I QUADERNI
Quaderni della Ricerca: proposte metodologiche e aggiornamento didattico.
I libri pubblicati nella collana sono reperibili in libreria o presso le agenzie di zona. Indice e prime pagine sono disponibili sul sito de «La ricerca».
I Quaderni della Ricerca sono anche online www.laricerca.loescher.it/quaderni
Una ricetta per la pace
Il tema della guerra è divisivo per definizione. Più ancora che divisivo, è moralmente sfidante.
È opportuno, ci si è chiesto in Redazione, parlare di guerra? Di guerra in senso proprio, tentando un’indagine (ontologica?) sul suo essere (di nuovo) qui, tra noi che la credevamo estinta e consegnata per sempre alla spazzatura della storia?
Di guerra come condizione, o come destino, o come necessità… in ogni caso come realtà con cui, piaccia o meno, occorre fare i conti?
Le posizioni in Redazione sono diverse e spesso contrastanti. Non sulla guerra, ma sul parlare di guerra a scuola.
“ Parlare di guerra, e parlare di guerra a scuola, è opportuno, doveroso, oppure inappropriato e divisivo?„
C’è chi ritiene che parlarne non dia un messaggio né educativo né appropriato per una rivista che si vuole occupare di didattica e di vita scolastica; e c’è chi pensa, invece, che non si possa considerare la scuola come una realtà avulsa dal contesto in cui opera. Vogliamo davvero nobilitare un concetto così aberrante, fino a dedicargli un intero numero della rivista, chiedono gli uni? Vogliamo davvero continuare a considerarlo solo un concetto? Rispondono gli altri. C’è poi chi non pensa sia saggio dare dignità di trattazione a un argomento come questo senza almeno coniugarlo, in negativo, con sentimenti e valori più nobili e nei quali ci riconosciamo più facilmente: guerra e pace, quindi. O, se si preferisce, realismo vs idealismo. Argomento forte, a nostro avviso, che ha fatto valutare per un po’ possibilità alternative per il titolo di questo numero, e che si scontra però con una triste evidenza: di pace si è parlato tanto, tantissimo, nei decenni che ci separano dall’ultimo conflitto mondiale. Potrei anche dire “troppo” (se fosse lecito pronunciare un’aberrazione del genere), a giudicare dall’impreparazione psicologica e morale con la quale abbiamo visto precipitare gli eventi nel febbraio del 2022 e poi nell’ottobre del 2023. Per noi sarebbe stato anche comodo impostare così il numero: ci avrebbe definiti senza ombre né sfumature. Sarebbe stato anche onesto?
C’è infine l’obiezione più spinosa, quella che preoccupa maggiormente anche il sottoscritto, primo proponente del tema. Come fare a parlare di guerra senza contestualizzarla? Senza dichiarati riferimenti alle guerre attualmente in corso?
Parlare di guerra in astratto non produce un vuoto esercizio retorico? E calarla nel concreto delle lacrime e sangue che ancora genera non fa rischiare uno schieramento indebito a una rivista che, della libertà di opinione, ha fatto la propria ragion d’essere identitaria?
È stata proprio la risposta che abbiamo dato a quest’ultima domanda a far pendere definitivamente la bilancia verso l’opportunità dell’argomento: parliamone, senza timore, ci siamo detti. Senza aggregarci collettivamente a nessuno schieramento né partito o movimento, ma lasciando a ciascuno dei nostri autori e delle nostre autrici la libertà di esprimersi sul tema con la consueta indipendenza.
Da noi ogni opinione conta: la nostra ricetta per la pace è tutta qui.
Sandro Invidia, direttore editoriale di Lœscher.
La ricerca
Periodico semestrale
Anno 12, Numero 27 Nuova Serie, dicembre 2024 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480
Editore
Lœscher Editore
Direttore responsabile
Mauro Reali
Direttore editoriale
Ubaldo Nicola
Direzione e coordinamento
Alessandra Nesti - PhP
Impaginazione
Ubaldo Nicola
Copertina
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Pubblicità interna e di copertina
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Stampa
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Distribuzione
Per informazioni scrivere a: laricerca@loescher.it
Redazione
Beatrice Bosso, Simone Giusti, Sandro Invidia, Francesca Nicola, Ubaldo Nicola, Mauro Reali.
Hanno scritto su questo numero
Marco Aime, Johnny L. Bertolio, Silvia Capodivacca, Andrea Chimento, Marzia Freni, Tommaso Gennaro, Alessandro Gozzo, Francesca Nicola, Elena Rausa, Mauro Reali, Maria Stern, Sanna Strand, Aluisi Tosolini
© Lœscher Editore
via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino
https://laricerca.loescher.it/ ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (online)
Sommario
Guerra: parlarne a scuola, tra idealismo e realtà
saperi
Goodbye pacifismo!
Silvia Capodivacca
Per una scuola di pace
Alessandro Gozzo
I morti degli altri
Marco Aime dossier
Il marketing militare negli USA
Francesca Nicola
Qual è la tua chiamata?
Maria Stern e Sanna Strand
Reimmaginare la leva
Sanna Strand
scuola
Dulce et decorum (non) est pro patria mori
Mauro Reali
Di guerre in tempo di pace
Elena Rausa
Il cinema di guerra, una storia a tappe
Andrea Chimento
Guerrieri e paciere nei poemi epici del Rinascimento
Johnny L. Bertolio
Le scrittrici della Resistenza
Marzia Freni
La guerra in classe, tra le righe
Tommaso Gennaro
Di scuola e di pace
Aluisi Tosolini
Goodbye pacifismo!
Perché chi non conosce la guerra è destinato a ripeterla.
di Silvia Capodivacca
Prima della Nascita della tragedia e delle altre opere che gli frutteranno imperitura memoria, quando ancora non ha intrapreso la pur breve carriera di filologo classico ed è poco più che studente a Lipsia, Nietzsche tiene una conferenza a proposito di un presunto certamen che avrebbe visto Omero ed Esiodo contendersi il titolo di aedo. La ricerca, volta anche a dimostrare la contemporaneità dei due poeti, è doppiamente incentrata sul tema del conflitto: innanzitutto, la cornice narrativa della vicenda rievocata è costituita dalla contesa tra i due cantori; in secondo luogo, spiega Nietzsche, la gara si disputa proprio sul tema della lotta, ovvero della sua assenza. Chiamati a recitare i loro migliori versi, da un lato Omero torna su alcuni eventi della guerra di Troia, mentre Esiodo sceglie di declamare la condizione di pace da lui descritta nelle Opere e i giorni. I giudici incoronano quest’ultimo, benché il pubblico rimanga contrariato dall’esito del concorso. Lo sguardo privilegiato di lettori postumi ci permette di presagire, già in queste pagine, la propensione nietzscheana nei confronti della contrapposizione e dello scontro, temi che riceveranno spazio nella Nascita della tragedia (dove si sottolinea il drammatico, ma proficuo contrasto tra il principio apollineo e quello dionisiaco) e nel resto della sua opera, caratterizzata dallo scontro e dalla rottura violenta con la tradizione filosofica fino a quel momento consolidata. L’altro elemento non trascurabile è il riferimento al mondo greco per capire il presente e l’eterno dell’umano, come se comprendere a fondo un fenomeno, un com-
Murale apparso ad Arromanches-les-Bains, Francia, il 5 luglio 2024, durante la commemorazione del D-day,lo sbarco degli Alleati in Normandia . (@Michelangelo DeSantis/Shutterstock).
portamento o un contesto significhi per il filosofo fare appello all’antichità ellenica che, prima del cristianesimo, ha gettato le basi per lo sviluppo della cultura occidentale.
Le attestazioni che ci giungono dall’antica Grecia sul tema della guerra sono molteplici, basti pensare a quella che da molti è considerata la prima parola della filosofia, il detto di Anassimandro, secondo cui un ciclo inevitabile determina l’ordine cosmico, che vede il necessario alternarsi di creazione e distruzione. Esistere significa compiere un’ingiustizia nei riguardi dell’infinito dal quale ciascun ente si separa, ma questa colpa viene espiata dagli esseri reciprocamente, poiché venire alla vita significa, altrettanto, lottare per rimanere aggrappati a essa a inevitabile discapito di tutti gli altri. Non si tratta di una prassi immorale che possa venire aggiustata dal diffondersi di atteggiamenti più rispettosi verso il prossimo, bensì di un principio ontologico, che, in quanto tale, non è né buono né cattivo, semplicemente ineluttabile. Viviamo sempre a costo di chi e di ciò che non siamo, resistendo al nulla al quale saremmo destinati se abbandonassimo la lotta per l’esistenza.
Anche Empedocle, un secolo dopo, riprende l’idea della guerra come principio cosmico, affiancando e rendendo complementari le due forze di odio e amore. La seconda, che tende a unire gli elementi generando armonia e vita, ciclicamente e infinitamente si alterna alla discordia, che separa, divide e causa conflitto. Benché questi due principi si susseguano e oppongano, non c’è una prevalenza dell’uno sull’altro: tanto l’amore è generativo di vita, quanto la discordia è il propulsore inestinguibile per la trasformazione e il cambiamento, senza cui nessuna forma di vita potrebbe altrimenti darsi. Nuovamente, il tema non viene declinato in senso morale, ma nemmeno politico: le due sfere che oggi monopolizzano il discorso sulla guerra sono considerate inessenziali, derivate, rispetto al piano di realtà fondamentale che anche Empedocle si propone di indagare.
La carrellata di autori antichi sul tema della guerra potrebbe estendersi ben oltre lo spazio di queste sintetiche note, ma sicuramente non si può evitare un riferimento a Eraclito che, in linea con quanto fin qui riportato, ha definito il pòlemos «padre di tutte le cose, di tutte re; alcuni fa dèi, altri esseri umani, alcuni schiavi, altri liberi» (Heracl. B53, tr. nostra). Affidare la paternità di tutte le cose alla guerra ha un’importante implicazione filosofica: con Eraclito, infatti, questo principio, ancora una volta essenziale e concernente la natura profonda degli enti, non si applica più alla relazione di due o più enti tra loro, cioè «non esprime il modo in cui soggetti autonomi supposti preesistenti alla relazione entrano in rapporto gli uni con gli altri – e perciò potrebbero anche entrarvi in forme differenti da quelle del pòlemos –, ma è piuttosto
ciò che originariamente pone i soggetti, e li pone specificamente come soggetti polemicamente in relazione» 1. In questo contesto, pòlemos è un termine polisemico e copre un raggio d’azione che va dalla guerra aperta a un più blando conflitto di opinioni. L’aspetto più significativo riguarda il fatto che queste forme di opposizione non si danno verso un nemico esterno, bensì si rivolgono verso l’interiorità degli enti e, per di più, li costituiscono in quanto tali. La metamorfosi, che Empedocle aveva descritto come esito cosmico dell’azione della discordia,viene qui declinata come principio ontogenetico, capace cioè di spiegare la creazione e la sussistenza di “tutte le cose”.
Pur nella diversità delle accezioni considerate, possiamo sostenere che la guerra per i Greci si colloca agli antipodi, da un lato, dell’idea di annientamento fine a sé stesso: essa non agisce avendo come fine la nullificazione dell’ente, bensì in favore del suo essere oppure della sua trasformazione. Dall’altro lato, la guerra sta al polo opposto anche rispetto alla nozione di tolleranza, poiché, diversamente da quest’ultima, essa non procede per toglimento delle differenze fino a raggiungere il minimo comun denominatore di una pacifica convivenza. Al contrario, dentro e fuori di noi la discordia valorizza le differenze come motore di cambiamento, individuale o universale che sia. Più che ai Greci, l’attuale concezione della guerra sembra debitrice allo spirito illuminista che, da Voltaire a Kant, ha optato per una declinazione della questione in chiave sociale e politica (e, di conseguenza, anche etica): la guerra è la situazione di conflitto nella quale entrano i popoli, le singole persone all’interno di una comunità o i gruppi che si coalizzano per una causa a svantaggio della voce opposta. Viene così posto l’accento sul rischio di annichilimento, che porta all’esigenza di coalizzarsi, far fronte comune per assicurare a entrambe le parti di continuare a esistere. La famosa sentenza, erroneamente attribuita a Voltaire da una sua biografa, ma che è fedele allo spirito che ha animato la riflessione razionalistica di fine Settecento, nasce dal bisogno di riposare sulla certezza, comunque vadano le cose, di sopravvivere al conflitto: «Non sono d’accordo con te, ma lotterò affinché tu possa esprimere la tua opinione» 2. La situazione nella quale si sa di poter dire qualsiasi cosa senza essere esposti al pericolo di vedere sconfitti il proprio sé o le proprie idee configura uno scenario opposto a quello greco, in cui la contraddizione veniva espressa a favore di una metamorfosi, cioè di un profondo cambiamento dello stato delle cose. Nel mondo moderno, invece, il principio di tolleranza che, letteralmente, si propone di tollere, rimuovere il rischio insito del contrasto, inaugura l’epoca del dominio dell’identico: al di là della manifestazione superficiale delle differenze, è uguale dire una cosa o un’altra perché
le conseguenze non saranno comunque significative: niente può davvero cambiare (o anche solo accadere) se si abbraccia una posizione diversa da quella di altri.
Oggi abitiamo una società che è stata definita “palliativa” o “della positività”3, nella quale il dolore (correlato costante della contraddizione) fa paura e ci si ingegna a vari livelli per espungerlo. Sul piano relazionale si rivendica sempre più spesso il diritto a recidere di punto in bianco i contatti (ghosting) o comunque a chiudersi nella bolla apparentemente protettiva dell’individualismo, rendendo sempre più flebili quei legami, sentimentali o affettivi, che, intrecciati con l’altro da sé, implicano inevitabilmente un dialogo talvolta conflittuale. Sul piano della crescita individuale, invece, alcuni genitori cosiddetti «elicottero» ovvero «coccodrillo»4 fanno il possibile affinché i loro figli non si trovino nella condizione di dover crescere soffrendo (tutto all’opposto del pathein mathos di greca memoria), per cui evitano loro quelle situazioni che potrebbero esporli a difficoltà o insuccessi, privandoli così della gratificazione che si ottiene nel momento del superamento degli ostacoli. A livello farmacologico è sempre più diffuso l’uso di medicinali analgesici o psicotropi, per attenuare le varie forme di sofferenza fisica o emotiva. Il messaggio implicito è che il dolore rappresenta un’esperienza da evitare a tutti i costi, piuttosto che una componente naturale della vita
umana. Questa tendenza porta a una medicalizzazione crescente delle emozioni negative,rendendo alcuni normali stati d’animo condizioni patologiche da curare, anziché accettare e comprendere. È ugualmente preoccupante la tendenza di un crescente numero di studenti universitari dei college americani a utilizzare stimolanti come Adderall e Ritalin (spesso prescritti per il trattamento del deficit attentivo), allo scopo di migliorare le prestazioni accademiche. Diverse ricerche mostrano che questi farmaci non potenziano realmente i risultati degli studenti senza diagnosi di ADHD; al contrario, il loro abuso porta a conseguenze negative, come il peggioramento della salute mentale, ma anche problemi cognitivi a lungo termine5.
Tentiamo in vari modi di trasformare la tragedia in commedia; d’altronde, veniamo costantemente esposti a rappresentazioni felici di vite riuscite attraverso i social media e proviamo a fare altrettanto con la nostra, senza renderci conto che in questo modo finiamo per mettere in scena una farsa. È grottesco quanto ingenuo pensare che gli elementi di negatività – dal trauma al dolore, dalla contraddizione allo scontro aperto – che caratterizzano ogni vissuto possano estinguersi, o venire rimossi, senza che ci vengano restituiti, con tanto di interessi.
L’epoca del dominio dell’identico dischiude così ben presto le porte all’“inferno dell’uguale”, dove la mancata adeguazione agli standard di felicità
↑ Cimitero militare di Arlington, Virginia (foto Wikicommons).
e produttività genera innanzitutto spossatezza, esaurimento (burn out) e autolesionismo. Il negativo, che rimane latente, non si dà per vinto e adotta vie più subdole per esprimersi, finendo per esercitarsi contro il soggetto, in funzione meramente autodistruttiva. Non si coglie la sfida del dilemma, il pungolo della contraddizione, ma si sventola bandiera bianca per non assumersi l’impegno, gravoso, di un confronto con l’alterità che ci abita. Il risultato è un kappaò preventivo, che viene a coincidere con la sfinitezza dell’individuo, volontariamente ritiratosi nella speranza di trovare così una efficace via di fuga dalla sofferenza.
Sul piano collettivo le cose sembrano altrettanto poco rassicuranti. «In che modo», si chiede il filosofo argentino Michel Benasayag, «è stato possibile che la barbarie dilagasse a tal punto, nonostante l’odierna diffusione dell’ideologia pacifista? È necessario rovesciare i termini del problema: l’inflazione delle guerre e della barbarie è piuttosto il frutto dell’ideologia pacifista. La pace, concepita e perseguita come fine della guerra, trasforma la guerra in strumento della pace, e nel nome della pace rende possibile accettare l’inflazione illimitata della violenza»6. Quando la pace è vista semplicemente come il fine della guerra, si corre il rischio di legittimare la guerra come mezzo necessario per raggiungere quel fine: si pensi all’ossimoro di «guerra preventiva» o al paradosso dell’esportazione della democrazia a ogni costo che gli americani hanno utilizzato come principi per fronteggiare chi abbia minacciato «la leadership a stelle e strisce» 7. In questo senso, la guerra diventa uno strumento plausibile, perché finalizzato all’ottenimento della pace. Il ragionamento, paradossale e provocatorio, ci aiuta a comprendere che nel mondo moderno la guerra, anziché essere eliminata, viene perpetuata e amplificata, in quanto giustificata da un obiettivo reputato superiore. La violenza diventa endemica perché sostenuta dall’ideologia che si propone di sconfiggerla. Quello della pace a ogni costo è un obiettivo ambizioso, che ha però come corollario la guerra totale di annientamento dell’avversario. Farsi portavoce di un ordine maggiore significa avallare la barbarie che si attraversa per arrivare a istituirlo.
È quindi il caso di riconsiderare in modo radicale la questione: non si tratta di promuovere un’ideologia guerresca fine e a sé stessa o un’immagine muscolare di sé e del proprio gruppo sociale, per divenire capaci di affrontare valorosamente ogni competizione. Questo modello è insidioso e caricaturale quanto le gesta cinematograficamente fuori scala nei film d’azione hollywoodiani.Andrebbe invece promossa una rieducazione al conflitto e alla contraddizione, che permetta di considerare la guerra come una componente essenziale dell’umano in particolare e dell’ente in generale:
combattiamo tutti una lotta contro noi stessi, ogni volta che non ci arrendiamo al conformismo, alle comodità, ai pregiudizi, all’indifferenza... Questa lotta va rispettata, in noi e negli altri, e supportata come veicolo di crescita di sé e trasformazione del mondo, a favore di una metamorfosi che non deve spaventare, ma alla quale dobbiamo tornare a guardare con la meraviglia che la filosofia ci ha insegnato a coltivare.
NOTE
1. U. Curi, Pòlemos. Filosofia come guerra , Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 157.
2. E.B. Hall, The Friends of Voltaire , Smith, Elder & Co, London 1906, tr. nostra.
3. B.-C. Han, Palliativegesellschaft Schmerz heute, Berlin 2020, tr. it. di S. Aglan-Buttazzi, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2022.
4. Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre, Feltrinelli, Milano 2015.
5. Cfr. A.N. Edinoff, C.A. Nix, S.E. McNeil et. al., Prescription Stimulants in College and Medical Students: A Narrative Review of Misuse, Cognitive Impact, and Adverse Effects , «Psychiatry International», 3/18 (2022), pp. 221-235; D.D. Abelman, Mitigating risks of students use of study drugs through understanding motivations for use and applying harm reduction theory: a literature review, «Harm Reduction Journal» 14, 68 (2017).
6. M. Benasayag, A. Del Rey, Éloge du conflit, Paris 2007, tr. it. di F. Leoni, Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2018, p. 52.
7. U. Curi, Giustizia duratura, in Il farmaco della democrazia. Alle radici della politica, Christian Marinotti editore, Milano 2003, p. 239.
Silvia Capodivacca
è laureata in Filosofia e in Storia. Già Visiting researcher alla Columbia University di New York, oggi è ricercatrice in Estetica all’Università Pegaso. Ha pubblicato diverse monografie (Danzare in catene. Saggio su Nietzsche; Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud; Novecento. La storia, una vita; What We Should Learn from Artists) e partecipato alla scrittura del manuale di storia della filosofia Il coraggio di pensare (di U. Curi). Sul sito de La ricerca tiene una rubrica filosofica dal titolo Philodiffusione. Attualmente sta lavorando sulle intersezioni tra filosofia e letteratura e sulla filosofia del digitale, per un’“ontologia dell’attualità”.
Per una scuola di pace
Dell’universo bellicista noi conosciamo tutto: cause delle guerre e loro “effetti collaterali”, creazione del consenso, alterazione delle informazioni, aspetti etnici, geopolitici, ambientali, tecnici, culturali, psicologici e sociologici; dell’universo pacifista, che soprattutto in questo ultimo secolo ha cercato di contrastare invano le guerre, si conosce ben poco.
di Alessandro Gozzo
Quando entrai nella scuola secondaria superiore chiedevo spesso ai colleghi di poter assistere alle loro lezioni, come metodo per imparare al meglio una professione dagli esperti. Un giorno in cui avevo un’ora “libera” un docente di storia mi invitò alla sua lezione sulla battaglia di Montaperti (1260). Davvero interessante fu conoscere i dettagli di un evento tanto importante dal punto di vista storico e strategico, ma rimasi allibito dal fatto che il docente non fece alcun commento di valore educativo, e si infervorasse nella descrizione di una carneficina in cui, a fronte di 600 morti ghibellini, in un sol giorno furono trucidati 10 mila guelfi in fuga. Il tutto narrato asetticamente come fosse la visione di un appassionante film di guerra (salvo l’accorata e doverosa citazione di Dante, Inferno X, 85). Mi chiesi allora quale dovesse essere la differenza fra la lezione su Montaperti (ieri) e la lezione di Montaperti (oggi). Il senso di insegnare la storia agli adolescenti sta tutto qui, altrimenti la storia stessa non ha nulla da insegnarci. E cosa ci insegna la battaglia di Montaperti? Ci dice, tra le tante riflessioni immaginabili, che è impossibile pensare oggi a una guerra tra Siena e Firenze, proprio come la Seconda guerra mondiale ha reso assurdo il solo pensiero di ucciderci ancora tra austriaci e italiani, tra francesi e tedeschi… E dunque, se i nostri popoli, che si massacravano con potenti eserciti tra una città e un’altra e tra uno stato e un altro, e oggi convivono pacificamente, significa che la pace è possibile e che la guerra è un flagello evitabile, non
una fatalità destinata a replicarsi in eterno1. Eppure questa stessa evidenza viene ancora negata persino di fronte a una possibile catastrofe atomica.
Sembra quasi che tutta l’educazione civica, tutto l’impegno della scuola, agenzia privilegiata di socializzazione per creare rapporti di cooperazione, fratellanza, rispetto dei diritti umani e delle diversità, non sia servito ad altro che a illudere intere generazioni del cosiddetto occidente di poter esportare il proprio modello positivo di convivenza pacifica all’intero mondo. Accade così il contrario, e cioè che queste nuove generazioni sembrano ormai disilluse sulla possibilità di inversione della politica guerrafondaia e del suo nuovo inesorabile destino2. Destino che ha mutato il quadro geopolitico spostando le guerre dal locale al globale,ovvero alla contrapposizione tra blocchi di potere enormi e fuori controllo che alimentano di anno in anno “micro” conflitti come minacce continue di scontri planetari apocalittici.
L’universo pacifista, questo sconosciuto
Se la pace non fosse possibile non la si dovrebbe nemmeno insegnare! Invece la storia dimostra che la pace è possibile, ma conferma altresì che i fattori che alimentano la guerra sono molti di più di quelli che alimentano la pace, dunque qualcosa non funziona nel nostro sistema educativo o nel sistema politico di gestione del potere. Sono difetti di organizzazione o c’è un “baco” nel cervello umano che impedisce agli umani di essere umani? Insomma, viene da chiedersi: se noi
ormai conosciamo, grazie al contributo di tutte le scienze, come funziona l’universo bellicista che ritma la storia, come mai non siamo riusciti a porvi rimedio? Oppure si deve riconoscere che non si è studiato e rafforzato il sistema contrario, ovvero l’universo pacifista che, soprattutto negli ultimi cent’anni, ha dimostrato la possibilità di contrastare le violenze senza l’uso della violenza?
