivazionali che accompagnano le difficoltà d’apprendimento, in C. Cornoldi (a cura di), I disturbi dell’apprendimento, il Mulino, Bologna 2019.
8. P. Bonifacci et al., Specific learning disorders: a look inside children’s and parents’ psychological well-being and relationships, in «Journal of learning disabilities», 2016.
9. E. Panagouli et al., School Performance among Children and Adolescents during COVID-19 Pandemic: A Systematic Review, 2021.
10. Ivi.
11. I. M. C. Baschenis et al. Reading skills of children with dyslexia improved less than expected during the COVID-19 lockdown in Italy, in «Children», 8(7), 560, 2021.
12. C. Casalini et al. Riflessioni sulla telepsicologia nei Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) in tempo di COVID-19, in «Psicologia Clinica dello Sviluppo», 24, pp. 361-373, 2020.
13. D. R. Petretto et al., The Use of Distance Learning and E-learning in Students with Learning Disabilities: A Review on the Effects and some Hint of Analysis on the Use during COVID-19 Outbreak, in «Clinical Practice, and Epidemiology in Mental Health», 17, 92, 2021.
14. M. Daloiso, Didattica delle lingue a distanza e inclusione degli apprendenti con dsa: un’indagine sulle pratiche glottodidattiche attivate durante il periodo di emergenza da COVID-19, in «Italiano LinguaDue», 12, 2, 2020.
15. G. Bianco, L’impatto della Pandemia da Covid-19 sullo sviluppo degli apprendimenti scolastici negli studenti tra gli 11 e i 15 anni, Università degli studi di Padova, 2022.
16. SINPIA et al., Lettera aperta Appello dei medici Neuropsichiatri Infantili delle Regioni Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria sull’emergenza adolescenza, 2021, consultabile all’indirizzo https://www.aslal.it/appello-neuropsichiatri-infantili.
17. J.J. Janssens et al., The impact of COVID-19 on adolescents’ daily lives: The role of parent–child relationship quality, in «Journal of Research on Adolescence», 31, 623-644, 2021.
Rachele Montanelli
è dottoressa in Psicologia Clinica, tirocinante presso il servizio di Psicopatologia dello sviluppo dell’Ospedale San Raffaele Turro di Milano.
Valentina Tobia
è psicologa e professoressa associata di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università “Vita-Salute San Raffaele” di Milano, e collabora con il Child in Mind Lab.
SAPERI / Benessere scolastico, pandemia e DSA
SAPERI / Valutare e promuovere “ben-essere” nella scuola cross-COVID
Valutare e promuovere “ben-essere” nella scuola cross-COVID
In un sistema scolastico già da tempo “sorvegliato speciale”, la pandemia, con le sue conseguenze, è stata un terremoto che ha influito sullo stato di salute anche mentale delle persone che lo frequentano, soprattutto nelle tre dimensioni del sentirsi competenti, sentirsi autonomi e stare in relazione. Come ricostruire contesti in grado di promuovere benessere?
di Simone RomagnoliPotremmo dire che il 2020 è stato per noi tutti un nuovo anno 0: la realtà, bella o brutta che ci paresse, quella realtà cui eravamo abituati, a cui tutto sommato alcuni erano affezionati, è cambiata. Tutto è accaduto rapidamente, senza preavviso, senza ragione comprensibile, senza possibilità di controllo, nella più totale impreparazione delle persone e dei sistemi sociali.
N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
ricerca
Un virus, una sfera del diametro medio di circa 0,1 micron (500 volte più piccolo del diametro di un capello!), ha contagiato quasi 600 milioni di persone,provocando la morte di oltre 6 milioni di queste1
Facendo un passo indietro e guardando in prospettiva quanto è successo e sta ancora accadendo, non ritengo ci si possa stupire troppo: la storia racconta che non è la prima volta e non sarà questa certamente l’ultima che un evento imprevedibile e di portata globale ci costringe a mettere in discussione i nostri progetti e le nostre certezze, il nostro rapporto con gli spazi pubblici e privati, con i corpi nostri e altrui.
Nonostante tutto, lo schiaffo della realtà sembra comunque averci colpito alla sprovvista: forse ci
eravamo illusi, grazie alle tecnologie avanzate che possediamo e che continuiamo a potenziare, di avere conquistato una capacità di previsione e di controllo assoluti. La realtà è che queste si sono rivelate solo parzialmente efficaci.
Come risvegliati di soprassalto dal torpore a cui l’illusione di potere illimitato sulla realtà ci aveva indotto, ci siamo ritrovati costretti a fare i conti con le nostre fragilità e con il nostro limite, a una nuova consapevolezza dei punti deboli dei nostri corpi umani e sociali. Certo, questa esperienza non è piacevole, perché significa soprattutto mettere in discussione le nostre certezze, le nostre strategie, le nostre conquiste. Spesso quello che abbiamo sempre dato per scontato o che sentivamo di avere raggiunto.
Di fronte al cambiamento, a questo cambiamento in particolare, possiamo assumere tre posture. La prima è impegnarci nel cercare di far tornare tutto come era prima; la seconda, restare seduti, immobili, sulle macerie di ciò che prima era e che ora non è più; la terza,fare un inventario delle risorse che ancora possediamo (o che abbiamo dovuto tirare fuori in questi due anni, magari dal nulla) e tornare a fare ciò che ci definisce come esseri uma-
ni: accettare la nuova sfida della realtà e iniziare a cercare e poi a mantenere un nuovo equilibrio, nuove isole d’ordine che ci permetteranno, ancora una volta, di adattarci e tornare a stare bene.
Se accettiamo di prendere in considerazione questa riflessione (almeno nelle sue linee generali) non possiamo non interrogarci sui cambiamenti cui è chiamata la scuola,matrice del nostro sistema sociale. Ribolzi afferma che la scuola è impegnata a perseguire tre categorie di obiettivi 2: la prima, la più riconoscibile, mette al centro i processi di insegnamento e apprendimento di conoscenze e competenze; la seconda, riconosciuta prevalentemente da dirigenti, insegnanti e genitori, che riguarda l’organizzazione della scuola; la terza e ultima categoria, nota anche come curricolo nascosto3, riguardante la trasmissione di aspetti della cultura che riproducono e giustificano l’appartenenza della persona a un determinato gruppo sociale.
La pandemia ha scosso e sta continuando a scuotere le fondamenta di questa istituzione. I processi di insegnamento e apprendimento sono passati dalla modalità sincrona e in presenza a modalità sincrona e asincrona,sia in presenza,sia a distanza, sia in modalità mista.Ciò ha imposto agli attori che abitano il contesto suola cambiamenti profondi nelle dinamiche relazionali e l’acquisizione di nuove e complesse competenze digitali. La stessa organizzazione della scuola è stata sovvertita. La gestione dei posti a sedere in classe è stata piegata alle necessità del tracciamento dei contagi, l’ingresso e la permanenza a scuola sono stati subordinati all’uso della mascherina, al possesso di un certificato e alla presenza/assenza di determinati sintomi, la stessa pulizia degli ambienti ha dovuto fare i conti con il concetto nuovo di sanificazione. Da ultimo, ma non per importanza, il modo di stare insieme a cui eravamo abituati è stato messo in discussione. Il distanziamento fisico4, la mascherina che nasconde il viso (e il naso!), l’isolamento, la vigilanza attiva, le regole (dinamiche e di difficile interpretazione!) per accedere ai vari servizi.
Tale contesto caratterizzato da cambiamento, incertezza, senso di inadeguatezza sta producendo effetti negativi in termini di benessere, in particolare sui soggetti più fragili, ovvero gli alunni e le alunne5
Sono i più fragili,perché sono i meno “attrezzati” per affrontare le sfide e adattarsi ai cambiamenti imposti dalla situazione contingente che, come se non bastasse, cade, per molti, in un periodo della loro vita già di per sé carico di sfide complesse e faticose da affrontare (pubertà, adolescenza, passaggio all’età adulta).
Per tentare di condividere qualche riflessione su come sia possibile abitare bene questa nuova condizione di vita, ci permettiamo di richiamare alla memoria quanto scritto nel 20196.
Il benessere nella scuola pre-COVID-19
Nel volume La classe senza voto avevamo affermato:
Se dunque la realtà in cui siamo immersi è così carica di incertezza come ci viene raccontato, e la scuola, così com’è oggi, non solo sembra, ma dimostra, di non essere in grado di offrire al giovane il necessario per vivere e realizzarsi in essa, allora è possibile che chi detiene il potere, il quale è sottoposto alle stesse dinamiche corrosive e destrutturanti pocanzi tratteggiate, ma che possiede, in virtù della sua età (alta!), meno energia dei giovani, accetti di rimettere in discussione anche quelle posizioni verso cui, un tempo, era proibito anche solo puntare il dito. (p. 43)
La realtà della scuola era già prima del COVID-19 un sorvegliato speciale7, tanto da portarci ad affermare, in altre parole, che anche coloro a cui è stata affidata la responsabilità delle decisioni sarebbero stati, presto o tardi, richiamati a mettere in discussione le basi più profonde del sistema.
Pochi paragrafi dopo, forse in tono improvvidamente profetico, abbiamo aggiunto:
Oggi ci rendiamo conto che quelle strategie che tanto ci hanno permesso, oggi non sono più sufficienti, anzi si rivelano controproducenti. La complessità dei nuovi labirinti da cui siamo e saremo chiamati a uscire è tale da rendere necessario il ritorno alla valorizzazione di capacità che ci rendono ciò che siamo, come la creatività. (p. 45)
Il labirinto di fronte a cui oggi ci troviamo fa impallidire quello mitico di Cnosso: tutto il sistema educativo, dal vertice alla base, si è trovato a dover fronteggiare una situazione emergenziale di lunga durata, in cui gli attori coinvolti (dirigenti, docenti, studenti e genitori per citarne solo alcuni) si sono dovuti misurare con problematiche estremamente complicate, completamente nuove, e spesso senza strumenti e risorse adeguati (si veda il paragrafo seguente per una breve rassegna). Che fare,dunque? Se già la scuola nel pre-COVID-19 non navigava in buone acque,il “carico da 90” della pandemia non può certo aver migliorato la situazione. Già allora ci eravamo interrogati sul da farsi e avevamo avanzato la nostra proposta:
[…] dobbiamo abbandonare l’idea di una scuola che controlla e costringe per trasformarla in una scuola che libera e incoraggia il bambino [il ragazzo, il giovane] ad andare oltre ciò che è. Dobbiamo impegnarci per una scuola dove il livello di benessere percepito da studenti, insegnanti e genitori (per citare solo alcuni dei protagonisti della vita scolastica) diventi la cartina di tornasole per valutare se stiamo sfruttando al massimo le risorse di cui naturalmente disponiamo. (p. 45)
Detto in altre parole, il nostro suggerimento, concentrandoci su uno degli aspetti cardine del fun-
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Legenda
Bisogno di percepirsi competenti (> 50%)
Bisogno di percepirsi in relazione (< 50%)
Bisogno di percepirsi autonomi (> 50%)
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Ad un livello elevato della misura corrisponde un contributo positivo al benessere percepito.
Promozione dell’autonomia (> 50%)
Ad un livello elevato della misura corrisponde un contributo negativo al benessere percepito.
Concezione malleabile dell’intelligenza (> 50%)
ALTO livello di benessere percepito rispetto al contesto
Promozione del controllo (< 50%)
Concezione rigida dell’intelligenza (< 50%)
Obiettivi di Prestazione/Approccio (< 50%)
La prova empirica del contributo della misura al benessere percepito è meno robusta.
Obiettivi di Padronanza/Approccio (< 50%)
Valori con finalità collettive (< 50%)
zionamento del sistema scolastico, è stato, e lo sottoscriviamo tutt’ora, di includere tra i fattori che orientano le decisioni (le valutazioni di sistema), sia a livello locale (PTOF) sia a livello globale (INVALSI), anche una qualche misura del benessere. Un contesto che promuove il benessere è di fatto un contesto che favorisce uno sviluppo equilibrato, apprendimenti efficaci ed espressioni creative, tutti pilastri per una cittadinanza attiva, produttiva e, aggiungiamo, orientata all’innovazione. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante, in quanto evidenzia la spinta verso la costruzione di un atteggiamento proattivo e non riproduttivo (o peggio passivo) nei confronti della realtà in cui siamo chiamati a vivere.
A questo scopo abbiamo presentato una misura del benessere che mette al centro la teoria dell’autodeterminazione 8 e la collega ad altre dimensioni fondamentali per l’uomo e proprie anche dei sistemi scolastici9
Molto in sintesi, l’ipotesi alla base del nostro modello prevede che la misura del benessere percepito venga stimata combinando, opportunamente, le misure puntuali delle singole teorie che lo compongono. In altre parole, se valutiamo il livello di benessere percepito soggettivamente, allora saremo in grado di stimare il benessere percepito anche dal gruppo sociale che si intenda valutare.
Obiettivi di Prestazione/Elusione (< 50%)
Obiettivi di Padronanza/Elusione (< 50%)
Valori con finalità individuali (< 50%)
Ogni componente teorica del modello è associata, infatti, a specifiche variabili che concorrono a definire la misura del benessere percepito.
Per la teoria dell’autodeterminazione al benessere, contribuiscono positivamente la soddisfazione del bisogno di sentirsi competente (“lo so fare!”), in relazione (“guarda cosa ho fatto!”) e autonomo (“ho scelto io di farlo!”), così come la promozione dell’autonomia (“puoi scegliere come fare!”) da parte di genitori e insegnanti, e negativamente la promozione del controllo (“fai quello che ti dico!”).
Per la teoria delle concezioni implicite dell’intelligenza/competenza, contribuisce positivamente la concezione malleabile (“posso migliorare!”) e negativamente la concezione rigida (“non posso fare più di così!”).
Passando alla teoria degli obiettivi di riuscita, il perseguire obiettivi di approccio (“voglio provare a farlo!”) contribuisce positivamente alla condizione di benessere, mentre il perseguire obiettivi di elusione (“voglio evitare di farlo!”) contribuisce negativamente.
Infine, circa la teoria dei valori, l’adesione a valori caratterizzati da finalità collettive (“collaborare è meglio!”) influisce positivamente sul benessere, mentre l’adesione a valori caratterizzati da finalità individuali (“competere è meglio!”), influisce negativamente.
Gli effetti del COVID-19 sul benessere a scuola
Partendo dal citato modello, proviamo a leggere alcune criticità collegate al benessere che potrebbero essere imputate alla situazione pandemica.
Per identificare l’impatto della pandemia sul benessere possiamo combinare, da un punto di vista teorico, l’azione degli eventi e degli stressors maggiori, propri della pandemia, sulla componente più profonda del modello, la teoria dell’autodeterminazione.
Tra gli eventi che hanno caratterizzato la lotta al COVID-1910 rinveniamo i seguenti:
• Controllo obbligatorio della temperatura corporea
• Isolamento dei malati
• Rintraccio e quarantena dei contatti stretti
• Sorveglianza attiva con permanenza domiciliare fiduciaria
• Lockdown
• Chiuse le scuole
• Didattica a distanza e mista
• Impediti gli spostamenti
• Chiusura degli esercizi pubblici
• Annullata ogni manifestazione
• Istituzione delle zone colorate
• Vietato l’accesso ai luoghi pubblici
• Divieto di svolgere attività ludica o ricreativa all’aperto
• Utilizzo obbligatorio della mascherina e del gel disinfettante
• Obbligo di distanziamento fisico
• Obbligo di areazione dei locali
• Informazione martellante e dall’elevato carico emotivo (bollettini giornalieri ecc.)
• Istituzione rapida e mutevole di regole sempre più complesse
• Avvio della campagna vaccinale
• Obbligo vaccinale
• Introduzione del green pass
• Obbligo del green pass a scuola e sul lavoro
Tra i fattori di stress legati alla situazione pandemica, Antonicelli et al. (2020) evidenziano i seguenti:
• Rischio di essere contagiato o contagiare (tendenza all’isolamento, paura, responsabilità eccessiva, ansia)
• Preoccupazione intensa circa la propria salute
• Presenza di sintomi comuni ad altre patologie (incertezza, preoccupazione, ansia)
• Attenzione particolare rivolta ai sintomi fisici
• Preoccupazione dei genitori (percepita dai figli come segnale di pericolo, percezione di insicurezza/ minore protezione)
• Deterioramento fisico e mentale di individui vulnerabili (regressione, dipendenza)
• Rischio di essere esposti a lutti traumatici (disperazione, depressione, paura)
• Frustrazione e noia legate all’isolamento
• Perdita delle routine (destrutturazione del tempo, fatica, senso di inadeguatezza)
• Limitato contatto sociale e fisico (solitudine, noia, abbandono)
• Informazioni non sempre chiare e in continua evoluzione (incertezza)
• Problemi economici (assenza dal lavoro, costi sanitari e altri oneri finanziari imprevisti)
• Stigmatizzazione e rifiuto da parte di vicini, colleghi di lavoro, amici e persino familiari (assenza di supporto sociale, solitudine)
• Fatica del tornare alla propria routine (amotivazione, demotivazione, alienazione)
Ricordiamo che la teoria dell’autodeterminazione attribuisce la condizione di benessere psicofisico e lo sviluppo del massimo potenziale personale alla soddisfazione di tre bisogni di base.
Il primo dei tre bisogni di base è il sentirsi competenti. La percezione di competenza è strettamente legata alla possibilità di perseguire obiettivi. Se questi obiettivi vengono sottratti alle persone, come è accaduto con la chiusura delle scuole (compiti, apprendimenti, progetti, valutazioni…), con la limitazione delle possibilità di incontrare e interagire con i coetanei (gioco, sfide, confronto…), il nostro sentirci competenti, non ricevendo più conferme (o smentite), poco alla volta tenderà a indebolirsi. Lo stesso può accadere anche quando questi obiettivi vengono resi difficili da comprendere, com’è accaduto con la rapida e mutevole proliferazione di regole, via via sempre più complesse, anche e non solo nei contesti scolastici. Oppure com’è accaduto con l’introduzione dell’uso di strumenti di comunicazione nuovi (audio/ video), informativamente meno ricchi e soggetti ad un controllo più difficoltoso, com’è si è visto durante la didattica a distanza e mista. Il nostro senso di competenza è sotto attacco anche quando le strategie automatiche che siamo soliti applicare nel quotidiano vengono rese inefficaci. Durante la pandemia molti automatismi legati all’interazione sociale a causa, ad esempio, del distanziamento, sono stati messi a dura prova, se non invalidati (la stretta di mano, l’abbraccio, il bacio sulla guancia). Ancora, il nostro senso di competenza viene messo in crisi quando ci troviamo di fronte a compiti che percepiamo come troppo difficili o contraddittori. Si pensi a chi non possedeva nemmeno gli strumenti tecnologici per connettersi alla rete o a chi non aveva mai fatto un uso così intensivo del computer.
La percezione di autonomia è il secondo bisogno di base che prendiamo in considerazione. Dei tre è quello che, in modo più evidente e profondo, ha subito l’attacco del COVID-19.Anche solo leggendo
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l’elenco degli eventi innescati dalla pandemia appare chiaro che le parole divieto e obbligo sono state e ancora sono predominanti. Certo non sempre l’obbligo e il divieto sono un attacco all’autonomia; ciò accade quando la norma viene da noi interiorizzata, diventando compatibile con la nostra identità e condotta. Questo è processo richiede tempo, e il tempo è un lusso che la pandemia non ci ha concesso. Qualche studente potrà inizialmente aver esultato quando sono state chiuse le scuole, ma sono convinto che, col passare dei giorni, la mancanza dei compagni e, perché no, dei professori si è fatta sentire. Quindi il divieto di andare a scuola, il divieto di giocare all’aperto, il divieto di azzuffarsi con amici e amiche, il divieto di abbracciare i nonni e nonne, l’obbligo di mascherina, l’obbligo della sanificazione e tutti gli altri obblighi e divieti, hanno fatto la loro parte nel prosciugare la percezione di autonomia.
Anche il terzo e ultimo bisogno,il bisogno di sentirsi in relazione, è stato colpito duramente. Il lockdown è probabilmente il momento in cui abbiamo toccato il livello più basso in assoluto in termini di negazione della relazione. Si potrebbe obiettare che lo stare insieme in casa per più tempo possa aver contribuito a rinsaldare i legami famigliari. Certamente questo non è da escludere, come non possiamo nemmeno escludere che la convivenza forzata, soprattutto in spazi ristretti o in situazioni in cui le relazioni erano già tese o incrinate, non possa aver comunque provocato danni aggiuntivi o recato il colpo di grazia.
Premettendo che ognuno è portato a reagire in modo differente agli eventi stressanti e avendo chiaro che queste reazioni possono essere influenzate da esperienze, da caratteristiche individuali e dal contesto sociale di appartenenza, dobbiamo comunque prendere atto che, assumendo come valido il modello proposto, il livello di benessere percepito, in particolare dagli studenti, abbia subito un calo significativo.
Fin qui la nostra analisi non ha fatto altro che confermare quanto sappiamo. Nel prossimo paragrafo proviamo a vedere quali suggerimenti possiamo ricavare dal modello, per ricostruire contesti e situazioni in grado di promuovere benessere. Focalizziamo la nostra attenzione sulla scuola e sugli studenti e studentesse, poiché in termini di priorità sono al primo posto.
Promozione del benessere nella scuola cross-COVID
La situazione pandemica non sembra ancora risolta, ma è in evoluzione. Le scuole dovranno verosimilmente, almeno ancora per un po’, essere pronte ad attivare tutte quelle procedure e tutti quei dispositivi che hanno permesso di arginare la diffusione del virus.
Ciò significa che studenti, docenti e personale scolastico devono essere pronti a conformarsi alle richieste del sistema.Abbiamo visto come le azioni di contrasto alla pandemia hanno provocato un deterioramento del benessere percepito. Proviamo a usare il modello come bussola per orientare i necessari interventi in una direzione che, per quanto possibile, promuova benessere.
In generale, per favorire il sentimento di competenza può essere d’aiuto definire e condividere procedure semplici e chiare. Può aiutare il dare accesso a tutorial che accompagnino passo passo al raggiungimento dell’obiettivo. Accanto ai materiali, è fondamentale sincerarsi che chi ne deve usufruire sia a conoscenza della loro esistenza e possa facilmente accedervi.
Tale suggerimento si può applicare a livello organizzativo, ad esempio, per regolare l’accesso degli studenti alla didattica a distanza, alla comunicazione della positività al COVID-19 e alla comunicazione di inizio e fine quarantena.
Dal punto di vista della didattica può essere utile, ad esempio, regolare le modalità di utilizzo degli strumenti e di interazione attraverso gli strumenti di comunicazione sincrona (ad esempio Google meet) e asincrona (ad esempio Google classroom).
Per favorire lo sviluppo di un sentimento di competenza, sempre in ambito didattico, può essere d’aiuto anche creare situazioni di valutazione formativa che permettano allo studente di mostrare ciò di cui è capace. Per far ciò le prove dovranno essere calibrate all’interno della zona di sviluppo prossimale dello studente, in modo che l’esito finale sia sempre positivo (“ce l’ho fatta!”). L’esperienza del successo, infatti, è una delle chiavi per promuovere il percepirsi competenti quando la prova non viene considerata né come troppo facile, né tanto difficile da dover attribuire il successo agli interventi di supporto dell’insegnante (scaffolding), che pure non devono mancare.