Prima di ogni discorso sul tema, vi è la necessità pregiudiziale di possedere una mappatura dell’universo pacifista, sostanzialmente sconosciuto ai più e, ciò che è più grave, a molti educatori, politici e persino alle persone di cultura che dovrebbero tentare di invertire la rotta che porta alla distruzione della stessa vita sul pianeta.
Questo “universo pacifista” semisconosciuto comprende le esperienze pratiche di risoluzione delle tensioni e dei conflitti, gli studi sulla violenza e sulle sue dinamiche e l’invenzione di nuovi ed efficaci strumenti di costruzione e mantenimento della pace.
Per ciascuno di questi aspetti vi è ormai una letteratura corposa reperibile online 3 per coloro che desiderano approfondire i temi relativi: l’educazione alla pace, il disarmo, l’antimilitarismo, l’obiezione di coscienza agli eserciti, la nonviolenza, la difesa non armata e gli organismi sovranazionali per la tutela dei diritti umani e dell’ambiente. Tutte le scienze si sono occupate di questi argomenti soprattutto negli ultimi cent’anni e la produzione di letteratura specifica è ormai amplissima e facilmente rintracciabile. Ci vuole solo il tempo per leggerla e ricavarne le informazioni che possano costruire nelle future generazioni una “coscienza planetaria” auspicata dall’ONU nel preambolo alla dichiarazione universale «come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni». Prendiamo in considerazione questo ultimo aspetto. È un ideale ancora così lontano proprio perché l’ONU, di fronte alle guerre in atto, sembra che ormai non conti più nulla.
La grande politica è tornata a imporsi in tutta la sua tragicità. Volontà di potenza contro volontà di potenza. E schiacciate nel mezzo le istituzioni che ne avrebbero dovuto giudicare gli atti e anche giungere a sanzionarli. Esplicitamente ormai queste istituzioni sono considerate "nihil" dai detentori del potere effettuale. Nihilismo concreto: ogni soggetto non dotato di potere in atto è niente, semplicemente non è. Parla, dichiara, ma la parola non ha più valore. Neppure più il velo dell’ipocrisia sta a coprire la realtà che il diritto vigente è il diritto del più forte. Ma proprio questo è il problema: chi è il più forte? Come lo si deciderà? Tacciono i filosofi, muti i giuristi, le assemblee parlamentari ridotte a fantasmi. Non ci sarà altro arbitro, allora, che il conflitto in armi? La decisione spetterà soltanto
al vincitore? Così è sempre stato e così è destino avvenga ancora, se tutti gli istituti di mediazione, tutti i luoghi di discussione e compromesso vengono smantellati. 4
Quest’ultima frase, nella sua drammatica verità, sembra precludere ogni speranza di prevenzione e di soluzione delle guerre, proprio perché l’opinione pubblica viene pilotata dagli stessi sostenitori dei conflitti armati. Il complottismo, il populismo, il disfattismo, l’indifferenza e il pessimismo hanno le loro buone ragioni e privano di senso ed entusiasmo ogni discorso contrario. I pacifisti sono creduloni e sognatori e l’apologo di “Ivan lo sciocco” di Tolstoj appare come una favoletta senza valore pratico5
Sembra non esservi più nulla intorno a noi che possiamo dire capace di dar forma al futuro. Un grande scrittore del Novecento, Elias Canetti, ha parlato di questa situazione in pagine memorabili. «Questa cattedrale con i suoi ottocento anni potrebbe ridursi in polvere la prossima notte… questa città traboccante di vita crollare in un quarto d’ora». Se non avvertiamo la realtà del pericolo non potremo superarlo. Se lo comprendiamo, invece, può crescere la possibilità di salvezza 6
L’urgenza dell’educazione
alla pace
Comprendere il pericolo della guerra è dunque la chiave per superarlo. C’è un’urgenza nell’educazione alla convivenza pacifica che sembra trovare consapevolezza solo nei “fanatici” pacifisti, negli “illusi” sostenitori del disarmo unilaterale, negli “irenisti” seguaci di papa Francesco, negli “ingenui” propugnatori della difesa popolare nonviolenta, e così via.
In realtà il problema dovrebbe essere affrontato nei corsi di aggiornamento e dibattuto nei collegi dei docenti7, ma sappiamo che la struttura burocratica con le sue stringenti incombenze diventa l’ostacolo e anche il pretesto per evitare di mettere in gioco la struttura stessa della formazione primaria e secondaria.
Le linee guida istituzionali per una educazione alla pace a scuola hanno trovato forse la migliore espressione in una circolare del 2007 del ministro Fioroni, a cui si rinvia come a una inascoltata “grida” di manzoniana memoria. In essa si affermava quasi 20 anni fa un principio metodologico di valore perenne:
L’apprendimento e la pratica dell’azione per la pace e la nonviolenza e per i diritti umani devono essere finalizzati all’acquisizione del senso di responsabilità e devono contribuire all’educazione del rispetto dell’Altro. Si tratta di uno stile di vita, di un modo di essere che non si apprende attraverso lo studio
astratto di particolari discipline, ma che si assorbe per contatto, perché si è immersi in un clima di vita e di apprendimento in cui quotidianamente i valori della pace, del rispetto dell’altro e delle regole, del benessere inteso come stare bene insieme, vengano vissuti e respirati a pieni polmoni 8
Anche i docenti che danno una vita per la scuola spesso non sanno accordarsi per dare agli allievi una scuola per la vita (anzi, per la sopravvivenza!), proprio quando il futuro è messo a repentaglio dall’alto rischio di una deflagrazione mondiale alla quale sarebbero destinati a soccombere impotenti. Questo avviene probabilmente perché anche nei docenti stessi non vi è una chiarezza sulla complessità del problema. O forse, proprio per questa complessità, perché evitano di affrontarlo e si richiudono nei luoghi comuni. Essi non differenziano la violenza interpersonale da quella istituzionale. Ritengono, come la maggior parte delle persone, che la guerra derivi dalla cattiveria umana, dall’odio, dalla bramosia e dal desiderio di vendetta e che questi vizi non siano estirpabili. Da questi vizi si fanno derivare i desideri di conquista, gli abusi di potere, le ingordigie economiche e tutti gli interessi e i pregiudizi che scatenano ogni belligeranza. E il dibattito si chiude qui, con la convinzione che se tutti diventiamo buoni la guerra non si fa. Simili banalità teoriche non risolvono il mistero della violenza personale e istituzionale e del loro rapporto.
C’è uno studio di Erich Fromm, pressoché sconosciuto anche agli addetti, che ha chiarito scientificamente questo apparente enigma. Si intitola Anatomia della distruttività umana 9. È una ricerca antropologica delle radici e dei meccanismi della violenza soprattutto nelle culture di tribù cosiddette “primitive”. Nello stesso territorio, in areali diversi, egli ha osservato tribù ferocissime e altre che non conoscevano la violenza nemmeno come vocabolo.
Gli esseri umani apprendono tutto. Imparano a controllare le proprie azioni e reazioni nel lungo periodo dell’apprendimento che, a differenza degli animali, dura tutta la vita. La guerra è un fenomeno che non ha nulla a che vedere con le difficoltà dei singoli di reprimere la rabbia, l’invidia, l’odio che li potrebbe portare alla sopraffazione e all’omicidio. Questi comportamenti non sono “istinti”, sono reazioni che partono da semplici riflessi, non condizionati adeguatamente durante la formazione e che, nel fenomeno guerra, trovano una situazione di contrapposizione e una giustificazione collettiva ideale per scatenarli. Ma non sono atteggiamenti “spontanei”. Sono bensì artefatti e pilotati da una struttura rigidissima: l’esercito, dove la coscienza, mediante una gerarchia inflessibile, viene orientata soltanto all’obbedienza. E questa, nel momento dell’azione, deve essere cieca e priva del dubbio, perché altrimenti non raggiunge gli obiettivi, ovvero la distruzione dei nemici e delle loro strutture.
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Una delle prime edizioni di Guerra e pace, di Lev Tolstoj (@Svetliy/ Shutterstock).
Il tema scomodo dell’antimilitarismo
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C’è una vignetta ormai famosa di Pizzola che mostra un giovane soldato armato di tutto punto che afferma pressappoco così: «Sono felice perché qui mi danno una medaglia per quelle stesse cose per le quali nella vita civile ti darebbero l’ergastolo». La stessa morale viene capovolta all’interno del regime militare, e anche le persone miti devono compiere azioni violente che non avrebbero mai pensato di fare. La guerra si realizza con una macchina infernale che, dagli Assiri ad oggi, semina distruzione e morte da un continente all’altro, per difendere interessi camuffati da ideali per gli arruolati e per il popolo sprovveduto.
Queste considerazioni dovrebbero essere affrontate a scuola, soprattutto nella secondaria di primo e secondo grado, attraverso discussioni su libri letti, simulazioni di situazioni, debate, recital, incontri con obiettori di coscienza e con immigrati reduci dalle guerre nel mondo, con i responsabili di associazioni e movimenti per la pace e i diritti umani, con ricerche sulle alternative nonviolente e tanto altro. Il tutto però dovrebbe essere svolto in modo coordinato, secondo un disegno di formazione pluriennale condiviso dall’intero collegio dei docenti e coinvolgente tutte le discipline. Già questo auspicio diventa quasi improponibile nella scuola italiana, ma vi sono esempi virtuosi di istituti scolastici che dovrebbero essere presi come modelli di buone pratiche10.Sono esempi ancora limitati, e spesso le iniziative sono svolte come “aggiunte” alle programmazioni se non come attività extra curricolari, quasi disturbanti l’andamento didattico “normale”.Vi sono inoltre le resistenze di docenti e famigliari che non credono nell’articolo 11 della Costituzione e che accettano la possibilità della guerra sostenendo l’esistenza di eserciti sempre più armati con ordigni micidiali, come se questi fossero la garanzia della nostra sicurezza. La scuola, che dovrebbe per statuto “contrastare gli stereotipi e i pregiudizi” come questi, si trova
spesso a confermarli per lo più silenziosamente, senza avere il coraggio di coinvolgere nel dibattito i protagonisti delle opinioni contrapposte per raggiungere una convergenza possibile e riuscire a pensare un mondo senza eserciti11. Vi sono interi settori della storia e della letteratura antibellicista e contraria a ogni tipo di violenza che sono dimenticati o volutamente ignorati dagli studi scolastici. Se non c’è nei docenti questa conoscenza, come fanno a contrapporre agli slanci artefatti dei futuristi sulla Prima guerra mondiale le liriche dei poeti “disfattisti” o del romanzo straordinario di Bertha Von Suttner Abbasso le armi!? Non si tratta soltanto di presentare asetticamente i punti di vista sugli effetti dei genocidi12, ma di saper trarre dall’orrore la consapevolezza che in qualche modo ciascuno ne porta una parte di responsabilità, non fosse altro che per l’indifferenza di fronte al ripetersi odierno dei medesimi perversi “meccanismi”. Nei campi di concentramento non ci si dovrebbe limitare a piangere il passato e a maledire i tedeschi, i nazisti o i fascisti, ma a mostrare con continui aggiornamenti quanti genocidi sono avvenuti prima e dopo e sono ancora in corso, spesso nel silenzio complice dei media.
Le pagine più forti del diario di Anne Frank, della lettera di Giacomo Ulivi o di quella di don Milani ai giudici, debbono essere apprese a memoria e recitate con fervore in uno spettacolo sulla pace che dovrebbe essere costruito come “portfolio” delle esperienze più significative del percorso compiuto, da mostrare ai genitori e a altri istituti scolastici, ripreso e inserito come video in YouTube e come patrimonio nel sito della propria scuola13
Pace tra autorità e libertà
Queste considerazioni introducono un ulteriore argomento nella mappatura, ovvero la necessità di avere comunque un corpo di polizia e un controllo armato che contrasti le violenze private o quelle di gruppi delinquenziali. Dibattito che viene affrontato da sempre, ad esempio, nella letteratura anarchica14, radicalmente antimilitarista ma attenta ad evitare il caos nell’organizzazione della società. In buona sostanza, anche l’aporia pedagogica classica tra Autorità e Libertà, che sembra ormai dimenticata, entra a pieno titolo nelle argomentazioni di base orientate a sostenere il dialogo continuo come fondamento delle relazioni nonviolente. Queste discussioni non andrebbero delegate ai soli docenti di lettere o di filosofia, ma dovrebbero coinvolgere le altre discipline come, ad esempio, era previsto nella ricerca collettiva denominata “area di progetto” della riforma “Brocca”15 e come si sarebbe dovuta verificare nella terza prova, autentico saggio di studio multidisciplinare. Tutte innovazioni fallite miseramente, forse per il mo -
tivo che la parcellizzazione dei saperi, l’eccesso di specializzazione e il semplice irrigidimento dell’orario delle lezioni rendono sempre più impegnativa la formazione integrale dei docenti, il lavoro cooperativo e le attività pluri e inter-disciplinari. Questi stessi motivi rendono altrettanto inagibile una formazione “completa” alla pace, dove ogni disciplina diventa consapevole dell’importanza dei propri contributi complementari. Come c’è una filosofia per la guerra così esiste una filosofia per la pace, una musica, una biologia, un’antropologia, una chimica, una psicologia, una storia, una letteratura, una poesia, una geografia, una economia e una finanza per la pace.
Educazione all’autonomia morale contro il fanatismo
Uno studio di didattica è giunto a una definizione del concetto di autonomia in educazione 16. In esso si distinguono quelle che vengono definite le autonomie funzionali e disciplinari dall’autonomia morale. L’educazione alla pace richiede una formazione che porti all’autonomia morale, cioè a mettere l’individuo in grado di scegliere ciò che è giusto, ciò che è valido per il bene di tutti e di ciascuno. Già dalla primaria si dovrebbe discutere questo argomento per arrivare alla definizione di libertà. Essa viene intesa come il dover fare ciò che voglio , mentre è nel volere ciò che devo fare che si dovrebbe pervenire, dopo un congruo percorso di riflessione. Questa “scoperta”, soprattutto nell’adolescenza, aiuta a orientare i ragazzi all’autocontrollo e alla capacità di valutazione critica delle azioni da compiere. È un lavoro lungo e difficile quello di creare abitudini di responsabilità attraverso non solo le discussioni, ma soprattutto mediante la scelta di un impegno civile per il bene comune (in gruppi, associazioni, movimenti, partiti). La scuola sembra lontana da questo obiettivo, e dunque anche da uno spazio possibile di autentica educazione sui temi del pacifismo e sulle azioni richieste per realizzali. Queste impostazioni metodologiche necessitano un cambiamento piuttosto radicale della struttura scolastica tradizionale che, in parte, è già realizzata, ad esempio con le flipped classroom, dove si insegna a operare in autentica autonomia di apprendimento. Di questo tipo di didattica ha bisogno una educazione alla pace come prerequisito e come garanzia di corretta padronanza di abiti nonviolenza attiva17. Qualche esempio può servire. Un docente che insegna a leggere e a scrivere, in ogni ordine di scuola, verifica periodicamente i progressi e si accorge se un allievo ha acquisito la padronanza della lingua e a quale livello attraverso la correzione di performance disciplinari come il tema, il saggio breve, un semplice dettato o un colloquio. La scuola, purtroppo, si limita a verificare
queste prestazioni disciplinari e non le prestazioni di autonomia disciplinare. Cosa si deve intendere per prestazioni di autonomia disciplinare? Nella fattispecie linguistica, l’insegnante non dovrebbe accontentarsi del fatto che la o lo studente legga bene a voce alta o scriva un bel tema, ma dovrebbe verificare soprattutto se, dopo la scuola, legge di sua iniziativa dei libri, se tiene un diario, se scrive lettere ad amici, se ascolta audiolibri per puro diletto, se frequenta una biblioteca, se si abbona a una rivista, cioè se acquisisce col crescere dell’età quegli abiti che ne faranno per tutta la vita una persona di cultura, in perenne osservazione e ricerca. La scuola, in realtà, almeno qui in Italia in modo compulsivo, riempie di “compiti” un tempo ingiustamente indefinito. Questi compiti sono in genere ripetizioni di esercizi che intralciano queste performance di autonomia disciplinare, le quali invece favorirebbero la scoperta e la nascita di talenti che, nel sistema tradizionale, sono piuttosto repressi. Solo alcune o alcuni studenti si riveleranno interessati e studiosi in ogni disciplina, ma ciascuno/a dovrebbe essere valorizzato per gli interessi che manifesta e per la sensibilità che la/lo contraddistingue. Coloro che mostrano una sensibilità costante agli argomenti specifici e alle attività di pace, dovrebbero essere valorizzati, e in gruppi di lavoro, far sì che siano loro stessi a insegnare le vie della pace ai coetanei in ruoli di animazione. Per una didattica dei giovani “tutori” è tuttavia necessaria una programmazione “elastica”, una struttura diversa dell’orario, una flessibilità del gruppo classe e della gestione degli spazi: tutte innovazioni che faticano a entrare a regime negli istituti scolastici, perché le sperimentazioni svolte rimangono circoscritte e sono rarissimi i casi di dirigenti e insegnanti coinvolti.
Nell’educazione alla convivenza pacifica le esperienze di Pat Patfoort, ad esempio, sono emblematiche. Esse dimostrano che ogni conflitto relazionale si può trasformare in un’occasione di crescita se si impara ad affrontarlo, con un metodo nonviolento ben sviluppato, passo dopo passo, nei suoi libri di didattica delle relazioni paritarie. Il pedagogista Daniele Novara opera da tanti anni in questo campo, offrendo un suo metodo efficace per creare una comunità tra gli allievi e non solo; si moltiplicano le pubblicazioni di esperienze, giochi e di tutto ciò che si può usare per creare relazioni autentiche non conflittuali a scuola, in famiglia, nelle squadre sportive.
Se queste modalità operative fossero introdotte in ogni scuola del mondo si potrebbe sperare in una risoluzione pacifica dei conflitti anche a livello politico, e non solo interpersonale. Purtroppo è di là da venire una tale diffusione, e se anche vi sono esperienze eccellenti di convivenza anche in contesti di odio etnico (Neve Shalom ne è un esempio in Israele) esse sono uniche, osteggiate
dai loro governi e difficilmente riproponibili.
D’altra parte, quando l’ambiente attorno permane violento o non educato, determinato soprattutto da mass media incontrollati e incontrollabili, anche l’allievo che esce da una scuola di pace rinuncia presto alle sue abitudini nonviolente e ritorna all’aggressività originaria che con tanta fatica era stata modificata.
Questo vuol dire che l’educazione alla pace deve durare tutta la vita e che, oltre la scuola, è necessario creare altre occasioni formative che consentano di non regredire rispetto alle faticose conquiste di autocontrollo acquisite. Il Servizio Civile è una di queste opportunità, che dovrebbe essere proposta come scelta esemplare e preferenziale. La scuola superiore si dovrebbe far carico di invitare le e i giovani che lo stanno svolgendo per conoscere ciò che fanno, indipendentemente dai rilievi critici che ora si aggiungono.
Una scuola verso il Servizio Civile
Anche nei momenti di formazione dei giovani che scelgono il Servizio Civile valgono le medesime considerazioni pedagogiche finora espresse, ma i formatori scelti sono spesso impreparati nella componente pedagogica del loro operare, proprio quella più importante, e si limitano a svolgere lezioni frontali più o meno edulcorate con espedienti o “effetti speciali”, replicando le modalità di insegnamento della propria adolescenza. Questa formazione può essere interessante, a seconda della bravura delle/dei docenti, ma non sfocia in
un affiancamento costante di gruppi di lavoro che, assieme al formatore esperto e a giovani che hanno già svolto il servizio, cerchino di realizzare quello che dovrebbe essere il servizio civile, ovvero la fase adulta del progetto di costruire la pace, così come altri organizzano la guerra. L’esercito della pace ancora non esiste, i “Corpi Civili di Pace” sono in fase embrionale e il servizio civile è l’ultima scuola istituzionale di cittadinanza attiva, ma viene scelta come anno sabbatico remunerato e di facile “consumo” e non come abbrivio e allenamento a ruoli e attività associative di intervento sociale diretto, da svolgere nel mondo come cittadine e cittadini responsabili e consapevoli delle modalità di mantenimento della democrazia e delle relazioni pacifiche. Non si tratta di formare degli attivisti massimalisti e intransigenti, ma delle persone convinte che senza il contributo di tutti non si sostiene la democrazia, la si indebolisce, e che le conquiste tanto sofferte dei diritti civili si perdono a favore degli interessi di pochi, e dei governi che a questi pochi sono ossequienti. A scuola, i docenti di diritto in collaborazione con quelli di storia, di filosofia e di scienze sociali dovrebbero insegnare gli elementi di base della democrazia, cioè a gestire una assemblea di classe e di istituto; governare le dinamiche di conflitto; apprendere i principi e i metodi della mediazione; mantenere il rispetto per le diversità e le minoranze; concertare i criteri per l’organizzazione delle azioni di protesta; aggiornare sulla legislazione specifica; narrare esperienze delle rivendicazioni e delle proteste di successo e analizzare quelle di fallimento; mostrare come la democrazia evoluta
sia quel sistema che impone la supremazia del numero, nella consapevolezza tremebonda che quasi sempre sono state le minoranze illuminate a migliorare il sistema. Tutti insegnamenti vincolanti, dinamiche da apprendere e padroneggiare, che invece da mezzo secolo si lasciano all’estro disordinato di qualche giovane volenteroso, zelante o a volte anche scapestrato.
Nelle esperienze di pace entra a pieno titolo l’organizzazione dello sciopero come tecnica nonviolenta per eccellenza, sovente militarizzata nella storia con i “picchetti” fuori dai cancelli o con ricatti o disturbi tra categorie di lavoratori. Le proteste vanno organizzate per tempo, e non raffazzonate all’ultimo momento sull’onda di qualche evento e poi tutto finisce lì18
L’educazione alla pace deve essere oggetto di tutte le discipline19.Anche la matematica può dare un contributo essenziale: ad esempio, insegnando gli elementi di statistica anche se non sono nel programma. Molte delle informazioni che riceviamo sono di tipo statistico, ma i criteri con cui i dati vengono raccolti non sono espressi, e pertanto ogni dato è inficiato nel suo valore. Insegnare anche a diffidare delle nostre microstatistiche personali sarebbe già un importante obiettivo, che tende all’oggettività come orizzonte di ogni dialogo onesto, pena una superficialità devastante che mette sullo stesso piano affermazioni sciocche con perle di saggezza. La stupidità di chi non sa distinguere il punto di vista soggettivo da quello oggettivo e afferma che il secondo non esiste, rafforzando con ciò l’individualismo cieco, è un pericolo costante soprattutto sui social e nelle chat quotidiane20. Le dittature e le guerre prosperano sulla stupidità umana, e la scuola dovrebbe fare un esame di coscienza, sapendo che da essa continuano a uscire individui sciocchi, che seguono le mode più becere21.
L’omologazione positiva al rialzo
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Se si dovesse sintetizzare in un solo elemento la didattica della educazione alla pace, si potrebbe dire che essa consiste nella costruzione di una buona abitudine nel sostenere con costanza le iniziative più efficaci per la soluzione nonviolenta dei conflitti sia personali che sociali.
La caratteristica psicologica saliente degli esseri umani è quella di “gregario” (Rita Levi Montalcini). Le persone vogliono sentirsi accettate, seguono le mode e riproducono gli atteggiamenti che li fanno sentire più inclusi nel gruppo. Spesso queste mode sono effimere, inconcludenti, insensate. Si tratta di individuare i comportamenti “virtuosi” e di avere la forza di andare controcorrente per invertire la pendenza del piano inclinato che fa scivolare le maggioranze verso il basso, e perfino verso gli abissi delle dittature. Tutte le dittature,
infatti, hanno un’approvazione ampia. Anche l’attuale consenso delle masse alla politica folle delle privatizzazioni o, nello specifico, del riarmo e dei tagli ai servizi essenziali è frutto di questa miriade di scelte personali di approvazione silenziosa e di accondiscendenza passiva.
Invertire la tendenza negativa di aggregazione al ribasso e educare a una capacità di “omologazione” positiva al rialzo, come scoperta e sostegno di atteggiamenti virtuosi e audaci di innovazione sociale, è il compito più importante di un’educazione all’impegno civico che porta alla pace e la mantiene nel tempo.