Un’ultima strategia che può contribuire alla costruzione di un contesto che nutra il bisogno di competenza dello studente è quella che prevede che l’insegnante faccia percepire allo studente di stare acquisendo nuove e interessanti capacità. Per far ciò è importante aver chiaro cosa lo studente sa e cosa sa già fare. Sarà più difficile così proporre apprendimenti già noti e più facile dare senso a quello che si sta imparando, in un’ottica di life skills11. Se lo studente si rende conto che ciò che sta imparando potrà essergli utile nella vita (anche e soprattutto quotidiana!) per raggiungere i propri obiettivi personali già nel presente e poi nel futuro, allora la motivazione ad apprendere potrebbe riceverne una spinta. Per soddisfare il bisogno di autonomia può essere utile dare spazio a momenti di negoziazione in cui lo studente può dire la sua in merito al come portare a termine le attività che gli vengono assegnante.
Ad esempio possono essere discussi i tempi e i modi della consegna, può essere lasciato anche un margine nella scelta di quali obiettivi perseguire e raggiungere (come la lettura di un libro a scelta in un elenco di 3/5 titoli).
Altro aspetto su cui si può agire per irrobustire il sentimento di autonomia è la gestione del livello di pressione cui è sottoposto lo studente. In concreto può essere d’aiuto evitare l’accumulo di verifiche e consegne in tempi ristretti, calcare troppo la mano sulle aspettative da parte degli insegnanti o sul senso del dovere.
Un ultimo strumento importante che permette di aiutare lo studente nel suo percorso verso l’autonomia percepita e reale è il predisporre occasioni e tempi durante i quali sia libero di esprimere le proprie idee ed opinioni. Si può certamente partire dalla valorizzazione del ruolo del rappresentante di classe che, in qualità di portavoce, deve essere aiutato a creare momenti in cui ascolta i compagni (assemblee di classe) e a farsi latore delle istanze nel consiglio di classe, in cui può esprimersi a pieno titolo. Lo stesso docente può creare momenti di ascolto in cui, favorendo un clima di ascolto attivo, ognuno possa esprimersi e sentirsi ascoltato. Questo scambio comunicativo è tanto più necessario quanto più ci si trova in situazione di assenza di indizi che ci mettano in grado di leggere lo stato di benessere delle persone (ad esempio a distanza).
Una attività pratica che può essere proposta è la risposta anonima a domande che riguardano la vita in classe (criticità, punti di forza, suggerimenti). Se il clima di classe lo consente, durante questi momenti di ascolto reciproco è possibile far emergere i vissuti personali dei ragazzi e i sentimenti che questi elicitano (la raccolta delle risposte può essere fatta anche via cellulare usando un semplice modulo Google configurato per non memorizzare dati personali).
La costruzione di contesti che soddisfino il bisogno di relazione è forse la più difficile da realizzare quando ci si trova in situazioni di emergenza come l’epidemia di COVID-19. La mascherina, la distanza fisica, gli strumenti digitali che mediano le interazioni sociali sono tutti ostacoli al naturale modo che abbiamo di stare insieme. Ciò detto non bisogna scoraggiarsi, perché le tecnologie digitali comunque permettono di mantenere aperti come minimo i canali visivo e uditivo, e questo garantisce comunque un ottimo livello di trasferimento di informazioni.
Un aspetto che si può curare è il far sentire che l’altro ci interessa, che quel che fa ci interessa. Durante il momento dell’appello si può spendere qualche secondo per cogliere come sta ciascuno, se ha qualche bisogno, per sapere se è accaduto qualcosa di positivo che merita di essere condiviso. Quando si assegnano compiti o attività prevedere un momento in cui chi lo desidera (anche tutti se i tempi
lo consentono) possa mostrare alla classe quanto ha fatto (questo è particolarmente utile in caso di attività in cui è presente una componente creativa). Affinché le relazioni siano positive, è importante lavorare per costruire contesti amichevoli e accoglienti, dove non c’è spazio per il giudizio sulla persona, dove non c’è spazio per l’aggressione verbale o la presa in giro, dove la possibilità di esprimersi è garantita a tutti. Creare un clima di classe rispettoso, accogliente e inclusivo è la sfida più difficile cui la classe si trova di fronte quando vive in presenza. Quando si attivano modalità miste o a distanza le difficoltà crescono molto. La presenza dello schermo che viene percepito come uno scudo protettivo, la limitata visibilità indotta dalla telecamera, il controllo sul microfono e sulla telecamera che permettono di nascondere ciò che si sta facendo, la possibilità di attivare e usare altre applicazioni all’insaputa dei compagni e dell’insegnante, così come la possibilità di celare il contesto fisico in cui ci si trova impiegando sfondi sovrapposti, rendono la gestione delle dinamiche relazionali della classe estremamente difficile.
Le azioni coercitive sono in questi casi inefficaci in quanto non avremo mai come insegnanti la certezza della colpa e sarà quindi sempre sostenibile, da parte dello studente, una posizione di torto subito in seguito alla comminazione di una sanzione.
La leva su cui siamo chiamati a lavorare non può perciò che poggiare sulla motivazione intrinseca. Dobbiamo fare in modo che lo studente desideri di partecipare all’attività a distanza proposta, che senta di perdere un’occasione se non partecipa. Facile a dirsi difficile a farsi! L’ostacolo più grande è dato dalla diversità che caratterizza gli studenti e con essa le chiavi per stimolare questa motivazione.
Studi sui gruppi sociali12 suggeriscono che, per poter motivare i gruppi, si possono definire obiettivi sovraordinati a cui tutti sentono di voler contribuire. Perché allora non provare a far leva sulla situazione che tutti stiamo vivendo per trasformarla in un elemento unificante e motivante?
Valutare e promuovere “ben-essere” nella scuola cross-COVID
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Conclusioni
Un dettaglio degli spazi interni del Kaleidoscope Kindergarten a Tianshui, in Cina (foto vanceva. com).
In questo breve articolo, dopo aver messo a confronto il benessere dei contesti pre-COVID-19 e cross-COVID-19 e aver -ricordato che, a conti fatti, la scuola non ha mai navigato in acque del tutto tranquille, ci siamo interrogati su come costruire contesti che promuovano benessere nel cross-COVID-19, periodo di transizione che speriamo ci conduca presto alla agognata fase di post-COVID-19.
L’analisi che abbiamo proposto ha preso le mosse dal modello per la valutazione del benessere centrato sulla teoria dell’autodeterminazione13, così come su esso sono state imperniate le strategie che abbiamo suggerito.
Concludiamo sottolineando quanto sia necessario assumere, oggi più che mai, come docenti, ma anche come studenti, la postura del ricercatore sperimentale: definire ipotesi, costruire situazioni in cui si testano queste ipotesi, prendersi il tempo per riflettere sui risultati ottenuti e fare tesoro dell’esperienza realizzata al fine di costruire una nuova ipotesi e continuare il ciclo di miglioramento.
Questo approccio permette due esiti interessanti: il primo, che porta ad arricchire la propria cassetta degli attrezzi professionale e personale di soluzioni e strumenti che, quando rivelatisi efficaci, potranno essere riutilizzati; la seconda che, in modo trasversale, promuove il benessere di chi è impegnato in questo processo di ricerca-azione, rendendolo protagonista attivo dell’adattamento che si persegue.
NOTE
1. Ultimi dati OMS, da Health Emergency Dashboard (consultazione luglio 2022), reperibili all’indirizzo https://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/ dettaglioContenutiNuovoCoronavirus.jsp?area=nuovoCoronavirus&id=5338&lingua=italiano&menu=vuoto.
2. L. Ribolzi, Società, persona e processi formativi: manuale di sociologia dell’educazione, Mondadori Università, Milano 2012.
3. J. Anyon, Social class and the hidden curriculum of work, in «Journal of Education», 1980, pp. 67-92.
4. S. Minozzi, R. Saulle, L. Amato, M. Davoli, Impatto del distanziamento sociale per covid-19 sul benessere psicologico dei giovani: una revisione sistematica della letteratura , in «Recenti Progressi in Medicina», n. 112, 2021, pp. 360-370.
5. Per una rassegna si veda R. Viner, S. Russell, R. Saulle, H. Croker, C. Stansfeld, J. Packer, S. Minozzi, Impacts of school closures on physical and mental health of children and young people: a systematic review, MedRxiv, 2021.
6. S. Bacchi, S. Romagnoli, La classe senza voto, I Quaderni della Ricerca 48, Loescher, Torino 2019.
7. Si veda Bacchi, Romagnoli, La classe senza voto cit., cap. 1.1.
8. E. L. Deci, R. M. Ryan, Self-determination theory, in P. A. M. Van Lange, A. W. Kruglanski, E. T. Higgins (a cura di), Handbook of theories of social psychology, Sage Publications Ltd., 2012, pp. 416-436.
9. Per una trattazione dettagliata si veda Bacchi, Romagnoli, La classe senza voto cit., cap. 3.1.
10. Per farsi un’idea si possono consultare le pagine istituzionali https://www.sitiarcheologici.palazzochigi.it, www.governo.it/febbraio%202021/it/coronavirus-misure-del-governo.html, e https://www.governo.it/it/ coronavirus-misure-del-governo.
11. A. Nasheeda, H. B. Abdullah, S. E. Krauss, N. B. Ahmed, A narrative systematic review of life skills education: effectiveness, research gaps and priorities, in «International Journal of Adolescence and Youth», 24(3), 2019, pp. 362-379.
12. M. Sherif, O. J. Harvey, B. J. White, W. R. Hood, C. W. Sherif, Intergroup conflict and cooperation: the Robbers’ Cave experiment. Norman Institute of Group Relations, University of Oklahoma, 1961.
13. Cfr. Deci, Ryan, Self-determination theory cit.; Bacchi, Romagnoli, La classe senza voto cit.
Simone Romagnoli
è dottore di ricerca in Psicologia Sociale dello Sviluppo e delle Organizzazioni, dottore in Scienze dell’Informazione e professore a contratto presso l’Università di Bologna (Dipartimento di Psicologia). Ha al suo attivo pubblicazioni e collaborazioni in ambito sia informatico sia psicologico.
L’età del benessere
Spunti letterari e percorsi possibili per riflettere su elementi distintivi e contraddizioni delle opere nel periodo del boom economico italiano
di Cristina Nesi«Felicità raggiunta, si cammina / per te su filo di lama», recita un verso degli Ossi di seppia di Montale, a ricordarci come il sano appagamento di corpo e spirito possa nascondere oscuri lati taglienti e infausti.
Ne è ben consapevole Natalia Ginzburg, che coglie la disperazione insita nella felicità, quando distilla i termini di “felicità” e “soddisfazione”: «La felicità è infinita, perciò comprende anche la disperazione. La soddisfazione esclude la disperazione. Il linguaggio della felicità è universale. Il linguaggio della soddisfazione, privato e personale»1.
Riflettere sul benessere in letteratura significa in primo luogo evidenziare gli elementi contrastivi che il termine porta con sé, soprattutto se circostanziamo l’osservazione all’Età del benessere, quella
della formidabile crescita economica italiana che, a partire dagli anni Sessanta, sarà destinata a mutare la produzione industriale, a tracciare da Nord a Sud grandi vie di comunicazione, a stravolgere l’urbanistica cittadina e a inventare una nuova architettura degli spazi quotidiani: tutti elementi che modificheranno lo stile di vita di milioni di persone.
Il boom economico, che nel giro di un ventennio trasforma un paese agricolo come l’Italia in una vera potenza industriale, innesca una profonda metamorfosi anche in campo culturale, e Gabriele Pedullà, nel capitolo L’Età del benessere nell’Atlante della Letteratura Italiana2, ricorda il peso internazionale che in quei decenni acquistano il grande cinema neorealista o l’Arte povera, ma anche il successo del teatro underground e di strada di Luca Ronconi, Carmelo Bene, Dario Fo e Giuliano Scabia, oltre al ruolo di primo piano che negli anni Ottanta
Il Kindergarten Wolfartsweier, a Karlsruhe, in Germania (foto elephant.art).
l’Italia giocherà nel dibattito internazionale sul postmoderno, grazie a Eco, Vattimo, Portoghesi e Bonito Oliva.
«Quindici anni fa prevedevamo tutto, – dice Italo Calvino nel 1961 – tranne una cosa: che il mondo sarebbe entrato in una fase di belle époque. Adesso ci siamo dentro in pieno. C’è il boom economico, un’aria di cuccagna, ognuno bada ai suoi interessi. […] Così come oggi, nell’euforia di questa immeritata cuccagna, sappiamo che non possediamo veramente nulla, che tutto è un castello di carte e può crollare al primo soffio»3.
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SAPERI / L’età del benessere
Anche leggere gli Scritti corsari (1975) di Pasolini può essere una chiave di accesso per capire l’Età del benessere. Del 17 maggio 1973 è l’articolo sulla civiltà dei consumi, dove si stigmatizza la lacerazione dell’anima del popolo italiano attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e in primis della televisione, mentre al 1° febbraio 1975 risale l’articolo sulla degradazione delle coscienze per il potere del consumismo, conosciuto perlopiù come l’articolo sulla scomparsa delle lucciole.
Segnato dal pessimismo per la sconfitta delle istanze sociali, Luciano Bianciardi ricorda con amarezza come tutto ormai sia valutato solo in rapporto alle medie nazionali: «il prelievo fiscale medio, la scuola media e i ceti medi. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda. A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo»4
Nel giro di quei decenni, non sono molte le opere che raccontano dall’interno le fabbriche, gli operai, gli impiegati, i dirigenti e i capitalisti; fra queste, ve ne sono alcune particolarmente pregnanti per cogliere la distanza fra il mondo arcaico e rurale e la realtà delle nuove fabbriche “di cristallo”: sicuramente Tempi stretti (1957), Donnarumma all’assalto (1959) e Linea gotica (1963) di Ottiero Ottieri, assunto da Adriano Olivetti per l’ufficio del personale a Pozzuoli e a Ivrea, e poi Memoriale (1962) di Paolo Volponi, direttore dei servizi sociali della Olivetti. Entrambi gli scrittori daranno prova del sorgere di un senso di alienazione provocato dai ritmi di lavoro e da un’attività parcellizzata dalla catena produttiva,per cui diventa difficile cogliere il senso del proprio impegno.
In Donnarumma all’assalto l’analfabetismo, la disoccupazione cronica, la fiducia assoluta nell’energia dei muscoli renderanno inefficace la missione civilizzatrice dello stabilimento di Pozzuoli, che aveva preso corpo dall’immaginazione ideologica dell’architetto Luigi Cosenza, studioso dell’Illumi-
nismo e della gran luce di Napoli, due motivi da cui traeva ispirazione la sua Teoria dell’Entusiasmo. Alla stregua delle scientifiche prove psicotecniche volute da Olivetti per la selezione del personale, la terapia urbanistica di Cosenza era sorretta dalla convinzione che l’entusiasmo e la razionalizzazione potessero sconfessare l’enfasi retorica del Mezzogiorno e trasformare il modo di essere di chi ci avrebbe vissuto. La bomba che Antonio Donnarumma farà esplodere davanti allo stabilimento ne rivelerà l’inefficacia. Si tratta di un episodio di cronaca avvenuto il 25 ottobre 1955 e riportato sia dai quotidiani sia dai manoscritti di Ottieri nel Quaderno XVIII: l’esplosione di una bomba-carta contro l’auto dell’ingegner Ferrera5
La letteratura, il cinema, il teatro rappresentarono i grandi mutamenti innescati nella società da quell’Età del benessere, e la rielaborano attraverso il filtro di uno sguardo critico che sarà anche femminile, basti pensare a L’età del malessere (1963) di Dacia Maraini, al glaciale romanzo L’adultera (1964) di Laudomia Bonanni, su una psicosi che porterà al rifiuto della maternità, o alla commedia Ti ho sposato per allegria (1964), scritta per Adriana Asti da Natalia Ginzburg. In quest’ultima, il “benessere” di una coppia di neosposi si configura come un bagliore fugace e s’incarna in una giovane donna randagia, svagata e vulnerabile. Intensa anche l’interpretazione per la RAI di Giulia Lazzarini, un’attrice altrettanto amata da Natalia Ginzburg, sotto la direzione di Carlo Battistoni6.
Nel 1964 per Bompiani Umberto Eco pubblica il saggio Apocalittici e integrati , in cui mette a confronto le ragioni dei primi nel condannare l’omologazione culturale e la cultura di massa con quelle degli “integrati”, che invece quella cultura vorrebbero difendere, favorevoli come sono a una larga diffusione dei prodotti culturali a basso prezzo, seppure asserviti al consumismo. Per Eco l’industria culturale, che mette sul mercato libri, film, spettacoli teatrali, non è diversa da qualsiasi altra impresa asservita al guadagno e impegnata a orientare i gusti del pubblico.
Alla fine degli anni Sessanta, Elsa Morante e Leonardo Sciascia ricorrono alla parodia come “canto parallelo” (secondo l’etimologia del termine) perché meglio consente loro l’esercizio dello spirito critico nei confronti delle strutture di potere. Lo faranno con La serata a Colono: una parodia (1968) di Morante e con Il contesto: una parodia (1971) di Sciascia, due opere che segnano per entrambi un punto di svolta nell’arco della loro opera letteraria: un punto di non ritorno.
L’Edipo di Morante, in controcanto all’Edipo a Colono di Sofocle, è stretto da cinghie di contenzione in un ospedale psichiatrico (sono gli anni in cui si discute sui manicomi, e che porteranno alla legge Basaglia del 1978) ed è in pieno delirio autoaccusatorio, con un “coro di matti” antitetico al razionale
coro sofocleo, sempre rispettoso del potere.
Antigone è invece una ragazzina selvatica, che parla una lingua povera, piena di sgrammaticature, imbastardita da forme di ascendenza forse ciociara, ma senza essere un realistico dialetto. È un’analfabeta più vicina a Nunziata dell’Isola di Arturo che alla donna che tiene testa a Creonte nelle tragedie greche. Ogni sua battuta è priva di punteggiatura, e parla una lingua inusuale ma ritmica, perché giocata sulla ripresa anaforica di alcuni termini (il “che” pleonastico, ad esempio), a creare ritmi ossessivi o a rimarcare l’inutilità di comunicare con medici e infermieri: «S’inzogna che sempre è giorno signò che per questo non ce la fa a dormire... [...] non lasciarmelo così messo / coi piedi verso l’uscita / che nella malatia non è buono di stare così che porta / disgrazia»7.
Destinata a essere inascoltata da tutti, compreso Edipo, l’adolescente è una creatura piena di discrezione e di riservatezza, «voltata verso l’angolo del muro per timore di disturbare» (p. 53), ma mentre Edipo è stato interdetto dai figli maschi, Antigone nella sua innocenza adolescenziale e di genere si dedica alla sua cura con tutte le attenzioni filiali («me lo pigliasse io questo male vostro») e mai perde la venerazione del padre: «gli occhi vostri uguali a due belle stelle» (ivi, p. 52). Non dimentichiamo che l’opera viene inserita nel 1968 nella raccolta dal titolo esplicativo Il mondo salvato dai ragazzini.
La parola “parodia” ricorre in tutti e quattro i romanzi di Morante,come ricorda Lucia Dell’Aia8,e in modo particolare nell’Isola di Arturo, dove è presentata con la lettera maiuscola: «Vattene, Parodia»9, epiteto ingiurioso rivolto a Wilhelm Gerace dal giovane amante. Per Giorgio Agamben Morante, addirittura, «ha fatto di un genere letterario – la parodia – il protagonista del suo libro»10
Anche Il contesto (1971) di Sciascia si fregia del sottotitolo parodia. Il clima che si respira a Palermo, quando esce in libreria il libro, è quello conseguente all’uccisione di Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo, il 5 maggio 1971.
Il contesto si apre sull’uccisione di un magistrato e prosegue fino a annoverare ben tredici morti, ma l’assonanza fra fatti di cronaca e fatti narrati non deve trarre in inganno: la prima parte di Il contesto viene pubblicata a gennaio-febbraio 1971 sulla rivista siciliana «Questioni di letteratura», e nella Nota di postfazione Sciascia ricorda come l’opera fosse già da due anni in gestazione sulla sua scrivania. Parodia del genere poliziesco, Il contesto rinnova il romanzo italiano messo al bando dall’avanguardia del Gruppo 63, proprio esplorando il rapporto fiction-realtà.
Senza saperlo, Sciascia finisce per intuire gli eventi storici che avrebbero insanguinato l’Italia negli anni di piombo e per cogliere l’insicurezza ontologica del mondo contemporaneo, che sarebbe seguito all’Età del benessere.
Molti scrittori protagonisti dell’ Età del benessere usciranno di scena nel giro di una decina di anni: «Sereni (1983), De Filippo (1984), Banti, Calvino e Morante (1985), Parise (1986), Bassani, Cassola e Levi (1987), Bilenchi, Porta e Sciascia (1989), Caproni, Contini, Manganelli, Moravia e Samonà (1990), Natalia Ginzburg, Pratolini e Tobino (1991), D’Arrigo (1992),Testori (1993), Fortini e Volponi (1994).Anche per questo il Novecento letterario finisce su per giù a quest’altezza»11.
NOTE
1. N. Ginzburg, La vita immaginaria, Einaudi, Torino 1974, p. 228.
2. Einaudi, Torino 2012, vol. III, pp. 718-723.
3. I. Calvino, La «belle époque» inaspettata, in «Tempi moderni», n. 6, luglio-settembre 1961, ora in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, pp. 70 e 74.
4. L. Bianciardi, La vita agra, [1962], Rizzoli, Milano 1980, p. 158.
5. Cfr. C. Nesi, Note a “Donnarumma all’assalto”, in Opere scelte, Meridiani Mondadori, Milano 2009, pp. 1173 e ss.
6. Oggi visibile su YouTube al link https://www.youtube. com/watch?v=GF6u9Bxgku4.
7. Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi, Einaudi,Torino 1995, p. 38.
8. La parodia nei romanzi di Elsa Morante, in «Cuadernos de Filologia Italiana», 21, 2014, p. 101-112.
9. Opere, Meridiani Mondadori, Milano 2001, vol. I, p. 1299.
10. Parodia, in Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, pp. 39-40.
11. G. Pedullà, L’età del benessere, cit., p. 720.
Cristina Nesi
fiorentina, è autrice con Maria Corti di Dialogo in pubblico (Rizzoli, 1995; ampl. Bompiani, 2006) e di una monografia su Sebastiano Vassalli (Cadmo, 2005). Ha curato gli Scritti scelti di Ottiero Ottieri (2009) e l’opera omnia di Romano Bilenchi (1997). Ha raccolto prose inedite e rare di Alfonso Gatto. Per il Piccolo Teatro di Milano ha curato la mostra e il catalogo Il giacobino Federico Zardi (CLUEB, 2002). Ha collaborato a volumi collettanei e a riviste («Autografo», «Strumenti Critici», «Levia Gravia», «Griselda», «Il Caffè», «Between», «Paragone»).
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Benessere e malessere nelle aule di Roma antica
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SAPERI / Benessere e malessere nelle aule di Roma antica
Se nel numero precedente della rivista, Professione prof, raccontavamo il mondo della scuola visto dal punto di vista degli insegnanti, e approfondivamo in particolare le insoddisfazioni (molte) e le gratificazioni (poche) dei docenti di Roma imperiale1, qui ci chiediamo come se la passavano i loro studenti. Un’anticipazione: non bene. di Mauro Reali
Il verbo latino valeo sintetizza l’idea di forza fisica e buona salute con quella di benessere spirituale e intellettuale: il suo imperativo vale – consueta formula di saluto – è dunque traducibile con «stammi bene», in tutti i sensi. Mi ha sempre colpito il suo uso da parte del poeta di età flavia Marziale (40-104 d.C.) in questo epigramma (10, 62) relativo alla vita scolastica:
Maestro di scuola, abbi pietà dei tuoi alunni ignoranti: / lascia che ti ascolti una folta schiera di giovani capelloni, / che la bella classe goda delle tue cattedratiche lezioni, / così che né il maestro di calcolo né quello di stenografia / siano attorniati da un circolo più numeroso. / Le albe pallide sono scaldate dalle fiamme del Leone, / il torrido luglio cuoce le messi bruciate. / Basta con le odiate fruste attorcigliate al cuoio scita, / che hanno frustato il satiro frigio Marsia, / basta con le tristi verghe, gli scettri dei pedagoghi: / lasciale dormire fino alla metà di ottobre: d’estate, / per i ragazzi, è una lezione sufficiente aver buona salute2 .
Il verbo in questione compare proprio all’ultimo verso, che in latino è aestate pueri si valent, satis discunt (letteralmente: «d’estate, i bambini se stanno bene imparano abbastanza»). Marziale, dunque, sembra opporre il valēre, cioè il «benessere», al tempo della frequenza della scuola e riservarlo
solo alle vacanze. Ma di che scuola si trattava? Emerge un contesto fatto di studenti distratti (o impauriti?), descritti come “capelloni” di buona famiglia, tenuti a bada dal maestro – soggetto che Henri-Irénée Marrou non esita a definire un «povero diavolo» 3 – grazie al terrore dei suoi strumenti repressivi anziché al fascino delle sue lezioni. Una scuola, insomma, nelle cui aule era davvero difficile «star bene», poiché si viveva sotto costante minaccia della frusta (scutina, virga) o del bastone (ferula).
Malessere e punizioni corporali
Causa non secondaria del malessere degli studenti era dunque il fatto che, per citare Stanley F. Bonner, «le punizioni corporali costituissero una caratteristica costante della vita scolastica»4. Ciò soprattutto nelle due prime fasi, il ludus (più o meno l’attuale scuola primaria) e la schola grammatici (sempre a spanne, l’attuale secondaria di primo grado). E proprio a un ludi magister si rivolgeva Marziale nel componimento che abbiamo visto; e della fama del manesco grammaticus Orbilio (11414 a.C.) – le cui sferzate il poeta Orazio provò da giovane sulla propria pelle – già ho parlato nel numero scorso de «La ricerca»5. Ma anche chi scrive, oggi sessantenne, ha sperimentato robuste tirate d’orecchie e sonori ceffoni dalla sua pur amata maestra elementare, ed era terrorizzato quando in
caso di assenza di quest’ultima veniva “smistato” nella classe dove c’era un maestro noto per la sadica abilità nel colpire i polpastrelli dei bambini con un flessuoso righello in legno. Se fosse ancora in vita – cosa che ignoro – potrebbe istruire a dovere i docenti di un distretto dello Stato del Missouri, dove recentemente queste punizioni sono state ripristinate: infatti (lo apprendo con sgomento) in USA la Corte Suprema ha stabilito già nel 1977 la loro legittimità, demandandone il reale utilizzo alla legislazione dei singoli Stati6.
In realtà, le punizioni violente – familiari o scolastiche – erano già sconsigliate nella stessa antichità da più di una voce liberal. Tra queste mi piace ricordare le tesi sostenute nel trattatello dello Pseudo-Plutarco De liberis educandis7, scritto in greco ma di età imperiale romana, che si rivolge ai padri; e soprattutto le parole di Quintiliano (35 ca. - 96 d.C.), altro grande autore di età flavia, che si rivolge invece proprio agli insegnanti.
L’opinione di Quintiliano, maestro di humanitas
Ecco cosa dice a tale proposito Quintiliano in un noto passaggio della sua Institutio oratoria (1, 3, 14-16):
14. […] Non mi piace affatto che i discenti subiscano punizioni di tipo corporale, per prima cosa perché è indecoroso, indegno di un uomo libero e per di più in contraddizione col diritto (la cosa invece ha un senso se si parla di persone di età diversa); secondariamente perché, se uno ha un’indole così rude da non riuscire a essere migliorata a furia di semplici rimproveri verbali, non si piegherà neanche sotto i colpi di frusta come i peggiori fra gli schiavi; infine poiché non ci sarà neanche
bisogno di questo genere di punizione se chi si fa carico di sorvegliare gli studi garantirà sempre la sua presenza costante. 15. Ai nostri tempi sembra opportuno, oserei dire per la trascuratezza dei pedagoghi, che i ragazzi siano corretti in modo tale da non essere obbligati a fare ciò che è giusto, ma da essere puniti per non averlo fatto. E poi una volta che si sia costretto un bimbo con le percosse, che cosa si farà a un ragazzo con cui non si può usare questa forma di intimidazione e al quale vanno insegnate cose più difficili? 16 . Aggiungi che a coloro che le prendono sono capitate spesso, per il dolore o per la paura, cose orribili a dirsi e destinate a essere motivo di vergogna: questa paura abbatte e deprime lo spirito e spinge a rifuggire e a odiare persino la vita stessa8
Poiché in questo numero trattiamo di benessere, non possiamo che dare particolare rilievo all’ultima frase del brano, relativa alle conseguenze psicologiche delle punizioni; queste, come ha scritto José Manuel Prellezo, si manifestavano spesso nelle umilianti forme «di un vero e proprio rituale: il ragazzo era costretto a spogliarsi fino al perizoma, veniva messo sulle spalle di un compagno e poi frustato con verghe dal maestro»9. Insomma, a me pare che Quintiliano possa essere a tutti gli effetti inserito nel pantheon della pedagogia d’avanguardia, in quanto maestro di humanitas, cioè di attenzione all’uomo in quanto uomo, e quindi davvero attento al valēre degli studenti. Certamente non ha torto Luciano Canfora quando denuncia anche i limiti del modello educativo quintilianeo, basato – egli scrive – «sull’elogio del primo della classe … sull’esaltazione della aemulatio, senza che mai se ne indichino anche i lati negativi»10, ma è bene ricordare che nel I secolo d.C. i tempi di Maria Montessori erano ben lontani dal venire!
↑ Un magister romano con tre allievi. Bassorilievo rinvenuto a NeumagenDhron, presso Treviri (foto Wikicommons).
Quando un santo perde la pazienza
Benessere e/o malessere degli studenti sono comunque da sempre connessi con la condizione dei docenti. Dunque non ci stupiamo se nelle aule del ludi magister o del grammaticus – frequentate da ragazzini – le inquietudini di questi ultimi abbiano prodotto una sorta di “corto circuito” associandosi alla demotivazione dei loro insegnanti, spesso alla base degli atteggiamenti repressivi che abbiamo visto. Ma che succedeva quando questa irrequietezza, questo malessere, toccava gli studenti più grandi, e li portava a essere indisciplinati anche nelle scuole di retorica destinate ai figli della classe dirigente? Succedeva che anche un santo potesse… perdere la pazienza!
Ce lo dimostra Agostino (354-430 d.C.), futuro vescovo di Ippona e padre della Chiesa, ma in gioventù professore di retorica, il quale ci racconta nelle sue Confessioni (5, 8, 14) come – logorato dalla cattiva condotta degli allievi di Cartagine – abbia voluto trasferirsi a Roma:
A raggiungere Roma non fui spinto dalle promesse di più alti guadagni e di un più alto rango, fattemi dagli amici che mi sollecitavano a quel passo, sebbene anche questi miraggi allora attirassero il mio spirito. La ragione prima e quasi l’unica fu un’altra. Sentivo dire che laggiù i giovani studenti erano più quieti e placati dalla coercizione di una disciplina meglio regolata; perciò non si precipitano alla rinfusa e sfrontatamente nelle scuole di un maestro diverso dal proprio, ma non vi sono affatto ammessi senza il suo consenso. Invece a Cartagine l’eccessiva libertà degli scolari è indecorosa e sregolata. Irrompono sfacciatamente nelle scuole, e col volto, quasi, di una furia vi sconvolgono l’ordine instaurato da ogni maestro fra i discepoli per il loro profitto; commettono un buon numero di ribalderie incredibilmente sciocche, che la legge dovrebbe punire, se non avessero il patrocinio della tradizione. Ciò rivela una miseria ancora maggiore, se compiono come lecita un’azione che per la tua legge eterna non lo sarà mai, e pensano di agire impunemente, mentre la stessa cecità del loro agire costituisce un castigo; così quanto subiscono è incomparabilmente peggio di quanto fanno. Io, che da studente non avevo mai voluto contrarre simili abitudini, da maestro ero costretto a tollerarle negli altri. Perciò desideravo trasferirmi in una località ove, a detta degli informati, fatti del genere non avvenivano11
Agostino probabilmente esagera un po’, perché vuole legittimare il suo trasferimento in Italia a partire dal 383 d.C. prima a Roma e poi a Milano, dove l’incontro col vescovo Ambrogio lo porterà nel 386 d.C. a convertirsi. È però certo che vi fossero – allora come oggi – realtà didatticamente più difficili, non necessariamente per il contesto socio-economico di sottofondo. Infatti l’Africa del Nord, nel IV secolo d.C., godeva probabilmente di maggior benessere della vecchia e scalcagnata Roma, la quale doveva apparire come una sorta di “nobile decaduta” che,senza più il rango di capitale politica, era invece logorata da numerosi problemi sociali.
Cosa provocava, allora, la demotivazione o l’agitazione dei ragazzi più grandi come quelli di cui parla Agostino? Cosa minava il loro benessere, dato che il retore di certo non li bastonava (se mai li doveva «tollerare», dice il futuro santo) e le loro famiglie erano probabilmente agiate?
Io non sono un pedagogista né tantomeno uno psicologo, e sicuramente per rispondere alla domanda che ci siamo posti non bastano neppure le mie competenze antichistiche – che pure non rinnego – anche perché sarebbe scorretto fare generalizzazioni di tempo e di spazio. È però vero che frequento da oltre un trentennio le aule scolastiche, e ho imparato col tempo a scorgere nelle posture, negli sguardi, nelle parole dei miei studenti di liceo uno stato di benessere o malessere e – più
spesso – una condizione ondivaga tra queste due. Ciò perché la scuola oggi – come pure ai tempi di Roma antica – è sì momento fondamentale di formazione, di crescita, socializzazione; ma è anche un luogo dove qualche volta non si vorrebbe stare, a prescindere da tutto.
La finzione romanzesca: il Lucio di Valeria Parrella
Mi piace a tale proposito citare un caso letterario, dunque fittizio, anche se a mio avviso illuminante: è quello di Lucio, giovane e nobile protagonista del recente romanzo La fortuna di Valeria Parrella ambientato in età romana imperiale12. Di origini pompeiane, egli viene mandato dal padre a Roma, a frequentare la prestigiosissima scuola di retorica proprio di Quintiliano, dove si imbatte in compagni del calibro di Plinio il Giovane e dell’esuberante Marziale. Con loro si trova bene, eppure tra i banchi si annoia perché il suo sogno è navigare, e pertanto Marziale chiede a Quintiliano: «Ma che ci viene a fare a scuola questo qui?» – aggiungendo poi, rivolto a Lucio – «Non ce l’hai un padre potente che ti faccia far carriera invece di questa merda?». La sua risposta non si fa attendere, ed è – come si suol dire – a tono: «Eh, purtroppo sì, maestro, ma mio padre pensa che per far carriera questa merda serva».
Sì, qualche volta la scuola è percepita come imposizione, come forma di gratificazione per gli altri (genitori, professori etc.), prima che di costruzione di una propria identità umana e culturale: avveniva così, probabilmente, anche nelle aule dove insegnava quel grande maestro di humanitas di cui già abbiamo parlato. E avviene anche nelle nostre classi, dove spetta a noi docenti fare percepire ai giovani la loro centralità nel processo educativo, cercando anche, laddove necessario, innovative strategie didattiche13.
Un altro Lucio, allievo di don Milani
Se poi quella brutta parola detta da Lucio dovesse comparire anche nel loro lessico (qualcosa di simile ho sentito durante il tempo del lockdown), potremmo sempre obiettare citando le parole di un altro Lucio (interessante omonimia!), il piccolo contadino con «36 mucche nella stalla», studente di don Lorenzo Milani a Barbiana, il quale affermò: «La scuola sarà sempre meglio della merda». La “sentenza”, contenuta nella celebre Lettera a una professoressa, seguitava così: «Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla»14. E per quel che vale la sottoscrivo anch’io, e credo la sottoscrivano anche milioni di studenti pur non contadini; perché se è vero che a scuola può esserci malessere, è altrettanto vero che reale benessere, per i giovani, senza scuola non può esistere.
NOTE
1. M. Reali, Vita da prof. nella Roma antica, in “La ricerca”, maggio 2022, anno 10, Nuova serie, n. 22, pp. 35-39.
2. La traduzione usata è: Marziale, Epigrammi (a cura di S. Beta), Mondadori, Milano 1995, 2 voll., con numerose riedizioni.
3.H.-I.Marrou,Storia dell’educazione nell’antichità,Edizioni Studium, Roma 1971, p. 356.
4. S. F. Bonner, L’educazione nell’antica Roma. Da Catone il Censore a Plinio il Giovane, Armando editore, Roma 1986, p. 181.
5. Cit., cfr. nota 1.
6. La stampa ne ha dato ampio riscontro; io l’ho appreso in primis da M. Basile, Alunni indisciplinati: il Missouri autorizza le punizioni corporali, in “La Repubblica”, 26 agosto 2022.
7. L’opera, di dubbia attribuzione, è compresa nei Moralia di Plutarco, oggetto di una recente, ottima, edizione: Plutarco, Tutti i Moralia (a cura di E. Lelli e G. Pisani), Bompiani, Milano 2017. Segnalo anche l’importante studio: S. Gastaldi, Le responsabilità educative dei padri nel De liberis educandis dello Pseudo-Plutarco, in “Civitas educationis”, X, 1 (2021), pp. 71-86.
8. La traduzione usata è: Quintiliano, Istituzione oratoria (a cura di S. Beta, E. D’Incerti), Mondadori, Milano 19972001, 4 voll., con numerose riedizioni.
9. R. Lanfranchi, J. M. Prellezo, Educazione, scuola e pedagogia nei solchi della storia, vol. 1, LAS, Roma 2009, p. 181.
10. L. Canfora, L’educazione, in AAVV, Storia di Roma, vol. 4, Einaudi, Torino 1989, p. 763.
11. La traduzione usata è: Agostino, Le confessioni (a cura di C. Carena e M. Pellegrino), Città Nuova, Roma 1965. Ora disponibile al sito: www.augustinus.it.
12. V. Parrella, La Fortuna, Feltrinelli, Milano 2022. Il brano citato più avanti si trova a p. 74.
13. Troviamo buoni suggerimenti in tal senso in D. Lemov, Teach Like a Champion. 62 tecniche per un insegnamento di successo, trad. it. A. Nesti, “I Quaderni della Ricerca”, 38, Loescher, Torino 2018.
14. La celebre Lettera a una professoressa, opera collettiva degli allievi della scuola di Barbiana fondata da don Lorenzo Milani, è del 1967. La tradizionale edizione di riferimento è quella del 1976, uscita per i tipi della Libreria editrice fiorentina, Firenze.
35 SAPERI / Benessere e malessere nelle aule di Roma antica
Mauro Reali
docente di liceo, dottore di ricerca in Storia Antica, è autore di testi Lœscher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e direttore responsabile de «La ricerca».
Tre poesie di Massimo Gezzi
Sempre mondo (Marcos y Marcos, Milano 2022) è il titolo dell’ultima raccolta di poesie di Massimo Gezzi, scritte tra il 2015 e oggi. Nella nota a Scuola a distanza si legge: «come tutti gli studenti e gli insegnanti, dal marzo 2020 ho sperimentato la didattica a distanza, durante la quale la maggioranza dei partecipanti teneva la telecamera spenta. La parte II “ruba” agli studenti e alle studentesse di alcune classi, rielaborandoli, pensieri nati da un esercizio che chiedeva di scrivere una lettera al sé stesso o alla sé stessa del 2030 (“cara me del futuro” ecc.), parlandogli/le di ciò che stava accadendo durante la pandemia».
Tema di S.
“Cosa vuole che s’impari, con dieci ore al giorno? Certe volte la scuola mi somiglia allo zapping: premi un tasto, cambia l’ora, e via con una roba che non c’entra un’emerita con quella precedente. E poi immagazzinare, registrare a memoria… Conta questo, per voi. Ma imparare è un’altra cosa, professore: c’è bisogno di tempo, fallimenti, dormite sotto a un albero per potere imparare davvero. Me lo dà, lei, il permesso di sbagliare, di perdermi in un sogno?”
Confessione di A. “Come si sentirebbe, lei, di fronte a delle statue parlanti, gente che non ricorda nemmeno il tuo nome, che ti ignora nei corridoi ma poi decide di te, di quanto vali? È come se la mia vita si fermasse la domenica sera e riprendesse il venerdì. È più scuola o galera, secondo lei, questa qui?” → Un
↑
Scuola a distanza
I. Certo, parliamo di Boccaccio: qualcuno se la ride, i non-oscuri, quando sente Ciappelletto spergiurare sulla sua verginità – però non è la lontananza il vuoto più penoso di questa scuola, di questi giorni: il male immedicabile è che parlandoci così, da lucina a lucina, da schermo a videocamera, è impossibile guardarsi negli occhi.
II.
“Se posso dire una cosa anch’io”, e alza la mano con pudore, sperando quasi di non essere notata “è che va bene, la scuola a distanza ha fatto schifo a tutti, ma la scuola che c’era prima, invece, quella a voi piaceva?”
Il parco Robinson visto da una finestra del Liceo cantonale di Locarno.
*
“A un certo punto ho staccato la spina, in tutti i sensi: quella del computer e anche quella del cervello. Non mi alzavo più dal letto, sprofondavo in me stessa. Mi sono accorta improvvisamente di essere al mondo, di essere io”.
*
“Per me è arrivato solo l’inizio della fine. La famiglia sgretolata. Le sorelle quasi ostili, presenze da schivare. Così ti scrivo questo, cara me del futuro: ricorda che sei forte, se ti sembra di non esserlo. Ricorda che hai saputo sopravvivere anche tu, ritrovare nel buio della camera un conforto”.
*
“Quando qualcuno gli parlerà del girotondo, i bambini chiederanno alla maestra che cos’era. Come la stufa, la carta da lettere, la sveglia, l’iPod... le cose che una volta c’erano e adesso non ci sono più”.
*
“A te che sarai ventisettenne, nel ’30, e che magari avrai pure un figlio un lavoro una città lontana da Lugano e con un nome molto buffo, dico buona fortuna, buon tutto. Pensami, quando puoi. ma non troppo”.
ha pubblicato i libri di poesia Il mare a destra (Edizioni Atelier, 2004), L’attimo dopo (luca sossella editore, 2009, premio Metauro), Il numero dei vivi (Donzelli Editore, 2015, premio Carducci, premio Tirinnanzi e Premio svizzero di letteratura), Uno di nessuno. Storia di Giovanni Antonelli, poeta (Edizioni Casagrande, 2016) e il libro di racconti Le stelle vicine (Bollati Boringhieri, 2021, finalista premio Mastercard Letteratura Esordienti). Ha curato l’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72 di Eugenio Montale (Mondadori, 2010, 2020), l’Oscar Poesie 1975-2012 di Franco Buffoni (Mondadori, 2012), le Poesie scelte di Luigi Di Ruscio (Marcos y Marcos, 2019) e La città lontana. Poesie 1993-2009 di Adelelmo Ruggieri (Marcos y Marcos, 2021). In Tra le pagine e il mondo (Italic Pequod, 2015) ha raccolto dieci anni di interviste ai poeti e recensioni a libri di poesia. Ha fondato e coordina con Italo Testa il sito letterario Le parole e le cose². Vive a Lugano, dove insegna italiano in un liceo.
I dati di una crisi globale
a cura dell’UNICEF
Nel mondo almeno il 13% delle persone di età compresa tra 10 e 19 anni vive con un disturbo di salute mentale diagnosticato: disturbi d’ansia, disturbi depressivi, schizofrenia, disturbo bipolare, disturbi alimentari, disturbi dello spettro autistico, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, disturbo della condotta, disabilità intellettiva idiopatica dello sviluppo e altri disturbi mentali.
L’ansia e la depressione costituiscono oltre il 40% dei disturbi della salute mentale tra i giovani (tra i 10 ei 19 anni), seguiti da disturbi della condotta (20,1%) e dal Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (19,5%).
L’autolesionismo è tra le principali cause di morte fra gli adolescenti. Rappresenta la quarta causa di morte dei giovani tra i 15 ei 19 anni, dopo gli incidenti stradali, la tubercolosi e la violenza interpersonale.Nell’Europa orientale e nell’Asia centrale è la principale causa di morte per i giovani di quella fascia di età, e la seconda causa più alta nell’Europa occidentale e nel Nord America.
Il disagio psicologico tra i giovani sembra aumentare. I tassi di depressione in un campione rappresentativo a livello nazionale di adolescenti statunitensi (di età compresa tra 12 e 17 anni) sono aumentati dall’8,5% dei giovani adulti al 13,2% tra il 2005 e il 2017.
Un rapporto dell’UNICEF sul malessere delle nuove generazioni delinea una situazione preoccupante: una sintesi.
Disturbi emotivi
tari anormali e una eccessiva preoccupazione per il cibo, accompagnati nella maggior parte dei casi da preoccupazione per il peso e la forma corporea. L’anoressia nervosa può portare a morte prematura, spesso a causa di complicazioni mediche o di suicidio, e si accompagna a una mortalità più elevata rispetto a qualsiasi altro disturbo mentale.
del 13,6% nel 2016, con i maschi più a rischio1
L’uso di tabacco e cannabis rappresenta un’ulteriore preoccupazione. Molti fumatori adulti hanno fumato la prima sigaretta prima dei 18 anni. La cannabis è la droga più utilizzata tra i giovani: circa il 4,7% dei giovani di età compresa tra 15 e 16 anni ne ha fatto uso almeno una volta nel 20182.
40 La ricerca / N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
DOSSIER / I dati di una crisi globale
I disturbi emotivi sono molto comuni tra gli adolescenti. I disturbi d’ansia (che possono comportare panico o eccessiva preoccupazione) sono i più diffusi in questa fascia di età e più comuni tra gli adolescenti più grandi che tra quelli più piccoli. Si stima che il 3,6% dei ragazzi fra i 10-14 anni e il 4,6% fra i 15 e i 19 soffrano di un disturbo d’ansia. La depressione si manifesta nell’1,1% degli adolescenti tra i 10 e i 14 anni e nel 2,8% di quelli tra 15 e 19 anni. Depressione e ansia condividono alcuni degli stessi sintomi, inclusi cambiamenti di umore rapidi e inaspettati.
Disturbi comportamentali
I disturbi comportamentali sono più comuni tra gli adolescenti più giovani rispetto a quelli più grandi. Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), caratterizzato da difficoltà a prestare attenzione, vivacità e impulsività eccessive e non appropriate all’età, si verifica nel 3,1% dei giovani di età compresa tra 10 e 14 anni e nel 2,4% di quelli di età compresa tra 15 e 19 anni1. Il disturbo della condotta (che include sintomi di comportamento distruttivo o provocatorio) si verifica tra il 3,6% dei giovani di 10-14 anni e il 2,4% di quelli di età compresa tra 15 e 19 anni. I disturbi comportamentali possono avere un impatto fortemente negativo sull’istruzione degli adolescenti e i disturbi della condotta possono sfociare in comportamenti criminali.