Ritentare sempre l’impossibile —
La storia dell’obiezione di coscienza all’esercito è un racconto di atti solitari di coraggio e di grande solitudine. Chi è finito in carcere, accudito dai suoi stessi coetanei in divisa, si è percepito diverso e abbandonato al proprio destino anche da chi lo stimava, ma non muoveva un dito in suo favore. Quando Sophie Scholl nel film La Rosa Bianca (2005, regia di Marc Rothemund) distribuisce i volantini all’università, è convinta che i suoi compagni si ribelleranno alla follia nazista che li sta inviando a morire in prima linea a Stalingrado.Anche Franz Jägerstätter, Josef Mayr Nusser e tanti altri22 erano sicuri che la scelta di obiettare a Hitler fosse un obbligo morale per coloro che si professavano cristiani. Ma non ci fu una sollevazione di massa, e anche i 30 mila oppositori al regime furono “dissolti” perché schiacciati dal peso dei milioni di connazionali delatori e consenzienti. Tutti erano nazisti per paura. E in Italia durante il fascismo si visse una identica omertà diffusa. Nelle storie di mafia la dinamica è la medesima, e il terrore è uguale. Spesso i magistrati antimafia, o i semplici cittadini e cittadine che rifiutano di pagare il pizzo, pagano con la vita la loro solitudine, e ciò contribuisce a incrementare la paura. Forse oggi non è più solamente la paura a determinare l’accettazione supina di scelte miopi e contraddittorie, come i tagli alla sanità pubblica e alla scuola a fronte di un aumento esponenziale delle spese in armamenti. È una situazione di comodo e di disinteresse diffuso, che lascia soli coloro che intraprendono iniziative di protesta come i sit-in, gli scioperi o una delle altre centinaia di tecniche nonviolente23
Sapersi aggregare alle iniziative contrarie alla violenza dovrebbe essere un imperativo morale per coloro che vogliono imparare a costruire la pace; sostenere i movimenti e le iniziative che cercano di eliminare le armi dovrebbe diventare una “moda” tra gli e le studenti24. È evidente che per raggiungere un grado sufficiente di giudizio critico per scegliere le iniziative migliori è necessario uno studio guidato dai diversi docenti
nell’arco della formazione primaria e secondaria; un periodo molto lungo, in cui si imparano tante cose importanti, ma la più utile dovrebbe essere la capacità di sostenere col proprio voto e con la partecipazione attiva quei movimenti e quelle iniziative che sono state riconosciute come valide lungo gli anni e nei continui dibattiti sulla ricerca dei mezzi coerenti con il fine della pace25
Tutto ciò può apparire improponibile nella nostra scuola, ma la riflessione di uno dei più grandi conoscitori delle dinamiche sociali può servire da perenne monito: «È perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile» (Max Weber, La politica come professione, 1919).
Credere che la pace sia possibile è un atto radicale di fede e di rigore razionale che deve nascere dall’irriducibile principio di fratellanza universale; un dovere morale che ogni docente deve inoculare negli allievi come vaccino al morbo della violenza dei pochi e all’arrendevolezza dei molti sulla quale si sostiene ogni guerra e ogni violenza, specialmente nelle istituzioni.
NOTE
1. La Svizzera, da quasi due secoli immune dalle guerre che le hanno infuriato attorno,non è un Paese prediletto da Dio, ma una efficace organizzazione della convivenza civile tra regioni di lingue diverse. Un Paese dove c’è un esercito efficientissimo, dove ogni nuova casa costruita ha il rifugio antiatomico, dove i mercanti di armi e gli speculatori mondiali hanno la loro cassaforte, riesce a evitare i conflitti da due secoli e a porsi come luogo di mediazione. Non sarà virtuoso né pacifista, ma è un esempio incredibile di organizzazione funzionale di convivenza senza guerre.
2. Quando scoppiò la guerra in Ucraina e l’Italia iniziò ad inviare armi, fu chiesto a 40 giovani che avevano terminato il servizio civile con le lezioni e i lunghi dibattiti sulla nonviolenza, l’obiezione di coscienza, l’educazione alla pace e alla risoluzione pacifica dei conflitti ecc. se fosse giusto risolvere le controversie internazionali sostenendo la guerra: tutti sostennero l’intervento armato. Nel libro Maledetti pacifisti di Nico Piro (People, Busto Arsizio 2022), si definisce chiaramente quello che lui chiama ironicamente il PUB, il Pensiero Unico Bellicista, che domina in ogni comunicazione riferita alle guerre in atto, e dove la verità è la prima vittima.
3. Il “movimento Nonviolento” ha una bibliografia essenziale per inquadrare questi argomenti, ma è possibile visionare da remoto anche l’enorme archivio che Alberto Labate ha donato alla biblioteca di Firenze. Labate, Lanza del Vasto e Aldo Capitini rappresentano gli autentici eredi di Gandhi in Italia. Pochi giovani in uscita dalla scuola secondaria si sono imbattuti anche solo nei nomi di queste figure-cardine nell’educazione alla pace. Ormai sono molti i siti che riportano bibliografie specifiche e aggiornamenti sugli sviluppi del
pensiero pacifista e nonviolento, come Satyagraha, Peacelink, Archivio disarmo, Pax Cristi, Azione nonviolenta, Rivista Anarchica, solo per citarne alcuni. E se la ricerca la fanno le e gli studenti stessi, spesso porta a scoprire delle informazioni che sfuggono anche agli esperti. Quindi non è più necessario dare indicazioni dettagliate, perché basta la bibliografia in fondo a un libro, come ad esempio lo studio recente e approfondito sull’obiezione di coscienza di Marco Labbate Un’altra patria , per entrare in un vasto mondo noto a pochi lettori e supportato dall’archivio del Centro Sereno Regis di Torino. È sufficiente digitare un nome o un titolo, vedere un film “proibito” come Non uccidere di Claude Autant-Lara (1961), per entrare in argomento, o i video provocatori di dibattito di Michael Moore. Per le informazioni di carattere mondiale si può esplorare il sito di War Resisters International (WRI) o dell’IFOR (International Fellowship of Reconciliation) o del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione fondato da M. L. King), Atlante delle guerre, PEACELINK, UNIMONDO ecc.
4. Massimo Cacciari, Muore il compromesso, trionfa la guerra, Il dottor Stranamore è ancora tra noi, in «La Stampa», 29 luglio 2024.
5. Si veda https://www.youtube.com/watch?v=pFS6tlxgmGs.
6. Ibidem.
7. L’educazione alla pace entro la normativa sull’educazione civica (legge 92 del 2019) dovrebbe prendere lo spunto dal primo dei tre assi portanti: La Costituzione e in particolare l’articolo 11 che negli ultimi anni è stato annullato nei fatti, dapprima nell’accettare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie nel momento in cui si sono sostenute direttamente o indirettamente le varie guerre (Kuwait, Iraq, Cossovo, Ucraina) poi nel sostenere la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli (nel momento in cui Israele o L’Ucraina invadono altri territori con il nostro beneplacito). Gli altri assi portanti (lo sviluppo sostenibile e la cittadinanza digitale) sono decisamente in subordine rispetto al pericolo di essere coinvolti nei conflitti planetari perché si è abdicato alla neutralità belligerante sancita dall’’articolo 11. Chi sostiene la guerra dovrebbe avere il coraggio di andare a combattere in prima linea e non a sostenere la sua posizione seduto ben comodo nelle retrovie.
8. Programma nazionale “La pace si fa a scuola”, 4 ottobre – Giornata Nazionale della pace a scuola. Link alla circolare: chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://archivio.pubblica.istruzione.it/ normativa/2007/allegati/all_prot4751.pdf
9. In Italia edito da Mondadori nella traduzione di S. Stefani, 1992.
10. Ad esempio vi sono gli istituti che fanno parte della rete nazionale di scuole per la pace. Si veda in questo numero l’articolo di Aluisi Tosolini, Di scuola e di pace, a p. 70. 11. Già Kant, nell’opuscolo Per una pace perpetua, nel terzo punto dei 6 articoli “preliminari” scrive: «col tempo gli eserciti permanenti devono essere aboliti». Questo
concetto viene ripreso identico nella Dichiarazione di diritti della Virginia del 1776, dove si scrisse nell’articolo 13 «Una ben tenuta milizia, composta dal corpo stesso del popolo, abituato alle armi, è la vera, naturale e sicura difesa di uno Stato libero. Gli eserciti permanenti, in tempo di pace, dovrebbero essere soppressi, come pericolosi alla libertà». Non fu scritta da antimilitaristi questa regola, come si vede, e tuttavia fu ben presto eliminata dalla successiva Costituzione del 1787 con l’aggiunta, nello stesso anno, del secondo emendamento «Essendo necessaria, per la sicurezza di uno stato libero, una Milizia ben organizzata, non sarà vietato il diritto del popolo di tenere e portare armi», emendamento fatale per la sicurezza interna, perché oggi in un solo anno negli USA con le armi vengono uccise 30 mila persone. Questa guerra interna, che ogni 2 anni fa più vittime americane che in tutta la guerra del Vietnam, dimostra che le armi, quando ci sono, si usano, e che lo stesso vale per gli eserciti: se esistono, prima o dopo entreranno in azione. Sembra che l’esempio del Costa Rica, Paese senza esercito, non serva a far comprendere che è possibile investire tutte le risorse nel benessere interno e in forme di difesa non armata.
12. Il secolo del genocidio di Gellately e Il secolo dei genocidi di Bruneteau sono tra le pubblicazioni più recenti.
13. La lista di nomi dei costruttori di pace è molto lunga ed ha pagine e vicende straordinarie da riscoprire in ogni anno e - perché no? – in ogni giorno di scuola, come se fosse un nuovo calendario con nuovi “santi”. L’elenco “ufficiale” più noto è quello dei premi Nobel, in qualche caso discutibili, ma per la maggior parte si tratta di figure eccezionali, come Bertha Von Suttner, Betty Williams, Malala… a cui si possono aggiungere personaggi come Simone Weil, Albert Schweitzer, fino ad arrivare ai “nostri” Pietro Pinna, Alberto Trevisan… 14. Anarchia come organizzazione , di Colin Ward, è un libro giusto per iniziare a conoscere questo segmento semisconosciuto della storia contemporanea, eclissato nei libri di storia ma che ha avuto filosofi, studiosi e rivoluzionari coraggiosi. Un mondo complesso che va dal radicalismo ateo e individualista di Max Stirner (L’unico e la sua proprietà) attraverso il pensiero dei grandi come Bakunin e Kropotkin, gli italiani Malatesta e Kafiero e tanti altri, fino all’estremo opposto del cosiddetto anarchismo cristiano di Lev Tolstoj. Questi scrisse molte pagine sul radicalismo evangelico, e soprattutto un saggio straordinario intitolato Il regno di Dio è in voi, che fu letto dal giovane avvocato Mohandas Gandhi, il quale ne ricavò la dottrina della non resistenza al male chiamandola poi Satyagraha e applicandola alle lotte nonviolente in Sudafrica e in India.
15. Beniamino Brocca, come sottosegretario alla pubblica istruzione, fu l’innovatore più significativo della scuola italiana dalla primaria alla secondaria: l’unico che coinvolse nell’impresa i migliori scienziati e docenti italiani per stendere dei programmi che ancora oggi rimangono insuperati nel loro valore formativo e come orientamento per le future modifiche che, in realtà sono state compiute “al ribasso”, non tanto rispetto ai conte-
nuti,che erano eccessivi,ma al metodo,magistralmente sintetizzato nelle note metodologiche introduttive. L’educazione alla pace necessita di veder realizzata quella cooperazione tra docenti e discipline che i programmi Brocca auspicavano e sostenevano ipotizzando anche le flessibilità orarie e i tempi di coordinamento tra docenti che, in realtà furono realizzati solo nella scuola elementare (togliendo due ore dal lavoro fronte-classe per darle alle riunioni tra docenti; ore che poi furono rimesse alla docenza dai micidiali tagli successivi). Una scuola che dà preferenza alle azioni di pace dovrebbe protestare in modo civile contro lo spreco delle risorse statali in armamenti inutili e dannosi e chiedere che quelle risorse immense siano invece usate per migliorare la formazione delle nuove generazioni!
16.Studio compiuto nel “Laboratorio di didattica dell’autonomia dell’allievo con disabilità” presso l’Università di Ca’ Foscari durante i corsi della SSIS del Veneto nel semestre aggiuntivo per la formazione degli insegnanti di sostegno. Esso è consistito nell’aver identificato e descritto le varie autonomie funzionali (autonomia cognitiva, affettivo relazionale, sensoriale, comunicazionale, linguistica, motorio-prassica, neuropsicologica) differenziandole dall’autonomia morale, intesa come la capacità di dare a sé stessi le regole che valgono per tutti.
17. Giuliano Pontara, uno dei maggiori studiosi internazionali della lotta nonviolenta di Mohandas K. Gandhi, nel saggio introduttivo al volume di scritti gandhiani Teoria e pratica della nonviolenza (1973) riassume così i sei
→ Manifesto antimilitarista
(@Anna Stakhiv/ Shutterstock).
principi di lotta nonviolenta all’interno di un conflitto con avversari violenti: non usare o minacciare violenza nei confronti degli avversari; attenersi in ogni fase del conflitto alla verità; disponibilità ai massimi sacrifici per la realizzazione degli obiettivi che si ritiene essenziali; costante attuazione di un programma costruttivo; disponibilità al compromesso sugli obiettivi non considerati essenziali; astensione dal ricorrere subito alle forme più radicali di lotta (nonviolenta).
18. Martin Luther King passava tutta la fila di manifestanti per raccogliere i coltelli che portavano con sé, onde evitare risposte aggressive alla polizia; in Francia i ferrovieri avevano organizzato uno sciopero nazionale senza fermare i treni: i passeggeri viaggiavano gratis, il controllore spiegava i motivi dello sciopero e raccoglieva le adesioni dei viaggiatori, nel volantino gli obiettivi erano pochi e chiari e lo sciopero era ad oltranza e a danno economico dell’azienda e non dei dipendenti, tutti uniti nella lotta. In questa prospettiva, gli scioperi di un’ora o di un giorno sono quasi ridicoli se la materia è seria, essi sono funzionali alla debolezza del sindacato e alla diffusa indifferenza dei lavoratori che, invece di andare in piazza, attendono di aggiungere un giorno di “ferie” non retribuite al fine settimana.
19. L’insegnamento della religione dovrebbe essere l’occasione per ragionare su quello che Jean Marie Muller chiama «Il vangelo delle nonviolenza» in un libro straordinario e dimenticato, al pari di Tu non uccidere di
Primo Mazzolari.
20. Si veda a questo proposito il libro di Giancarlo Livraghi, Il potere della stupidità, Monti & Ambrosini editori, 2008.
21. In Mein Kampf Hitler scriveva che una menzogna perché sia creduta dal popolo deve essere enorme.
22. Nel libro I cattolici tedeschi e le guerre di Hitler il sociologo statunitense Gordon Zahn, nel primo dopoguerra, per capire come mai fu possibile la follia di un intero popolo plagiato da un dittatore psicopatico, compie una ricerca sociologica sugli oppositori al regime nazista e scopre che ben 30 mila persone furono identificate come tali e controllate, confinate o eliminate durante quel periodo. Fu lui a scoprire la vicenda di Jägerstätter, che successivamente fu raccolta da Thomas Merton nel libretto Fede e violenza, (1969) un piccolo gioiello ormai introvabile dove l’autore scrive, tra l’altro, «una devota meditazione su Adolf Eichmann» e una pagina straordinaria sui cosiddetti “sani di mente” che preparano i futuri genocidi atomici.
23. Queste tecniche sono ben descritte nei libri di Capitini (Tecniche dell’azione nonviolenta) o da Gene Sharp nel secondo volume di Politica dell’azione nonviolenta, che ne enumera 197, le quali spaziano dalle semplici lettere di protesta, ai boicottaggi, dal jail-in (che il sottoscritto nel 1979 ha usato con successo assieme ad altri obiettori di coscienza per ottenere la parità di durata e la smilitarizzazione del Servizio Civile) fino ai sabotaggi, e come scrive nella conclusione del libro datato 1973, «È certo che qualsiasi revisione futura dell’elenco […] comporterà un notevole ampliamento». Non so se c’è stato.
24. Soprattutto delle studenti capaci di andare controcorrente, rispetto alle coetanee che vedono, nella possibilità di diventare soldatesse, una forma di emancipazione e non di omologazione maschilista; studenti consapevoli che la perdita del secolare monopolio maschile della violenza non è un grande progresso verso la pace. Esso dovrebbe consistere nell’eliminazione della violenza e non soltanto del perverso monopolio maschile.
25. Gandhi afferma che tra i mezzi e il fine ci deve essere lo stesso identico rapporto che vi è tra il seme e la pianta. Con mezzi violenti non si rende l’uomo nonviolento; con mezzi coercitivi non si rende l’uomo libero; con le minacce non si rende la persona sicura; con le armi non si raccoglie la pace.
Alessandro Gozzo
è stato insegnante di ruolo nella scuola elementare dal 1971 per 20 anni, e poi docente di Filosofia e Scienze dell’Educazione al Liceo “M. Polo-Tommaseo” di Venezia. Dal 2001 ha operato alla SSIS del Veneto (Venezia, Padova e Verona), continuando anche dopo il pensionamento, in particolare nella formazione dei docenti di sostegno. Impegnato da giovane nell’ambito dell’associazionismo cattolico, si è poi dedicato a quello del terzo settore.
I morti degli altri
Analizzando i media e le narrazioni pubbliche riguardanti i conflitti, con esempi storici e contemporanei, si può riflettere sul modo in cui la distanza geografica e culturale tra noi e gli altri, e quindi la nostra idea di identità, influiscano sulla formazione delle emozioni collettive come la solidarietà e sulle dinamiche di empatia o di disumanizzazione.
di Marco Aime
Non tutti i morti sono uguali, alcuni sono più uguali degli altri. Questo atteggiamento lo vediamo (per fortuna non troppo spesso) anche nei classici annunci televisivi in occasione di un qualche disastro. Dopo l’annuncio del fatto e del numero dei morti, solitamente segue la frase, pronunciata quasi con un sospiro di sollievo: «nessun italiano tra le vittime». Se poi si passa alle edizioni regionali, l’importanza su base territoriale data ai caduti è ancora più limitata «nessun toscano, piemontese, pugliese a bordo». Lo registriamo anche nelle tragiche vicende degli ultimi tempi: i disperati di Gaza suscitano meno empatia di quelli israeliani, le vittime delle molte guerre in Africa nemmeno raggiungono l’onore delle cronache. La distanza (geografica e culturale, anche se spesso presunta) gioca un ruolo fondamentale nella nostra percezione. Il bambino è sì un po’ più neutro rispetto agli adulti, ma fino a un certo punto. Nonostante possa essere percepito come meno responsabile della differenza, o comunque non ancora così “altro”, rimane però quel senso di appartenenza che fa sentire i “nostri” bambini più importanti degli altri. Come scrive lucidamente Susan Sontag: «Durante i combattimenti tra serbi e croati all’inizio delle recenti guerre dei Balcani, le stesse fotografie di bambini uccisi nel bombardamento di un villaggio venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava cambiare la
didascalia e la morte di quei bambini poteva essere utilizzata innumerevoli volte […] Per un ebreo israeliano, la fotografia di un bambino dilaniato in seguito a un attentato alla pizzeria Sbarro nel centro di Gerusalemme è innanzitutto la foto di un bambino ebreo ucciso da un kamikaze palestinese. Per un palestinese, la fotografia di un bambino dilaniato dal fuoco di un carro armato a Gaza è innanzitutto la foto di un bambino palestinese ucciso dall’artiglieria israeliana. Per i militanti l’identità è tutto»1.
Identità: ancora una volta questa parola è foriera di danni terribili. Non siamo capaci di abbandonare l’idea che gli esseri umani siano in qualche modo marchiati da una nazionalità, da una cittadinanza, da un legame con un territorio che, se non è il nostro, li rende automaticamente stranieri. Nascita e nazione sembrano diventati un binomio indissolubile, sul quale costruire la nostra identità. «Nel corso della mia vita ho visto dei francesi, degli inglesi, degli italiani, dei tedeschi, dei russi: ho anche appreso da un celebre libro, che si può essere persiano. Ma non ho mai visto l’uomo»2. Così scriveva lo statista e diplomatico francese Joseph de Maistre. Parole ciniche, che riflettono però una mentalità molto diffusa, direi quasi dominante. Quando si parla di un individuo, l’origine, l’appartenenza, la nazionalità vengono prima del suo far parte del genere umano. La nascita diventa nazione e ogni nazione ha un confine, che finisce per generare uno scarto tra coloro che consideriamo dei “nostri” e gli altri. È su questi
confini che si costruisce il pensiero identitario, il noi più refrattario a ogni confronto, quello che, includendo alcuni, esclude tutti gli altri.
Per qualche decennio dopo la Seconda guerra mondiale è sembrato che certe pulsioni si fossero attenuate, almeno in Occidente, ma la memoria collettiva è spesso corta, e oggi la realtà dell’Europa è nuovamente segnata da una forte componente sovranista, con echi sinistri del passato, che richiama il legame tra suolo e sangue: «il sangue, il suolo e la personalità; essi sono modellati secondo le forme del nostro tempo, la germanità eterna», scriveva il teorico del nazismo
Alfred Rosenberg. Basti pensare a come, pur con le debite distinzioni, anche lo ius sanguinis sia un esempio di questo approccio; conferisce infatti un significato biologico a un dato socio-culturale, come l’essere italiano, che di biologico non ha nulla. Anche il popolo da demos diventa ethnos, da ceto sociale diventa etnia, tribù, e la frattura di classe viene rimodellata in chiave etno-culturale e fatta coincidere con la nazione. Ecco, allora, che i morti degli “altri” sono meno morti dei “nostri”. «Stavolta no: a differenza di altre stragi di matrice terroristica, non ci sentiamo parte della comunità degli offesi»3. Con queste poche parole Mariano Croce riassume benissimo il sentire di molti di noi dopo il massacro perpetrato per mano dell’Isis al Crocus City Hall di Mosca il 22 marzo 2024. Nonostante il numero, nonostante fossero tutti comuni cittadini, quelle vittime non hanno superato la soglia emotiva che spinge al compianto. Perché sono russi e quindi nemici, visto che da due anni Vladimir Putin conduce una guerra contro l’Ucraina in cui l’Europa e l’Italia (non gli italiani) sono schierati a fianco di Kiev. Le persone uccise nel teatro erano cittadini, non militari invasori, ma persone comuni, e tra di loro c’era certamente chi non era neppure d’accordo con le scelte scellerate del presidente russo, eppure sono finite dalla parte dei nemici, per i quali non vale la pena spendere troppe lacrime. O forse sarebbe meglio dire che quei morti non muovono a commozione le nostre coscienze, perché non si tratta di un sentimento razionale: perché questa distinzione tra i nostri e gli altrui sia efficace deve essere istintiva. Sono molti i casi in cui una comunità, qualunque essa sia, si compatta sulla base di un nemico, e quel nemico deve essere distante, o comunque allontanato simbolicamente. Deve stare al di fuori di “noi”. È lo stesso meccanismo che sta alla base delle accuse di stregoneria, che sono quasi sempre rivolte a individui in qualche modo al di fuori o marginali alla comunità. La loro funzione è proprio quella di incanalare verso l’esterno le tensioni e le pulsioni distruttive interne; così la comunità, minacciata da un male esterno, riesce a pensarsi come naturalmente buona. Il cattivo ci serve, per definire su di esso l’immagine di un
“noi” buono 4 ; talvolta è una soluzione, proprio come i barbari della celebre poesia di Costantino Kavafis. Ogni società umana stabilisce un confine tra ciò che è bene e ciò che è male e attribuisce a quest’ultimo volti diversi. Per questo, come scrive ancora Croce: «Non scatta in noi quella comoda coazione alla solidarietà che nella passate tragedie, per quel poco che è durato, ci ha fatto dire che i morti era come fossero i nostri ‒ anzi, che era come fossimo morti noi stessi».
Non ci sono state marce di indignazione, nessuno ha indossato magliette con su scritto “Я Крокус” (io sono Crocus) e addirittura, per qualche giorno, si è temuto che in quell’episodio atroce fosse coinvolto il governo ucraino, che invece consideriamo amico. Nonostante i colpevoli appartenessero, invece, alla stessa galassia jihadista che condusse l’eccidio dell’11 settembre 2001, in questo caso le vittime non erano così nostre come quelle di New York.
I nostri sentimenti sono anche condizionati dalle informazioni che riceviamo e che orientano i nostri stati d’animo. L’attacco russo ha immediatamente posto l’Ucraina e la sua popolazione nel nostro campo emozionale: appariva evidente chi fosse il cattivo e Putin incarna benissimo quel ruolo. Non ci hanno mai mosso a solidarietà, invece, gli oltre cinquemila morti russi, caduti nel corso di un conflitto iniziato nel 2014 e durato ben otto anni, di cui non si è quasi mai parlato nel nostro Paese. Si potrebbe dire altrettanto dei quasi 6 milioni di morti nel corso della ventennale guerra in corso nella Repubblica Democratica del Congo, totalmente assente da schermi e giornali nazionali.