Problemi alimentari
I disturbi alimentari, come l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa, emergono comunemente durante l’adolescenza e la giovane età adulta. Comportano comportamenti alimen-
Psicosi
Le condizioni che includono sintomi di psicosi emergono più comunemente nella tarda adolescenza o nella prima età adulta. I sintomi possono includere allucinazioni o deliri. Queste esperienze possono compromettere la capacità di un adolescente di partecipare alla vita quotidiana e all’istruzione, e spesso portano a stigma o a violazioni dei diritti umani.
Suicidio e autolesionismo
Come già detto, il suicidio è la quarta causa di morte negli adolescenti più grandi (15-19 anni). I fattori di rischio legati a suicidio sono molteplici e includono l’uso di alcol, abusi durante l’infanzia, lo stigma contro la ricerca di aiuto, le barriere all’accesso alle cure.
Comportamenti a rischio
Molti comportamenti che comportano un rischio per la salute, come l’uso di sostanze psicoattive o comportamenti sessuali rischiosi, iniziano durante l’adolescenza. Rappresentano una strategia (negativa) per far fronte alle difficoltà emotive e hanno un grave impatto sul benessere mentale e fisico di un adolescente.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, a livello mondiale, la prevalenza del consumo episodico intenso di sostanze stupefacenti tra gli adolescenti tra 15 e 19 anni era
La perpetrazione di violenza è un comportamento a rischio che può aumentare la probabilità di un basso livello di istruzione, lesioni, coinvolgimento in reati o morte. La violenza interpersonale è stata classificata tra le principali cause di morte dei ragazzi adolescenti più grandi nel 20193
Nonostante la sempre maggiore attenzione all’importanza della salute mentale, mancano dati empirici completi sulla salute mentale, compresa quella tra gli adolescenti, nella popolazione mondiale. I dati attualmente utilizzati per estrapolare le stime di prevalenza dei disturbi mentali adolescenziali si basano su pochi studi, che spesso utilizzano campioni piccoli e non rappresentativi, offrendo solo un’istantanea molto ristretta della situazione attuale. L’entità reale dei disturbi di salute mentale tra gli adolescenti potrebbe essere più grave di quanto suggeriscono le stime a disposizione.
NOTE
1. WHO, Global status report on alcohol and health, 2018.
2. WHO, World Drug Report, 2020.
3. WHO, 2019 Global Health Estimates (GHE), 2020.
Tratto da: UNICEF,The State of the World’s Children, 2021, consultabile all’indirizzo: https://www. unicef.org/re]ports/state-worlds-children-2021.
Traduzione di Francesca Nicola
Il malessere dei giovani USA
L’amministrazione americana punta sulle scuole per affrontare il crescente disagio psichico dei giovani.
Di Francesca NicolaIn una Raccomandazione diffusa nel dicembre 2021, il Surgeon General degli Stati Uniti (il portavoce del Governo sulle questioni di salute pubblica del Paese) ha dichiarato l’esistenza di una «devastante crisi di salute mentale tra gli adolescenti americani»1 . Nel documento si specifica che il lockdown dovuto alla pandemia da COVID-19 ha solo aggravato una crisi in realtà pre-esistente. Di fatto, già nel 2019 l’American Academy of Pediatrics rende -
va noto che tra gli adolescenti i disturbi mentali superano le condizioni fisiche più comuni che causano «menomazione e limitazione».
Secondo il CDC (Center for Disease Control and Prevention, l’organismo federale che controlla la sanità pubblica), prima della pandemia un bambino su cinque di età compresa tra i 3 e i 17 anni ha sofferto di un disturbo mentale, emotivo, dello sviluppo o comportamentale2. Nel decennio 2009-2019 la quota degli
studenti di scuola superiore che ha manifestato la persistenza di sentimenti di tristezza o disperazione è aumentata del 40%.
Il tasso allarmante di suicidi
—
Nel decennio precedente alla pandemia anche i comportamenti suicidari tra gli studenti delle scuole superiori sono aumentati3: nel 2019 circa 1 studente su 6 ha riferito di aver pianificato il suicidio nell’ultimo anno, un
malessere dei giovani USA
←
The Hive, un palazzo della Nanyang Technological University, a Singapore (foto glassdoor).
dato in crescita del 44% rispetto al 2009. Le studentesse hanno maggiori probabilità di togliersi la vita rispetto ai maschi; così come gli studenti neri rispetto a quelli bianchi o ispanici. Oltre al genere, appare importante anche la dimensione dell’orientamento sessuale: solo il 6% degli studenti eterosessuali4 hanno dichiarato di aver tentato il suicidio nell’ultimo anno, ma questo dato sale al 16% fra quelli che hanno affermato di non essere sicuri della propria identità sessuale, al 23% fra coloro che si sono identificati come lesbiche, gay o bisessuali, e addirittura al 30% fra quelli che hanno avuto partner dello stesso sesso. Nel 2020 si stima siano verificate circa 6.600 morti per suicidio fra i ragazzi di età compresa fra i 10 e 24 anni5.
Dopo il picco pandemico le visite di urgenza nei dipartimenti di salute mentale sono ulteriormente aumentate, soprattutto per quanto riguarda i giovani e le persone appartenenti a comunità etniche minoritarie, e
si è abbassata l’età dei ragazzi ricoverati in reparti psichiatrici. Enti autorevoli come l’American Academy of Pediatrics, l’American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, il Children’s Hospital Association e l’Accademia americana dei medici di famiglia (American Academy of Family Physicians) hanno dichiarato la salute mentale un’emergenza nazionale.
Questi dati allarmanti hanno contribuito a sensibilizzare il Paese sul tema del malessere psicologico dei più giovani, scatenando un dibattito che coinvolge diversi soggetti: genitori, insegnanti, studenti, mass-media e politici. L’idea che nel Paese sia in atto una vera e propria emergenza legata alla salute mentale si è ormai consolidata.
Il ruolo delle scuole e il modello di cura collaborativa
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Secondo l’APA (American Psychological Association), le azioni da intraprendere dovreb -
bero essere l’ampliamento del numero di professionisti della salute mentale (si stima che vi siano 14 psichiatri specializzati nell’età evolutiva ogni 100.000 adolescenti, un numero piuttosto basso rispetto ad altri Paesi); il potenziamento della telemedicina; un maggiore sostegno ai medici di famiglia e ai fornitori di cure primarie, ossia di coloro che devono gestire i problemi più comuni (ansia generalizzata, depressione, insonnia, disturbi comportamentali). Soprattutto, però, si auspica una maggiore integrazione fra i professionisti della salute mentale e il personale scolastico, secondo il cosiddetto Collaborative Care Model, un protocollo di intervento operativo sviluppato negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta per favorire un dialogo continuo e reciproco fra psicologi e medici (e il personale scolastico, in questo caso).
Secondo il National Center for Education Statistics (NCES)6, nell’anno accademico 2021-22 solo la metà delle scuole pubbli-
che ha dichiarato di essere attrezzata per affrontare i bisogni di salute mentale degli studenti; i fattori più frequentemente identificati dalle scuole stesse come limiti al loro operato sono, oltre all’inadeguatezza dei finanziamenti, sia il numero insufficiente di professionisti della salute mentale all’interno degli istituti, sia un accesso inadeguato a quelli esterni alla scuola ma accreditati (da cui conseguono, per esempio, tempi di attesa troppo lunghi per una visita).
Un fiume di certificazioni
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Nella maggior parte delle scuole è lo psicologo scolastico il responsabile del coordinamento fra le varie figure che si occupano del benessere mentale degli studenti: psicologi, psichiatri, consulenti scolastici, assistenti sociali, infermieri, insegnanti e presidi. Il loro contributo nel complesso si concretizza in un programma integrato di salute mentale che generalmente ogni scuola sarebbe tenuta a stilare. Ma gli psicologi scolastici sono anche chiamati a fornire consulenza individuale agli studenti con disagi mentali o comportamentali e a certificare gli studenti con disabilità dello sviluppo e dell’apprendimento, che potrebbero aver bisogno di un piano educativo speciale (PEI).
Negli ultimi anni la pianificazione a lungo termine del programma di salute mentale è diventata sempre più difficile, poiché gli psicologi scolastici hanno dovuto occuparsi soprattutto di gestire il fiume di certificazioni necessarie agli studenti per ricevere il supporto di cui hanno bisogno, come stabilito dalla legge sull’istruzione dei disabili del 1975. Si tratta di una serie di test per determinare se un bambino ha un disturbo dell’apprendimento o una condizione di salute fisica o mentale che richiede un piano educativo speciale.
Questa situazione è aggravata dallo scarso numero di psicologici scolastici disponibili nel Paese. La maggior parte degli Stati non soddisfa gli standard nazionali che stabiliscono il numero di studenti che devono essere seguiti da professionisti, inclusi psicologi scolastici, consulenti e assistenti sociali. Secondo l’America’s School Mental Health Report Card, pubblicata a febbraio da una coalizione di organizzazioni che lavorano nel campo della salute mentale, solo l’Idaho e il Distretto di Columbia soddisfano il rapporto raccomandato di uno psicologo scolastico ogni 500 studenti. In fondo alla lista si trovano le scuole della Georgia, con solo uno psicologo ogni 6.390 studenti. Analogamente, quasi in nessuno Stato vi è un assistente sociale ogni 250 studenti, come invece dovrebbe essere.
Nuovi finanziamenti
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Per affrontare questa difficile situazione, l’amministrazione Biden-Harris si è posta l’obiettivo di raddoppiare il numero di professionisti della salute mentale nelle scuole, e nell’ottobre 2022 il Dipartimento dell’Istruzione, attraverso il Bipartisan Safer Communities Act (BSCA), ha stanziato 280 milioni di dollari a questo scopo. Ma è solo l’inizio, perché il programma quinquennale prevede l’erogazione di ben un miliardo di dollari, soldi che serviranno ad assumere professionisti della salute mentale accreditati nelle scuole e a rafforzare la collaborazione fra istituti scolastici e università, in modo da formare al più presto altro personale qualificato. Sono fondi che si sommano a quelli federali per gli aiuti contro la pandemia già stanziati nel 2021 e destinati all’istruzione e alla sanità, secondo il programma Elementary and Secondary School Emergency Relief Fund (ESSER): ben 190 miliardi di dollari.
Nuove leggi
Oltre allo stanziamento di quest’enorme quantità di fondi, nuove leggi statali tentano di migliorare la salute mentale degli studenti e prevenire i suicidi tra adolescenti. Dall’inizio della pandemia, 38 Stati hanno emanato quasi 100 leggi ad hoc, con un impressionante aumento dell’attività legislativa rispetto agli anni precedenti. E l’obiettivo centrale di questi provvedimenti risiede quasi sempre nell’incrementare la professionalità di tutte le figure che operano nel mondo della scuola. Almeno sedici Stati, dall’Alaska al Massachusetts al Distretto di Columbia, oggi chiedono di seguire corsi di formazione su come riconoscere il disagio mentale negli studenti, e come intervenire una volta individuato – corsi rivolti non solo agli insegnanti di scuola primaria e secondaria, ma anche a tutto il personale scolastico, compresi i bidelli, gli autisti di scuolabus, gli agenti di sicurezza e gli addetti alla mensa. California, Connecticut, Illinois, Kentucky, Rhode Island, Utah e Washington hanno emanato provvedimenti che raccomandano agli studenti delle scuole superiori di seguire corsi di formazione sulla salute mentale in modo da aiutare i loro amici, i familiari e i compagni di classe.
Altre leggi di recente emanazione puntano a inserire le discussioni sulla salute mentale nella routine scolastica quotidiana: le scuole di New York, ad esempio, hanno stabilito che ogni mattina, per cinque minuti, gli insegnanti debbano confrontarsi con gli studenti sul loro stato d’animo. E in Illinois dal gennaio 2022 gli studenti di età compresa tra 6 e 17 anni hanno cinque giorni all’anno di assenza giustificata per tutelare la propria salute mentale.
La crescente domanda di professionalizzazione è testimoniata dal crescente numero (+17,5%
malessere dei giovani USA
nell’ultimo anno) di scuole primarie e secondarie che si iscrivono a uno dei programmi di formazione sulla salute mentale più conosciuti, il Mental Health First Aid (Pronto soccorso sulla salute mentale)7, un corso di circa 32 ore sviluppato in Australia e adottato negli Stati Uniti a partire dal 2008. Dal 2002 circa un milione di insegnanti e genitori e più di 125.000 studenti lo hanno completato.
Prevenzione o medicalizzazione?
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Nonostante nell’opinione pubblica e in ambito politico la crisi della salute mentale dei giovani sia ormai considerata un dato di fatto oggettivo, non mancano
alcuni pareri critici, soprattutto nei confronti dell’approccio con cui si cerca di mitigarla. Queste posizioni non negano l’aumento del disagio giovanile, ma argomentano che sentimenti di ansia e tristezza possono essere reazioni del tutto normali in circostanze difficili, come il recente lockdown, e non dovrebbero essere considerati tout court come sintomi di una cattiva salute mentale. Denunciano inoltre un’eccessiva medicalizzazione della salute mentale, ossia il suo essere inquadrata esclusivamente o principalmente come un problema sanitario. La medicalizzazione si soffermerebbe sull’individuo come corpo biologico, trascurando completamente le condizioni sistemi-
che e i fattori infrastrutturali che concorrono al benessere o al malessere psichico degli individui, come riconoscono la psicologia e la psichiatria. Alcuni sottolineano come i più rilevanti fattori predittivi della salute mentale sono gli indici di sicurezza economica: fattori di stress cronico come la povertà, la violenza e la discriminazione intensificano la possibilità che un individuo sviluppi disturbi, dalla depressione alla schizofrenia. Medicalizzare la salute mentale, concludono, non è quindi una buona strategia se l’obiettivo è affrontare la causa sottostante all’aumento del malessere psichico giovanile; tuttavia funziona davvero bene se si cerca una soluzione rapida e a effetto, se si vuole segnalare che si sta facendo qualcosa per affrontare il problema.
NOTE
1. Consultabile all’indirizzo https:// www.hhs.gov/sites/default/files/ surgeon-general-youth-mental-health-advisory.pdf.
2. Dati reperibili all’indirizzo https://www.cdc.gov/healthyyouth/ data/yrbs/pdf/YRBSDataSummaryTrendsReport2019-508.pdf.
3. Ibidem
4. Ibidem.
5. Dati riportati nel documento consultabile all’indirizzo https://www. cdc.gov/nchs/data/vsrr/VSRR016. pdf?utm_source=newsletter&utmedium=email&utm_campaign=newsletter_axiosvitals&stream=top.
6. Il dato si può reperire all’indirizzo https://nces.ed.gov/whatsnew/ press_releases/05_31_2022_2.asp. 7. https://www.mentalhealthfirstaid.org/.
Francesca Nicola
è antropologa culturale e redattrice de «La ricerca»
La scuola non può diventare un ospedale
Il governo inglese ha elaborato un piano per fare delle scuole il luogo di primo intervento nella lotta contro il crescente malessere psicologico dei giovani. Ma è giusto che agli insegnanti siano affidati compiti di tipo clinico? Non potrebbe rivelarsi addirittura pericoloso? E non è poi la scuola stessa a essere sempre più fonte di stress?
di Jonathan Glazzard e Samuel Stones
Le statistiche suggeriscono che nel Regno Unito circa 850.000 bambini e giovani hanno un problema legato alla salute mentale clinicamente diagnosticato, ossia accertato da un operatore sanitario sulla base di criteri concordati.
Il problema riguarda quindi un giovane su dieci, ma la sua incidenza dipende molto dall’età e dal genere, sia perché essa aumenta man mano che i bambini entrano nell’adolescenza, sia perché le ragazze hanno più probabilità di provare ansia e depressione rispetto ai ragazzi, i quali invece tendono maggiormente a manifestare disturbi della condotta.
Inoltre, l’evidenza statistica suggerisce che i giovani che vivono in comunità protette, scarsamente scolarizzati, senza lavoro o una formazione adeguata e che si identificano come gay, lesbiche, bisessuali e trans sono maggiormente a rischio di
sviluppare disturbi mentali. Questi problemi non sono certo presenti solo nel Regno Unito, dato che sono diffusi a livello globale.
Tuttavia, nel Regno Unito la de-stigmatizzazione della salute mentale avvenuta negli ultimi anni, insieme a una maggiore consapevolezza su questo tema, hanno prodotto un forte aumento delle diagnosi e il conseguente diffondersi di una narrazione incentrata sul concetto di “crisi”. […]
La politica della salute mentale in Inghilterra
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I dati qui sopra riportati sono tratti da un importante testo, Transforming Children and Young People’s Mental Health Provision (DfE/DoH, Department for Education/Department of Health, 2017), meglio noto come Libro verde, edito dal governo nel 2017 per presentare la sua strategia quinquennale riguardo alla
salute mentale dei giovani. La pubblicazione è stata salutata con entusiasmo, perché ha sancito l’impegno dell’esecutivo nei confronti della “crisi” della salute mentale delle nuove generazioni. Il Primo Ministro dell’epoca, Theresa May, aveva definito il problema «una delle ingiustizie brucianti del nostro tempo»; e il Libro verde ha rappresentato un serio tentativo di affrontarla.
I tre pilastri del Libro verde
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Per affrontare la crisi della salute mentale dei giovani, il Libro verde delinea un triplice approccio. In primo luogo prevede l’introduzione in tutte le scuole di una nuova figura professionale, i dirigenti senior, appositamente designati a occuparsi di salute mentale. È una dimostrazione della determinazione nel voler garantire che gli interventi nelle scuole siano guidati e gestiti in modo appropriato.
DOSSIER
La scuola non può diventare un ospedale
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La scuola nella grotta nel villaggio di Miao, in provincia di Guizhou, Cina (foto traveldudes.com)
In secondo luogo prevede di introdurre in tutte le scuole un team di supporto medico alla salute mentale, formato da professionisti sanitari capaci di lavorare a stretto contatto con gli insegnanti, fornendo loro interventi clinici a basso livello di intervento, come la consulenza o la terapia cognitivo comportamentale (CBT).
L’obiettivo è garantire che i giovani ricevano un rapido intervento clinico in un contesto non clinico, riducendo così le lunghe liste di attesa per accedere al servizio sanitario nazionale. Questa strategia è attualmente in fase di attuazione attraverso l’introduzione di corsi di formazione professionale per «operatori dell’educazione e della salute mentale». […]
Il terzo e ultimo punto del Libro verde si occupa dei bambini e dei giovani con problemi di salute mentale persistenti e gravi, per i quali si delineano percorsi facilitati nell’accedere alle cure offerte dal servizio sanitario nazionale.
Un ruolo ancora più centrale per le scuole
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Questa politica è stata un passo coraggioso nella giusta direzione. Ha sottolineato l’impegno del governo verso la salute mentale e ha riconosciuto il ruolo che scuole e università hanno già svolto nel sostenere il benessere dei giovani. Tuttavia si basa sull’idea che queste, le scuole e le università, possano assumere un ruolo ancora più decisivo, come si afferma nel Libro Verde: «Sulla base delle pratiche diffuse nel settore educativo e di una revisione sistematica della letteratura sui modi migliori per promuovere la salute mentale dei giovani, vogliamo mettere le scuole e le università al centro dei nostri sforzi per intervenire velocemente e prevenire problemi in aumento» (DfE/DoH, 2017).
Ebbene, è discutibile l’idea che le scuole debbano essere obbligate a colmare le lacune del servizio sanitario nazionale, estendendo il loro mandato dal campo dell’istruzione a quello della salute e
dell’assistenza sociale, cosa che del resto nel Regno Unito, negli ultimi anni sono state sempre più spesso chiamate a fare. Si consideri poi che, proprio nello stesso periodo in cui hanno dovuto assumersi questi nuovi compiti. Contemporaneamente, le scuole hanno dovuto operare all’interno di un rigido regime di accountability (Glazzard, 2019) in base al quale l’efficacia scolastica è stata misurata esclusivamente misurando il rendimento, prima di tutto i risultati degli esami e dei test (Glazzard, 2013). Le scuole e gli insegnanti sono tenuti non solo ad aumentare gli standard accademici, ma anche a proteggere i giovani dai danni psicologici di questo stesso sistema in cui sono inseriti.
Una riconcettualizzazione del ruolo dell’insegnante e della scuola è necessaria, perché il lavoro seminale di Maslow ha evidenziato come gli studenti non possano apprendere in modo efficace se i loro bisogni psicofisici non sono tutelati (Maslow, 1943) e ricerche più recenti han-
no evidenziato che i bambini non possono avere successo a scuola se hanno problemi di salute mentale (Kieling et al.,2011).
Ma affrontare la malattia mentale nelle scuole attraverso interventi clinici non garantirà necessariamente che questi non soffrano di malattie mentali, dato che trascorrono la parte maggiore del loro tempo in case e comunità che possono essere all’origine dei loro problemi. Inoltre, è importante ricordare che il ruolo principale delle scuole è quello di educare la prossima generazione. Sembra ironico che, oltre a sostenere il benessere dei bambini, si chieda loro di elaborare curriculum ristretti (limitato a un nucleo essenziale di saperi e competenze linguistiche, logico-matematiche e tecnologiche, N.d.T) che sottopongono i ragazzi a continui test ed esami, una pressione che può avere un impatto negativo sulla salute mentale.
Le scuole si trovano quindi in una situazione paradossale. Sono tenute a sostenere il benessere psichico dei bambini e allo stesso tempo sottopongono i giovani ad approcci pedagogi-
ci che possono avere un effetto negativo. […]
Oltre agli interventi clinici, è necessaria una risposta sistemica, che deve includere un ampliamento del curriculum e un modello di valutazione più inclusivo che consenta a tutti gli studenti di sperimentare il successo scolastico. Inoltre, le scuole dovrebbero dare priorità allo sviluppo di culture scolastiche sane che generino un senso di appartenenza e che affermino positivamente la differenza. In assenza di una risposta sistemica, continueranno a produrre anziché risolvere i problemi di salute mentale.
Il ruolo degli insegnanti
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Gli insegnanti non sono professionisti della salute. Sono prima di tutto educatori. Fornire loro una formazione per aiutarli a identificare in modo più efficace i bambini e i giovani con bisogni di salute mentale potrebbe essere irresponsabile e potenzialmente pericoloso. Gli insegnanti non sono qualificati per fare diagnosi psichiatriche o psicologiche, e d’altra parte
hanno un’enorme responsabilità, perché nel momento in cui identificano precocemente un problema legato alla salute mentale incanalano il bambino in un percorso che presumibilmente porterà a una diagnosi. Le etichette possono avere un effetto negativo sul senso di sé dei giovani e gli effetti negativi di etichette percepite come negative possono durare tutta la vita.
Vedere i bambini attraverso la lente di un’etichetta può essere particolarmente dannoso, e perfino l’inserimento dei bambini in programmi di intervento clinico a sostegno della salute mentale può essere rischioso, se non viene fatto da una persona che abbia la preparazione necessaria per farlo. […]
I punti critici del Libro Verde
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Il Libro verde (DfE/DoH, 2017), contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, non offre mai una definizione di salute mentale. Dal nostro punto di vista, questa va pensata come un attributo dinamico che si muove lungo
↓ Una delle 400 scuole galleggianti presenti nelle aree rurali del Bangladesh (foto shidhulai.org).
DOSSIER / La scuola non può diventare un ospedale
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La scuola sul binario della stazione di Cuttack, India (foto Wikicommons).
N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
ricerca
un continuum che va dall’essere mentalmente sani all’essere malati. In tutto il documento ci sono invece numerosi riferimenti che concettualizzano la salute mentale come un “problema”. Ma inquadrare in questo modo la salute mentale aumenta lo stigma ad essa associato.
Come abbiamo detto, poi, l’approccio adottato dal governo riflette un modello medico di
Approfondire
• DfE/DoH, Transforming children and young people’s mental health provision: a green paper, 2017.
• C. Kieling, H. Baker-Henningham, M. Belfer, G. Conti, I. Ertem, O. Omigbodun, et al., Child and adolescent mental health worldwide: evidence for action, in «Lancet», 2011, 378 (9801).
• J. Glazzard, A critical interrogation of the contemporary discourses associated with inclusive education in England, in «Journal of Research in Special Education Needs», 2013, 13 (30), pp. 182–188.
• J. Glazzard, A whole-school approach to supporting children and young people’s mental health, in «Journal of Public Mental Health», 2019, 18 (94), pp. 256–265.
salute che è profondamente problematico, perché sposta l’attenzione sui deficit individuali e la distoglie dai fattori sistemici più ampi che contribuiscono a creare o ad aggravare il malessere psichico degli individui. Dimostra una mancanza di comprensione dell’interazione tra fattori biologici, sociali e psicologici (il modello biopsicosociale della salute) che si traduce nei disturbi mentali. […]
Piuttosto, il governo dovrebbe affrontare urgentemente i fattori sociali e ambientali che causano problemi di salute mentale nei bambini e nei giovani: misure urgenti per affrontare la povertà, gli abusi sui minori e le interazioni disfunzionali tra genitori e figli. Inoltre, il governo dovrebbe, con urgenza, rivedere l’offerta curricolare nelle scuole in modo che gli studenti abbiano l’opportunità di accedere a un curricolo ampio, equilibrato e ricco. Dato il legame tra attività fisica e salute mentale, i dirigenti scolastici dovrebbero poi garantire che tutti i ragazzi abbiano accesso a un’educazione fisica inclusiva e a un programma di salute mentale che li aiuti a sviluppare un’alfabetizzazione minima sulla salute mentale. Infine, il governo dovrebbe intraprendere un’azione
urgente per affrontare gli effetti dello stress legato agli esami, sviluppando un approccio alla valutazione che offra ai giovani una varietà di modalità di valutazione. I ragazzini delle scuole primarie dovrebbero avere l’opportunità di testare i loro talenti in una gamma più ampia di materie, in modo che non inizino la loro istruzione secondaria con una bassa autostima e una scarsa fiducia. È molto probabile che un modello clinico di intervento che opera solo a livello dell’individuo sia inefficace se non considera questi fattori sistemici.
Tratto da: J. Glazzard, S. Stones (2021), Supporting Young People’s Mental Health: Reconceptualizing the Role of Schools or a Step Too far?, POLICY BRIEF of Frontiers in «Education», Vol.5, 2021. Traduzione di Francesca Nicola.
Jonathan Glazzard
insegna Inlcusive Education alla Carnegie School of Education presso la Leeds Beckett University, in Gran Bretagna.
Samuel Stones
insegna alla Carnegie School of Education presso la Leeds Beckett University, in Gran Bretagna.
L’eco-ansia: una nuova forma di malessere, soprattutto giovanile
In tutto il mondo i giovani sono in prima linea nella lotta contro i cambiamenti climatici. Ma la paura di diventare adulti in un mondo malato provoca crescenti sentimenti di ansia, rabbia e depressione.
Diversi ricercatori, tra cui Berry et al. (2010), hanno proposto di distinguere fra tre diversi tipi di impatto dei cambiamenti climatici sulla salute mentale: diretti, indiretti e vicari. Assumendo tale schema, va notato che la maggior parte della ricerca scientifica si è concentrata sui primi, ossia quelli che si verificano dopo un evento meteorologico estremo, come un’alluvione, un terremoto o un uragano. Queste gravi interruzioni della vita quotidiana, infatti, possono favorire l’insorgenza di disturbi da stress post-traumatico (PTSD), o forme di depressione, ansia, abuso di droghe e pensieri suicidi. Anche gli impatti indiretti dei cambiamenti climatici possono influenzare la salute mentale, per via del loro effetto sull’economia, sulle migrazioni, sulle infrastrutture sociali,sulla carenza di cibo e acqua e sui conflitti; tutti fenomeni collegabili a stress, dolore, ansia e depressione (Akresh, 2016).
Tuttavia un numero crescente di individui sperimenta una sensazione di angoscia legata alla crisi ambientale globale anche senza subirne gli effetti diretti o indiretti (Pihkala, 2018). In altre parole, anche solo conoscere le conseguenze dei cambiamenti climatici attraverso i media e altre fonti di informazione, senza pure averne una esperienza in prima persona, può avere un impatto sulla salute mentale. Sul tema delle reazioni vicarie ai cambiamenti climatici vi è meno ricerca scientifica, ma gli studiosi riferiscono che sempre più persone si sentono sopraffatte, sperimentano attacchi di panico, insonnia o pensieri ossessivi (Clayton et al., 2017). La consapevolezza dei cambiamenti climatici e delle loro conseguenze può suscitare emozioni diverse, inclusi senso di colpa, tristezza e rabbia, e tutte concorrono a costituire quella che può essere definita “eco-ansia” (Pihkala, 2020). L’American Psychological Association (APA) la descrive
come la “paura cronica di una catastrofe ambientale”.
Una definizione ampia
I ricercatori riconoscono che un livello basso di ansia e di coinvolgimento emotivo di fronte ai cambiamenti climatici è una risposta normale a una realtà stressante (Reser e Swim, 2011). Per questo non esiste una diagnosi vera e propria di eco-ansia, e tale condizione non è considerata ufficialmente una patologia a tutti gli effetti. Tuttavia, come già detto, è indubbio che un numero crescente di persone sperimenta forme depressive e sintomi ansiosi in connessione alle sorti della Terra (Jones et al., 2012). Alcuni ricercatori hanno quindi suggerito l’opportunità di articolare il concetto di eco-ansia lungo uno spettro: da un lato le forti emozioni possono portare all’azione e alla mobilitazione, consentendo di cambiare le proprie abitudini e di aiutare il pianeta; dall’altro, l’eco-ansia
L’eco-ansia: una nuova forma di malessere, soprattutto giovanile
può portare a una paralisi di fronte all’immensità del problema ecologico (Wolf e Moser,2011) e alla sua negazione (Albrecht et al., 2007). Le persone si muovono lungo questo spettro a seconda di diversi fattori, comprese le loro risorse emotive,la rete di supporto sociale che hanno a disposizione, e il contesto globale in cui agiscono (Berry et al., 2010). […]
L’eco-ansia fra i giovani
2005). Una preoccupazione per il futuro del pianeta può portare a disperazione e pessimismo, a volte alla paura (Huang e Yore, 2005), alla rabbia (Huang e Yore, 2005), a uno stato generale di ansia (Ojala, 2012b), o addirittura a veri e propri attacchi di panico (Plautz, 2020).
Tre strategie per affrontare i cambiamenti climatici
negli adolescenti e nei giovani adulti è il distanziamento emotivo (focalizzata sulle emozioni). Tuttavia, per incoraggiare la speranza, il meccanismo più efficiente è la strategia legata al significato, perché attiva emozioni positive senza ignorare quelle negative, una combinazione che ha effetti generali positivi e che genera comportamenti pro-ambiente (Ojala, 2012b). […]
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DOSSIER / L’eco-ansia: una nuova forma di malessere, soprattutto giovanile
Una letteratura specialistica sta rapidamente emergendo sull’eco-ansia negli adulti, ma si sa molto poco su come i giovani e i bambini vivono la consapevolezza dei cambiamenti climatici; di certo stanno crescendo in un mondo incerto, dove messaggi apocalittici sul clima e sull’ambiente dominano il discorso pubblico e i media (Engelhaupt, 2017). In Australia un’indagine su 600 giovani tra i 10 ei 14 anni ha rivelato che il 44% è preoccupato e che un quarto ha paura che il mondo finisca prima di invecchiare (Tucci et al., 2007).
Avere consapevolezza dei cambiamenti climatici senza acquisire gli strumenti per far fronte alle emozioni che accompagnano questa conoscenza può portare alla disperazione (Ojala, 2012b). Non a caso, mentre l’informazione sui mutamenti climatici in atto sembra bassa tra i giovani, il loro livello di preoccupazione e ansia appare piuttosto alto (Erkal et al., 2012). Molti indicatori suggeriscono infatti che i ragazzi sperimentano l’eco-ansia. Diversi autori rilevano fra loro sentimenti diffusi di preoccupazione per le sorti dei giovani di altri Paesi che già stanno subendo l’impatto diretto del disastro climatico (Burke et al.,2018).Per alcuni,poi, questa preoccupazione riguarda il loro stesso futuro, in particolare riguardo alla diminuzione della biodiversità, l’aumento dell’inquinamento, e nei casi più estremi la fine del mondo e della vita sulla Terra (Huang e Yore,
La lettura a disposizione indica che, parallelamente a questi sentimenti, i giovani elaborano anche un senso di speranza rispetto ai cambiamenti climatici. Due studi hanno scoperto che preoccupazione e speranza sono positivamente correlati (Stevenson e Peterson, 2016), e che la fiducia nel futuro va di pari passo con l’azione (Ojala, 2012a). Un elemento chiave della letteratura è infatti il modo in cui i giovani affrontano il cambiamento climatico. Nei suoi articoli, Ojala (2013) esplora tre loro diverse strategie di coping (i meccanismi che le persone utilizzano per fronteggiare i problemi):
1) le strategie focalizzate sul problema: si cerca attivamente di fare qualcosa per cambiare le cose intraprendendo azioni concrete, come studiare più approfonditamente la questione, cercare informazioni e agire;
2) strategie focalizzate sulle emozioni: ci si sbarazza dei sentimenti negativi prodotti dal problema, de-enfatizzando il pericolo, negandolo, prendendone le distanze attraverso la distrazione e l’evitamento, cercando supporto sociale o iper-attivando le emozioni;
3) strategie legate al significato: si evocano emozioni positive pur riconoscendo il problema e si trova un significato anche se esso non può essere risolto immediatamente,ad esempio riformulandolo in modo positivo. Sulla base di questo schema, Ojala (2012a) ha scoperto che la strategia più comune nei bambini,
In conclusione, i fattori che determinano l’aumento dell’eco-ansia includono: essere una ragazza (Stevenson e Peterson, 2016), non avere la possibilità di agire (Pinto e Grove-White, 2020), avere un forte legame con la natura o con la terra, come accade ad esempio nelle comunità indigene (Chalupka et al., 2020), ritenere che le risposte del governo siano del tutto insoddisfacenti (Hickman et al., 2021). Al contrario, i fattori che favoriscono la speranza nei giovani sono: avere un’adeguata capacità di agency (l’agire autonomamente in situazioni specifiche e prendere decisioni proprie, N.d.T.) (Sobel, 2007), avere fiducia nel progresso tecnologico (Strife, 2012), avere uno scopo esistenziale, essere coinvolti nell’attivismo (Burke et al., 2018) e affrontare i problemi climatici con strategie incentrate sul significato (Ojala, 2012a, b, 2013).
Il ruolo dei genitori
Anche se non sempre si sentono sufficientemente preparati sul tema, i genitori hanno un ruolo significativo nel plasmare il rapporto dei ragazzi con i cambiamenti climatici. Taylor e Murray (2020) danno questi suggerimenti su come discutere e affrontare l’argomento con i propri figli in modo da minimizzare il rischio che sviluppino forme di malessere psicologico:
1) dare loro l’opportunità di condividere apertamente le loro emozioni e preoccupazioni;
2) convalidarne le emozioni e i sentimenti senza minimizzarli;
3) bilanciare le informazioni negative con quelle positive; più nello specifico, per ogni informazione negativa proporne tre positive;
4) quando si coinvolgono i bambini più piccoli, focalizzarsi sulla dimensione locale e su gesti tangibili;
5) trovare obiettivi raggiungibili e completarli come famiglia. Alcuni di questi comportamenti sono raccomandati da alcuni autori anche agli insegnanti e agli educatori. Ad esempio, Ojala (2012a) suggerisce che anche gli insegnanti si prendano il tempo necessario per convalidare le emozioni dei loro studenti riguardo ai cambiamenti climatici, e che forniscano loro uno spazio sicuro per condividere apertamente il loro sentimenti. […]
Il difficile compito di insegnanti ed educatori
Altri autori consigliano agli insegnanti di formulare alcune considerazioni prima di avviare discussioni in classe sui cambiamenti climatici. Ad esempio, Zummo et al. (2020) raccomandano di considerare il background dei loro studenti e l’attualità del contesto sociopolitico. Stevenson e Peterson (2016) sottolineano l’importanza dello status socioeconomico (SES) degli studenti, poiché è stata riscontrata un’associazione tra quest’ultimo e i comportamenti pro-ambiente.
Per quanto riguarda il materiale didattico bisognerebbe utilizzare una letteratura accuratamente selezionata; è poi importante usare diverse risorse per instaurare un dialogo con i pensieri e le idee degli studenti (Boggs et al., 2016). Inoltre, diversi autori raccomandano di agire, ossia di dare agli studenti l’opportunità di trovare modi concreti per fare qualcosa, anche di piccolo, per salvaguardare l’ambiente (Ojala, 2013). Come Sobel (2007) sottolinea, questo
senso di agentività (agency) può rafforzare la responsabilità dei ragazzi. Li e Monroe (2019) ricordano l’importanza che i bambini e gli adolescenti sentano che nel loro piccolo stanno facendo la differenza, in quanto la preoccupazione, priva di qualsiasi forma di azione, può portare al disimpegno. Avere un senso di agency e di controllo sul problema è un fattore che tutela la salute mentale dei ragazzi (Ojala, 2013).
Inoltre può essere utile insegnare agli studenti a impegnarsi in comportamenti pro ambiente prima di introdurli alla conoscenza teorica del problema, dal momento che la sola conoscenza può diventare emotivamente schiacciante e non efficace nel promuovere l’azione (Sobel, 2007).
Diversi autori entrano nello specifico suggerendo addirittura quali azioni suggerire ai ragazzi, ad esempio andare in bicicletta a scuola, acquistare etichette ecologiche e prodotti biodegradabili. Tuttavia, secondo Pinto e Grove-White (2020), questi comportamenti virtuosi dovrebbero essere formulati dagli studenti stessi.
Si consiglia infine agli insegnanti di mettere l’accento sull’importanza dell’azione collettiva, piuttosto che individuale e di improntare le discussioni in aula alla ricerca di una soluzione. Allo stesso tempo,si sconsiglia di adottare un punto di vista tecno-centrico, ossia basato sull’idea che i problemi ambientali possono essere risolti esclusivamente attraverso l’uso di nuove tecnologie. Piuttosto, sarebbe opportuno esplorare anche gli aspetti etici, morali, politici e le dimensioni sociali dei cambiamenti climatici.
L’obiettivo è promuovere un equilibrio fra consapevolezza ambientale e speranza costruttiva, fra realismo e ottimismo, poiché questi approcci «aiutano i ragazzi a sviluppare fiducia non solo in sé stessi come attori ambientali, ma anche all’uma-
nità in generale: forniscono una speranza» (Ratinen e Uusiautti, 2020).
Tratto da: T. Léger-Goodes, C. Malboeuf-Hurtubise, T. Mastine, M. Généreux, P.-O. Paradis, C. Camden, Eco-anxiety in children: A scoping review of the mental health impacts of the awareness of climate change, in «Frontiers in Psychology», 13, 2022.
La bibliografia di questo articolo sarà pubblicata nella versione online sul sito laricerca. loescher.it. Traduzione di Francesca Nicola.
Terra Léger-Goodes insegna presso il Dipartimento di Psicologia della Bishop’s University, Sherbrooke, Canada.
Catherine Malboeuf-Hurtu insegna presso la Facoltà di Medicina e Scienze della Salute della Università di Sherbrooke, Canada.
Trinity Mastine insegna alla School of Communication Sciences and Disorders, McGill University, Montreal, Canada.
Mélissa Généreux insegna presso l’Institut universitaire de première ligne en santé et services sociaux del Centre intégré universitaire de santé et services sociaux de l’Estrie, Sherbrooke, Canada.
Pier-Olivier Paradis insegna presso il Dipartimento di Psicologia della Università di Sherbrooke, Canada.
Chantal Camden insegna presso la Facoltà di Medicina e Scienze della Salute della Università di Sherbrooke, Canada.
DOSSIER / L’eco-ansia: una nuova forma di malessere, soprattutto giovanile
SCUOLA / Scuola uguale casa, comunità, cura
Scuola uguale casa, comunità, cura
La crisi pandemica ha lasciato come eredità alla scuola una serie di domande estremamente complesse e per certi versi radicali, che vanno ben al di là del «didattica digitale integrata sì o no»: riguardano questioni di fondo come il senso stesso dei processi formativi nell’attuale contesto storico e la relazione che questi contesti hanno con i loro “abitanti/fruitori”, ovvero gli studenti.
di Aluisi Tosolini
La “questione scuola” è oggi così cruciale, a livello mondiale, che nei giorni 16, 17 e 19 settembre 2022 si è tenuto all’ONU,prima della annuale assemblea generale, un summit 1 dedicato a come trasformare l’educazione, il TES, Transforming Education Summit, che ha indicato cinque snodi problematici e altrettante linee d’azione (action track):
1. scuole inclusive, eque, sicure e sane;
2. apprendimento e competenze per la vita, il lavoro e lo sviluppo sostenibile;
SCUOLA / Scuola uguale casa, comunità, cura
3. insegnanti e professione docente; 4. apprendimento e trasformazione digitale;
5. finanziamento dell’istruzione. Al summit è stata inoltre presentata la Dichiarazione dei giovani sulla trasformazione dell’educazione, che costituisce un interessantissimo repertorio di problemi e di richieste ai decisori politici in ordine alle sfide del sistema formativo mondiale2 , oltre a rappresentare un diretto impegno da parte dei giovani a essere parte propositiva e attiva nella realizzazione dell’obiettivo 4 dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile.
Il summit costituisce una prosecuzione delle azioni connesse al rapporto UNESCO, presentato nel novembre 2021, intitolato Reimagining our Future together: A new social Contract for Education 3. Un rapporto che già nelle parole chiave “reimmaginare”, “futuro”, “assieme”, “contratto” delinea quelli che dovrebbero essere gli elementi costitutivi della nuova stagione.
E, tra questi, la centralità dei soggetti che vivono i processi educativi, ovvero i ragazzi e le ragazze chiamati a essere essi stessi, in primo luogo, i changemaker4 della scuola e della società.
Quale benessere —
Un’altra problematica emersa con forza dal periodo segnato dal COVID-19 è la centralità della questione del benessere a scuola.
Tutte le ricerche hanno infatti evidenziato – e non solo a livello scolastico – un significativo aumento del malessere da parte di ragazzi e ragazze, ma anche di docenti e personale.
(in famiglia, in primo luogo), ma è ovvio che esso “entri” poi a scuola e incida sul contesto relazionale e organizzativo dell’istituzione stessa.
La scuola come casa —
Nella mia esperienza5, l’elemento chiave dello star bene a scuola è la consapevolezza o meno, da parte degli studenti, di sentirsi a casa. Ovvero quanto vivono la propria scuola come “casa”, come spazio comune in cui crescere.
E ciò riguarda sia la scuola come edificio, ambiente e spazio di apprendimento, sia come luogo di relazioni e di costruzione della propria identità personale e sociale, spazio culturale (scuola come intellettuale sociale), come punto di connessione con il territorio, come luogo in cui esercitare diritti e competenze, oltre ad assumere responsabilità verso i doveri connessi ai diritti, come luogo nel quale si apprende a negoziare regole e ruoli.
In sostanza, un luogo nel quale si è protagonisti in prima persona piuttosto che semplici punti terminali del processo di trasmissione di saperi decisi da altri e “insegnati” in modalità spesso puramente “gentiliana”.
La ricerca / N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
Il “bonus psicologo” non ha fatto altro che certificare l’esistenza di una situazione di disagio e malessere estremamente diffusi a livello sociale, e quindi anche a scuola.
A livello di istituzione scolastica, il benessere riguarda almeno tre diversi ambiti tra loro connessi:
1. benessere organizzativo;
2.benessere relazionale (all’interno della istituzione);
3. benessere individuale.
Si tratta, con tutta evidenza, di situazioni tra loro diverse, che si intrecciano con la più ampia relazione “dentro/fuori” la scuola. Ad esempio, il disagio o il malessere individuale può trovare le sue origini anche fuori dal contesto educativo
In realtà, nulla o quasi di tutto ciò è nuovo, se si tiene a mente la lezione di Dewey e dell’attivismo pedagogico di cui si è appena celebrato il centenario del primo congresso della Lega Internazionale per la Nuova Educazione (LIEN) creata nel 1921 a Calais. Riandare ai 30 punti che Ferrière pubblicò6 come sintesi della proposta dell’attivismo nel 1927 costituisce un bagno di umiltà, ed è la presa d’atto che in questi 100 anni ci sono state più retromarce che avanzamenti, anche sul versante della pedagogia e del concreto e quotidiano darsi della scuola. E lo stesso si può dire pensando a un altro centenario, quello della scuola democratica e libertaria di Summer Hill7 fondata nel 1921 da Alexander Sutherland.
Mettere al centro lo studente, slogan ripetuto come un mantra da tutti (o quasi) i docenti italiani e non, implica davvero un cambiamento della interazione educativa docente/studente e insegnamento/ apprendimento. Cambiamento che, occorre dirlo, è avvenuto solo in pochissime realtà in Italia: da noi gli studenti sono ancora troppo spesso oggetti da istruire anziché soggetti che creano cultura e che chiedono di essere accompagnati in que-
sto processo da educatori mentori, tutor, coach, nell’ambito di istituzioni capaci di essere il contesto in cui il processo fiorisce anziché la fabbrica tardo-moderna dell’istruzione di massa.
La scuola come comunità
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Star bene a scuola richiede la costruzione di una comunità. I termini “comunità educante”, “comunità di apprendimento”, “comunità di pratica” (cfr. Wenger) sono ormai usati come il prezzemolo, ma spesso si tratta di puro nominalismo che nasconde il nulla.
Costruire comunità richiede riconoscimento delle plurime alterità, secondo le logiche indicate da Judith Butler e dal pensiero femminista, e costruzione di uno spazio comune in cui esercitare la costruzione del sé nell’interazione con gli altri/le altre.
Scuola “casa” significa, nel concreto, che lo studente, in particolare alle superiori,può vivere la scuola (gli spazi,i tempi, l’offerta formativa) agendo in prima persona, come soggetto responsabile.
Si tratta di una scommessa, ad esempio, che implica la fruizione degli spazi senza che questi siano organizzati dagli adulti e strettamente vigilati dagli stessi. Fermarsi a scuola liberamente per studiare, organizzarsi, relazionarsi, confrontarsi dovrebbe essere una possibilità comune in tutti gli istituti, e invece solo pochissime scuole lo fanno: la maggior parte
resta bloccata più dalla mancanza di fiducia nella responsabilità degli studenti che dalla complessità organizzativa e dai possibili rischi derivanti dalla diminuita vigilanza.Il che,tristemente,ci restituisce un'immagine di istituzione scolastica il cui centro pare essere ancora il “disciplinarmento” di cui parla Foucault in Sorvegliare e punire.