La Russia, dopo la rivoluzione di Ottobre, è stata allontanata ideologicamente dal mondo occidentale, è diventata nemica, e, a proposito di morti, è triste vedere come nella maggior parte delle rievocazioni relative alla Seconda guerra mondiale si ponga sempre l’accento sul ruolo fondamentale svolto dalle truppe alleate e molto meno sui 20 milioni di morti sovietici caduti contro le truppe naziste.
Il 7 ottobre 2024 militanti di Hamas compiono un terribile e atroce massacro oltre il confine israeliano, in cui vengono barbaramente uccisi 1.200 civili. Nulla può giustificare quell’attacco, che giustamente suscita orrore in quasi tutto il mondo. Le vittime erano peraltro in gran parte giovani, che partecipavano con danze e bevute al festival all’aperto di musica trance Supernova Sukkot Gatherin, non certo combattenti. C’è da dubitare fortemente che fossero tutti nemici dei palestinesi, che condividessero necessariamente la politica del loro governo. Forse molti di loro sognavano anche un futuro di pace, ma sono stati ridotti a nemici, a carne da macello perché “israeliani”, diventando così le vittime della politica
oltranzista di espansione territoriale condotta da Netanyahu. Agli occhi di Hamas erano “altri” a prescindere.
Da parte israeliana c’è stata immediatamente una scontata reazione, mirata però non a colpire i veri responsabili della strage, ma gli abitanti della Striscia di Gaza tutti, anche loro in gran parte incolpevoli delle azioni terroristiche di chi li governava, che peraltro non avevano scelto, in quanto il governo di Hamas non indiceva elezioni da anni, per paura di essere sconfitto. E così altri civili massacrati in quanto “Hamas”: ma quanti di loro ne condividevano le scelte?
Il mondo occidentale si è subito schierato pressoché unanimemente con Israele. Potrebbe apparire quasi “naturale” provare un senso di vicinanza con l’aggredito, ma davvero parteggiamo sempre per la vittima? E i due ruoli sono davvero sempre così chiari?
È comprensibile che sull’onda emotiva non si potesse che essere contro un massacro così scellerato come quello dei terroristi di Hamas, ma, pur condannando con tutta la forza una tale violenza, non si può dimenticare la lunga e continua politica di repressione condotta dai governi israeliani contro i palestinesi, a partire dalla Nakba del 1948, fino alla progressiva occupazione di terre in Cisgiordania. Così come non si possono cancellare le condizioni di prigionia e oppressione in cui erano costretti gli abitanti di Gaza dal 2005. Due milioni di persone, non certo tutti terroristi, che avevano la corrente elettrica per tre ore al giorno, che non potevano uscire dalla galera in cui erano rinchiuse.
Dipingere un mondo in bianco e nero semplifica la vita e agevola i conduttori di inutili talk show, ma non aiuta a comprendere la complessità dei fatti. È troppo semplice contrapporre democrazia e terrorismo, etichettando subito il buono e il cattivo. Definendo terrorista il nemico, lo si esclude dall’orizzonte dell’umanità. Chiara Volpato mette in luce come la deumanizzazione sia stata impiegata, dopo l’11 settembre, per costruire il consenso alla “guerra al terrore” e far sì che l’opinione pubblica occidentale tollerasse le violazioni dei diritti umani e trascurasse l’incidenza dei “danni collaterali” alle popolazioni civili. «L’etichetta “guerra al terrore” ( war on terror ) si è rivelata uno strumento potente nella costruzione dell’immagine di un nemico non identificabile con uno Stato. Termini quali “nemici combattenti” e “terroristi” hanno escluso nemici e prigionieri dall’orizzonte morale, permettendo di sottoporli a trattamenti vietati dalla Convenzione di Ginevra. Il termine “terrorista”, in particolare, è servito a creare una categoria di individui ai quali non sono applicati i diritti riconosciuti internazionalmente agli esseri umani, individui che possono essere uccisi al di fuori dalle azioni militari e possono essere
rinchiusi in lager, quali Guantanamo, sottratti alla giurisdizione ordinaria»5
Le oltre quarantamila vittime palestinesi hanno suscitato, in una parte del mondo occidentale, uno sdegno, piuttosto che un’empatia, un sentimento razionale più che emotivo, perché appartengono a un mondo altro, sono arabi, musulmani, e come scrive Maurizio Bettini: «Nella società contemporanea l’alterità è rappresentata soprattutto dalle culture che non sono le nostre (islamiche, africane in genere); dai popoli che non sono “noi”»6. Senza contare l’equazione palestinesi uguale Hamas, che rende ogni abitante di Gaza automaticamente complice del barbaro attacco del 7 ottobre.
«Chi pensava che nel mondo globale del XXI secolo l’orientalismo fosse morto si è dovuto ricredere», scrive Enzo Traverso, «l’orientalismo è vivo e gode di ottima salute. I media ne sono saturi. Il suo principale assioma – gli occidentali sono incapaci di definire sé stessi se non ponendosi di fronte ai rappresentanti di un’umanità radicalmente altra, non-bianca, considerata incivile e gerarchicamente inferiore – viene declinato quotidianamente in tutte le forme possibili» 7. Gaza non è in Occidente. Quei morti non sono “nostri”.
NOTE
1. S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, trad. it P. Dilonardo, Mondadori, Milano 2003, pp. 106-107.
2. J. De Maistre, Considérations sur la France, Chez Rusand, Lyon 1829, p. 94.
3. M. Croce, Sulla strage a Mosca in Occidente regna l’inverno emotivo, «Domani», 25 marzo 2024.
4. Cfr. M. Douglas (a cura di), La stregoneria, trad. it. C. Faralli, G. Ricci, Einaudi, Torino 1980.
5. C. Volpato, La negazione dell’umanità: i percorsi della deumanizzazione, in «Rivista Internazionale di Psicologia e Filosofia», Vol. 3 (2012), n. 1, p. 102.
6. M. Bettini, Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, il Mulino, Bologna 2020, p. 19.
7. E. Traverso, Orientalismo e sionismo per giustificare un genocidio, «il manifesto», 19 dicembre 2023.
Marco Aime
è professore di Antropologia culturale all’Università di Genova. Ha svolto ricerche sulle Alpi italiane e in Africa occidentale. Si occupa del rapporto fra identità culturale e contemporaneità. All’attività di antropologo affianca la produzione favolistica e narrativa. Per Loescher Editore è autore del manuale di antropologia Lo sguardo sull’altro.
Il marketing militare negli USA
Il sistema di coscrizione negli Stati Uniti ha da sempre sollevato importanti questioni relative alla giustizia sociale, per il suo impatto sproporzionato sulle minoranze e i cittadini a basso reddito.
Oggi la sfida principale è attrarre nuovi reclutamenti.
Anche passando dalle aule scolastiche.
di Francesca Nicola
La storia della coscrizione negli Stati Uniti ha attraversato cambiamenti significativi, passando da un sistema di arruolamento volontario a uno obbligatorio, per poi tornare a essere volontario. Durante il periodo coloniale, le colonie facevano affidamento su milizie di volontari, ma in alcune circostanze gli uomini bianchi adulti erano obbligati a prestare servizio militare,soprattutto in periodi di conflitto. Durante la Guerra civile (1861-1865), l’Enrollment Act del 1863 introdusse la coscrizione per tutti gli uomini tra i 20 e i 45 anni. Tuttavia, era possibile evitare il servizio pagando una tassa o trovando un sostituto, il che generò forti tensioni sociali culminate nelle sommosse di New York del 1863 tra i lavoratori irlandesi, che si sentivano svantaggiati e presero di mira gli ancor più svantaggiati afroamericani.
↑ Due soldatesse durante una esercitazione militare (@PRESSLAB/ Shutterstock).
Nel 1917, con l’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale, il Selective Service Act rese obbligatoria la registrazione per il servizio militare, eliminando la possibilità di esenzioni tramite pagamenti.Entro la fine del conflitto, 24 milioni di uomini si erano registrati. Durante la Seconda guerra mondiale, il Selective Training and Service Act del 1940 istituì la coscrizione anche in tempo di pace; tra il 1940 e il 1946, oltre 10 milioni di uomini furono arruolati con un forte sostegno popolare.
Il passaggio allo arruolamento volontario
Durante la Guerra di Corea (1950-1953), il Selective Service Act del 1948 richiese la registrazione per il servizio di tutti gli uomini tra i 18 e i 26 anni, arruolando oltre 1,5 milioni di persone.
Tuttavia durante la Guerra del Vietnam (1955-1975) la coscrizione divenne sempre più impopolare. Il sistema di leva presentava gravi disparità sociali, poiché gli studenti universitari e i giovani benestanti potevano ottenere esenzioni per motivi di istruzione o salute. Di conseguenza, il peso della leva ricadeva principalmente sui giovani delle classi lavoratrici e su minoranze etniche come gli afroamericani e gli ispanici. Le tensioni sociali continuarono a crescere con l’aumento dei costi
umani della guerra. I movimenti pacifisti e di protesta, in particolare tra giovani e studenti, aumentarono, culminando in atti simbolici come il rogo delle cartoline di leva. Nel 1969, il presidente Nixon introdusse una lotteria per rendere il sistema più equo, ma le proteste continuarono. Infine, nel 1973, a causa delle crescenti pressioni sociali e politiche, gli Stati Uniti abolirono la coscrizione obbligatoria, passando a un sistema di arruolamento volontario.
Il Selective Service System oggi
Dal 1973 l’arruolamento negli Stati Uniti è stato basato sul volontariato, anche se il Selective Service System è rimasto operativo per poter reintrodurre la leva in caso di necessità. Attualmente, tutti gli uomini sono obbligati per legge a registrarsi entro 30 giorni dal loro diciottesimo compleanno. Questa norma si applica non solo ai cittadini americani e ai residenti permanenti, ma anche agli immigrati irregolari, ai richiedenti asilo o ai rifugiati.
La mancata registrazione può precludere l’accesso a determinati lavori governativi, a borse di studio federali e ai prestiti studenteschi. Gli immigrati che non si registrano entro il termine stabilito possono incontrare difficoltà a ottenere la cittadinanza.
Sebbene non comune, il mancato rispetto dell’obbligo di registrazione può tecnicamente comportare multe o pene detentive. Anche se dal 1986 il Dipartimento di Giustizia non ha perseguito casi di mancata registrazione, la legge prevede pene fino a cinque anni di prigione e/o una multa di 250.000 dollari per chi non adempie a questo obbligo. Non sono tenuti a registrarsi le donne, i cittadini con disabilità gravi e i membri delle forze armate in servizio o arruolati nelle accademie militari. La registrazione non comporta un immediato arruolamento, ma serve a garantire che il governo possa organizzare rapidamente un sistema di leva in caso di emergenza nazionale o di guerra su larga scala. Se la leva venisse riattivata, la selezione dei coscritti avverrebbe tramite un processo di lotteria, simile a quello utilizzato durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, e poi durante la Guerra del Vietnam.
Problemi di reclutamento
Negli ultimi anni, le forze armate statunitensi hanno incontrato difficoltà sempre maggiori nel raggiungere i loro obiettivi di reclutamento. I dati resi disponibili nel 2022 da USAREC ( U.S. Army Recruiting Command , l’ente dell’esercito responsabile del reclutamento) mostrano che l’esercito regolare ha raggiunto solo il 74,8% dell’obiettivo prefissato di 60.000 reclute, mentre la riserva ha totalizzato il 62,1% del proprio target di 14.650 nuovi membri. Una carenza evidente anche in settori specifici: per le operazioni speciali sono state reclutate solo 2.783 persone su un obiettivo di 3.678, mentre la missione medica e i cappellani hanno raggiunto il 90% degli obiettivi, segno di una difficoltà diffusa e trasversale.
Un elemento critico riguarda la demografia delle reclute. Sempre i dati del 2022 di USA-
REC mostrano che la maggior parte delle reclute proveniva da pochi stati: otto stati avevano contribuito per circa il 50% delle reclute dell’esercito regolare, con Texas, California e Florida in testa.
Solo il 16% erano donne, mentre gli afroamericani e gli ispanici costituivano rispettivamente il 23,2% e il 22,2% delle nuove leve.
Sono cifre che indicano una rappresentanza significativa di afroamericani e ispanici nelle forze armate, superiore alla loro percentuale della popolazione complessiva degli Stati Uniti (circa 14% per gli afroamericani e 19% per gli ispanici, secondo i dati dell’ultimo censimento). Questo suggerisce che questi gruppi etnici sono relativamente più propensi a intraprendere la carriera militare rispetto ad altri gruppi, per motivi legati alle opportunità economiche e ai benefici offerti dal servizio militare, come l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria.
Le cause della crisi
Le difficoltà nel reclutamento derivano da una serie di fattori complessi. Uno dei principali è l’attrattiva economica del settore privato. Con tassi di disoccupazione storicamente bassi, le aziende hanno adottato strategie sempre più aggressive per attirare nuovi talenti, offrendo salari competitivi, benefit generosi e condizioni lavorative più flessibili. In particolare, i settori della tecnologia e dei servizi hanno assorbito una larga parte della forza lavoro giovane, sottraendola a potenziali arruolati. Le aziende private, oltre a salari interessanti, offrono vantaggi completi come l’assistenza sanitaria, il finanziamento delle tasse universitarie e congedi parentali retribuiti, garantendo carriere meno rischiose e la possibilità di trascorrere più tempo con amici e familiari.
Nell’autunno del 2022 il programma Joint Advertising Marketing Research & Studies (JAMRS), gestito dal Dipartimento della Difesa,ha condotto un sondaggio tra giovani di età compresa tra 16 e 24 anni per capire la loro disponibilità ad arruolarsi e le ragioni per cui potrebbero non considerare una carriera militare. Il 90% ha dichiarato che difficilmente prenderebbe in considerazione l’arruolamento nell’esercito. Le principali ragioni indicate sono, in ordine decrescente: la paura di subire lesioni fisiche o morte, la possibilità di sviluppare PTSD ( Post-Traumatic Stress Disorder , un disturbo mentale che può svilupparsi dopo aver vissuto o assistito a un evento traumatico, come combattimenti militari, incidenti o violenze), la difficoltà nel lasciare famiglia e amici, e interessi di carriera in altri campi. Seguono l’avversione per lo stile di vita militare, preoccupazioni per il lungo impegno richiesto e la possibilità che il servizio interferisca con l’istruzione universitaria, la riluttanza a vivere in posti indesiderati, dubbi sulla propria idoneità e infine la possibilità di subire molestie o aggressioni sessuali.
Obesità e scarsa preparazione
—
Il problema dell’idoneità all’arruolamento negli Stati Uniti è diventato una questione sempre più critica per le forze armate. Uno dei principali ostacoli è rappresentato dall’alto tasso di obesità tra i giovani. Secondo l’ U.S. Army Recruiting Command solo il 23% degli americani di età compresa tra i 17 e i 24 anni risulta idoneo per il servizio militare, e una delle principali cause è il sovrappeso o l’obesità, che coinvolge oltre il 19% di questa fascia di popolazione. Altri fattori che limitano l’idoneità includono l’abuso di sostanze, condizioni fisiche, problemi di salute mentale e questioni legate all’atteggiamento e alla condotta.
Un recente studio di American Security Project (una think tank non-partisan che si occupa di questioni di sicurezza nazionale e globale) ha inoltre evidenziato un aumento preoccupante dell’obesità anche tra i militari in servizio attivo. Si stima che il 68% di essi sia sovrappeso o obeso, con un incremento del 79% dei disturbi alimentari tra il 2017 e il 2021.L’obesità non solo influisce sulle capacità operative,ma è anche una delle principali cause di infortuni e congedi medici all’interno delle forze armate. Un altro ostacolo significativo all’idoneità riguarda la preparazione accademica. Molti candidati non raggiungono i punteggi minimi richiesti nei test standardizzati come il SAT o l’ASVAB ( Armed Services Vocational Aptitude Battery ), un esame utilizzato per determinare l’idoneità ai vari ruoli militari. L’ASVAB valuta competenze in aree come la matematica, la comprensione verbale e le abilità meccaniche, ma il livello di istruzione in calo in alcune parti del Paese fa sì che un numero crescente di giovani non riesca a superare questo test, restringendo ulteriormente il bacino di potenziali reclute.
Il cambiamento nella opinione pubblica
A tutti questi problemi si aggiunge il fatto che negli ultimi decenni si è verificato un cambiamento lento ma inesorabile nella percezione dell’esercito da parte dell’opinione pubblica, in particolare dopo le guerre in Iraq e Afghanistan, conflitti che hanno comportato ingenti perdite e spesso risultati poco concreti o chiari. La crescente sfiducia nelle giustificazioni fornite per l’intervento militare e la richiesta di maggiore trasparenza da parte del governo hanno contribuito a un’immagine sempre più negativa delle forze armate.
Film, libri e documentari che
raccontano le esperienze dei veterani hanno rafforzato questa percezione, mettendo in luce non solo il coraggio, ma anche le difficoltà dei reduci al ritorno dalla guerra, ad esempio problemi di salute fisica e mentale, isolamento e difficoltà di reinserimento nella vita civile. Parallelamente, anche il numero di individui che hanno familiari coinvolti nell’esercito è diminuito: nel 1995, il 40% dei giovani aveva un genitore che aveva prestato servizio nell’esercito, mentre nel 2022 questa percentuale era scesa al 12%. La mancanza di legami familiari con il mondo militare riduce la propensione dei giovani a prestare servizio.
Incentivi finanziari e opportunità di carriera
Per rispondere al calo degli arruolamenti l’esercito ha adottato diverse misure. Ha innanzitutto incrementato i bonus di firma e altri incentivi economici, specialmente per le posizioni in settori con alta richiesta.
Il GI Bill è uno dei principali incentivi offerti dalle forze armate statunitensi per attrarre
reclute. Esso copre gran parte delle spese universitarie per i militari in servizio e i veterani, consentendo loro di frequentare college e università senza affrontare gli elevati costi delle rette. Questo vantaggio rende l’istruzione superiore più accessibile, specialmente per coloro che altrimenti non avrebbero i mezzi finanziari per permettersi un percorso accademico. Per molti giovani la possibilità di ottenere un’istruzione gratuita o a basso costo è un fattore determinante nella decisione di arruolarsi.
Il Future Soldiers Program offre un ulteriore incentivo, con un bonus di iscrizione che può arrivare fino a 6.000 dollari. Questo programma è particolarmente interessante per i giovani provenienti da famiglie a basso reddito, poiché fornisce un guadagno immediato prima dell’inizio del servizio militare vero e proprio.
Il marketing militare —
La necessità di migliorare l’immagine del servizio militare e renderlo più accessibile e attraente per i giovani ha com-
portato una riorganizzazione dell’approccio al marketing e alla comunicazione da parte dell’esercito. Negli ultimi anni le campagne pubblicitarie sono state ampliate, sfruttando sia i media tradizionali sia quelli digitali. Spot televisivi, annunci su riviste e campagne sui social media, spesso in collaborazione con diversi influencer, sono utilizzati per mettere in evidenza le varie opportunità di carriera, la formazione professionale e i benefici associati al servizio militare. Si cerca soprattutto di presentare l’arruolamento non solo come un impegno, ma anche come un’opportunità di crescita personale e di acquisizione di competenze preziose da spendere nel mercato del lavoro “civile”. Ultimamente l’esercito ha anche impiegato tecnologie emergenti. Attraverso dispositivi di realtà virtuale i partecipanti possono immergersi in ambienti militari simulati, vivendo situazioni reali che potrebbero affrontare nel servizio militare (operazioni di squadra, missioni di salvataggio o scenari di combattimento). Attraverso quiz, giochi e attività interattive, le app aiutano i potenziali reclutatori a valutare le loro abilità e interessi, suggerendo percorsi di carriera che si allineano con le loro competenze. Inoltre, queste app possono offrire informazioni sui requisiti di arruolamento, il processo di registrazione e gli incentivi disponibili.
Un altro esempio concreto di come l’esercito utilizzi le nuove tecnologie è l’organizzazione di tornei di videogiochi. Durante questi eventi, i reclutatori partecipano attivamente ai tornei, interagendo con i giovani appassionati di gaming. Questo crea un’atmosfera informale e accogliente, in cui i partecipanti si sentono a proprio agio nel discutere delle loro aspirazioni e delle carriere militari. Attraverso dimostrazioni e discussioni, i reclutatori spiegano ai partecipanti come le competen-
ze sviluppate nel gaming — ad esempio la strategia, la comunicazione e la cooperazione— siano direttamente applicabili nel contesto militare. Durante gli eventi l’esercito distribuisce materiali informativi sui vantaggi del servizio militare, come il GI Bill, la formazione professionale e le opportunità di crescita personale e professionale.
La presenza nelle scuole
Una delle strategie di reclutamento più durature ed efficaci è la collaborazione con le scuole superiori e le università. Sin dalla Seconda guerra mondiale, le forze armate hanno cercato di instaurare un rapporto stretto con il sistema educativo per facilitare l’arruolamento.
Le visite dei reclutatori militari nelle scuole superiori sono una prassi consolidata. Durante questi incontri, i reclutatori tengono presentazioni, distribuiscono materiali informativi e dialogano direttamente con gli studenti riguardo ai vantaggi di una carriera militare.
Il programma No Child Left Behind (NCLB), introdotto nel
2001, ha avuto un impatto significativo sulla presenza dei militari nelle scuole. Con l’obiettivo primario di migliorare le prestazioni degli studenti e aumentare la accountability delle scuole, esso ha imposto agli istituti pubblici di fornire informazioni sulle opportunità di carriera, inclusi i programmi militari. Anche se NCLB è stato sostituito dal programma Every Student Succeeds Act (ESSA) nel 2015,molti dei suoi principi rimangono in vigore. Le scuole continuano a offrire informazioni sui programmi militari come parte delle loro politiche di orientamento professionale.
Il Junior Reserve Officers’ Training Corps (JROTC)
Una concreta forma di collaborazione tra le forze armate e il sistema scolastico è il Junior Reserve Officers’ Training Corps (JROTC), un programma opzionale attivo in migliaia di scuole superiori che si propone di fornire una formazione incentrata sulla disciplina, sui valori militari e sulla leadership, contribuendo a sviluppare la consapevolez -
za riguardo al servizio militare. Gli studenti che lo frequentano partecipano a una varietà di attività, tra cui lezioni teoriche su leadership, storia militare, educazione civica e preparazione fisica. Il programma include anche esercitazioni pratiche,come marce e attività varie nella comunità.
Nonostante le dichiarazioni ufficiali del JROTC riguardo alla sua non finalità di reclutamento, numerose ricerche hanno dimostrato che circa il 40-45% dei cadetti finisce per arruolarsi nelle forze armate. Questo suggerisce che vi sia un chiaro legame con il reclutamento militare, sostenuto anche dal fatto che il Pentagono lo ha incluso nel suo bilancio di reclutamento.
Approfondire
• J.W. Chambers (a cura di), The Oxford Companion to American Military History, Oxford University Press, Oxford 1999.
• A. Wesly (a cura di), Random Destiny: How the Vietnam War Draft Lottery Shaped a Generation, Vernon Press, 2018.
• United States Selective Service System, https://www.sss. gov/.
• ASP, American Security Project. Combating Military Obesity: Stigma’s Persistent Impact on Operational Readiness, White paper, October 2023. Consultabile allʹindirizzo: https://s3.documentcloud.org/documents/24040523/ref-0286-combating-military-obesity-2.pdf.
Il programma ha suscitato diverse critiche riguardo alla sua diffusione nelle scuole urbane, dove molti studenti provengono da famiglie a basso reddito e da minoranze etniche. In questi contesti, esso risulta particolarmente allettante per le opportunità di borse di studio e di formazione militare che offre, spesso rappresentando l’unica alternativa disponibile in un panorama caratterizzato dalla mancanza di attività extracurricolari come programmi artistici e sportivi. Questo fenomeno ha portato a una situazione frequentemente descritta come “coscrizione per povertà”. Nel 2017, circa il 20% dei militari statunitensi proveniva da quartieri in cui i redditi familiari erano inferiori alla media nazionale. La preoccupazione è che il JROTC possa fungere da via d’uscita economica per i giovani in situazioni difficili, piuttosto che una scelta consapevole per una carriera militare.
Francesca Nicola antropologa culturale, vive a New York e si occupa di Stati Uniti.
Qual è la tua chiamata?
Le nuove strategie di reclutamento mirano a dipingere l’arruolamento come un percorso di crescita e di realizzazione personale.
di Maria Stern e Sanna Strand
Giovani di ogni parte del mondo scelgono volontariamente di arruolarsi nelle forze armate, pur consapevoli dei rischi estremi che questa decisione comporta: la possibilità di uccidere, di ferirsi gravemente o di perdere la vita. In considerazione della serietà di tali rischi, le forze armate devono rendere l’arruolamento non solo accattivante, ma anche moralmente giustificabile attraverso campagne di reclutamento ben strutturate. Tradizionalmente, queste campagne facevano leva sulla promessa di trasformare i giovani in “veri uomini”, basandosi su un ideale di mascolinità eroica e guerriera. Tuttavia, un crescente corpo di studi femministi ha messo in luce come questa concezione della virilità sia cambiata nel tempo e nei diversi contesti socio-culturali (Belkin 2012).