Uno degli elementi cardine dell’essere comunità è poi costituto dalla centralità dei riti.
Recentemente il filosofo Byung-Chul Han ha dedicato un brevissimo e intenso saggio proprio alla sparizione dei riti evidenziando come «Il silenzio, il raccoglimento, il senso di sacralità necessari allo svolgimento del rito fondano un legame tra il sé e l’Esterno, tra il sé e l’Altro – i riti oggettivano il mondo, strutturano un rapporto con il mondo, creando una comunità anche senza comunicazione». Ed è estremamente interessante che, parlando di riti come elementi costituitivi di una società, Byung-Chul Han utilizzi un termine hegeliano, Einhausung , che significa “accasamento”. «I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa»8 Una bellissima definizione del processo educativo.
Scuola uguale casa, comunità, cura
SCUOLA / Scuola uguale casa, comunità, cura
↑ Rohayl Varind, fondatore della scuola notturna SLUM school, in Pakistan (foto Wikicommons).
Tra i riti più semplici ma potenti troviamo l’accoglienza, con il chiamare per nome a inizio percorso scolastico, la cerimonia di saluto e congedo al termine degli studi, ma anche il semplicissimo e quotidiano reciproco salutarsi guardandosi negli occhi 9 come esercizio di costruzione di relazioni di pace e accoglienza.
Il ruolo di adulti e istituzioni: la cura —
Gli adulti (docenti, dirigenti, famiglie) e le istituzioni (la scuola in quanto istituzione, gli enti locali, il ministero) sono chiamati a prendere atto di un elemento chiave delle relazioni umane: i processi formativi sono sempre un mettere al mondo il mondo, un mettere al mondo libertà.
NOTE
1. Un resoconto è disponibile all’indirizzo https://www.un.org/en/transforming-education-summit.
2. Il testo è disponibile all’indirizzo https:// www.un.org/sites/un2.un.org/files/2022/09/ tes_youthdeclaration_en.pdf.
3.Il rapporto è consultabile all’indirizzo https:// unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000379707.
4. Supportare scuole e studenti changemaker è il programma chiave, in Italia, della ONG Ashoka, che in pochi anni si è affermata a livello formativo come proposta di grande interesse e impatto. Si veda il loro sito, https:// www.ashoka.org/it-it.
5. Ho sintetizzato alcuni aspetti di quanto qui sostenuto nella presentazione dell’esperienza del Liceo “Attilio Bertolucci” in tempo di COVID-19. Si veda L’emergenza come opportunità di cambiamento. I percorsi di due scuole superiori in Iul Research 1/2020, reperibile all’indirizzo https://iulresearch.iuline.it/index.php/IULRES/article/view/46.
6. Il testo Caratteristica delle scuole nuove. Le 30 tesi fu pubblicato da Adolphe Ferrière sul n. 15 (aprile 1925) della rivista «Pour l’Ère Nouvelle», di cui era direttore.
7. Si veda https://alternativestoschool.com/ articles/democratic-schools/ e https://eudec. org/.
8. Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente,trad.it.di S.Aglan-Buttazzi, Nottetempo, Milano 2021, p. 11.
La ricerca / N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
Da Socrate in avanti, il maestro costruisce le condizioni di contesto entro le quali lo studente cresce e si forma. Lo stesso avviene per le istituzioni in quanto tali: esse non sono il futuro ma realizzazione le condizioni entro cui i nuovi soggetti possono costruire il presente/futuro come novità e non come ripetizione.
Le scuole e le istituzioni sono così chiamate a realizzare quella che Luigina Mortari chiama politica della cura10. Cura di sé, degli altri, delle istituzioni, della natura, del mondo. Cura che è sempre relazionale apertura all’alterità, all’inedito. Solo così sarà possibile – speriamo – una cultura e una società del bene-essere in cui ognuno e tutti possano sentirsi davvero a casa.
9. È estremamente sintomatico il fatto che il “salutarsi” sia stato inserito dalle Scuole di Pace come primo esercizio di pace, entro la proposta del quaderno Esercizi di Pace lanciata per l’anno scolastico 2022/23 dalla Rete Scuole di Pace.Cfr.http://www.lamiascuolaperlapace. it/. “Esercizio” – parola tipicamente scolastica – qui va inteso secondo le indicazioni che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha raccolto nel volume Devi cambiare la tua vita, trad. it. di S. Franchini, Raffaello Cortina, Milano 2010.
10. Si veda L. Mortari, La politica della cura. Prendere a cuore la vita,Raffaello Cortina,Milano 2021.
Aluisi Tosolini
filosofo, ha insegnato didattica presso l’università Cattolica di Piacenza e l’università di Parma. È stato dirigente scolastico del liceo “Attilio Bertolucci” di Parma, una delle scuole fondatrici con INDIRE di Avanguardie Educative. È coordinatore nazionale della Rete Scuole di Pace.
Hansel, Gretel e la strega cattiva
di Elena Rausa«Immaginate l’Insegnare e l’Imparare come un fratello e una sorella, un poco perduti nel bosco, come Hansel e Gretel nella fiaba, catturati dalla strega, l’Educazione, e sempre sul punto di essere divorati dall’insaziabile appetito di quella strega. L’intervento dell’Educazione sembra piuttosto ragionevole: mira a facilitare la serendipità della relazione rimuovendo la casualità e controllando il contingente. Soprattutto l’educazione esteriorizza e sistematizza la relazione nella “scuola” (istituzioni educative). Tenta di mettere in contatto i giusti (qualificati) insegnanti con i giusti (selezionati) allievi. Così l’insegnare e l’imparare divengono personificati in classi di persone: quelli che possono e quelli che non possono; quelli che sanno e quelli che non sanno. La vocazione innata diventa una professione accreditata. Il potere inevitabilmente fa seguito alla divisione in classi, che minaccia l’insegnare e l’imparare con la paura dell’“altro”. Gli insegnanti temono i loro studenti; gli studenti i loro insegnanti, minacciando l’educazione stessa e conducendola a definire il suo ruolo non tanto come uno strumento di agevolazione, ma come un’autorità impositiva. In questo modo l’educazione separa l’insegnare e l’imparare».
Sono le parole dello psicoanalista James Hillman, uno dei più interessanti pensatori del Novecento, allievo di Jung e fondatore della psicologia archetipica, tratte da una lettera che nel 2002 egli scrisse ai docenti italiani per un convegno internazionale dal titolo L’educazione e l’istruzione nel XXI secolo
Chi si prenderà il tempo di leggere per intero la lettera (gli estremi sono in bibliografia) comprenderà che Hillman non ripropone la ben nota antitesi tra un idealizzato e felicemente selvaggio stato di natura e le briglie coercitive della civiltà, piuttosto avverte il pericolo che la crescita individuale di chi impara sia sacrificata dagli obiettivi istituzionalizzati nell’Educazione: «Devi ricevere un’educazione, avere un’educazione, perché allora sarai più vendibile, servendo l’economia e alzando il Pil. [...] L’educazione come merce,come un investimento di capitale che serve alla competizione del libero mercato».
Che il sistema educativo si ponga tali obiettivi mi pare fuori discussione, meno certo è se riesca a raggiungerli e, soprattutto, quale sia il prezzo individuale e collettivo, se
↑
Un particolare dell'interno del Ecokid Kindergarten a Vinh, in Vietnam (foto Frame).
Quali sono gli obiettivi e i limiti del sistema educativo, soprattutto nell’intercettare istanze e bisogni di chi apprende? Una riflessione a partire da una lettera di James Hillman
un prezzo c’è. Qualcosa, avvertiva infatti Hillman vent’anni fa, «si sta ammalando nel cuore dell’educazione; è malata nel cuore, e questo cuore non può essere ristabilito con semplici esercizi di base o con una nuova dieta dell’anima, né questo cuore può essere sostituito da una macchina ad alta tecnologia».
lo studio può essere una sorta di terapia dello spirito, immaginativa e filosofica, e che nella dedizione a qualcosa si attende all’eudaimonía,termine greco che allude alla piena fioritura dell’essere, a una felicità che non esclude il dolore o la fatica ma li integra; ciò perché si è consapevoli di essere in compagnia di un dáimon (“demone, destino”) complessivamente favorevole.
SCUOLA / Hansel, Gretel e la strega cattiva
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Se togliamo alla parola cuore l’ombra di sentimentalismo che la connota, scopriamo una riflessione capace di interrogarci anche nelle contingenze di questi anni, tra pandemia, guerra alle porte dell’Europa, crisi economica, energetica e climatica mai altrettanto allarmanti. Nei momenti più critici, almeno nelle realtà più attrezzate del sistema scolastico, si è palesato uno sforzo ammirevole per cercare di sottrarre dall’isolamento studenti e studentesse, ricostituendo una pur precaria routine didattica, ma, anche dove ciò è avvenuto con più efficacia, difficilmente lo sforzo ha permesso di incontrare e risolvere le urgenze che arrivavano, e tuttora arrivano, dai più giovani. C’è infatti il rischio che queste siano oscurate, agli occhi degli educatori, da una preoccupazione per l’oggettività e l’efficienza da cui quasi nessuno potrebbe dirsi indenne: assillo dei programmi, dubbi circa l’attendibilità delle prove di valutazione (avranno copiato, copieranno?) e perfino un distorto concetto dell’equanimità, che porta a guardare con sospetto ogni bisogno potenzialmente traducibile in azioni didattiche personalizzate. Sono le trappole della “strega Educazione”, versione deteriore di una pratica che resta ovviamente importantissima, specie in tempi in cui la nostra interpretazione della realtà e la progettualità che ne deriva sono fortemente messe alla prova, come accade a chi ha davanti a sé molti più anni di quelli che ha vissuto.
La relazione tra chi impara e chi insegna: un modo di servire l’eudaimonía
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Al moltiplicarsi dei segnali di disagio espressi dagli adolescenti, la soluzione è spesso una maggior presenza progetti di prevenzione mirati e sportelli di ascolto: tutto giusto, lo psicologo scolastico offre un contributo prezioso al fine di far emergere vissuti e bisogni che non sempre affiorano nella pratica didattica. Credo però che lo specialista non assolva chi insegna dal compito di testimoniare che
D’altra parte, l’adulto sa o dovrebbe sapere che l’esperienza del disagio non è sempre inquadrabile come patologia; anche se ogni momento storico ha le sue tipiche forme di infelicità, con qualche semplificazione dettata dalla brevità, diremmo che la solitudine, le ferite dell’io, la mancanza di senso e perfino una certa attrazione per la morte (inclinazioni all’autolesionismo e al suicidio), sono non di rado, prima che problemi da curare, espressione di ciò che ci fa umani, non meno delle gioie dell’amicizia e dell’amore, della passione per qualcosa che somiglia a una vocazione, dell’intuizione che vi sia anche nell’insensatezza del reale qualcosa che merita d’essere guardato con curiosità o tenerezza.
L’umanità che ci ha preceduto testimonia che una certa quota di sofferenza è propria dell’esistere, ed è interessante osservare come tale consapevolezza sia stata elaborata nelle arti o quanto abbia stimolato l’incontentabile ricerca della scienza. C’è dunque un apprendimento del mestiere di vivere che per parecchie ore si articola (potrebbe articolarsi) nelle aule scolastiche: l’aula è il luogo delle relazioni non solo con propri i pari, ma anche con le altre generazioni, incluse le più antiche, oltre che spazio nel quale si può sperimentare il dialogo tra i diversi ambiti del sapere umano.
Se esiste un modo attraverso il quale le aule possono essere un luogo di benessere, credo, è che il docente abbia la consapevolezza della mediazione che agisce. Se pensiamo al versante umanistico del sapere, chi insegna è un tramite per miti e storie, tra cui può esservi anche la storia o la parola che, a sorpresa, indica l’esatta misura di ciò che lo studente o la studentessa prova, offrendogli così la possibilità di riconoscersi e sentirsi non più solo o sola, e rafforzando in lui o lei la voglia di trovare altre storie e parole esatte attraverso la lettura e attraverso l’applicazione alla scrittura: il lavoro adamitico di dare un nome,istituire relazioni attraverso le parole, può talvolta rifonda-
re,se non il mondo,almeno il nostro modo di pensarlo.
Quando insegnavo da pochi anni ed ero perennemente a caccia di colleghe e colleghi più maturi che offrissero buoni spunti, uno di loro mi disse che amava inaugurare i suoi corsi di italiano con il capitolo che Primo Levi dedica allo strenuo tentativo di ricordare il canto dantesco di Ulisse nello spazio infernale del lager. La lettura ad alta voce aveva la funzione di una premessa: quello che diremo in quest’aula, le parole che risuoneranno, hanno a che vedere con la vita, prova ne sia che possono addirittura salvarla. Ho fatto mia questa prassi, e ogni volta mi stupisco del silenzio che si crea in classe per un gesto che la ripetizione potrebbe invece rendere retorico. Sono le parole di Levi? È la gratuità di una lettura che non pretende nessun compito in cambio? Oppure è la passione che noi docenti continuiamo a nutrire per certe pagine, ma anche per le leggi della termodinamica, per il moto dei pianeti attorno al sole o per l’uso della luce nei quadri di Caravaggio? Hillman (ben prima di Massimo Recalcati nel suo L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014) direbbe che c’è lo zampino di Eros. Nella sua lettera cita tre esempi di personaggi famosi che devono molto a un insegnante incontrato lungo il percorso (ma credo che ciascuno avrebbe storie personali da raccontare in proposito): sono il romanziere e saggista americano James Baldwin, il regista Elias Kazan, e lo scrittore Truman Capote. Del legame speciale tra allievi e maestri Hillman scrive: «Ciò che, in particolare, il mentore divide con il suo o la sua protetta è un amore nato da una fantasia comune. La loro dedizione non è tanto per ciascuno come amanti quanto – in questi casi di scrittori – per la lingua inglese.I loro demoni sono in armonia, ciascuno aiuta l’altro a soddisfarsi. Insegnare e imparare sono necessari l’uno all’altro e, come Hansel e Gretel, si salvano l’uno con l’altro. Così l’insegnante non è un genitore sostitutivo che procura allo studente i soldi per il pranzo e scarpe nuove. Miss Miller e Miss Wood e Miss Shank nutrivano le anime degli studenti e mettevano il fuoco nei loro spiriti».
Allievi eccellenti e maestri straordinari, si dirà dei tre esempi citati da Hillman, eppure il suo messaggio era rivolto a tutti i docenti italiani, non lo guidava l’idea di una eccezionalità del compito.
Serendipità: possono Hansel e Gretel salvarsi l’uno con l’altra?
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Torniamo con il pensiero alle nostre prime lezioni: amore per la disciplina, scoperta di essere capaci di comunicare, sensazione che insegnare fosse utile e che la relazione con i primi allievi, per quanto impacciata, avesse punte di gratificazione che valevano la fatica. Nessun delirio di onnipotenza, piuttosto la sensazione di stare proprio dove volevamo stare, ossia in aula, e che quello stare in aula servisse, se non al mondo, almeno a questo o quello studente soddisfatto dal comprendere qualcosa che prima non capiva. Ne abbiamo tratto, noi e loro, gli studenti, un contagioso benessere e qualche volta (nei tempi peggiori nostri o loro) anche quella piccola felicità che ha saputo essere l’unica nota buona di una brutta giornata, di una pessima settimana,talvolta,di fatiche che duravano da tempo.
Può una soddisfazione tanto piccola riorientare anche la propria percezione di sé stessi? Capita, non solo ai giovani, e quasi sempre è frutto di una felice causalità, o serendipità: «lo scoprire qualcosa di inatteso e importante che non ha nulla a che fare con quanto ci si proponeva di trovare o con i presupposti teorici sui quali ci si basava», la definizione sul dizionario Garzanti.
Se per quanto riguarda la casualità possiamo poco, la serendipità richiede qualche premessa importante sul piano dell’intenzione: stemperare l’ansia del controllo, in qualche modo implicita nella professione, aprirsi all’imprevisto e all’ascolto, benché questo non sia facile dato che, metaforicamente parlando e non solo, la scuola può essere un luogo molto rumoroso.
C’è però un’altra premessa, che favorisce tale disponibilità e accoglienza servendo al contempo la propria eudaimonía: è lo sforzo di continuare a nutrire la passione originaria preservando l’idea che ciò che si insegna racchiuda un senso utile all’esistenza, ma soprattutto che il riconoscimento di tale senso non sia dato una volta per tutte, piuttosto sia qualcosa che vale la pena continuare ad apprendere (ri)leggendo e (ri)scrivendo insieme a chi impara, e (ri)meditando quel che credevamo di avere già imparato.
Ciò implica restare curiosi e nutrire il proprio e altrui immaginario per una
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via cooperativa, nella quale anche la studentessa e lo studente che sviano con una domanda o un assunto fuori fuoco si possano guardare con rispetto, perché l’errore ci ricorda che l’errare è essenziale a ogni apprendimento e perché le deviazioni suggeriscono che, quale che sia la meta, non esiste mai una sola strada per raggiungerla.
questi temi: testimoniare, anche attraverso l’umanità che ci ha preceduto, la faticosa necessità di un filo che trasformi i frammenti in un percorso culturale. Non è un compito neutro, la testimonianza chiede disponibilità a una relazione speciale, direi personale, con chi entra nel labirinto del sapere: diversamente da quel che accade nel web, lo studente non può scomparire dietro a un’entità collettiva (nel nostro caso la classe); sappiamo, parlando con tutti, che stiamo tenendo con ciascuno un dialogo.
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D’altra parte, un sistema che rischia di fare di Hansel e Gretel due nemici è anche quello che non vede come oggi la scuola non sia più l’unica fonte culturale: nessuna generazione ha mai avuto altrettanta facilità di accesso all’informazione e a contenuti alternativi a quelli trasmessi dalle generazioni più mature. I pochi lettori forti che incontriamo a scuola leggono libri di cui tutti parlano nei social media che noi adulti non frequentiamo, e molti si appassionano a questioni sociali, politiche e ambientali con modalità che a noi sfuggono, perché raramente raggiungono i nostri canali informativi di riferimento. È in atto una rivoluzione rapidissima che per lo più ignoriamo, anche per non dover decidere come riorientare il nostro compito di educatori, che pure non è mai stato tanto importante per chi rischia di vagare senza bussola nella selva delle informazioni. A chi insegna resta infatti il compito di offrire il filo, mi ha suggerito pochi giorni fa un’amica e collega con cui parlavo di
Approfondire
Il testo della lettera di James Hillman si trova sul sito di EDScuola, che riporta anche alcune risposte di docenti che accolsero la domanda, all’indirizzo https://www.edscuola.it/archivio/ped/hillman. htm. Per chi volesse approfondire la figura e il pensiero di Hillman (1926-2011) si veda: J. Hillman e S. Ronchey, L’ultima immagine, Rizzoli, Milano 2021. Tra i suoi scritti, molti dei quali propongono un’interessante rivisitazione degli archetipi mitologici antichi, imprescindibile, per cominciare, Il codice dell’anima, trad. A. Bottini, Adelphi, Milano 1996, del quale segnalo almeno due capitoli affini ai temi trattati nella lettera ai docenti italiani: La teoria della ghianda e la redenzione della psicologia (cap. 1) e Esse est percipi (cap. 5, incentrato appunto sul ruolo dei maestri).
Il pensare condiviso che fa di chi insegna il bene di chi impara, ma anche di chi impara il bene di chi insegna, può generare benessere? Per dire di sì non servirà enumerare le pratiche con cui oggi è possibile costruire in classe un sapere cooperativo, nel quale chi impara non sia passivo punto d’arrivo di una tradizione.
Vorrei però aggiungere che a volte sarebbe abbastanza se l’Educazione fosse in grado di darsi un obiettivo minimo: tenere a bada la strega che è nel suo potenziale, evitando di soffocare l’istinto naturale dell’Imparare e dell’Insegnare con l’ossequio a una medietà astratta, con eccessive preoccupazioni docimologiche (è meno ovvio di quel che sembra che la valutazione sia fatta per lo studente e non lo studente per la valutazione),oppure con la promessa che il merito scolastico sia la via sicura per future eccellenze. Anche ammettendo che il valore personale sia classificabile secondo scale d’eccellenza, di questi tempi e davanti a studentesse e studenti niente affatto ingenui, certe promesse rischiano di suonare crudeli. Meglio insegnare, attraverso le arti, la letteratura, la filosofia e le scienze, come integrare nel proprio vissuto la realtà tutta intera, bella e brutta come è (come siamo), così da scegliere, potendo, quel che fa bene all’anima propria e del mondo.
è docente di lettere al liceo e dottoressa di ricerca in Italianistica. Ha pubblicato due romanzi: Ognuno riconosce i suoi (2018) e Marta nella corrente (2014), entrambi per Neri Pozza.
Elena RausaChiamami col mio nome
Il benessere psicofisico delle persone che frequentano la scuola passa anche attraverso la possibilità della carriera alias, ma nelle scuole secondarie stenta a diffondersi. Eppure non dovrebbe essere una decisione dei singoli istituti, perché è essenziale alla tutela di un diritto già riconosciuto dalla nostra norma.
di Giada LetonjaTra le tante questioni affrontate dal movimento studentesco quest’anno, a rendersi protagonista è stata anche quella relativa all’istituzione della carriera alias1. Sinteticamente, si tratta della possibilità rivolta agli e alle studenti transgender di ottenere la rettifica del nome nei documenti scolastici aventi valore non ufficiale affinché corrisponda con l’identità di genere da loro percepita. Al momento la procedura è attiva in alcune scuole di secondo grado e atenei – come ad esempio quello di Torino2 –solitamente in seguito alla richiesta dei rappresentanti degli studenti,ed è generalmente rivolta a quanti hanno già iniziato un percorso di transizione legalmente riconosciuto. Non è quindi una possibilità aperta a tutte e a tutti gli studenti italiani, nonostante molte persone, sulla scia della partecipazione politica iniziata con le proteste dello scorso autunno, ne abbiano fatto richiesta: ogni scuola sceglie da sé come comportarsi all’interno dei propri organi collegiali. Spesso la proposta viene avanzata dagli studenti, ma la sua approvazione dipende in gran parte dalle sensibilità dirigenziali, così come dalle possibilità economiche della scuola di dotarsi delle strutture burocratiche deputate alla sua gestione. Gli istituti che si rifiutano di attivarla fanno appello alla mancanza di linee guida ministeriali in materia, gli altri alla legge sull’Autonomia. Diverse associazioni come Genderlens3 o gruppi di attivismo come Sei trans?4 denunciano da anni come comunque, anche laddove si giunga alla sua introduzione, i requisiti necessari per attivarla siano il più delle volte legati alla presentazione di un certificato medico che attesti la disforia di genere. E questo perché, nonostante l’OMS abbia rimosso ormai dal 2018 la transessualità dall’elenco delle malattie mentali, la varianza di genere continua ad essere affrontata come una patologia, il cui trattamento è da affidarsi a équipe specializzate di endocrinologi, psicologi e psichiatri. La certificazione medica richiesta per l’attivazione della carriera alias riflette l’arretratezza della normativa italiana in materia che, dai requisiti per la rettifica anagrafica fino alla dicitura inerente al sesso presente nei documenti, è fermamente improntata a una concezione dicotomica del genere: si transita solo da un binario all’altro, senza possibilità di fermarsi nel mezzo.