Oggi molte campagne di reclutamento, sia in Europa che negli Stati Uniti, hanno rivisitato il tradizionale concetto di mascolinità militare. Invece di enfatizzare la forza fisica e il coraggio bellico, queste iniziative promuovono una versione più “ambigua e civile” della mascolinità, con l’intento di attrarre un pubblico più vasto e diversificato (Stengel e Shim 2021).
Le forze armate, nel tentativo di raggiungere una platea più
ampia, si presentano ora come organizzazioni progressiste, inclusive e attente alla parità di genere. Questo approccio è evidente nelle loro campagne di marketing e sensibilizzazione (Baker 2022), che puntano sull’inclusione delle donne e affrontano le argomentazioni che in passato le avevano escluse.Un esempio emblematico si trova nelle campagne di reclutamento svedesi, dove sono presenti immagini di bandiere arcobaleno, assorbenti e colori pastello, segno di una rottura netta con le promesse legate alla mascolinità tradizionale. Oggi l’immagine del “soldato” si configura come un’entità fluida, che trascende i confini di classe, razza, abilità fisiche, genere e sesso (Stern e Strand 2022).
In questo contesto, il servizio militare non si limita più a offrire la possibilità di affermare la propria virilità, ma diventa una promessa di autorealizzazione, di trasformazione personale e di crescita interiore. La figura del soldato, quindi, si ridefinisce, aprendo la porta a un concetto di forza che non è più esclusivo, ma inclusivo, accessibile a chiunque voglia sfidare i propri limiti e trovare la propria strada.
Il programma The calling
Per approfondire l’evoluzione delle campagne di reclutamen-
to, abbiamo analizzato un formato specifico chiamato “testimonianze”, dove veri soldati raccontano la loro esperienza su come e perché hanno scelto di arruolarsi.
Nella campagna The calling vengono presentati cinque soldati, identificati come Emma, David, Rickie, Jennifer e Janeen, presentati sotto lo slogan «Cinque vite diverse – una decisione che cambia la vita» (US Army, 2021). Questa campagna si distingue per l’enfasi sulla diversità, mettendo in primo piano soldati provenienti da contesti diversi e rompendo così con gli stereotipi tradizionalmente associati al servizio militare. Un elemento distintivo di The calling è l’uso dell’animazione, che rende le storie più accessibili e avvincenti.
La campagna consiste in cinque video brevi, ognuno della durata di due o tre minuti, disponibili su piattaforme come YouTube e GoArmy e sui social media. In ogni video, il/la protagonista racconta la sua infanzia, le relazioni familiari e le passioni personali, fornendo un contesto per il suo ingresso nell’esercito e la vita militare. Alla fine di ogni racconto, la figura animata si trasforma nella sua controparte reale, creando un effetto di iper-realtà (Baudrillard, 1994). Ad esempio, nel video di David,il racconto culmi-
na con l’affermazione: «Io sono il Primo Tenente David Toguchi dell’Esercito degli Stati Uniti e ho risposto alla mia chiamata», seguita dalla domanda provocatoria: «What calls you?» (Qual è la tua chiamata?).
Come as you are
La campagna svedese Come as you are propone una rappresentazione della «diversità di persone» (SAF, 2019) e si rivolge specificamente a giovani donne, con l’obiettivo di sfidare le percezioni stereotipate di chi può essere un soldato. Il messaggio chiave è chiaro: tutti, indipendentemente dal loro background, genere o orientamento sessuale, possono trovare posto nell’esercito. Questa campagna include un trailer generale e due video di profilo dedicati a Ida e Jens, che mostrano i soldati sia in contesti quotidiani sia in uniforme. La dualità delle loro vite – tra momenti privati e pubblici – riflette il tentativo delle Forze Armate Svedesi di umanizzare i soldati e di trasmettere l’idea che chiunque, con qualsiasi percorso, può arruolarsi. Il messaggio finale « come as you are » ( presentati per come sei , o meglio ancora sii te stesso, N.d.T.) rafforza l’inclusività della campagna.
My way
La campagna My way , lanciata nel 2021 dalle Forze Armate Svedesi, mette in luce quattro soldati: Evelina, Younes, Samuel e Max.Ognuno di loro racconta il proprio viaggio personale verso l’arruolamento, sottolineando il tema della trasformazione e della crescita individuale. Ogni video dura circa due minuti e inizia con il tema My way , che funge da filo conduttore per tutta la campagna. Questi video presentano un equilibrio tra la vita in uniforme e la quotidianità, mettendo in risalto le sfide personali affrontate dai protagonisti e come il servizio
militare abbia contribuito positivamente alla loro crescita. La narrazione è accompagnata da frasi simboliche, come ad esempio, nel caso di Samuel: «da frustrato a ispirato».
La mancanza di uno scopo
— Il primo elemento in comune delle tre campagne di reclutamento è la rappresentazione dei protagonisti come individui smarriti e insoddisfatti della loro vita civile prima di intraprendere il percorso di arruolamento. Questo stato d’animo emerge talvolta direttamente nei video, ma più frequentemente attraverso flashback retrospettivi. Un esempio significativo è rappresentato da Emma, caporale dell’Esercito degli Stati Uniti specializzata nella gestione dei missili Patriot, e da Max, pilota di caccia delle Forze Armate Svedesi. Entrambi vengono presentati da giovani, ancora prima di arruolarsi, come individui che, nonostante siano bianchi e cresciuti in ambienti privilegiati appartenenti alla middle class , sentivano fortemente la mancanza di uno scopo nella vita. Emma è descritta attraverso un’animazione dai toni rosa pastello, che richiama lo stile di una pubblicità della Barbie. La narrazione sottolinea che era una «brava ragazza» californiana, cresciuta in una famiglia progressista composta da due madri; una ballerina talentuosa, un’abile violinista e una studentessa eccellente. Nonostante queste premesse, sentiva di non aver realmente raggiunto nulla di significativo nella vita. Le sue parole rispecchiano questo vuoto interiore: «Cominciai a sentire di aver ricevuto così tanto nella vita... certo, avevo vissuto circondata da donne in grado di ispirarmi, ma cosa avevo davvero raggiunto con le mie forze?». Anche Max viene presentato come un classico «ski bum», un giovane bianco che trascorre la
maggior parte del tempo a sciare o a vivere in località sciistiche. Le sue giornate erano caratterizzate da viaggi e dalla pratica di sport d’élite, simboli di mascolinità e privilegio, come lo sci, il golf e l’hockey su ghiaccio. Tuttavia, nonostante questa vita apparentemente idilliaca, anche lui condivideva una sensazione di vuoto interiore, la mancanza di un vero scopo (Basham 2013, 2016).
La mancanza di fiducia in sé stessi
Un altro tema centrale è la mancanza di fiducia in sé stessi, che emerge in vari personaggi. David, pilota di elicotteri dell’Esercito degli Stati Uniti, Jennifer, medico dell’Esercito, ed Evelina, autista di carri armati delle Forze Armate Svedesi, sono tutti ritratti come individui che prima di arruolarsi si sentivano privi di fiducia in sé stessi e vedevano opportunità per il loro futuro. La storia di David è particolarmente significativa: cresciuto in una base militare alle Hawaii con il padre, pilota di elicotteri, e il fratello, che seguì le orme paterne, da bambino sognava di diventare come loro. Il video lo mostra mentre corre felice in un giardino lussureggiante e gioca con un elicottero giocattolo, simbolo delle sue aspirazioni infantili. Tuttavia, in un momento di malinconia, il ragazzo si ferma e,abbassando lo sguardo, ammette: «Sapevo che non sarei mai potuto diventare un pilota. Non ero come loro». Le immagini successive mostrano David adolescente che si sente isolato, convinto di non essere abbastanza intelligente, e che lotta con le difficoltà scolastiche.
La mancanza di appartenenza
Altre narrazioni, come quelle di Samuel (Forze Armate Svedesi), Ida (fanteria delle Forze Armate Svedesi), Younes (Forze Armate Svedesi) e Rickie (Esercito degli
↑ I benefici connessi alla carriera militare (@Panchenko Vladimir/ Shutterstock).
Stati Uniti), rivelano un altro tipo di mancanza: la mancanza di appartenenza. Samuel ricorda di essere stato bullizzato a scuola e di essersi sempre sentito un emarginato (cfr. George 2016; Ware 2012).
Ida, una giovane donna bianca dai lunghi capelli biondi intrecciati, si definisce bisessuale e riflette sul suo passato di «bambina problematica», vittima di bullismo ed esclusione sociale. Mentre narra questo difficile capitolo, scorrono sullo schermo immagini della sua vita militare attuale: la vediamo maneggiare armi e padroneggiare le abilità di un soldato. In una scena in particolare, il suo armadietto è decorato con un adesivo che raffigura la bandiera arcobaleno, mentre in un’altra viene ritratta mentre esegue flessioni indossando una collana con il simbolo femminile.
Infine, la mancanza di appartenenza a una comunità è un’esperienza condivisa da alcuni protagonisti. La storia di Younes, un giovane coscritto delle Forze Armate Svedesi, razzializzato come non svedese e non bianco, ruota attorno al senso di debito che sente nei confronti della Nazione che ha accolto lui e la sua famiglia. Riflettendo sulla sua storia, Younes esprime gratitu-
dine: «I miei genitori sono immigrati qui e sono stati accolti a braccia aperte, quindi... Se fossero migrati altrove, non so dove sarei finito. Ma sento di essere stato ben educato, di aver avuto una buona formazione e una vita complessivamente buona. Così sento di voler restituire qualcosa al mio Paese, alla Svezia». Nonostante sia nato e cresciuto in Svezia, Younes avverte un profondo senso di estraneità, un sentimento che si manifesta nella malinconica gratitudine per l’accoglienza riservata alla sua famiglia e, di riflesso, anche a lui (Ahmed 2010).
Eventi catalizzatori di un cambiamento
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Le storie dei protagonisti delle campagne di reclutamento continuano a dipanarsi attraverso una narrazione che esamina sfide, incertezze e vincoli significativi che hanno affrontato nel corso delle loro vite. In molti casi queste esperienze non rappresentano solo un contesto di fondo, ma assumono il ruolo di veri e propri catalizzatori di cambiamento, aprendo la strada a «nuove possibilità» che sembrano esistere all’interno dell’ambiente militare (Finnemore e Jurkovich 2020).
La storia di Jennifer, medico dell’Esercito degli Stati Uniti, si apre con una sequenza fortemente drammatica. Una musica cupa e minacciosa accompagna l’immagine del padre, chino con il volto tra le mani. Jennifer, attraverso la sua voce narrante, rivela un evento traumatico della sua infanzia: «Quando avevo quattro anni, i miei fratelli e io abbiamo assistito al tentativo di suicidio di nostro padre. La polizia, chiamata in tempo, riuscì a salvarlo. Da quel momento, crebbi con il desiderio di aiutare persone come lui, persone che soffrono». La scena prosegue mostrando i tre bambini circondati da poliziotti, mentre il padre viene portato via e le sirene risuonano in sottofondo. I toni grigi e i colori spenti che dominano la scena comunicano un senso di disperazione e vergogna in modo eloquente. Successivamente, la narrazione rivela che i genitori di Jennifer erano immigrati di prima generazione dalla Repubblica Dominicana. Le immagini la mostrano crescere in un piccolo appartamento di un “quartiere difficile” del New Jersey, riflettendo alcuni stereotipi comuni sulle famiglie latinoamericane nelle zone urbane. Sua madre lavorava fino a sedici ore al giorno, mentre il padre lottava contro gravi problemi di salute mentale. Dopo un periodo di ribellione, Jennifer fuggì di casa e fu mandata dai parenti nella Repubblica Dominicana,con l’obiettivo di farle «apprezzare la vita» che aveva negli Stati Uniti. Questa esperienza di vita “povera”, “semplice” ma “genuina” nel Paese d’origine viene descritta con un linguaggio che richiama inevitabilmente un immaginario coloniale. Gli elementi visivi – come il “tetto di lamiera” della casa e l’immagine dei turisti che “regalano caramelle” ai suoi parenti – accentuano questo ritratto.Tuttavia, questa parentesi nella Repubblica Dominicana sembra avere un effetto libera-
torio su Jennifer, aiutandola a superare il risentimento e l’ingratitudine che provava per la sua famiglia e la sua vita negli Stati Uniti, portandola a decidere di arruolarsi nell’esercito.
Anche la storia di Emma, sebbene provenga da un contesto privilegiato, mette in evidenza un percorso di crescita personale ricco di difficoltà. A soli sei anni vive un evento traumatico che segna profondamente la sua infanzia: una delle sue due madri subisce un grave incidente, rimanendo paralizzata. Questo evento non solo sconvolge la dinamica familiare, ma costringe anche Emma a confrontarsi con la vulnerabilità e la sofferenza. La madre dimostra che, al di là delle sfide fisiche e delle limitazioni, la volontà di superare le avversità può portare a risultati significativi. Il culmine della narrazione si raggiunge durante una cerimonia nuziale, in cui Emma accompagna la madre all’altare.Questa scena,adornata da toni pastello e permeata da un’atmosfera di gioia e trionfo, non simboleggia solo il successo personale della madre, ma anche il riconoscimento da parte di Emma del percorso di crescita e delle sfide affrontate. Questo processo di introspezione culmina nel suo desiderio di arruolarsi.
Janeen, cresciuta in una famiglia di soldati nera di classe media, desiderava ardentemente intraprendere una carriera militare, ma il padre, influenzato dalle traumatiche esperienze vissute durante il servizio militare durante la guerra in Vietnam, le proibì di farlo. La ragazza si dedicò allora alla passione per la musica, divenendo una cantante di successo, esibendosi in città come Las Vegas e New York, e viaggiando il mondo su una nave da crociera di alto livello. Da qui ha osservato il “bene” e il “male”. Il “bene” è rappresentato da immagini di una soldatessa che offre una bottiglia d’acqua a un bambino, mentre il “male” da scene di luo -
ghi devastati da conflitti politici e persone in difficoltà. Sebbene non viva direttamente queste difficoltà, Janeen diventa testimone delle sofferenze altrui. La sua figura sulla nave da crociera, elegantemente vestita e rivolta verso un porto in fiamme, sottolinea la distanza che la separa da tali esperienze dolorose. L’osservazione delle sofferenze altrui si trasforma in un potente catalizzatore, spingendola lungo il percorso che la condurrà a scoprire il suo vero sogno e a rivelare la sua autentica identità, quella di soldato.
Rispondere alla chiamata
—
La terza fase narrativa che emerge dalle testimonianze è quella della risoluzione. Il pubblico è rassicurato sul fatto che i protagonisti hanno realmente superato la soglia, avviandosi verso un’auto-realizzazione imminente o già raggiunta nei loro ruoli di soldati e modelli di riferimento. Viene sottolineato come le vite di questi soldati possano ispirare potenziali reclute a emulare le loro esperienze (US Army 2021). La conclusione dei percorsi di questi protagonisti dimostra che, seguendo la propria “chiamata” e intraprendendo il proprio “percorso”, è possibile superare le proprie mancanze e realizzare il potenziale individuale.
Le storie testimoniali ritraggono giovani che si trasformano in figure forti (Emma), sicure e resilienti (Evelina), di successo e capaci di lavorare in squadra (Max), leader (Samuel), responsabili e abili (David), integrati e orgogliosi protettori della nazione (Younes, Rickie), risorse per le forze armate (Jens, Ida), portavoce di un’eredità familiare (Janeen, David e Ida) e buone persone che contribuiscono al bene comune (Jennifer, Max, Ida). Questo elenco illustra come le mancanze emerse nella narrazione trovino una risoluzione attraverso la chiamata al
servizio militare, conducendo a un’esistenza più piena e soddisfacente rispetto alla vita civile. Nella storia di Emma, la sua “forza interiore” si esprime attraverso un linguaggio femminile, ma la ragazza si trova in difficoltà nel contesto di vita civile dominato da norme bianche e eterosessuali. Nonostante gli sforzi delle sue due madri per ridefinire tali confini, Emma avverte una mancanza di scopo e di potere individuale. Questa mancanza viene risolta attraverso la sua trasformazione in soldato, che le consente di superare non solo gli stereotipi di genere, ma anche le aspettative legate alla vita civile eterosessuale. Alla fine della sua testimonianza, Emma-soldato abbandona il suo mondo di tonalità pastello, saltando oltre una recinzione verso un’area militare e mostrando la mano stretta in un pugno. La sua determinazione è palpabile nel comunicare allo spettatore di aver finalmente risposto alla sua chiamata. La trasformazione le consente di riconquistare il potere personale e di definirsi al di là delle limitazioni imposte dalla società. In questo modo, non è più solo una giovane donna limitata dalle aspettative esterne, ma una soldatessa capace di affrontare sfide e mostrare resilienza. Diventando soldato, Emma non solo ha abbracciato una nuova identità, ma ha superato anche gli stereotipi di genere e le aspettative legate alla vita civile. L’esercito rappresenta uno spazio in cui può affermare la propria forza e determinazione. Allo stesso modo, anche Ida sembra finalmente realizzarsi, essendosi «liberata dalle sue limitazioni» (Stern e Strand 2022). La soldatessa-Ida ha infranto le norme di genere che non era riuscita a superare nella vita civile. L’esercito le consente di «essere semplicemente sé stessa», un’identità caratterizzata da forza fisica ed emotiva, disciplina, sacrificio e lealtà verso la Svezia e i compagni soldati. La
↑ Due ranger mentre svolgono una missione militare (@PRESSLAB/ Shutterstock).
testimonianza di Younes sulla sua «trasformazione» militare (Collins 2018; Deleuze e Guattari 2009) illustra come abbia appreso a vivere in armonia con la natura,un aspetto frequentemente celebrato del servizio militare in Svezia. Nel video, Younes è spesso ritratto mentre partecipa a esercitazioni e attività all’aperto, immerse in scenari naturali come boschi e montagne, evidenziando la sua connessione crescente con l’ambiente.
In questo percorso, Younes si evolve in uno svedese «naturalizzato», capace di apprezzare e rispettare il patrimonio naturale, lasciandosi alle spalle una condizione di marginalizzazione malinconica. Da sognatore, egli diventa una persona realizzata, transitando da uno stato di alienazione a uno di “radicamento”, trasformando il suo ruolo da peso sociale a risorsa per la Svezia. La sua testimonianza presenta l’esercito non solo come un ambiente di formazione, ma anche come uno spazio di profonda metamorfosi; attraverso questo viaggio, anche la sua vita civile post-servizio subisce una radicale trasformazione (Wool 2021). Il video si propone di attrarre minoranze razziali, promettendo una vita svedese ricca di opportunità e priva di debiti, che
incarnano anche una qualità quasi ultraterrena. Queste storie sfidano le convenzioni tradizionali legate a genere, razza, classe, sessualità e abilità. Attraverso il servizio militare, i protagonisti dimostrano che è possibile superare le limitazioni imposte dalla vita civile, trovando in esso opportunità che la società non riesce a garantire.
si apre dopo il servizio militare. La gratitudine espressa da Younes sottolinea un senso di debito verso la nazione svedese, un debito che, secondo lui, può essere ripagato solo attraverso il sacrificio militare.
L’insicurezza di David non gli impedisce di cogliere opportunità come pilota di elicottero. Egli spiega: «Non devi essere un genio per fare il pilota; basta la perseveranza. Ora, ogni volta che indosso il mio casco, mi sento come se stessi sognando. E non riesco a immaginare di fare nient’altro». In questo contesto, l’esercito si configura non solo come un percorso di istruzione, ma anche come un viaggio di scoperta e auto-realizzazione (Riemann e Rossi 2022).
L’esercito come spazio di trasformazione e redenzione
L’esercito si presenta come un luogo di redenzione, quasi uno spazio di grazia celeste, dove le vite dei protagonisti si trasformano in storie di successo e realizzazione personale. Tuttavia, dietro a queste narrazioni di superamento si cela una dimensione più complessa. I protagonisti non sono soltanto figure forti, sicure e affidabili;
In The calling, questo passaggio verso l’iper-reale, come descritto da Baudrillard (1994), è simbolicamente rappresentato dalla transizione dai toni pastello, tipici della vita quotidiana, ai colori vividi e contrastanti del verde e del nero militare. Questa metamorfosi visiva riflette il cambiamento radicale che i protagonisti sperimentano.
In My way, invece, la forza di questa trasformazione emerge attraverso l’autorità e la determinazione delle voci narranti. Concludendo le loro storie di superamento delle avversità, i narratori ci fissano intensamente, invitandoci e sfidandoci a osare seguirli nel loro cammino, a diventare come loro e a trovare “la nostra strada”.
Tratto da: Maria Stern e Sanna Strand, The aspirational promise of soldiering: an analysis of military recruitment testimonials, in «Critical Military Studies»,Vol.1 (3),pp. 233-248, 2024.
Traduzione di Francesca Nicola. Le note di questo articolo saranno disponibili nella edizione online. Maria Stern
insegna alla School of Global Studies dell’università di Gothenburg, in Svezia.
Sanna Strand
è ricercatrice presso il Department of Economic History and International Relations dell’Università di Stoccolma, in Svezia.
Reimmaginare la leva
Negli ultimi anni la Svezia ha cercato di modernizzare il sistema di coscrizione, presentandolo come un’opportunità di crescita personale e professionale, con un forte focus sulla partecipazione femminile.
di Sanna Strand
La fine della Guerra
Fredda ha segnato un punto di svolta significativo per gli eserciti di massa e la coscrizione obbligatoria in vari Paesi. Negli anni Novanta, la coscrizione universale maschile, che aveva supportato gli eserciti dei cittadini per gran parte del XIX e XX secolo, iniziò a essere considerata “fuori moda” (Haltiner 1998) e persino “superata” (Joenniemi 2006). L’idea del cittadino-soldato divenne sempre meno compatibile non solo con le nuove forme di conflitto e le tecnologie militari emergenti, ma anche con le tendenze sociali ed economiche più ampie dell’epoca. Sotto l’influenza di ideali (neo) liberali, l’obbligo di servire la Nazione come condizione per la cittadinanza fu percepito come inefficace e ingiusto.
Il ritorno della leva —
Contrariamente a questa narrativa, la leva militare obbligatoria non è scomparsa. Recentemente, diversi Stati, tra cui Svezia, Norvegia, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Lituania, Lettonia, Georgia, Ucraina e Francia,
hanno riattivato o ampliato forme di servizio militare nazionale. Questi sviluppi hanno portato a parlare di un “ritorno” (The Economist 2021) o del “ripristino” (Braw 2017) della coscrizione.Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno? Le ricerche suggeriscono che la riattivazione della coscrizione nella regione del Mar Baltico è motivata principalmente da preoccupazioni relative alla sicurezza, inserendosi in un contesto di ripristino delle politiche di difesa territoriale e rivalità tra Stati (Bieri 2015). Altri studi evidenziano che in Paesi come la Francia è invece vista come un modo per unire una Nazione politicamente polarizzata (Gheciu 2020), mentre nei Paesi del Golfo serve a promuovere unità e appartenenza (Barany 2018).
Coscrizione e costruzione dello Stato-nazione
In Svezia la coscrizione obbligatoria maschile è stata introdotta nel XIX secolo e completata nel 1901 (Wolke 1999). Le forze conservatrici la vedevano come un metodo per garantire competenze diffuse nella popolazione
e per costruire una difesa nazionale più solida; i movimenti sindacali come un’opportunità per democratizzare l’istituzione militare. Così, la coscrizione divenne uno strumento per forgiare una comunità nazionale e costruire un’identità comune. Durante il XX secolo i coscritti svedesi furono educati a valori come disciplina, patriottismo e responsabilità civica (Eriksson 2011). In questo modo, la coscrizione servì non solo per la sicurezza nazionale, ma anche per la costruzione dello Stato-nazione.
La riattivazione della coscrizione
Dopo sette anni dall’introduzione di un esercito volontario, le autorità svedesi si resero conto che il sistema non funzionava come sperato. Tra il 2013 e il 2014 l’ufficio nazionale di revisione contabile svedese ( Riksrevisionen ) segnalò che c’erano difficoltà a reclutare un numero sufficiente di soldati volontari, sia a tempo pieno che part-time. In pratica, le forze armate non riuscivano a trovare abbastanza persone disposte a arruolarsi volontariamente per mantenere
(@PeopleImages. com - Yuri A/ Shutterstock).
una forza militare adeguata. Questi problemi di reclutamento coincisero con un cambiamento nel contesto geopolitico europeo, in particolare con l’aumento del riarmo militare russo e l’inizio delle aggressioni in Ucraina nel 2014 (come l’annessione della Crimea e il conflitto nell’est dell’Ucraina). La crescente minaccia percepita dalla Russia portò a un aumento delle preoccupazioni per la sicurezza nazionale svedese.