Rimane così invisibile l’esperienza di tutte quelle persone non binarie che non si riconoscono in nessuno dei due generi tradizionali, come quella delle migliaia di persone intersessuali che in Italia, nonostante le condanne dell’ONU e del Consiglio d’Europa, continuano a subire interventi chirurgici di “normalizzazione” in età infantile5. A poco è servito anche il riconoscimento della nostra Corte Costituzionale del diritto all’identità di genere come parte integrante dell’espressione del diritto all’identità personale: la possibilità di una dicitura neutra nei documenti volta a garantire l’effettiva possibilità dell’autodeterminazione di genere ad oggi rimane estranea al nostro orizzonte legislativo. Chi invece si trova ad affrontare un percorso di transizione non solo deve fare i conti
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con un sistema sanitario le cui carenze condannano ad anni di eterodeterminazione identitaria, ma anche con uno Stato che, ponendo la questione del rispetto dell’altrui identità come scelta delle singole scuole, educa alla possibilità del tutto legittima della discriminazione. Non stupisce così che tra le giovani persone trans si registrino i tassi più elevati di abbandono scolastico, né che l’Italia detenga il primato nazionale per transcidi in Europa, quando fin dalla scuola il riconoscimento della loro identità è soggetto all’altrui arbitrio.
Per rendere davvero effettiva la tutela di un diritto fino a oggi riconosciuto solo sulla carta bisognerebbe innanzitutto passare per quella stessa scuola che lo considera una questione di gusti, introducendo con urgenza delle Linee guida ministeriali che mettano a sistema i percorsi alias negli istituti di ogni ordine e grado, superando il limite della certificazione medica. Sarebbe il primo passo verso la concretizzazione della tutela dell’identità di genere che, benché compaia già nello Statuto delle studentesse e degli studenti, finora ha potuto fare affidamento soltanto sulla spontaneistica adesione di alcuni istituti illuminati.
Soprattutto, però, è necessario tenere a mente l’insufficienza della sola norma quando si tratta di estirpare un problema che affonda le sue radici sul piano culturale. Se la comunità trans insiste tanto sulla questione della depatologizzazione è perché sa che la sofferenza cui vanno incontro i suoi membri nel corso della loro vita – la stessa che molto spesso finisce per togliergliela, o comunque per mutilarla di alcune sue parti costitutive – è dovuta in larga parte alla mancanza di modelli e di rappresentazioni, alla negazione identitaria e, sopra ogni altra cosa, alla costante individualizzazione di un problema culturale. Ciò che lo Stato dovrebbe impegnarsi a normalizzare, allora, non sono i corpi delle persone trans, quanto forse la naturalità della loro esistenza, e farlo a partire dall’educazione scolastica.
D’altronde, come sostenevano anche molti detrattori del Ddl Zan interni alla comunità LGBTQ+, introdurre una legge punitiva volta ad arginare un fenomeno d’odio che nel piano culturale affonda le proprie radici significa lasciare intatta la gramigna nel sottosuolo. Noi studenti mai come quest’anno abbiamo alzato la voce per chiedere carriera alias e con lei
un altro genere di educazione: è l’unica soluzione che ci viene in mente per porre fine all’infestazione.
NOTE
1. Per approfondimenti,riferimenti storici e contesto italiano si veda il sito Universitrans,in particolare la pagina https://universitrans.eu/ universitrans/#1528448583474-ad5a01c1-8999.
2. Sul sito dell’ateneo, alla pagina https://www. unito.it/ateneo/organizzazione/organi-di-ateneo/comitato-unico-di-garanzia/carriera-alias, si legge: «Per garantire il benessere psico-fisico delle persone che studiano e che lavorano nell’Ateneo, a qualsiasi titolo facenti parte della comunità universitaria dell’Università degli Studi di Torino, nonché per favorire la realizzazione di un ambiente di studio e di lavoro inclusivo, l’Università di Torino, in sinergia con il CUG, pone in essere le misure di protezione per le persone che abbiano la necessità, all’interno dell’Ateneo, di un nome diverso rispetto a quello anagrafico, mediante l’attivazione di una carriera alias.»
3. Collettivo famiglie giovani persone trans, il cui sito è www.genderlens.org.
4.Collettivo che si definisce «Gruppo informale di persone trans^, non binarie e alleat*», il cui sito è https://seitrans.noblogs.org/.
5. Si legga in proposito il testo della Risoluzione del Parlamento europeo del 14 febbraio 2019 sui diritti delle persone intersessuali (2018/2878(RSP), secondo il quale il Parlamento europeo «condanna fermamente i trattamenti e la chirurgia di normalizzazione sessuale; accoglie con favore le leggi che vietano tali interventi chirurgici, come a Malta e in Portogallo, […] incoraggia gli altri Stati membri ad adottare quanto prima una legislazione analoga [e] sottolinea la necessità di fornire una consulenza e un sostegno adeguati ai minori intersessuali e alle persone intersessuali con disabilità, nonché ai loro genitori o tutori, [onde] informarli pienamente sulle conseguenze dei trattamenti di normalizzazione sessuale». Il testo è consultabile all’indirizzo https:// www.europarl.europa.eu/doceo/document/ TA-8-2019-0128_IT.html?redirect.
Giada Letonja
è iscritta al primo anno di università. Cura il podcast di Tutte le ragazze avanti. Scrive occasionalmente per il mensile Zainet e per «L’Espresso».
La polvere sotto il tappeto
Accade talvolta a scuola, di questi tempi, di avvertire la sensazione che qualcuno o qualcosa non sia come o dove dovrebbe essere: capita che ci si senta ostaggio di una presunta riconquistata normalità, di una ricomposizione degli eventi apparentemente verosimile, ma che alla prima “distrazione” del sistema si rivela incoerente, al di fuori di qualunque coordinata razionale. Tali sensazioni inducono a chiedersi se il concatenarsi delle circostanze della vita di ogni giorno, a livello individuale, collettivo e sociale, sia davvero tornato ad avere un significato coerente e rassicurante.
La ricerca di risposte suggerisce un’immagine, piuttosto scontata e prosaica in verità, che tuttavia ben esprime in termini visivi la presunta causa del nostro spaesamento: è l’immagine della polvere sotto il tappeto.
Quale pedagogia può contrastare il disadattamento scolastico e curare i mali endemici che affliggono la scuola italiana?di Sonia Bacchi Non c’è nascondiglio che regga il giudizio del tempo. Michele Serra ↑ La vista di una finestra del Liceo cantonale di Locarno.
La polvere sotto il tappeto
Negli ultimi anni (decenni?) noi, popolo della scuola, ci siamo abituati alla pratica del nascondere la polvere sotto il tappeto. Consuetudine, questa, all’apparenza economica e poco esigente, che richiede scarso impegno e pressoché nessuna competenza specifica, la quale, tuttavia, ci espone a un rischio insidioso: col tempo, può accadere che un evento inatteso e imprevedibile sollevi qualche lembo del tappeto, e la polvere torna a riaffiorare, abbondante e fastidiosa.
«Non c’è nascondiglio che regga il giudizio del tempo», ha scritto recentemente Michele Serra.
La pandemia da COVID-19 ha sollevato con violenza il tappeto della scuola, e la polvere nascosta sotto ci ha letteralmente sommersi. Una polvere fitta, densa, fatta di fragilità e problemi trascurati da decenni, che i recenti, drammatici eventi hanno portato alla luce, esacerbandoli, come sempre accade con qualsiasi avvenimento inatteso e tragico.
I mali che affliggono la scuola sono tanti, come ben sa chiunque della scuola sia attore, qualunque ruolo ricopra, di studente, docente o genitore. Essi angustiano più o meno indistintamente tutte le categorie in essa coinvolte, direttamente o indirettamente.
Taluni genitori subiscono la scuola come “istituzione totale” (Goffman, 2010), un sistema dal carattere sempre più inglobante che fagocita le energie psichiche, fisiche, economiche dell’intera famiglia.
Molti docenti ne ricevono un profondo senso di frustrazione, oberati da richieste di impegno sempre crescenti, a fronte di esiti e gratificazioni spesso deludenti.
Fra gli studenti, è divenuto oramai endemico il fenomeno del “disadattamento scolastico”, una peculiare forma di senso di inadeguatezza alla scuola, che nasce dalla discrepanza tra capacità, bisogni e interessi personali e le prestazioni che la scuola richiede (Parodi, 2022).
Come è noto, l’individuo raggiunge una condizione di benessere quando si adopera per vivere in conformità con il proprio autentico sé, per condurre un’esistenza “sintonizzata” su ciò che egli è realmente. Si percepisce benessere quando ci si impegna nel miglioramento personale, nel tentare di realizzare sé stessi e il proprio potenziale. Compito fondante dell’istituzione
scolastica consiste appunto nel predisporre le migliori condizioni per favorire la piena e completa realizzazione dell’individuo, consentirgli di raggiungere e mantenere il proprio potenziale all’interno della società, accompagnarlo nel percorso di apprendimento e di sviluppo personale, orientarlo alla conquista di autonomia e responsabilità crescenti (CCNL dei Docenti, art. 26, 19 aprile 2018).
È, tuttavia, opinione diffusa e da molti condivisa che la scuola stia scavando un solco profondo tra sé stessa e i bisogni reali dei ragazzi: agli occhi di fruitori, operatori ed esperti, essa appare oggi sempre più inefficace nell’adempiere alla sua funzione originaria. Massimo Parodi la definisce «una sorta di satellite artificiale della società, in cui gli individui sono relegati per un addestramento all’esistenza invero estraniante che rifugge la realtà», di cui offre una simulazione distorta, nel migliore dei casi verosimile (Parodi, 2022). Grazia Honneger Fresco la descriveva come «il luogo del dovere e della socializzazione forzata, che privilegia l’attività di insegnamento rispetto a quelle creative ed espressive; dove i prodotti (scritti, parole) sono usati anche “contro di me” o per innalzare gerarchie…» (Fresco Honneger, 1990).
A un apprendimento significativo, che si verifica quando chi apprende decide di mettere i nuovi contenuti in relazione con le conoscenze che già possiede al fine di risolvere problemi nella realtà quotidiana, si va oramai sostituendo un apprendimento meccanico, che si realizza quando chi apprende memorizza le nuove informazioni senza collegarle alle conoscenze precedenti, o quando i contenuti di studio non hanno alcuna relazione con tali conoscenze e non risultano quindi significativi per lo studente, che non ne comprende l’utilità per i propri scopi.
La percezione del divario tra capacità personali e necessità contingenti e le prestazioni che la scuola richiede ostacola il benessere dello studente e lo espone a occasioni di grande sofferenza e frustrazione. Ne deriva un profondo senso di non-competenza in ambito scolastico, che minaccia l’immagine di sé e la fiducia nelle proprie forze e capacità e si traduce in ansia da prestazione, paura del fallimento, dinamiche di elusione, tensione fra pari e con gli adulti di riferimento.
→ Interno della scuola elementare di Chiarano, in Veneto (foto portale Giovani Firenze).
Il “disadattamento scolastico” si palesa nei ragazzi in disagio psico-fisico e nell’aumentata diffusione di disturbi specifici dell’apprendimento e di bisogni educativi speciali. Si assiste, inoltre, a un incremento del fenomeno della dispersione scolastica esplicita (abbandono della scuola), a cui si è gradualmente affiancata una dispersione “inapparente”, costituita da un livello scadente degli apprendimenti conseguiti da parte degli allievi i quali, pur frequentando, non possiedono né una preparazione adeguata né un titolo di studio che possa migliorarne la qualità di vita (Vertecchi, 2012).
Ci si chiede, dunque, se sia sufficiente interpretare la funzione docente in relazione a curricula, programmi e contenuti più o meno rinnovati; se le finalità della funzione docente siano perseguibili mettendo in atto quella che Paulo Freire definisce una pedagogia “depositaria”, che consiste nel “deposito” di un sapere preconfezionato, il quale transita dall’insegnante detentore della conoscenza al discente, somministrato a prescindere dal soggetto in apprendimento (Freire, 2011). Ci si interroga sulla necessità di porsi in relazione con i bisogni esistenziali degli studenti, che spesso non sono immediatamente coincidenti con quelli scolastici. Ci si domanda se e come si debba privilegiare la logica dell’apprendimento, che trova nella persona in formazione l’attore principale, rispetto alla logica dell’insegnamento, che accorda maggiore importanza al “pilotaggio” esterno.
La scuola rischia oggi di essere prigioniera degli assiomi di una pedagogia “verticale”, di abitudini di pensiero, logiche organizzative, pratiche didattiche consolidate, che influenzano, talvolta in modo inconsapevole, l’approccio del docente alla scuola, il suo stare e il suo agire all’interno del contesto scolastico. L’idea che tutti gli studenti debbano apprendere i medesimi contenuti con le stesse modalità, al medesimo ritmo e nello stesso tempo. La convinzione che la qualità dell’apprendimento dipenda principalmente, se non esclusivamente, dalla volontà dello studente, e che di conseguenza l’insuccesso scolastico derivi dalla sua inadeguatezza alla scuola. La visione entitaria dell’intelligenza, secondo cui
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le abilità cognitive di un individuo costituiscono un patrimonio genetico che egli riceve alla nascita e non sono passibili di modifiche e implemento attraverso stimolazioni ambientali ed esperienze (Dweck, 2000). La tendenza del docente a identificare l’autorità del sapere con la sua autorità funzionale, che oppone in forma di antagonismo alla libertà degli studenti (Freire, 2011).
All’interno di un contesto più o meno consapevolmente influenzato da tali convincimenti, anche la valutazione tradizionale concorre a porre gli studenti in una condizione demotivante: essi ricevono spesso «voti sul lavoro senza indicazioni di ciò che hanno fatto bene o di quali potrebbero essere i passi successivi nell’apprendimento e feedback che indicano solo quello che non si deve più fare, invece di descrivere che cosa si può fare. Gli studenti sono così responsabili del lavoro, ma non dispongono della conoscenza necessaria per migliorare». Eppure, «…noi tutti abbiamo un desiderio innato ad apprendere, nasciamo con una motivazione intrinseca. L’apprendi-
Approfondire
• S. Bacchi, S. Romagnoli, La classe senza voto, I Quaderni della Ricerca, n. 48, Loescher, Torino 2019.
• C.S. Dweck, Teorie del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo, Erickson, Trento 2000.
• P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Gruppo Abele, Torino 2011.
• G. Fresco Honneger, Per una scuola che rispetti il bambino, Gruppo Abele, Torino 1990.
• E. Goffman, Asylums, Einaudi, Torino 2010.
• M. Parodi, La scuola è sfinita, Edizioni la meridiana, Molfetta 2022.
• M. Serra, La polvere sotto il tappeto, “L’Amaca” del 6 luglio 2022, «la Repubblica» online.
• R. Stiggins, J. Arter, J. Chappuis, S. Chappuis, Classroom Assessment for Student Learning: Doing It Right Using It Well, Pearson Assessment Training Institute, Portland 2004.
• B. Vertecchi, La dispersione inapparente, in «EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica», I, 2 (2012), pp. 109-120.
mento è richiesto per la nostra sopravvivenza» (Stiggins,Arter, Chappuis e Chappuis, 2004, traduzione dell’autrice). Solo se il formatore lascia spazio al soggetto in formazione, quest’ultimo partecipa in modo essenziale alla costruzione del proprio percorso di apprendimento, attraverso l’acquisizione di consapevolezza di ciò che accade e la regolazione del percorso formativo. Il ruolo di protagonista affidato allo studente è funzionale a una condivisione del senso del lavoro didattico: comprenderne il significato da un lato determina una nuova disponibilità ad apprendere, dall’altro favorisce una finalizzazione riconoscibile del proprio impegno e dei propri risultati.
Su questa e altra polvere è sopraggiunta la pandemia da COVID-19, che ha sollevato con violenza i lembi del tappeto e ha esasperato fragilità e problemi.
I dati sulle conseguenze della pandemia sugli studenti sono abbondanti e accessibili a tutti. Per citare una sola fonte autorevole, un’indagine dell’Ospedale Pediatrico Giannina Gaslini di Genova rivela che durante il lockdown nel 71% dei bambini e dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni sono insorte problematiche comportamentali, ansie, disturbi del sonno, irritabilità e sintomi di regressione. Nei mesi successivi, sono aumentati i comportamenti di ritiro e ansioso-depressivi, i problemi di attenzione e la difficoltà nella regolazione delle emozioni; l’osservazione in classe ha evidenziato un atteggiamento maggiormente passivo negli studenti, con permanenza di contenuti molto brevi.
Come detto, nessun nascondiglio resiste al giudizio del tempo. Non sarà, tuttavia, il tempo a disperdere la polvere nascosta sotto il tappeto: occorrerà portarla allo scoperto, renderla visibile e assumerne consapevolezza, per poterla dissipare.
Sonia Bacchiè docente di Lettere presso il Liceo “Vincenzo Monti” di Cesena. Si è occupata di editoria scolastica, collaborando alla redazione di numerosi manuali per la scuola secondaria di primo e secondo grado. È stata referente del progetto “Ben-essere a scuola”, che ha sperimentato la didattica innovativa della valutazione senza voto.
Tra fare bene, stare bene e fare meglio
Prospettive tra passato, futuro e utopia reale alla secondaria di primo grado: dall’esperienza degli ultimi anni al diritto-dovere al futuro.
di Linda Cavadini
Sono convinto che l’istruzione sia un processo di vita e non una preparazione alla vita futura1 Aidan Chambers
SCUOLA / Tra fare bene, stare bene e fare megllio
9giugno 2021, mancano pochi minuti al suono della campana: è l’ultimo giorno di scuola del secondo anno dell’era COVID. L’anno prima nemmeno c’era stato, l’ultimo giorno: gli edifici scolastici restavano chiusi, le lezioni si erano chiuse a distanza. Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare come sia finito l’anno scolastico 2019/20 e qualcosa vorrà pur dire: i giorni della DAD e della reclusione forzata sono avvolti nella nebbia, un periodo di limbo che la mia mente non dico abbia rimosso, ma ha certamente chiuso in un cassetto.
ore 13, suona la campana: il silenzio è spettrale, nessun conto alla rovescia, nessun gavettone. I ragazzi si alzano, infilano la cartella e se ne escono salutando, nessun urlo di gioia, nessuno slancio verso l’estate. Io, questa cosa, non la dimenticherò mai: è stata una fine dell’anno in cui i corpi sono rimasti muti.
Eppure, solo pochi giorni prima avevo avuto una percezione diversa: la nostra scuola è ubicata in un parco, quindi, complice la possibilità di fare uscite sul territorio, avevamo organizzato diverse mattinate nel bosco. Alla prima uscita, dopo una passeggiata in cui eravamo rimasti rigorosamente distanziati, tra mascherine e bolle, arriviamo in uno spiazzo: con i preadolescenti questo solitamente significa vederli sedere sul muretto a chiacchierare, perché per terra ci si sporca, ci sono le formiche, l’erba è bagnata ecc. Appena arrivati in prossimità del prato, cinquanta ragazze e ragazzi, iniziano a correre: una corsa sfrenata fino in fondo, una corsa spontanea, una corsa composta e libera: la vita e il corpo sembrano riprendere i propri spazi, è stato come quando apri una lattina dopo averla scossa. Arrivati in fondo, si bloccano, come liberi da un incantesimo: alcuni si mettono a giocare a calcio, altri a pallavolo, altri a nascondino, altri ad acchiapparella. Come se il tempo fosse ripartito da un anno prima, dal primo giorno della prima. Eppure solo pochi giorni dopo,al suono della campanella che avrebbe sancito la fine,non c’è stato posto per la ritualità festante e guascona che da sempre accompagna l’inizio dell’estate.
SCUOLA / Tra fare bene, stare bene e fare megllio
68 La ricerca / N. 23 Nuova Serie. Dicembre 2022
9 giugno 2022: l’aria è un po’ diversa, il COVID c’è ma fa meno paura o semplicemente abbiamo imparato a conviverci o ancora, meno prosaicamente, ce ne siamo fatti una ragione. La mia è una classe che ha attraversato la secondaria di primo grado in pandemia, non ha sperimentato nulla di quello che era la nostra scuola “prima”: non esiste più il “compagno di banco”, una possibilità venuta meno in nome dei banchi distanziati, da non muovere per nessun motivo. Consapevoli di ciò, una volta allentate le misure di contenimento, abbiamo deciso di provare a rimettere in circolo alcuni principi che hanno sempre caratterizzato il nostro istituto: ascoltare, progettare e condividere. Ne sono usciti: la serata danzante nel parco per le terze (“pic-nic sotto le stelle”), il saluto finale alle famiglie, le visite di istruzione, i tornei dell’ultima settimana, la sfilata delle celebrità, la gara di lettura. La scuola ha iniziato a rianimarsi, a vivere quello che c’è oltre al perimetro dell’aula, e i ragazzi hanno avuto parte attiva in tutto questo: hanno proposto eventi e li hanno organizzati, con l’aiuto dei docenti e dei genitori.
Grazie a questi momenti si sono ripresi gli spazi e li hanno occupati con il corpo, aspetto che in questi pesantissimi anni di COVID era completamente saltato: abbiamo avuto protocolli, continue revisioni, riorganizzazione di abitudini e spazi, ma i ragazzi e le ragazze sono sempre rimasti al margine di qualunque decisione, le hanno subite e non hanno mai avuto alcun margine di contrattazione (e non avrebbe potuto essere altrimenti).Il corpo è stato messo da parte, frenato e così pure l’esperienza dell’incontro con la fisicità dell’altro: io credo che da qui si debba ripartire, senza però fare tabula rasa e rimuovere quanto vissuto.
ore 13 , suona la campana: applausi, canzoni e conto alla rovescia, dal cortile non se ne vogliono andare. «È estate, prof! È davvero estate! Non mi sembra vero». Non sembra vero nemmeno a me.
Ricominciare da ieri
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Una famosa frase di Alessandro Manzoni recita: «Si dovrebbe pensare più a far bene che a stare bene: e così si finirebbe anche a stare meglio». Ci ho pensato molto in questi ultimi anni, credo che i tre fare siano profondamente connessi e ci riguardino tutti.
L’errore più grande che possiamo fare adesso è dividere il mondo in pre-COVID, momento in cui tutto funzionava, eravamo felici e la scuola non aveva problemi, e post-COVID, in cui tutto è in discussione, nulla funziona e i ragazzi stanno male. La realtà, come sempre, è più complessa, e questa tragedia, questo trauma, non ha fatto altro se non rendere manifeste le difficoltà e acuire alcuni problemi. La buona notizia è che ora che è tutto sotto gli occhi di tutti, possiamo correre ai ripari, possiamo costruire: la scuola è nella società, non è un mondo a parte, e deve avere il coraggio di occupare il ruolo che le spetta. Altrimenti dire che la “scuola costruisce cittadini” è ripetere uno slogan vuoto e falso, buono per circolari ministeriali e open day.
Il corpo costretto in quindici pollici
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Durante la preadolescenza l’azione è ciò che conta: «i ragazzi e le ragazze, reduci da un lunghissimo periodo di addestramento protetto, ora per la prima volta affrontano la realtà da soli.È finita l’infanzia in cui mamma e papà decidevano tutto: vestiti, gite, amici, programma della festa di compleanno»2.
Con la scuola secondaria di secondo grado si passa da uno stile educativo tipico dell’infanzia che, pur promuovendo l’autonomia, ha come priorità l’accompagnamento e la protezione, a uno in cui si riconosce e si accetta che il ragazzo sia in grado di muoversi autonomamente: tornare a casa da soli, scegliere il compagno di banco, i quaderni da usare (alla primaria, a copertina scelta dai docenti corrisponde materia), decidere se partecipare o meno a un progetto opzionale, a una festa, a un evento, sono tutte tappe necessarie alla crescita. I genitori e gli adulti in generale non guidano più gli interessi, le passioni e le scelte di quelli che Sofia Bignamini chiama mutanti3; gli amici diventano la nuova famiglia, le relazioni sono sempre più autonome dalla gestione dei genitori, le esperienze fuori da casa diventano fondamentali, mentre tra le mura domestiche iniziano ad alzare barriere e a rivendicare i propri spazi, dal bagno alla cameretta. La preadolescenza è il primo periodo della vita in cui compare la spinta alla trasgressione, che si traduce in ridefinizione e discussione dei valori introiettati durante l’infanzia
e, paradossalmente, ha bisogno ancora di più della presenza di adulti autorevoli con cui incontrarsi e scontrarsi.
Dal 5 marzo 2020 questo processo naturale è stato bloccato: i ragazzi (e noi con loro) sono rimasti chiusi in quindici pollici, le loro relazioni si sono spostate tutte sul piano digitale e il corpo è stato messo da parte, spento, limitato nei movimenti, spesso gonfiato con cibo spazzatura e privato di una sana alternanza sonno-veglia.
I ragazzi non erano certo digiuni da relazioni digitali, ne erano già immersi4, ma nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbero state le uniche possibili e che, pronti a muoversi nel mondo di fuori, sarebbero stati costretti a stare chiusi tra le mura di casa, come quando erano piccoli. Solo che non erano più bambini, il mondo intorno a loro perdeva i propri punti di riferimento e gli adulti avevano paura.
Dal mio osservatorio su una scuola di 600 ragazzi, ho visto sì l’aumentare di disturbi del sonno e dell’alimentazione, ma ho costatato che tutti i ragazzi hanno faticato a riprendere la routine scolastica; se è vero che da un lato la DAD li aveva angosciati, dall’altro li aveva rassicurati e protetti: il mondo fuori si era fatto ostile e pauroso e la scuola che si ritrovavano ora non era più quella che avevano imparato a conoscere, quella dell’incontro, dei lavori di gruppo, dell’intervallo insieme. Andare a scuola era certamente meglio che stare chiusi in casa, ma la scuola che si trovavano a vivere si è trasformata in un compromesso difficile da accettare,
l’adagio “piuttosto che niente, meglio piuttosto” decisamente non funziona in adolescenza: paradossalmente, eravamo riusciti a lavorare in modo cooperativo più a distanza, tramite le stanze in piattaforma, che in classe, dove il distanziamento, le mascherine, l’impossibilità di variare il setting ci hanno catapultati nella scuola di primo Novecento. Noi docenti non siamo sempre stati all’altezza, troppo spesso abbiamo evitato di chiederci a chi, perché e come avremmo dovuto insegnare in questo nuovo contesto, restando ancorati a un prima al quale disperatamente saremmo voluti tornare. Ad esempio, nella battaglia ingaggiata per telecamere accese o spente, con gli adulti di frequente a interpretarlo come desiderio di sottrarsi a un dovere insindacabile, non sempre abbiamo valutato cosa possa significare per un preadolescente guardarsi costantemente in faccia, avere la propria immagine (che vuol dire anche brufoli, capelli che non stanno in forma, nasi troppo grandi, occhi piccoli e chi più ne ha più ne metta) sempre davanti. Tenere questo in debita considerazione avrebbe permesso di fare scelte diverse anche nel chiedere o meno un contatto visivo, che era certamente importante. Non dobbiamo dimenticarlo mai che cambiare il setting educativo implica cambiare anche come si apprende e cosa si apprende: in questo caso poi il setting non è stato scelto, ma imposto.
L’anno che verrà dovrà e potrà essere quello in cui ci riapproprieremo di modalità che ben funzionavano prima e le
Ragazze afgane che studiano nel luogo in cui sorgeva la loro scuola prima d'essere distrutta (foto Wikicommons).
Tra fare bene, stare bene e fare megllio
coniugheremo con quello che abbiamo imparato in questi due anni. Ma non basta.
Fare bene e stare bene
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Che cosa fare in questo mondo diverso che porta con sé ancora tante tensioni? Come possiamo stare bene a scuola? Come possiamo fare bene? Come possiamo stare meglio?
mondo digitale, che non è e non coincide solo con il mondo dei social network.
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Un obiettivo deve essere valorizzare la partecipazione attiva e il protagonismo dei ragazzi: adulti e studenti non solo passano da scuola, ma devono abitarla e costruirla.
SCUOLA / Tra fare bene, stare bene e fare megllio
Sono necessari spazi di progettazione e condivisione: un’esperienza piccola e virtuosa in questo senso si è rivelata quella del Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze5, non solo per l’evidente esperienza di educazione civica,ma anche perché esso comporta fare delle proposte, accettare la mediazione con docenti e dirigente, pianificare la sua realizzazione e monitorarla.
Per realizzare la festa finale6, ad esempio, non solo hanno pensato al tema, alla locandina, alla musica e al luogo, ma hanno potuto sperimentare cosa significhi nel concreto organizzare una serata per cinquanta ragazzi: fare una pianificazione dei costi e trovare come coprirli. Se la festa fosse stata organizzata solo dai docenti, avrebbe richiesto meno ore di progettazione, invece la costruzione partecipata dell’evento suddivisa tra studenti, docenti e genitori ha significato ore e ore di tavoli di lavoro, anche online, ma è stato un esempio concreto di “abitare la scuola”.
Va certamente valorizzata la cultura della collaborazione e condivisione, la produzione di contenuti digitali e non, in un processo creativo che è sia individuale sia collettivo e che si concretizza, ad esempio, nel permettere ai ragazzi di trasformare in altro linguaggio anche il sapere tradizionale, dopo averlo affrontato, discusso e compreso.
Una grande occasione di questi due anni è stata quella di poter insegnare ai ragazzi l’utilizzo delle tecnologie digitali per l’apprendimento. Se, infatti, le potenzialità relazionali, comunicative e ludiche sono ben chiare ed evidenti, un uso per l’apprendimento non è così immediato: per noi docenti significa sia conoscere come funziona una mente digitale, sia il
Valorizzare la cultura della collaborazione significa però rendere le nostre ore di lezioni palestre di collaborazione in cui nessuno studente si senta mortificato, zittito e senza diritto di parola: insegnare italiano, ad esempio, è per me l’occasione per sperimentare la forza di una comunità ermeneutica in cui ciascuno prende la parola,propone interpretazioni,le confronta e mette alla prova, ma significa anche insegnare a scrivere con tempi distesi e sostenibili, adatti a ciascuno. L’inclusione non si concretizza, infatti, soltanto in misure compensative, certificazioni, strategie, non è un adempimento burocratico, è una visione del mondo, una strategia pedagogica (e di vita): vuol dire lavorare e progettare perché diventi invisibile, in quanto prassi quotidiana, azione comune, opportunità per tutti.
Sarebbe auspicabile aumentare le professionalità all’interno dei team scolastici; se vogliamo che la scuola stia nella società abbiamo bisogno di altre figure che studiano e si confrontano su di essa: il dibattito sulla scuola non può essere sempre e solo esterno, è bene che sia concreto e reale e nasca in ogni singolo plesso e realtà.
La figura dello psicologo scolastico e degli educatori è quanto mai necessaria e non solo per le realtà di disagio: penso a sportelli di ascolto ma anche a veri e propri interventi di osservazione in classe, di supporto ai consigli di classe, di coordinamento di équipe. Non immagino figure esterne che una tantum si inseriscono a scuola, qualche mese o qualche progetto, ma professionisti che facciano parte dell’organico della scuola, che lavorino insieme ai docenti in ogni fase della vita scolastica. In tal senso anche il consiglio di classe dovrebbe mutare la sua fisionomia, e trasformarsi in tavoli frequenti di discussione, progettazione e studio di casi. Viviamo in una realtà sempre più complessa e multiforme, in cui il narcisismo e l’individualismo hanno spesso il sopravvento: la sfida è riappropriarci della collettività, parte importante del nostro essere umani.
Tutti questi discorsi che sto facendo e che paiono utopici devono però essere accompagnati da una discussione seria sulla funzione della scuola, e da conseguenti adeguamenti del contratto. Le nozze coi fichi secchi non soddisfano mai nessuno.
Il futuro è un diritto (e un dovere)
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La guerra, la crisi politica, economica e climatica, il COVID-19, la precarizzazione del lavoro spingono a non essere ottimisti, a farsi prendere dallo sconforto, ma sarebbe un errore cedere. Il futuro è un diritto di tutti e tutti abbiamo il dovere di costruirlo, portando in classe la complessità e le contraddizioni, creando costantemente occasioni per imparare, tenendo la mente aperta alle sollecitazioni che ci arrivano dagli studenti stessi. Noi adulti abbiamo il dovere di esserci, di continuare a ostinarci nell’insegnare anche a chi apparentemente rifiuta di imparare: portare loro argomenti complessi e sfidanti perché crediamo in questo dialogo, in questo incontro e scontro dialettico, perché crediamo nei ragazzi e nelle ragazze, non in modo acritico e fideistico, ma con la consapevolezza dell’enorme ricchezza data proprio dal loro essere altro da noi.
Abbiamo il dovere di orientare al futuro, che non significa dare tutte le risposte, dire cosa fare, cosa essere e cosa pensare, ma si concretizza nell’aiutare a riconoscere e a sviluppare le proprie attitudini, capacità e competenze per affrontare quello che ci aspetta.
E in ultimo, per orientare al futuro dobbiamo liberarci della comoda etichetta di “povertà educativa” ricondotta ai bambini e ai ragazzi: il comodo leitmotiv per cui non leggono, non comprendono, non sanno e via dicendo. Se esiste, una povertà educativa (e il sintagma non mi piace affatto), è quella della scuola che seleziona ed esclude, che non accoglie, che non lavora sistematicamente per abbattere le difficoltà, che ripiega su sé stessa, che si riduce a norme e burocrazia, che rinuncia al suo ruolo sociale.
Per chi vive nella scuola, il diritto al futuro significa anche (ri) costruire una scuola democratica in cui abitare.
NOTE
1. A. Chambers, Confessioni del giovane Tidman, trad.it. B. Masini, Rizzoli, Milano 2015.
2. A. Pellai, B. Tamborini, L’età dello Tsunami. Come sopravvivere a un figlio pre-adolescente, De Agostini, Milano 2017, p. 22. Sul tema si vedano anche U. Magnini,A.M. Venera, La preadolescenza. Il diritto di abitare la terra di mezzo, Franco Angeli, Milano 2009 e F. Mazzucchelli, La preadolescenza. Passaggio evolutivo da scoprire e da proteggere, Franco Angeli, Milano 2013.
3. S. Bignamini, I mutanti. Come cambia un figlio preadolescente, Solferino, Milano 2018.
4. «Esiste una caratteristica peculiare degli adolescenti odierni, che li distingue da quelli delle generazioni precedenti. Ancora prima di nascere, e nel momento in cui vengono al mondo,sono immersi in un ambiente virtuale: nascono social al di là delle loro intenzioni. [...] I nati dal 1995 in poi sono cresciuti con uno smartphone in mano, sono su Instagram da quando sono alle medie e non hanno ricordo di un mondo senza internet», in M. Lancini e C. Giorgio, Bambini d’oro e adolescenti di cristallo. Quale proposta educativa? in AA.VV., Inclusione a 360 gradi. Equità e valorizzazione dei talenti, Pearson Academy, Milano 2019, pp.11-12.
5. Si tratta di un organo rappresentativo consultivo creato sul modello del consiglio comunale degli adulti, eletto a suffragio universale da e tra bambini (se della primaria) o ragazzi (secondaria). Il suo compito è fare proposte al consiglio comunale ufficiale. Questo progetto, a cui avevamo aderito fin dalla sua nascita nel Comune di Como, non è più stato finanziato da qualche anno, ma il mio istituto, considerandone l’importanza, lo ha trasformato in qualcosa di diverso. Sul modello della secondaria di secondo grado, i rappresentanti degli studenti vengono eletti dopo un’accesa campagna elettorale e un confronto diretto tra i candidati, e hanno il compito di proporre progetti, di costruirli e renderli concreti insieme ai docenti 6. Prima dell’era COVID avevamo inaugurato la festa finale delle classi terze: un momento di balli e giochi nel parco della nostra scuola. Dopo due anni senza relazione sociale, i ragazzi hanno proposto di fare le cose in grande: non solo musica ma anche una cena di gala, il momento dei saluti ai genitori, il lancio di buon auspicio del loro cappello di diploma. Per i compagni delle altre classi hanno invece organizzato la mattinata delle celebrità: l’ultimo giorno di scuola chi voleva poteva impersonare un personaggio famoso e partecipare alla sfilata.
SCUOLA / Tra fare bene, stare bene e fare megllio
Linda Cavadini ha insegnato per vent’anni alla scuola secondaria di primo grado e di recente è passata alla scuola secondaria di secondo grado, è redattrice del blog la letteratura e noi e fa parte di Italian Writing Teachers, comunità di pratica che sviluppa l’insegnamento della lettura e della scrittura a scuola. È autrice, con Loretta de Martin e Agnese Pianigiani, del volume Leggere, comprendere e condividere (Pearson), e di alcune pubblicazioni per l’editoria scolastica.
«Noi siamo passanti, non studenti»
di Sabina MinutoLa scuola vive di persone. Le persone costruiscono comunità, quindi la scuola è prima di tutto una comunità.Una comunità si basa sulle relazioni e anche sulle regole che le governano, e che possono essere più labili o più stringenti, ma restano sempre regole.
Durante il lockdown del 2020, e poi, tranne qualche settimana iniziale, nella scuola sempre in DAD del 2020/ 2021, ai ragazzi sono state sottratte molte di queste cose: le relazioni, soprattutto, ma anche le regole. Certo c’erano, a seconda dei casi, regole o regolamenti (alcuni assurdi) anche durante la DAD, ma da lontano – da remoto, appunto – tutto ha un peso e una valenza diversi.
Tornati fra i banchi, nell’autunno 2021, molti studenti e molte studentesse (i superstiti, alcuni nel frattempo sono spariti) hanno dovuto ricominciare a costruire,accettare,regolarsi, ritrovarsi. Non è stato affatto semplice, e l’esperienza nel mio istituto professionale, uguale a quella di altri istituti, credo lo abbia dimostrato.
Mettiamoci per un momento nei panni di X, studente di prima manutentori nell’anno scolastico 2019/2020.
X ha visto i suoi nuovi compagni e i suoi prof bene o male per quattro mesi. Alcuni per molto meno, dato che l’organico di un professionale a volte a dicembre è ancora incompleto. Dopodiché più nulla. X aveva appena iniziato a capire che razza di posto fosse quella scuola, spesso scelta come ripiego e seconda opzione, e ad avere relazioni più o meno stabili con i compagni e con i docenti, quando, per così dire, si è spenta la luce. Buio completo, per alcune settimane. La scuola e tutto quello che era routine scolastica sparite, da un giorno all’altro. Nemmeno il tempo di dirselo, perché è andata proprio così.
Alcuni docenti hanno iniziato a inviare compiti sul registro online.Cominciava quindi a prendere corpo l’idea che, in fondo, la scuola fosse quello: “fare compiti”. Facile, in fondo. Oppure molto noioso e stancante.
Altri volenterosi organizzavano lezioni su Skype. Tutto è saltato, nel giro di qualche giorno; le comunicazioni avvenivano solo tramite il gruppo WhatsApp di classe, e solo con i docenti che ne facevano parte.
X non sa che fare. Si tiene in contatto con qualche messaggio su WA (meno male che esiste); non ha un pc in casa, per cui il cellulare che usa per qualsiasi forma di comunicazione online diventa anche e il suo solo strumento di lavoro, di scuola. Un piccolo schermo che sta in una mano, a scuola proibito di solito, diventa indispensabile, con le notifiche che appaiono sul display e con lo scroll obbligatorio, se va bene, ogni 5 minuti.
La scuola mette a disposizione una piattaforma, e X cerca di collegarsi o di seguire, quando può, e sempre dal telefono. Capire come accedere a tale piattaforma è spesso difficile. Spesso esaurisce i giga, il wi-fi non c’è in casa, spesso non si sveglia, spesso non capisce dove collegarsi e come. Non ha la password, la perde, la ritrova. Chiama i prof per farsi aiutare. Brancola un po’ nel buio. A volte, per non esaurire il credito, seleziona quali lezioni seguire sul cellulare e quali no.
Ci sono lezioni più pensate e organizzate. L’insegnante chiede di partecipare usando strategie digitali e didattiche che aiutino tutti a stare in quel nuovo mondo scolastico.
Naufragi annunciati nel post pandemia di un istituto professionale.
Spesso invece l’idea di fondo è che tutto debba funzionare come in presenza, in modo assolutamente frontale, e basta. La fatica è enorme.
X si scoraggia, non ha voglia, non capisce. Prova, magari, ma poi si lascia trascinare dall’apatia generale. Che deve fare? Non lo sa. E anche molti adulti a casa e a scuola non lo sanno. Le prime ore non è quasi mai presente. Le altre si collega, ma in fondo non c’è: già la difficoltà a scuola in presenza era grande, figuriamoci da casa, sul letto, con le sigarette e il caffè sempre a portata di mano.
A giugno, intanto, tutti promossi. X ha fatto poco, quasi nulla, ma va in seconda.
Dopo qualche settimana di normalità, tutto da capo. Certo, con un po’ più di organizzazione, ma più o meno tutto procede nello stesso modo.
Che fa X? Che ancora non ha pc, non ha wi-fi in casa, ha una cameretta che divide con uno o due fratelli,spesso tutti a lezione contemporaneamente? X si barcamena. Accumula assenze su assenze. Perde quella poca motivazione che aveva. Si arrende. Non segue e non capisce perché dovrebbe farlo.
Arriva di nuovo giugno.
X come tanti altri passa in terza con poca preparazione, assenze numerosissime, e una rabbia che gli sale. La rabbia è tantissima: gli hanno tolto tanti mesi di adolescenza e non riesce a farsene una ragione. Anche gli adulti hanno subito un lockdown, ma certo con strumenti di elaborazione e di consapevolezza diversi.
È settembre 2021, e tutto ricomincia come se niente fosse. Si rientra fra i banchi e quasi nessun docente si prende del tempo. Tempo per capire, per chiacchierare, per
ricostruire la relazione, data per scontata. Ma quella relazione non c’è più, o forse non c’era mai stata. E la scuola invece vuole correre avanti, vuole recuperare “programmi”, contenuti. Non è permesso rallentare, né fermarsi a riflettere su quanto successo.
X vorrebbe chiedere qualcosa: un perché, un quando o un come. Ha tanti dubbi, tante insicurezze. Ma non sa a chi, e allora piano piano si adegua, si lascia andare e semplicemente rinuncia. Il servizio di sportello psicologico ancora non c’è, e quindi nessuno lo ascolta.
«Mi dia pure due, non so niente». È la frase che sentivo ripetere più spesso in classe nell’anno scolastico 2021/22.A qualsiasi richiesta di lavoro o di impegno o di collaborazione le risposte erano «no», «non ne ho voglia» «ma perché lo devo fare?».
La scuola ridotta a prestazione/voto, e basta. Lo leggevo in modo lampante in quegli occhi che mi guardavano con sfida, dai loro banchi ritrovati. Il percorso o processo di apprendimento per quegli studenti non ha mai avuto alcun senso. Del resto, in DAD, quale processo c’era stato? Nessuno. Solo richieste e parole da uno schermo.
L’apatia generalizzata e dilagante è il fenomeno più evidente che si è visto a scuola.Così come l’insofferenza alle regole di convivenza. Non ho mai visto così tanti studenti nei corridoi durante tutta la mattinata. Uscivano dall’aula esasperati, sbattendo violentemente le porte: stare seduti per sei ore era diventato impossibile, una richiesta assurda, così come indossare ancora la mascherina. Una battaglia che ho presto rinunciato a combattere.A casa per
↓ La scuola nel bus per bambini richiedenti asilo negli Stati Uniti, a Tijuana, Messico (foto globalcitizen).
«Noi siamo passanti, non studenti»
SCUOLA / «Noi siamo passanti, non studenti»
un anno e mezzo tutte le regole erano saltate. Riabituarsi al dover fare è stato difficile. Non perché gli studenti del professionale siano quelli che tutti pensano (poco educati, incapaci, svogliati), ma perché se viene meno la motivazione che, bene o male, li aveva retti fino a prima della pandemia, le regole diventano insopportabili.
Non si riesce più ad accettare una scuola che non si capisce, a cui non si crede, che non cerca nemmeno una possibilità di mediazione educativa, ma vuole solo “insegnare” dall’alto e imporre regole. E queste regole sono saltate tutte. Stare in classe è stato dover affrontare ogni giorno una ri-motivazione continua,spesso senza riuscirci. La motivazione, è vero, forse non c’era sempre nemmeno prima, ma c’era uno spazio di lavoro condiviso, e dato per scontato. Un luogo fisico ma anche relazionale deputato all’apprendimento.
più grandi.
Quando ho provato a discutere in classe di cosa volesse dire essere “studenti”, della postura mentale che uno studente deve o dovrebbe avere, E. mi ha detto: «Ma quali studenti? Noi qui siamo passanti». Loro dunque si percepiscono così. Persone che passano, in un luogo, per caso, dovendo rimanere per un tot di tempo (troppo) a fare cose di cui a loro sfugge completamente l’importanza,e dunque su cui non vogliono investire nulla.
In sintesi, quindi: la rinuncia e la rabbia sono state le cifre del faticoso anno scolastico 2021/22. A molti forse non importa, ma invece dovrebbe: in questi due anni di pandemia abbiamo perso, come Paese, un’occasione importante per ripensare la scuola, e soprattutto abbiamo perso studenti.
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La scuola mobile, il progetto di una organizzazione belga, arriva nello stato di Querétaro, in Messico (foto focusonbelgium)
23 Nuova Serie. Dicembre 2022
Nel settembre 2021, per uno studente che ha iniziato nel 2019 la prima professionale, questo spazio, completamente venuto meno, non è per nulla riacquisito, e però rimane vitale. Perché ci trova – o dovrebbe trovare – adulti affidabili, un luogo in cui essere preso sul serio, in cui interessi, qualità, difficoltà e passioni sono riconosciuti: un luogo fisico ma anche soprattutto metaforico di partecipazione e lavoro.
Studenti più schematici, inquadrati o strutturati probabilmente hanno saputo riprendere contatto con il luogo scuola senza fatica.Si sono “resettati” più in fretta. Nella classe di X non è stato così.
Abbiamo fatto tantissima fatica – io che li avevo appena conosciuti, e loro. Non abbiamo potuto portarli tutti all’esame di qualifica,e questo è stato uno dei fallimenti
C’è tutto un mondo di abitudini rassicuranti e di lavoro serio da ricostruire. Occorre mettersi in gioco come docenti per attivare un ambiente di apprendimento nuovo, che metta a frutto ciò che con la pandemia abbiamo imparato: non possiamo permetterci di perdere studenti se non vogliamo farli davvero diventare passanti, non solo all’interno della scuola ma delle loro stesse vite.
Sabina Minuto
insegna lettere nella scuola superiore di II grado, a Savona. Si occupa da anni di metodologie didattiche, in particolare dei laboratori di lettura e scrittura messi a punto dalla Columbia University (Writing and Reading Workshop), contribuendo a portarne in Italia il metodo.
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