Durante le negoziazioni parlamentari vi fu un consenso sul fatto che le forze armate svedesi dovevano concentrarsi di più sulla difesa territoriale, cioè sulla protezione del territorio svedese, piuttosto che su operazioni internazionali. Per farlo, divenne chiaro che avevano bisogno di più personale militare. Questo rese urgente il problema del reclutamento e portò alla decisione di reintrodurre la coscrizione obbligatoria nel 2017, questa volta estendendola anche alle donne di diciotto anni.
Rendere la leva accettabile
Il governo decise di motivare la sua scelta con il deterioramento della sicurezza nella regione. Tuttavia, per legittimare la leva obbligatoria fu necessario presentarla sotto una luce nuova, non più come un obbligo nazionale, ma come un’opzione che rifletteva ed esaltava gli indivi-
dui. Si enfatizzò in particolare il concetto di “dovere volontario”: l’idea era quella di presentare il servizio militare non tanto come un obbligo rigido imposto dallo Stato, ma come una scelta in cui la volontà individuale e la motivazione personale avessero un ruolo centrale. Si cercava di rendere la coscrizione più accettabile per la popolazione, promuovendo il messaggio che arruolarsi fosse una forma di responsabilità civica che potesse essere abbracciata volontariamente da chiunque fosse idoneo e interessato.
Tuttavia, il termine “dovere volontario” rifletteva anche una flessibilità nel sistema. L’obbligo di servire veniva presentato come una “opzione di ultima istanza”, cioè lo Stato avrebbe imposto l’arruolamento solo in situazioni in cui non si fossero trovati abbastanza volontari. In pratica, anche se la coscrizione era obbligatoria, lo Stato cercava di riempire i ranghi dell’esercito principalmente con volontari motivati, riducendo al minimo la necessità di costringere persone meno motivate a servire. I giovani di diciotto anni erano tenuti a completare un sondaggio online riguardante la loro salute, istruzione, interessi e attitudine verso il servizio militare. La Swedish Defence Recruitment Agency (SDCAA) selezionava i candidati idonei, ponendo enfasi sulla motivazione e volontà individuali. Questa selezione era mirata a ga-
rantire che le forze armate fossero composte da individui capaci, minimizzando al contempo il numero di ragazzi e ragazze costretti a servire contro la loro volontà. Si tratta di un sistema di selezione ancora oggi in vigore.
Individualismo e coscrizione
Dal 2017 la Svezia ha modificato il modo in cui presenta la coscrizione, passando da una visione tradizionale a una concezione più individualista. I potenziali coscritti non sono più visti come soggetti obbligati a servire, ma come individui autonomi e responsabili che possono trarre vantaggio dal servizio militare. Questo cambiamento è in linea con l’ideale del cittadino neoliberista, che enfatizza l’autosufficienza e l’iniziativa personale. Le competenze acquisite durante l’addestramento militare sono ora presentate come opportunità di sviluppo personale e professionale. Gli annunci pubblicitari e i materiali informativi evidenziano che la coscrizione è sia un “obbligo” che un’“opportunità”. Ad esempio, un video promozionale mostra giovani che si abbracciano, accompagnato dal messaggio che difendere la Svezia è una nuova opportunità per coloro che compiono 18 anni.
Nel materiale informativo distribuito ai giovani di diciotto anni nel 2021, si sottolinea che l’addestramento militare di base è sia pratico che teorico. I partecipanti sono incoraggiati a vedere il loro addestramento come un modo per crescere, creare ricordi significativi e sviluppare competenze come leadership e collaborazione. Inoltre, si fa riferimento a vantaggi come l’aumento della sicurezza personale, il miglioramento della forma fisica e l’arricchimento del curriculum vitae
L’agenzia svedese responsabile della modernizzazione della coscrizione ha dato importanza
al fatto che le competenze apprese durante il servizio militare siano trasferibili al mercato del lavoro civile. Questo avviene anche attraverso l’emissione di certificati ufficiali che riconoscono le competenze acquisite. Un disegno di legge del 2011 ha stabilito che «aver servito e essere stati selezionati per il servizio nelle forze armate dovrebbe essere considerato un merito in sé», conferendo valore all’esperienza militare nel contesto lavorativo.
Il nuovo approccio alla coscrizione rappresenta una transizione significativa dalla visione tradizionale, che considerava il servizio militare come un modo per integrare i giovani in una collettività nazionale. Oggi, il coscritto è visto come il principale beneficiario del servizio militare, non come un semplice ingranaggio in un meccanismo collettivo. Questo passaggio verso una narrazione più individualista sottolinea l’importanza dell’autonomia personale e delle opportunità che il servizio militare può offrire.
Leva e parità di genere
Per modernizzare e rendere più accettabile il sistema di coscrizione obbligatoria il governo svedese ha anche puntato sulla parità di genere. Dalla sua reintroduzione, la coscrizione non è più vista come un mezzo per «trasformare i ragazzi in uomini» (Sturfelt 2014), ma come un’opportunità di sviluppo personale e professionale per tutti, sia uomini che donne, in un mercato del lavoro competitivo.
La riattivazione della coscrizione nel 2017 ha rappresentato un momento cruciale, poiché per la prima volta le donne sono state incluse e arruolate nelle stesse posizioni degli uomini nella medesima fascia d’età.
La posizione del governo è chiara: è un’idea “irrealistica e antimoderna” ritenere che il genere debba essere il criterio
principale per valutare l’idoneità a un ruolo militare. L’accento è posto sull’idoneità individuale, che deve essere il fattore determinante nella selezione. Questa visione è ampiamente condivisa all’interno delle forze armate: un dipendente della Swedish Armed Forces (SAF) ha affermato che non ci sono problemi nell’includere le donne, sottolineando che «sarebbe completamente irragionevole per qualunque datore di lavoro moderno fare diversamente» (intervista, ottobre 2019).
Il governo ha suggerito l’utilizzo di immagini di donne arruolate nelle campagne informative delle autorità di difesa per promuovere il supporto pubblico alla coscrizione. La parità di trattamento tra uomini e donne è considerata un aspetto “nuovo” e rappresenta un “passo importante” nella comunicazione pubblica. Questo sforzo mira a dimostrare che la riattivazione della coscrizione non segna un “ritorno al passato,” ma piuttosto un progresso verso un sistema più inclusivo e moderno (intervista, febbraio 2021).
L’arruolamento femminile come strumento di geopolitica
L’accento sull’uguaglianza di genere nel discorso politico svedese non si limita a una questione interna, ma si colloca in un contesto geopolitico più ampio. Nei dibattiti internazionali, i Paesi che promuovono politiche di uguaglianza di genere sono spesso considerati avanguardie “progressiste”, mentre quelli che mantengono “valori tradizionali” e escludono le donne da professioni storicamente maschili, come il servizio militare, vengono percepiti come “retrogradi” (Farris 2017). Questa distinzione ha amplificato le tensioni geopolitiche e l’antagonismo tra l’Est e l’Ovest in Europa e nella regione del Mar Baltico (Agius e Edenborg 2019).
La decisione della Svezia di includere le donne nella coscrizione assume quindi un’importanza particolare se confrontata con il sistema di coscrizione in Russia. Qui, il regime di Putin ha giustificato storicamente il servizio militare come un dovere sacro riservato a tutti gli uomini. Questo approccio rientra in una narrazione più ampia che associa il servizio militare a un ideale di mascolinità egemonica e eroica (Eichler 2011). Nella retorica politica svedese l’inclusione delle donne non è solo un modo per promuovere la modernità e il progresso, ma si inserisce anche in una narrazione più vasta che definisce l’identità della Svezia come uno Stato liberale e progressista. Questa narrazione contrasta nettamente con l’immagine di un “Altro” russo, percepito come patriarcale e retrogrado.
In questo modo la Svezia non solo riafferma i propri valori di uguaglianza, ma si posiziona anche come un modello da seguire nella comunità internazionale. Questo posizionamento sottolinea la sua distinzione rispetto a regimi che perpetuano visioni tradizionali e escludenti del ruolo delle donne nella società, rendendo l’eguaglianza di genere una questione centrale nella sua identità nazionale e nelle sue relazioni internazionali.
Tratto da: Sanna Strand, The Reactivation and Reimagination of Military Conscription in Sweden , in «Armed Forces & Society»,Vol. 50(4) 1175–1195, 2024.
Traduzione di Francesca Nicola.
Le note di questo articolo saranno disponibili nell’edizione online.
Sanna Strand
è ricercatrice presso il Dipartimento di Storia Economica e Relazioni Internazionali dell’Università di Stoccolma.
Dulce et decorum (non) est pro patria mori
La guerra è sempre sporca, ma alcune guerre lo sono di più. E gli esempi, tra fake news, lobbismo e stragi, abbondano anche nel mondo antico.
di Mauro Reali
Il grande storico militare Yann Le Bohec mi ha più volte invitato come relatore ai suoi convegni tenuti a Lione sull’esercito romano. Probabilmente lo ha fatto perché io – che storico militare non sono mai stato, ma ho scritto spesso dei soldati come persone – potevo garantire un punto di vista più “sociale” e meno “bellico” rispetto agli altri presenti, super esperti di armi, tattiche e strategie. Insomma, ci voleva forse uno come me – che ha svolto il servizio di leva obbligatorio come pacifico addetto alla fotocopiatrice… – per parlare dell’amicizia tra soldati, cioè l’unico rapporto «non gerarchico» tra i militari di ogni tempo, in un congresso dedicato proprio alla «gerarchia»1!
Errori e orrori della guerra antica
Così, dopo che la redazione della nostra rivista ha scelto per questo numero l’argomento della «guerra»,ho pensato di avvicinarmi al tema in una chiave particolare. Perché se è pur vero che i Greci, ma soprattutto i Romani, hanno largamente coltivato la guerra come valore (oltre che come necessità storica) e che il mondo classico non conosce un pacifismo, per così dire, ideologico, è altrettanto vero che non mancano testimonianze di come questa abbia condotto a errori e orrori2. Proprio di ciò vorrei trattare, e dunque più di sconfitte che di vittorie, più di anti-eroi che di eroi, con il pensiero che corre subito ad Archiloco (VII sec. a.C.), poi emulato da
→ Busto di Alcibiade, Roma, Musei Capitolini (foto Wikicommons).
Orazio (Odi, II, 7), che non prova vergogna ad aver perso lo scudo in battaglia per salvare le penne, affermando: «Lo scudo? Al diavolo! Uno più bello me ne rifarò» (fr. 6 Diehl, trad. F. Maria Pontani)3. Prima di arrivare al mondo romano, ambito che mi è più familiare, vorrei trattare brevemente di due aspetti della Guerra del Peloponneso, che vide Atene e Sparta fronteggiarsi per quasi trent’anni (431-404 a.C.).
Il pacifismo non ideologico di Aristofane
Aveva proprio ragione il filosofo Eraclito (VI-V sec.a.C.) quando scriveva: «Il conflitto (pólemos) è padre di tutte le cose e di tutte è re: e gli uni fece dèi, gli altri uomini: gli uni servi, gli altri liberi» (fr. 53 Diels-Kranz = 14 Diano,trad.C.Diano)4.Infatti la guerra (in greco pólemos, appunto) voluta dallo stratego ateniese Pericle (subito morto) e proseguita (e perduta) dai suoi successori – a noi ben nota per il racconto del contemporaneo Tucidide – è stata anche «padre» di enormi sofferenze per la popolazione civile, che ha maturato nel tempo una sorta di pacifismo non ideologico, più privato che pubblico. Se ne è fatto interprete il poeta comico Aristofane, che negli Acarnesi (425 a.C.) sbeffeggia il demagogo Cleone
e il guerrafondaio generale Lamaco ed erge a protagonista Diceopoli, un piccolo proprietario terriero che nella finzione teatrale, per evitare la fame, stringe una pace privata con Sparta, quasi un anticipo di quella labile tregua (la “pace di Nicia”) che il poeta celebrò con La pace (421 a.C.). Che dire poi delle donne che – nella Lisistrata (411 a.C.) – cercano di convincere i mariti alla pace con un argomento molto convincente come lo “sciopero del sesso”? I drammi aristofanei, insomma, denunciano tramite l’uso della parresίa («libertà di parola») uno scollamento tra la gente comune «stanca di guerra» (mi si perdoni la citazione di Jorge Amado) e la bellicista classe dirigente di Atene, la quale – a propria volta – era tutt’altro che coesa, anzi5.
Le fake news di guerra contro Alcibiade
Ciò perché pólemos divide sempre, e se anche l’aforisma «in guerra la verità è la prima vittima» non fosse di Eschilo – come tradizionalmente si crede – sarebbe comunque veritiero. Lo si è visto nel 415 a.C. quando, proprio nell’imminenza della spedizione navale di Atene contro la filo-spartana Siracusa, capitanata da Nicia, Lamaco e Alcibiade, quest’ultimo fu colpito da una valanga di fake news –affidate alle testimonianze di delatori – che affermavano che «per abbattere la democrazia erano avvenute le parodie dei misteri e la mutilazione delle erme, e che niente di tutto ciò era stato fatto senza la complicità di Alcibiade» (Tucidide, Guerra del Peloponneso, 6, 28, trad. F. Ferrari)6. Ma chi può davvero credere che il più nobile dei tre ammiragli abbia passato la vigilia della partenza a distruggere le statue degli dèi? Assai più probabile che dietro queste false accuse ci fosse – come ha scritto Luciano Canfora7 – un oscuro conflitto tra eterίe (simili alle moderne lobby) magari originato dall’invidia per un incarico così prestigioso, sentimento che avrebbe potuto nascere sia da parte di membri del suo stesso partito (quello «democratico») sia dagli esponenti di quello «oligarchico». La conseguenza di tutto ciò fu disastrosa, perché Alcibiade, richiamato in patria per il processo, tradì Atene e si rifugiò a Sparta, rivelando importanti segreti militari: l’ingloriosa fine della spedizione siciliana e di tutta questa lunga guerra – che fece tramontare l’egemonia ateniese sulla Grecia – è nota, e non serve che la ricordi. Ciò che
vorrei però ribadire è che dal “muscolare” esordio pericleo, dall’aspettativa di una sorta di “guerra lampo”, il conflitto è stato poi per Atene un susseguirsi di malumori popolari, contrasti e tradimenti politici, diffuse menzogne, disfatte militari; eppure erano passati solo pochi decenni dalla gloria di Maratona (490 a.C.), località dove gli Ateniesi (con pochi alleati) avevano sconfitto il Gran Re e preservato la libertà delle póleis.
Le guerre giuste e ingiuste di Roma
I Romani avevano l’ossessione del bellum iustum («guerra giusta») e c’erano perfino dei sacerdoti, i feziali, che dovevano garantire che così fosse. Sicuramente come iniustum («ingiusto») il poeta di età neroniana Lucano descrisse nel suo Bellum civile il conflitto tra Cesare e Pompeo avvenuto un secolo prima: si trattò infatti (vv. 1-2) di bella… plus quam civilia («guerre più atroci delle civili») nelle quali ius… datum sceleri («il crimine è divenuto diritto»)8. I Romani hanno dunque scordato il diritto (ius è etimologicamente legato a iustum) e, con atto scellerato (lo scelus è un delitto gravissimo, lesivo della pietas religiosa), si sono massacrati a vicenda – continua Lucano – con danni maggiori di quelli provocati da nemici storici come Pirro o Annibale; ciò invece di infliggere «guerre giuste» a popoli ostili, come quei Parti che avevano strappato le insegne legionarie a Crasso nella battaglia di Carre (53 a.C.). Ma non sempre (anzi quasi mai) ciò che è giusto e/o sbagliato per Roma lo è per suoi nemici. Così infatti il capo caledone Calgaco parla dei conquistatori romani nell’83 d.C. prima di sfidarli in battaglia al Monte Graupio, nell’odierna Scozia:
Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace. (Agricola, 30 trad. G. D. Mazzoccato)9
Chi riporta il discorso è Tacito – grande storico e nobile senatore romano di età
antonina – il quale non era certo né filo-britanno né pacifista, ma anzi vedeva con favore l’ecumenica diffusione del diritto e dalla cultura di Roma. Però, da buon conoscitore dell’animo umano, è stato in grado di comprendere in profondità (pur senza giustificarle) le ragioni dei nemici. E non è un caso che la straordinaria frase ubi solitudinem faciunt, pacem appellant sia divenuta nel tempo cara alla propaganda anti-militarista: con lo slogan «hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace», ad esempio, venne convocata il 23 aprile del 1967 a Firenze una manifestazione contro la guerra USA in Vietnam!
Sconfitte che bruciano
Calcago parlava di un bellicismo camuffato da pace, ma per i Romani la pax era una cosa molto seria, addirittura divinizzata, come appare della consacrazione dell’Ara Pacis per opera di Augusto nel 9 a.C. Sul versante diplomatico, la pax – connessa al verbo paciscor («faccio un patto») – prevedeva un foedus («trattato di pace»), che il più delle volte era iniquum («dispari») in quanto dettato da Roma agli hostes («nemici») che aveva sottomesso. E pensare che hostis è termine etimologicamente legato e in origine semanticamente affine a hospes («ospite»), col significato di «straniero»: poi quest’ultimo divenne lo straniero cui si dava hospitium («ospitalità, accoglienza»), mentre il primo era quello cui spettava il bellum
I Romani subirono però alcune sconfitte da parte di nemici storici – «costruiti» come tali nel tempo, secondo la felice
← Corazza dell’Augusto da Prima Porta, Musei Vaticani (foto Wikicommons).
formula di Umberto Eco 10 – tanto brucianti da rappresentare un’onta difficilmente cancellabile. In tal caso si parlava di clades («sciagura, disastro») in quanto conseguenza di una caedes («strage»),fenomeni dei quali proporrò ora solo qualche esempio11
Canne e Carre
Mi riferisco in primis al disastro di Canne (216 a.C.) – raccontato nei dettagli da Polibio ( Storie , III) e Tito Livio ( Ab Urbe condita XXII) – che però secondo lo storico Giovanni Brizzi12 fu di tale proporzione da suscitare nei Romani la reazione morale che consentì loro la vittoria finale nella guerra annibalica (202 a.C., battaglia di Zama). Mi piace, a questo proposito, citare una bellissima considerazione dello scrittore Paolo Rumiz:
Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. Canne è la più orrenda strage del mondo antico, l’epifania di una morte sconcia, deturpante. Una morte “moderna”; la stessa che racconta Remarque a proposito della Grande guerra. A Canne si celebra l’epitaffio del duello omerico, quello che finisce con i corpi lavati e profumati da consegnare all’eternità.13
Già ho accennato all’ingloriosa sconfitta contro i Parti a Carre (53 a.C.), che vide una strage di soldati, la morte di Crasso e la vergogna della sottrazione delle insegne legionarie: la loro resa da parte del re Fraate (cui forse fu pagato un riscatto…) ad Augusto fu sfruttata da quest’ultimo per scopi propagandistici, tanto che raffigurò la scena della restituzione sulla corazza della sua statua cosiddetta «da Prima Porta», ora ai Musei Vaticani14.
Nella selva di Teutoburgo
Povero Augusto! Nel 9 d.C., proprio pochi anni prima di morire e diventare quindi divus quasi impazzì di dolore (ce lo racconta Svetonio, Vita di Augusto , 23) per la Variana clades , cioè l’imboscata nella Selva di Teutoburgo subita da tre legioni romane comandate da Publio Quintilio Varo. Le truppe germaniche – guidate dal “mitico” Arminio – uccisero o ridussero in schiavitù i legionari romani; gli ufficiali superstiti invece si suicidarono per la
vergogna, secondo la narrazione di Cassio Dione (Storia romana, LVI, 20-22).
Ancora qualche anno dopo (siamo nel 14-16 d.C.) Germanico Cesare, figlio di Tiberio e nipote adottivo di Augusto,durante una missione in Germania poteva vedere i resti – umani e non – di quella battaglia, come descritto da Tacito:
Nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa, sparse o a mucchi, a seconda che i soldati erano fuggiti o s’erano fermati a resistere. Accanto a loro, frammenti di armi, carcasse di cavalli e teschi umani piantati nei tronchi degli alberi. Nei boschi attorno, are barbariche, accanto alle quali avevano massacrato i tribuni e i centurioni delle prime compagnie. (Tacito, Annali 1, 61, trad. D. Mazzoccato).
E chissà se Germanico vide anche le spoglie del centurione di origine bolognese Marcus Caelius , la cui stele (CIL XIII, 8648, con numerose riedizioni) è ora conservata al Landesmuseum di Bonn? La sua iscrizione funebre è infatti solo un cenotafio,presso il quale sarà però possibile – scrive il fratello – «conferire le sue ossa», qualora vengano riconosciute. L’epigrafe ne ricorda il grado (centurione della legione XVIII), l’età (53 anni e mezzo) e soprattutto il fatto che lo ha reso, suo malgrado, protagonista della “macro-storia”: cecidit in bello Variano («cadde nella guerra condotta da Varo»). Inoltre Celio è rappresentato in “alta uniforme” con tanto di decorazioni (corona, braccialetti, borchie) che nell’esercito romano erano l’equivalente delle nostre medaglie al valore: ciò conferisce al soldato – pur se sconfitto – una certa dignità.
Imperatori in catene
Nessuna dignità, invece, nella postura di due imperatori romani sconfitti raffigurati in un rilievo rupestre, corredato da iscrizioni celebrative (Res Gestae Divi Saporis), visibile a Naqsh-e Rostam, presso Persepoli (odierno Iran). A trionfare – stavolta – è il re persiano della dinastia sassanide Shāpūr I, il quale, seduto sul cavallo, tiene prigioniero Valeriano, sconfitto nel 260 d.C.; davanti a loro Filippo l’Arabo, che il sovrano iranico aveva obbligato alla resa nel 244 d.C.Che strano vedere due principes, uno con le mani legate,l’altro in ginocchio, proprio come l’arte romana ufficiale (per esempio sulla Colonna Traiana) raffigurava di solito i barbari vinti! Ma il corso della
Storia stava ormai mutando e dell’eternità del dominio di Roma (l’imperium sine fine di cui parlava Virgilio in Eneide, I, 279), per il quale milioni di uomini erano morti nei secoli, si cominciava a dubitare15.
Possibile una conclusione?
Ma sarà stato poi stato davvero dulce et decorum pro patria mori (cioè «dolce e bello morire per la patria») come cantava Orazio (Odi, III, 2, 13)16 sulla scia del greco Tirteo (fr. 6 Diehl)? Oppure, almeno dopo la riforma dell’esercito in chiave volontaria e professionistica di Gaio Mario (107 a.C.), morire in guerra era solo un brutale “incidente di percorso” per esponenti di ceti subalterni arruolatisi per necessità o per nobili in cerca di gloria? E poi cosa significa davvero pro patria mori? Morire per difendere i propri confini e valori o per cercare di estendere i territori della patria andando a imporre ad altri il proprio dominio politico e culturale? Domande troppo complesse perché se ne possa trattare in breve; certo è che proprio quel verso di Orazio divenne il titolo della celebre poesia di Wilfred Owen (1893-1918) pubblicata postuma nel 1920 dopo che il poeta-soldato britannico, arruolatosi volontario nella Grande Guerra – era morto in battaglia. Egli – che descrisse gli orrori della guerra in forme quasi “ungarettiane” – definisce questa massima the old lie («la vecchia menzogna»)17, e io penso che avesse ragione. Forse avrebbe dovuto, prima di arruolarsi,dar credito alle parole che Cassandra pronuncia al v. 400 delle Troiane di Euripide, cioè: «La guerra, bisogna che la fugga chi ha giudizio» (trad. F.M. Pontani)18. Ma si sa che, da che mondo è mondo, Cassandra non l’ascolta mai nessuno; e noi tutti – osservatori attenti delle guerre di ieri, ma soprattutto spettatori angosciati di quelle di oggi – ne abbiamo una quotidiana, drammatica, conferma.
NOTE
1. M. Reali, Amicitia militum: un rapporto non gerarchico?, «Actes du Congrès ‘La Hiérarchie (Rangordnung) de l’armée romaine’, Lyon 1994», a cura di Y. Le Bohec, Paris 1995, pp. 33-37. 2. Ottima la rassegna bibliografica sulla guerra antica in M.Bettalli,I Greci e i Romani e… la guerra, Carocci, Roma 2024, pp. 211-226, cui rimando ampiamente. Citerò solo gli utilissimi G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino, Bologna 2002 e M. Bettalli, Un mondo di ferro. La guerra nell’antichità, Laterza, Roma-Bari 2021.
Per l’esercito di Roma è poi fondamentale Y. Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, Carocci, Roma 1993. Numerosi e ricorrenti i convegni sul tema: l’ultimo, dagli atti ancora inediti, è «War in the Ancient World International Conference 2024» (Graz, giugno 2024).
3. Lirici greci, a cura di F. M. Pontani, Einaudi, Torino 1969.
4. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano, G. Serra, Mondadori – Valla, Milano 1980.
5. Sul senso del “pacifismo” di Aristofane, si vd. la recente introduzione (spec. pp. 10-11) di G. Zanetto ad Aristofane, Acarnesi, Carocci, Roma 2024.
6.Tucidide, Guerra del Peloponneso, trad. F. Ferrari BUR, Milano 1985.
7.L.Canfora,Il mondo di Atene,Laterza,Roma-Bari 2011, pp. 206-235.
8. Le citazioni tradotte sono da: Lucano, Farsaglia o la guerra civile, trad. di L. Canali, BUR, Milano 1997.
9. Le traduzioni di Tacito sono tratte da Storici latini, Newton Compton, Roma 2011.
10. U. Eco, Costruire il nemico, La Nave di Teseo, Milano 2020.
11. Delle maggiori vittorie e sconfitte militari di Roma tratta L. Zerbini, Le grandi battaglie dell’esercito romano, Odoya, Bologna 2015.
12. G. Brizzi, Canne. La sconfitta che fece vincere Roma, Il Mulino, Bologna 2016.
13. P. Rumiz, Annibale. Un viaggio , Feltrinelli, Milano 2008, p. 102.
14. Ancora fondamentale per una lettura propagandistica dell’arte augustea è P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Einaudi, Torino 1989.
15.Sul valore propagandistico dell’arte ufficiale sassanide vd. passim M. Compareti, Dinastie di Persia e arte figurativa, Persiani editore, Bologna 2019; sul concetto romano, politico e militare, di imperium, fondamentale è G. Brizzi, Imperium. Il potere a Roma, Laterza, Roma-Bari 2024.
16. La citazione tradotta è da Orazio, Odi, trad. di L. Canali, Mondadori, Milano 2004.
17. Ho consultato: W. Owen, Poesie di guerra, a cura di S. Rufini, Einaudi, Torino 1985.
18. Da I tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide , Newton-Compton, Roma 2010.
Mauro Reali
docente di liceo, dottore di ricerca in Storia Antica, è autore di testi Lœscher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e direttore responsabile de «La ricerca».
Di guerre in tempo di pace
Come risignificare l’esperienza coloniale attraverso le lenti dell’antropologia, dell’etnologia, della cartografia, della museologia.
di Elena Rausa
È
un fatto che nella storia umana le guerre siano state anche occasione di conoscenza e di incontro oltre che di scontro: la cartografia e la geografia sono nate dalla pratica di mappatura e controllo dei territori conquistati, le osservazioni etnologiche furono un secondo mestiere o una passione per ufficiali, funzionari o missionari al seguito dei contingenti militari; persino le ricerche archeologiche, suggerendo un collegamento tra passato e presente, giustificarono implicitamente l’imperialismo come riappropriazione di presunti retaggi. Un legame tutt’altro che limpido ha dunque tenuto insieme fin dal principio sete di conoscenza e volontà di dominio, storia del sapere e storia della politica e, quel che forse più importa, il sapere acquisito ha prodotto narrazioni che hanno collaborato alla costruzione di immaginari, avviato nuovi processi. Proverò a mettere a fuoco la questione attraverso la lente dell’esperienza coloniale italiana.
Etnografia e colonialismo: il caso Pollera
La sera del 5 agosto 1939, all’ospedale civile “Regina Elena” di Asmara, moriva all’età di 66 anni Alberto Pollera, lucchese, ufficiale del Regio Esercito nella colonia Eritrea, un «archivio storico vivente», secondo la sentita descrizione del «Nuovo Giornale» (8 agosto 1939, p. 1), che però non fa menzione dei sei figli avuti da due donne eritree, una delle quali sposa legittima. Né menziona l’impegno profuso dal vecchio coloniale nel dissuadere il Duce dalle scellerate leggi contro il meticciato (1937) che toglievano dignità anche a quei figli che egli aveva riconosciuto e registrato all’anagrafe italiana secondo una pratica a lungo consentita.
La figura dell’antropologo Alberto Pollera pone in evidenza il carattere sfaccettato dei connazionali che abitarono le colonie: aveva compiuto infatti una rispettabilissima carriera militare e occupava incarichi prestigiosi nella colonia eritrea (console di Gondar, responsabile della biblioteca governativa, capo della sezione studi e propaganda presso l’Ufficio affari generali del personale del governo dell’Eritrea, giudice conciliatore d’Asmara e Hamasien, consigliere della Banca d’Italia, sindaco della società Saline Eritree di Massaua, presidente della Cassa di credito agrario e minerario dell’Eritrea), ma non era quel che si dice un fascista da manuale; anzi, al regime fascista doveva apparire come un personaggio scomodo e d’altri tempi, espressione di un’Italia liberale che aveva prima partecipato alla conquista, ma poi anche lavorato alla vita nella colonia con curiosità e interesse umano. Nel giro di alcuni decenni gli uomini di quella generazione avevano visto crescere unioni miste e figli meticci, conoscevano e praticavano usi, costumi e spesso anche le lingue delle popolazioni locali; la linea politica di fine anni Trenta, tutta concentrata nell’affermazione della supremazia bianca e italica, guardava con sospetto ai loro atteggiamenti non abbastanza conformi, talvolta formulando esplicite accuse di “indigenamento”/”insabbiamento”, più spesso, come accadde a Pollera, opponendo alle loro ragionevoli istanze un silenzio indifferente, che oggi diremmo mobbing
Tuttavia, le ragioni che rendono interessante la sua figura non si esauriscono nel dato biografico: Pollera aveva fatto della carriera militare e amministrativa in colonia l’occa-
sione per dedicarsi a uno studio degli usi e dei costumi delle popolazioni eritree, come provano i numerosi saggi a carattere storico, giuridico e antropologico di cui dà conto, tessendo il ritratto, Barbara Sòrgoni, nel volume Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939 (Bollati Boringhieri, 2001) e poi nell’articolo Diventare antropologo: Alberto Pollera e l’etnografia coloniale (in «Quaderni storici», Nuova serie,vol. 37, n. 109, 1, La colonia: italiani in Eritrea, aprile 2002, pp. 55-82).
Alberto Pollera non andò in colonia come studioso, non era uomo d’Accademia, in anni in cui gli accademici spesso si avvalevano degli scritti di chi come lui viveva sul campo; di fatto,si inventò un ruolo di ricercatore, costruendolo lungo tutto l’arco della sua vita coloniale. Leggere a distanza di quasi un secolo i suoi scritti obbliga a riconoscere che, anche se si sarebbe tentati di attribuirgli un’attitudine meno settaria di altri connazionali, il suo sguardo non è comunque neutro: l’antropologo è uno spettatore che non può sottrarsi a ciò che racconterà. Anche se descrivendo gli altri non nomina sé stesso, optando per una narrazione impersonale, il suo scritto si pone al contempo come fonte volontaria e involontaria: vale per Giulio Cesare quando descrive i costumi dei Galli e dei Germani, vale anche per l’antropologo-militare-funzionario del XX secolo,perché entrambi rivelano sé stessi (il proprio mondo) nel confronto con l’altro. Inoltre ragionare delle parole per dire l’altro è una pratica istruttiva, perché comporta «iniziare a dire come il discorso dei dominatori abbia ripercussioni pratiche sulla vita e la rielaborazione delle identità dei dominati. In questo processo l’etnografia, anche se prodotta da non-professionisti, ha avuto un ruolo centrale»1
Oggi l’antropologia culturale pone grande attenzione al tema dello sguardo e delle parole per dire l’altro. Riconoscere che non è sempre stato così, e che l’interesse per usi e costumi altrui diventa scientifico quando si tiene conto del proprio limite cognitivo e linguistico, è una consapevolezza importante che mi piace collegare a una massima attribuita al mistico musulmano Rumi: «La verità era uno specchio che, cadendo, si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendovi riflessa la propria immagine, credette di possedere l’intera verità». Ricomporre il puzzle dello specchio rotto è o dovrebbe essere obiettivo comune: ne avremmo la
foto di gruppo in cui ciascuno ha il proprio spazio e nessuno manca.
Archeologia e patrimoni museali: rendere visibile l’opacità
Flaminia Bartolini, archeologa classica e ricercatrice presso l’Istituto di Scienze del patrimonio culturale del CNR e presso l’Accademia britannica di Roma, per mestiere analizza l’uso pubblico dei beni culturali del fascismo e colonialismo e le loro risignificazioni nelle diverse fasi socio-politiche. Il suo intervento al convegno milanese di cui ho già parlato su «La ricerca»2, dedicato all’eredità di Angelo del Boca negli studi sul colonialismo italiano (Italiani brava gente? Angelo del Boca e la storia del colonialismo italiano, 25 maggio 2023), ha preso in esame l’ex Museo Coloniale di Roma, dal 2017 confluito nel Museo delle Civiltà3
La preistoria dell’istituzione va cercata nel 1904, all’Istituto botanico di via Panisperna, dove fino al 1914 avevano sede l’Erbario (poi trasferito a Firenze) e, appunto, il Museo Coloniale. Nel 1923 è il Duce a intuirne il potenziale propagandistico, utile a far conoscere le imprese italiane d’oltre mare e a seminare nell’opinione pubblica l’idea di nuove campagne militari. La collocazione del Museo a Palazzo della Consulta, sede del Ministero delle Colonie, da cui il Museo dipendeva, esplicita bene la funzione pedagogico-educativa, ma sarà per molti una sorpresa la circostanza che l’istituzione sia sopravvissuta al crollo del regime da cui era stata pensata, proseguendo la sua attività in piena età repubblicana fino al 1971, quando fu chiusa l’ultima sua sede in via Aldovrandi.
Il Museo raccoglieva anzitutto le collezioni provenienti dalle colonie di Libia, Eritrea e Somalia, offerte al pubblico in diverse fiere ed esposizioni coloniali (tra cui l’Esposizione internazionale di marina e igiene marinara – Mostra coloniale italiana di Genova del 1914). A queste si erano aggiunte via via altre raccolte, con un ampliamento che rallentò allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
La raccolta contava alla fine ben 12 mila pezzi, tra cui il Tesoro archeologico della Libia, trasferito in Italia nel 1942 dall’ex soprintendente reggente della Libia, Gennaro Pesce: è d’altro canto risaputo che anche l’archeologia, come l’etnologia, ha stretti legami con l’esperienza bellica, e che i
reperti antichi spesso hanno servito la causa dell’imperialismo.
La collezione archeologica ha avuto poi una sorte interessante: il 25 maggio 2011, mentre imperversava la guerra civile tra i ribelli e le forze fedeli a Muammar Gheddafi, dal caveau della Banca Nazionale Commerciale di Bengasi è stato trafugato il Tesoro archeologico di Bengasi, una collezione di reperti scavati in Cirenaica risalenti al periodo greco, romano, bizantino e islamico, in gran parte derivati proprio dal patrimonio libico del Museo di Roma, restituito alla Libia dopo la sua indipendenza, nel 1961. La raccolta archeologica comprendeva circa 7.000 monete d’oro, d’argento e di bronzo, a cui vanno aggiunti gioielli e vari altri oggetti antichi, tra cui statue. I pezzi più preziosi erano stati trovati nel 1917 presso il Tempio di Artemide a Cirene, altri venivano dal Palazzo delle colonne di Tolemaide.
A quanto mi risulta, la sorte degli oggetti rubati è ancora oggi ignota4,ma dalla vicenda possiamo almeno ricavare l’idea che nel Ventennio anche i tesori dell’antichità (fossero piccoli come monete o imponenti come l’obelisco di Axum) siano serviti per convincere gli italiani della legittimità delle imprese belliche: grazie alle antiche testimonianze, la public history dell’epoca poteva affermare che le nuove conquiste erano in fondo una specie di “ri-conquista” di quell’Africa che nell’antico Impero Romano affacciava sul Mediterraneo mare nostrum
Pur senza i reperti archeologici di Libia, la ricca collezione del Museo Coloniale, come si è detto, è confluita nel 1917 nel Museo delle Culture di Roma, ma la costituzione di una nuova realtà espositiva ha evidenziato un interessante problema: come già lo sguardo dell’antropologo coloniale, neppure la selezione attuale di ciò che merita d’essere salvato, esposto e ricordato è neutra, e occorre scegliere con cura i modi e le parole utili a far sì che i reperti assumano un significato corrispondente alle istanze culturali e valoriali del presente, e possibilmente utile ai cittadini e alle cittadine di oggi e di domani. Per questo nel 2022 il Museo delle Culture ha avviato un programma partecipativo con un gruppo di ricerca che include storici e storiche, ma anche artisti/e, scrittori/ trici, musiciste/i e soprattutto attiviste e attivisti e componenti delle comunità italiane afrodiscendenti. Il progetto traduce le indicazioni fornite dal Gruppo di
lavoro per lo studio delle tematiche relative alle collezioni coloniali presso il Comitato per il recupero e la restituzione dei beni culturali, istituito per decreto dal Ministro della Cultura Dario Franceschini il 18 ottobre 2021 e integrato il 20 aprile 2022 proprio con la partecipazione del Direttore del Museo delle Civiltà. Il 6 giugno 2023 il Museo delle Civiltà ha quindi presentato il Museo delle Opacità , nuovo capitolo dedicato al riallestimento in corso delle collezioni e delle narrazioni museali riconducibili all’ex Museo Coloniale di Roma.Qui i reperti saranno accostati a opere contemporanee (nuove acquisizioni e nuove produzioni realizzate attraverso processi di residenza nel contesto di Taking Care-Ethnographic and World Cultures Museums as Spaces of Care, co-finanziato dal programma Creative Europe dell’Unione Europea).
Il termine opacità, spiega la pagina del sito museale, ha duplice significato:
da un lato fa riferimento, in modo letterale, al velo opaco dell’amnesia caduto sull’epoca coloniale della storia nazionale, che ne rende ancora poco conosciuti gli avvenimenti, le cifre e i nomi dei protagonisti. Dall’altro lato l’opacità è quella teorizzata dal poeta e saggista Édouard Glissant [...], il diritto di ogni individuo di non assoggettare la propria identità a criteri quali “accettazione” o “comprensione”, che equivalgono a gesti di appropriazione e di classificazione unilaterali, ma al criterio della “condivisione”, che conduce ad assumere e condividere identità autonome e specifiche, generate non dagli altri ma da sé stessi.
Il Museo delle Civiltà di Roma, attraverso un’esperienza partecipativa e inclusiva, cerca dunque di ridefinire in chiave attuale il significato di reperti, fotografie e filmati che hanno rappresentato ed esibito l’Impero fascista. Così facendo, conferma una via tutta italiana alla riflessione sul passato, secondo una cultura della conservazione che ci accompagna da sempre nella custodia di luoghi antichi anche molto discussi. Per un paese abituato a confrontarsi con un’infinità di reperti che testimoniano le stratificazioni della storia, la via della conservazione associata a un approccio critico e globale consolida quei valori di cittadinanza plurale che sono la base della carta costituzionale.
Il mondo visto da qui: l’esperienza del MUDEC di Milano
Il programma del Museo delle Civiltà di Roma dialoga a distanza con l’esperienza del Museo delle Culture di Milano, in particolare della mostra permanente Milano Globale: il mondo visto da qui
La mostra, nata dal progetto Milano
Città Mondo (su iniziativa del Comune di Milano, del Mudec e dell’Ufficio Progetti Interculturali, Reti e Cooperazione) prova a rispondere alle esigenze di una città moderna e multietnica, che non può fare a meno di approcci educativi interculturali.
Il percorso espositivo segue dunque il mutare delle relazioni tra la città e i continenti extraeuropei: dalle radici del collezionismo milanese, con la Wunderkammer di Manfredo Settala, collezionista seicentesco, agli oggetti che testimoniano la volontà di evangelizzazione e di scoperta scientifica che portò, nelle ricche famiglie milanesi, prodotti delle culture più diverse – inclusi il caffè e la cioccolata che addolcivano il risveglio del giovin signore cantato dal Parini. Punto forte della mostra, per quel che interessa il nostro discorso,è l’ampio spazio dedicato al periodo coloniale e alla corsa all’Africa. Gli oggetti esposti in questa terza sezione si devono alle casse conservate nei depositi di Palazzo Moriggi fino al 2018 e provenienti dal Museo milanese della Guerra, esposizione etnografica che tra il 1935 (anno d’inizio della Guerra d’Etiopia) e il 1943 occupava alcune sale del castello Sforzesco, con lo scopo precipuo di glorificare l’operato militare del Regno d’Italia fascista. Era questa una vera istituzione educativa che coinvolgeva i suoi utenti più giovani con un concorso scolastico volto a promuovere la condivisione di oggetti di famiglia provenienti dalle campagne d’Africa. Pezzi di storia familiare andavano così a unirsi ai cimeli donati dai soldati e dagli ufficiali di ritorno dalle colonie.
I reperti esposti al Museo della Guerra (soprattutto armi e oggetti religiosi di un nemico che si voleva rappresentare come non cristiano, anche quando in realtà lo era) sono poi passati al Museo del Risorgimento (1950-1963), quindi al Museo di Storia Contemporanea (fino al 1995), ma soltanto nel 2020, terminato il lavoro di inventario e restauro, si è predisposto un ragionamento critico sui criteri espositivi, attraverso un workshop con
le comunità dei milanesi originari delle ex colonie. Un video intitolato Legittime5 racconta questa costruzione di una narrazione condivisa, attraverso una comunicazione non offensiva e il più possibile scevra da stereotipi, ma anche capace di rendere conto di ciò che la propaganda bellica fascista aveva cancellato: la storia precoloniale dei paesi occupati, la Resistenza delle popolazioni, in particolare di quella etiope, che restano tutt’ora ai margini del racconto coloniale. La grande sfida di questo progetto di museologia partecipata è stata dunque la decostruzione attraverso gli oggetti della retorica della conquista e della vittoria: mediante la loro contestualizzazione, certo, ma anche attraverso il dialogo tra tutti gli attori della relazione interculturale.
Le esperienze del Museo delle Civiltà di Roma e del Museo delle Cultura di Milano sembrano confermare ciò chi studia il passato sa già, ossia che gli oggetti mutano nel tempo il loro significato a seconda del contesto e di chi li impiega con proprie finalità. La novità del nostro tempo, mi pare, è che tutto ciò possa avvenire con maggior consapevolezza e attraverso un confronto plurale.
Le guerre, insomma, intossicano le relazioni tra i popoli, e a volte fanno a pezzi le comunità al loro interno; ma le comunità, oggi sempre più consapevolmente plurali, possono attivare processi riparativi, risignificando ciò che resta e così offrendo a quell’eredità (materiale come i reperti o immateriale come le osservazioni degli antropologi del passato) l’occasione di promuovere una comunità più solida, perché fondata su una condivisione più autenticamente inclusiva.
NOTE
1. Sòrgoni, Diventare antropologo, cit., p. 58.
2. Si può leggere all’indirizzo https://laricerca. loescher.it/sconfinamenti-1/.
3. L’indirizzo è https://www.museodellecivilta.it/exmuseocolonialediroma/.
4. Mentre congediamo le bozze mi segnalano Il tesoro di Bengasi, di Serenella Ensoli, Fabrizio Serra Editore, Pisa 2013.
5. Su YouTube: https://bit.ly/3UzWOxf.
Elena Rausa
è docente di Lettere nei licei e dottoressa di ricerca in Italianistica. Ha pubblicato per Neri Pozza: Le invisibili (2024), Ognuno riconosce i suoi (2018), Marta nella corrente (2014).
Il cinema di guerra, una storia a tappe
Forse più di tutti gli altri generi, il cinema a carattere bellico è stato quello maggiormente influenzato dalla Storia: non solo riportando sullo schermo le battaglie che si sono combattute, ma anche restituendone i modi, rappresentando le fazioni, ricostruendo atmosfere, contesti socio-politici e tecnologici, visioni del mondo. Una breve cronistoria di titoli e temi.
di Andrea Chimento
Anche per ragioni dettate dalla nascita della Settima arte alla fine dell’Ottocento (il 28 dicembre 1895 è la data istituzionale della prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière), il primo grande evento che i registi e gli sceneggiatori hanno voluto (e, forse, dovuto) affrontare – quasi in diretta – è stato senza dubbio la Prima guerra mondiale. Certo, non mancavano esempi legati al passato, a fatti storici avvenuti prima che il cinema nascesse,e si può a questo proposito citare un film fondativo del cinema classico del calibro di Nascita di una nazione di David Wark Griffith: una pellicola del 1915, ambientata ai tempi della Guerra civile americana, che si può prendere come modello di riferimento per la spettacolarità delle sequenze di massa, per il numero di comparse e anche per le scelte narrative e stilistiche decisamente in anticipo sui tempi.
La Prima guerra mondiale cambia però tutto, anche a livello produttivo, per la geografia del cinema mondiale: l’Italia, ad esempio, perderà quel ruolo dominante che aveva in precedenza, mentre Hollywood diventerà la Capitale del cinema proprio in seguito al primo conflitto planetario.
Griffith lo ha raccontato in pellicole come Cuori del mondo (1918) e Le vestali dell’amore (1919), ma all’interno di quel decennio sono altri due i titoli che vogliamo sottolineare come fondamentali in questo senso: il primo è Per la patria (1919), capolavoro pacifista di Abel Gance, un dramma bellico, dai toni funerei e sentimentali allo stesso tempo, in cui la storia (privata) dei tre personaggi si mescola alla Storia e a una delle sue principali tragedie.
L’altro è invece Charlot soldato (1918), mediometraggio in cui Charlie Chaplin riesce a farci (sor)ridere della tragedia, regalando anche una delle prime parodie belliche della storia del cinema.
Il cinema americano proseguirà poi a essere protagonista del genere anche nel decennio successivo, sempre raccontando l’incubo della Prima guerra mondiale con produzioni come La grande parata (1925) di King Vidor o Ali (1927) di William Wellman, quest’ultimo il primo film a ottenere l’Oscar per la miglior pellicola durante la prima edizione in cui venivano consegnati gli Academy Awards.
Il cinema parlato, slanci pacifisti
Mentre il cinema in questi anni verrà sempre più utilizzato in chiave propagandista dai regimi dittatoriali – il fascismo sfrutterà enormemente il linguaggio della Settima arte in questo senso – nel corso degli anni Trenta i lungometraggi più significativi del genere risultano essere delle opere a sfondo dichiaratamente pacifista.
Il decennio viene inaugurato così dal meraviglioso All’Ovest niente di nuovo (1930), film di Lewis Milestone tratto dal celebre romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. Milestone ritrae con crudezza e coraggio la “follia della guerra” ribaltando totalmente la prospettiva che il cinema bellico aveva proposto fino a quel momento: All’Ovest niente di nuovo prende, infatti, la prospettiva dei perdenti del conflitto, i tedeschi, le cui speranze vengono sempre più disilluse con il passare dei minuti.
Altra opera memorabile in questo ambito è La grande illusione, con cui Jean Renoir nel 1937 torna a parlare della Prima guerra mondiale, ma con l’intento di far riflettere su quanto si stava muovendo nuovamente in Europa e che avrebbe portato presto allo scoppio della Seconda. Quello di Renoir è un pacifismo pragmatico, realista, che non prescinde dal rispetto dei codici, morali in primis, insiti anche nel contesto bellico. La guerra, per paradosso, in questo come in altri lavori del cineasta francese, è l’unico scenario in cui gli uomini si scoprono uguali, pur indossando divise di diverso colore.
La Seconda guerra mondiale
Nel mezzo della Seconda guerra mondiale il cinema giocava ancora con la propaganda, da un lato, e con attenzioni ben più pacifiche e artistiche, dall’altro.
È abbastanza incredibile quello che hanno fatto Michael Powell e Emeric Pressburger nel film britannico Duello a Berlino del 1943, raccontando la storia di due uomini rimasti amici per la vita dopo essersi affrontati in duello a Berlino nel 1902: il veterano dell’esercito britannico Clive Candy e l’ufficiale tedesco Theo Kretschmar-Schuldorff, ormai anziani, rievocano la straordinaria parabola di stima reciproca che ha segnato un glorioso passato. Due guerre mondiali e l’avvento del nazismo non hanno scalfito un rapporto più grande della vita.
Sono due le nazioni che negli anni immediatamente successivi alla guerra danno un contributo fondamentale al racconto per immagini di alcuni episodi del conflitto: gli Stati Uniti hanno puntato sull’estrema spettacolarità e su un forte carico di retorica con ottime pellicole come Cielo di fuoco (1949) di Henry King, Iwo Jima, deserto di fuoco (1949) di Allan Dwan o Obiettivo Burma! (1945) di Raoul Walsh. Ma in questo periodo si dedica anche un ampio spazio alla malinconia di rapporti umani che si sono spezzati, come dimostra I migliori anni della nostra vita (1946) di William Wyler.
La nazione che però avrà una vera e propria rinascita dopo la guerra sarà l’Italia, capace finalmente di tornare ai fasti del primo periodo del cinema muto grazie al neorealismo, un movimento che aggrega diverse opere caratterizzate da uno stile essenziale, debitrici del verismo verghiano e di un desiderio di raccontare la realtà così com’è, senza fronzoli.
Seppur ci siano stati diversi anticipatori in questo senso, il manifesto del movimento è Roma, città aperta (1945) di Roberto Rossellini, un vero e proprio instant-movie che racconta l’occupazione nazifascista della capitale italiana con la necessaria crudezza.
Rossellini proseguirà con altri due capitoli di un’ipotetica trilogia neorealista: Paisà (1946),in cui si racconta la Liberazione d’Italia dal Sud al Nord in vari episodi, e Germania anno zero (1948), dove mostra una terrificante panoramica della Berlino del dopoguerra.
Le difficoltà seguite al conflitto bellico saranno oggetto di riflessioni per cineasti come Luchino Visconti (Bellissima), Vittorio De Sica (Ladri di biciclette) e tanti altri.
Il cinema italiano poi tornerà anche a raccontare la Prima guerra mondiale con La grande guerra (1959), film di Mario Monicelli avvicinabile al filone della commedia all’italiana con due memorabili Alberto Sordi e Vittorio Gassman.
Le altre nazioni
Certo, nel corso degli anni Cinquanta il cinema americano insiste molto sul cinema bellico (anche Stanley Kubrick torna alla Prima Guerra Mondiale con Orizzonti di gloria del 1957), ma si percepisce come numerose nazioni vadano sempre più a riflettere sui traumi della Seconda guerra mondiale.
In Europa certamente emerge ancora la Gran Bretagna (il classico Il ponte sul fiume Kwai del 1957), ma è molto interessante ciò che si sviluppa in Francia, prima con pellicole emozionanti come Giochi proibiti (1952) di René Clément, poi con le sperimentazioni portate dagli autori della modernità. Emblematico a questo riguardo è Alain Resnais, che ha indagato in maniera profondamente psicoanalitica quei traumi con un documentario come Notte e nebbia (1957) e che realizza un film di finzione come Hiroshima, mon amour (1959), incentrato sull’incontro tra un’attrice francese che si trova in Giappone per girare un film contro la guerra e un ragazzo del luogo con cui inizia un’appassionata e tormentata relazione. Basta l’incipit, che mostra i loro corpi avvinghiati dopo un rapporto sessuale, coperti dal sudore e dalla cenere che simboleggia il trauma della bomba atomica.
Restando in ambito europeo, non va dimenticato il grande lavoro svolto in Polonia da Andrzej Wajda, autore che ha indagato le conseguenze nefaste della guerra in pellicole come Cenere e diamanti (1958).
Una menzione speciale, poi, va al cinema giapponese, che negli anni Cinquanta racconta con estrema forza il suo punto di vista su ciò che è successo. Lo fa sia in maniera profondamente realista, con film come Nessun amore è più grande (1959) di Masaki Kobayashi o Fuochi nella pianura (1959) di Kon Ichikawa, sia in senso profondamente simbolico: Godzilla (1954) descrive un mostro gigantesco che diviene una forte metafora della bomba atomica e degli orrori che ne sono scaturiti.
La guerra del Vietnam
Non tutti ricordano che il primo film sulla guerra in Vietnam è stato un lungometraggio francese, 317° battaglione d’assalto (1965), realizzato prima che gli Stati Uniti rendessero quelle battaglie tra le più significative della storia del cinema. Inizialmente troviamo anche una star decisamente repubblicana come John Wayne a lavorare sul tema, con il suo film Berretti verdi del 1968, ma in seguito la guerra in Vietnam diventerà soprattutto una materia di riflessione in cui il cinema ragionerà sulla follia alla base del conflitto e sui traumi causati dalle scelte del governo americano in
quegli anni. Seppur non manchino lavori profondamente retorici e capaci di coniugare guerra e azione, come la serie di Rambo o Rombo di tuono, il filone – diventato un vero e proprio sottogenere a sé stante – diventa fondamentale quando invece entra nell’aspetto più psicologico del conflitto.
Esempi fondamentali in questo senso sono Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese e Tornando a casa (1978), due film figli della cosiddetta New Hollywood, che ragionano sul tema dei reduci e di ciò che la guerra lascia dentro ognuno dei suoi protagonisti.
Ancor più centrale in questa riflessione è Il cacciatore (1978) di Michael Cimino, capolavoro che mostra il prima, il durante e il dopo conflitto con una forza drammaturgica e stilistica devastante.
Forse ancor più decisivo in questo senso è Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, un film che riporta la guerra a uno stato mentale, come dimostra il memorabile incipit con la sovrimpressione tra il volto del protagonista Martin Sheen – pronto a un viaggio nel cuore di tenebra dell’essere umano, per citare il libro di Conrad da cui è tratto – e lo sfondo degli incendi sulla giungla causati dai bombardamenti.
Negli anni Ottanta sono tornate a ragionare sulla guerra diverse altre pellicole importanti, come Platoon (1986) di Oliver Stone e Full Metal Jacket (1987), dove Stanley Kubrick mostra due tipi di guerra, quella in accademia e quella sul campo.
La Shoah
Eletto per tentare di rappresentare anche l’irrappresentabile, il cinema ha dedicato non poca attenzione al tema della Shoah, tratteggiandone direttamente la portata devastante o affrontando le dolorose conseguenze tramite prospettive meno convenzionali. Molti esempi in questo senso sono arrivati dagli anni Ottanta in avanti, a partire da un documentario torrenziale e memorabile come Shoah di Claude Lanzmann o dal malinconico Arrivederci ragazzi di Louis Malle.
Il tema della Shoah, collegabile quindi pienamente al cinema di guerra, è diventato anche una potente macchina commerciale sul grande schermo, visti anche i grandi incassi e i numerosi Oscar ottenuti da film (seppur ottimi) come
Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg
o La vita è bella (1997) di Roberto Benigni. Registi di varie nazioni hanno scelto questo argomento a cavallo dei due millenni, dal rumeno Radu Mihaileanu con Train de vie (1998) al greco Costa-Gavras con Amen (2002), passando per il polacco Roman Polanski con il suo notevole Il pianista (2002).
In mezzo a tanti film degli anni 2000 che toccano l’argomento – talvolta in maniera un po’ furba – vogliamo segnalare due vere e proprie opere d’arte che cambiano la prospettiva sull’argomento.
Il primo è Il figlio di Saul (2015) di László Nemes: nella Auschwitz del 1944, l’ungherese Saul è costretto a collaborare con i nazisti per smaltire i prigionieri. Convinto di aver ritrovato il cadavere del proprio figlioletto, farà di tutto per garantirgli un degno riposo. Folgorante esordio per Nemes, già assistente di Béla Tarr, il film affronta la tragedia del genocidio nazifascista tramite il dramma del protagonista, raggiungendo picchi emotivi di rara umanità, optando per una cinepresa che rimane sempre incollata al volto del protagonista e lascia gli orrori sullo sfondo, sempre fuori fuoco. Lavora altrettanto egregiamente col fuori campo La zona d’interesse (2023) di Jonathan Glazer, tratto da un romanzo di Martin Amis, che ci mostra la banalità del male mostrando la quotidianità della famiglia di un gerarca nazista che vive accanto ad Auschwitz.
Il nuovo millennio
Le pellicole contemporanee che tornano a ragionare sulla Seconda guerra mondiale sono diverse, ad esempio due film del 1998 – Salvate il soldato Ryan e La sottile linea rossa – ma anche nel nuovo millennio non mancano esempi variegati in tal senso: dall’ucronia di Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria (2009), film che immagina come Hitler possa essere rimasto ucciso in un cinema, allo spettacolare Dunkirk (2017) di Christopher Nolan, passando per il dittico firmato da Clint Eastwood che mostra la battaglia di Iwo Jima dal punto di vista degli americani, prima, con Flags of Our Fathers (2006) e da quello dei giapponesi poi, con Lettere da Iwo Jima (2006).
Sono anni in cui il cinema a stelle e strisce ha ragionato anche molto sulla guerra in Iraq, con opere sperimentali
come Redacted (2006) di Brian De Palma, ma anche sulla caccia a Osama Bin Laden come conseguenza dell’11 settembre: il primo titolo che va ricordato in questo senso è Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow, regista che aveva già affrontato il tema della guerra in Medio Oriente con The Hurt Locker (2009).
Vogliamo però chiudere la nostra panoramica citando i film che parlano della guerra nei Paesi del Medio Oriente realizzati da autori e autrici del posto: da Lebanon (2009) di Samuel Maoz a Kippur (2000) di Amos Gitai.
Quando si parla di cinema di guerra, infine, non si possono dimenticare alcuni importanti documentari: il titolo con cui vogliamo concludere è l’imprescindibile Alla mia piccola Sama (2019) di Waad Al-Kateab. Non è soltanto un film-testimone del tragico conflitto siriano, ma una vera e propria video-lettera che la regista realizza per la figlia nata durante i bombardamenti. Storia privata e storia collettiva si fondono in questo potente lungometraggio, capace di essere intimo e di avere un ampio respiro allo stesso tempo: proprio le caratteristiche fondamentali che dovrebbe avere qualunque, grande, film di guerra.
Andrea Chimento
dottore di ricerca in Culture della Comunicazione, in ambito universitario insegna a Milano Istituzioni di storia del cinema (Università Cattolica), Storie e scenari dell’immagine e dell’audiovisivo (Master in Management dell’Immagine, del Cinema e dell’Audiovisivo, Università Cattolica) e Critica cinematografica sul web (Università degli Studi). Giornalista professionista e critico cinematografico, scrive dal 2009 su IlSole24Ore.com, collabora con diverse testate ed è ideatore e direttore responsabile del portale web longtake.it. Tra le sue pubblicazioni, Dal cyberpunk al mistero dell’anima: il cinema di Shin’ya Tsukamoto, Alla ricerca della (in)felicità: il cinema di Todd Solondz, Il divo – La grandezza dell’enigma e 9/11: la 25ª ora del cinema americano. Per l’attività critica ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui i premi Adelio Ferrero e Scuola Holden nel 2009.
Guerrieri e paciere nei poemi epici del Rinascimento
In molti personaggi femminili della tradizione cavalleresca ed epico-storica è possibile riconoscere una visione della guerra, della pace, dei generi che contrasta con quella egemone.
di
Johnny L. Bertolio
Il genere letterario dell’epica, tanto nella sua declinazione storica quanto in quella cavalleresca, è tradizionalmente associato a fatti bellici e a quell’espressione di mascolinità che oggi viene definita tossica: il duello, la sfida per il primato qualitativo e quantitativo,la proclamazione di superiorità rivelano un intreccio di questioni che si fondano su una certa visione dell’uomo e della donna, della religione, dell’etnia se non della razza. Nella scuola italiana, l’epica è sempre stata considerata un punto imprescindibile della programmazione,una disciplina dotata di alto valore pedagogico per l’esemplarità delle azioni mescolata con il gusto per il meraviglioso. Scriveva nel 1855 la pedagogista e critica Caterina Franceschi Ferrucci, con riferimento alla formazione scolastica delle ragazze, oltre che dei ragazzi:
Venendo poscia a parlare dell’epica poesia, […] faremo chiaro […] convenirsi alla essenza sua unire il finto col naturale, spargere sulle cose più consuete colore di novità, e con immagini varie e proprie aggiunger decoro e ornamento al vero. Da che vuolsi far manifesto, come i costumi de’ personaggi di cui nel poema sono ritratte le imprese, debbano essere dipinti in maniera da risvegliare l’odio del vizio e l’amore della virtù. […] spetta al poeta d’intrecciare in tal guisa le sue finzioni, che ne derivino ammaestramenti appropriati ad emendare certi vizi, a togliere alcuni errori e a ridestare nell’universale lo zelo del bene e la morta fede.
I guerrieri epici devono spronare a nobili ideali e imprese, soprattutto quando la patria o non c’è ancora oppure è in pericolo. Anche per questo i momenti chiave dell’epica classica, tradotti da illustri intellettuali, conservano il loro successo didattico fin dal primo anno della secondaria di primo grado. Ovviamente sono cambiati i presupposti di queste letture, che privilegiano il racconto dei grandi miti, si aprono alle storie d’amore (quanti eufemismi, un tempo, per la relazione tra Patroclo e Achille o sulla vita comune delle Amazzoni!), spesso saltano i lunghi e soporiferi cataloghi bellici. Mentre però osserviamo le immagini di un’Europa e di una Palestina sconvolte, di nuovo, dalla guerra, mentre nelle parole delle opposte propagande si continua a parlare di uno scontro tra Occidente e Oriente, tra civiltà e barbarie, la memoria torna alle vicende dell’epica rinascimentale, ai duelli e alle battaglie tra franchi e saraceni. Di queste vicende, che studiamo in genere da un unico punto di vista, si tende oggi a porre in risalto due aspetti: il legame solo apparentemente consequenziale tra mascolinità e guerra; la carica colonizzatrice del racconto delle guerre carolinge (il ciclo di Rolando-Orlando), delle crociate medievali (la conquista di Gerusalemme, nel 1099, tra le poche vittorie “franche”), dei tentativi di riconquista di aree balcaniche passate, nel Quattrocento, al
controllo turco (le imprese di Scanderbeg, eroe nazionale albanese). In realtà, sono il tono e il temperamento del singolo autore o della singola autrice a inserire le vicende epiche entro una cornice più o meno consapevolmente imperialistica; Ludovico Ariosto, ad esempio, ben conscio del logoramento a cui la tradizione cavalleresca era andata incontro, anziché riproporre il già detto tale e quale, lo rivisita e ne prende le distanze con l’arma, questa sì efficacissima, dell’ironia.
Il caleidoscopio dell’Orlando furioso ci offre, così, ampio materiale per osservare una costante decostruzione dei modelli epici, delle barriere etniche, dei confini di genere.
Tra i paladini di Carlo, a parte le differenze caratteriali, lo schema etico dominante è quello del guerriero indomito, sempre pronto a sacrificarsi e messo alla berlina o relegato negli abissi della follia quando, uscito come Orlando dal campo di battaglia,entri in quello dell’eros.Un altro personaggio spicca per i suoi continui attraversamenti di porte: è Ruggiero, cui Ariosto affida il non secondario compito di incarnare il filone encomiastico del poema, come progenitore cavalleresco della casata d’Este; tra i suoi membri c’era l’agguerritissimo cardinal Ippolito, la «generosa Erculea prole» del proemio, protagonista di un’accesa e sanguinosa rivalità con il fratello Giulio, che fu sfregiato (lo riracconta Maria Bellonci nella sua sublime Lucrezia Borgia ). Ruggiero transita fra due mondi (discendente di Ettore troiano e di Alessandro il Macedone, re dei Bulgari, soldato di re Agramante e poi di re Carlo, infine vassallo dell’imperatore di Costantinopoli), fra due religioni (musulmano, poi cristiano), fra due legami sociali dalle forti connotazioni sentimentali (la protezione del mago Atlante, il matrimonio con Bradamante). In un’occasione, inoltre, Ruggiero sembra avviare un percorso di transizione di genere, quando l’ippogrifo, su mandato del solito Atlante, lo fa atterrare nell’isola remota di Alcina.
La maga, il cui nome ricorda quello di Alcinoo, altro re di una corte pacifica e amena,nell’Odissea,vive oltre l’Europa,oltre il «segno» d’Ercole, quelle colonne che all’epoca di Ariosto erano state varcate dai colonizzatori.
Tra «chiare acque, ombrose ripe e prati molli» (VI, 20), fragranti agrumeti, fronde ombrose contro il calore estivo, usignoli
canterini che incoraggiano il sesso, animali liberi, dai cervi ai conigli, «senza temer ch’alcun gli uccida o pigli» (VI, 22), Ruggiero pensa di essere arrivato, appunto, nell’isola dei Feaci, in un giardino paradisiaco e pacifico. Per prima cosa si disarma: è un gesto di forte valenza simbolica, per un guerriero sempre pronto al duello, e che rivela il suo ingresso in una dimensione nuova.
L’isola di Alcina, però, non è veramente in pace. La maga ha dovuto ritagliarsi il proprio spazio di governo strappandolo, con l’alleanza di Morgana, a una terza sorella, Logistilla, «pudica e santa» (VI, 46), la maga del lógos , della razionalità, dell’ordine costituito, specchio dei valori maschili. È dunque un regno solo apparentemente armonioso, presidiato da un esercito che più plurale non si può: creature da corteo bacchico, metà uomini e metà animali (scimmie, gatti, capri, centauri), «chi femina è, chi maschio, e chi amendue» (VI, 62), tuttə guidatə da un panciuto ubriaco a cavallo (si fa per dire) di una lentissima testuggine.
L’isola è anche popolata di ex uomini, gli amanti di Alcina trasformati da lei, ormai stanca della relazione, in vari esseri, secondo la tradizione della Circe omerica. Tra questi Ruggiero incontra subito Astolfo, ridotto a vegetale, che lo mette in guardia, invano. L’accoglienza di Alcina e delle sue ministre è troppo gradevole per essere rifiutata e Ruggiero, come tutti i polli prima di lui, conta di diventare quell’unico prescelto per essere amato in esclusiva dalla maga. Una volta
↑ Dosso Dossi, La maga Alcina, 1515 circa, olio su tela (Washington, National Gallery)
↑ Rutilio Manetti, Ruggiero alla corte di Alcina con le altre coppie di innamorati/e, 1624, olio su tela (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina).
varcata la porta d’oro della città-paradiso, accolto da due donzelle, Ruggiero assiste a uno spettacolo impensato, che trasuda abbondanza («sta ognor col corno pien la Copia»: VI, 73): ragazze di verde vestite e inghirlandate che corrono; giovani che si confidano; Amorini che affilano le frecce (le uniche armi qui ammesse). Tuttavia, prima di arrivare a palazzo, Ruggiero deve affrontare una breve prova, come in una contro-iniziazione: l’amenità è disturbata da un mostro, la gigantessa Erifilla, allegoria simile alla lupa dantesca, la quale infatti troneggia su un lupo «grosso et alto più d’un bue» (VII, 4). Sconfitta senza troppa fatica Erifilla, Ruggiero entra in un bosco e lungo una via stretta e sassosa sale una collina che invece è ben diversa dal colle della Grazia avvistato da Dante all’inizio dell’Inferno. Sulla sua cima sorge il bellissimo palazzo di Alcina, con la gente più gentile e gradevole del mondo, compresi i poeti. La descrizione di Alcina è uno sfoggio di stilemi petrarcheschi e danteschi, che culminano nel dolce sorriso «ch’apre a sua posta in terra il paradiso» (VII, 13); questa quasi-Beatrice osa indossare un vestito che non nasconde (come per le donne in carne e ossa dell’epoca), ma rivela, persino i piedi, che andavano assolutamente coperti. Qui gli amanti si sentono liberi di confessarsi ogni segreto «senza divieto» (VII, 21), senza pressioni sociali. Se proprio ci si deve dedicare a maschie passioni, si va a caccia. Questo luogo di amore contrasta con la morale corrente e, nonostante a Ruggiero non dispiaccia, viene presentato come «lunga inerzia» (VII, 41), «regno effemina-
to e molle» (VII, 48), insomma un concentrato di tutto ciò che un eroe non dovrebbe essere, non dovrebbe volere. Gli abbracci d’amore con la maga, lungamente attesi, infine avvengono; Ariosto paragona gli avviticchiati Ruggiero e Alcina all’edera e commenta divertito la loro capacità orale: «avean più d’una lingua in bocca» (VII, 29). La trasformazione dell’ormai ex eroe è sottolineata dal suo inesorabile scivolamento dalla sfera tipica della mascolinità a quella tipica della femminilità: Ruggiero si traveste; Alcina lo ingioiella come un bambolo; gli dona un abito raffinato da lei stessa confezionato (l’arte della tessitura accompagna anche le donne emancipate e ribelli come Alcina); ne fa il suo Adone.
Tutto ciò è intollerabile e Bradamante, la guerriera innamorata di Ruggiero (altro personaggio in cui femminilità e mascolinità si mescolano), chiede di intervenire alla propria alleata magica, Melissa. Questa a sua volta si traveste, da uomo, da Atlante, e si presenta a Ruggiero: lo ritrova agghindato da donna, con abiti lussuosi, con uno «splendido monile» incastonato di gemme, due braccialetti, gli orecchini di perle, con i capelli profumati e lisci grazie a una specie di gel; insomma, «tutto ne’ gesti era amoroso» (VII, ott. 53-55). Melissa gliene dice di tutti i colori, predica contro l’«ozio» e la «lascivia» (VII, 53) come una discepola di san Bernardino, paragona i gioielli a catene, fino a dare a Ruggiero del «già virile» (VII, 54) e a definire il futuro fondatore degli Este un eunuco («come / fosse in Valenza a servir donne avezzo»: VIII, 55). Proprio il tratto della fecondità, normalmente associato alle progenitrici, entra di prepotenza nel discorso di Melissa-Atlante: Ruggiero è colpito al «ventre» (VII, 60), nella sua capacità generativa («concetto», VII, 60, dalla stessa radice di concepimento), al pari di una donna-madre: l’«arbor tuo fecondo» (VII, 62) rischia di rimanere senza frutti, di non generare la «generosa Erculea prole». Dall’altra parte, Alcina è presentata come una meretrice, «concubina» di mille altri amanti (VII, 64), che ha disperso le proprie potenzialità materne. E la quasi-Beatrice si trasforma nel suo opposto, una contro-Beatrice di sapore anti-petrarchesco: dietro il make-up, Alcina è pallida, quasi calva, sdentata, di bassa statura, più vecchia della Sibilla Cumana, e solo grazie a una sorta di alchimia plastica riesce ad apparire sempre giovane. Ruggiero si vergogna, prova «scorno», vor-
rebbe sotterrarsi, si mostra vittima (povero ingenuo erede di Adamo) di «magica violenza» (VII, 67). Rinsavito, risvegliato, tornato in sé (ma non era un sé anche il Ruggiero travestito?), il riaffermato eroe ha bisogno di un aiuto: un anello magico, che, come un’arra dell’anello nuziale, Melissa gli consegna da parte di Bradamante. Questo gli consente di verificare le parole di Melissa e ora Alcina gli appare davvero come la donna più brutta e «laida» del mondo (VII, 72), una «puttana vecchia» (VII, 79), alla quale pure si era avvinghiato come edera e di cui aveva assaggiato la lingua.
Dopo la parentesi, Ruggiero si riarma (inizio di una nuova fase), imbraccia lo scudo magico e si rimette ben saldamente al fianco la spada Balisarda, gesto che non possiamo non leggere come una riaffermazione – più metonimica che metaforica – della sua potenza sessuale (ora sì che è tornato il Ruggiero estense, futuro marito di Bradamante). Bisogna però mantenere il segreto per sconfiggere Alcina e il suo esercito, e tagliare la corda al momento opportuno; Melissa, spogliatasi dei panni di Atlante, gli sussurrerà il da farsi, invisibile, alle orecchie, durante la fuga verso Logistilla, la maga dai «costumi casti» e dalla «bellezza eterna» (X, 45), nel cui soave regno non c’è più da sperare né da temere ma nemmeno da desiderare (che noia!). Per arrivare alla sua corte, diciamo pure, patriarcale, si percorre una strada impervia e solitaria, molto meno affollata di quella di Alcina e, questa sì, molto più simile alla selva oscura di Dante, oltre una spiaggia deserta, assolata, immobile, con il solo frinire della cicala, e poi a bordo di una barca guidata da un Caronte buono, che traghetta l’eroe verso la parte “giusta” dell’isola (e della Storia).
Alcina è «disperata» (VIII, 13) e lascia incustodito il proprio palazzo pur di fermare Ruggiero; se ne approfitta Melissa, che restituisce forma umana agli amanti i quali, diversamente da Ruggiero, avevano perseverato nella relazione con la maga e ne erano stati trasformati, come Astolfo. Non solo quindi Ruggiero si salva, ma la sua salvezza è stata l’occasione per sconfiggere definitivamente Alcina e le sue pretese dinastiche contro Logistilla. La vinta vorrebbe poter morire, come Cleopatra, come Didone abbandonata, ma le fate – precisa maliziosamente Ariosto – sono immortali, quanto meno sino alla fine del mondo.
Tutto è cambiato: Astolfo è tornato Astolfo, persino l’ippogrifo sarà più docile agli ordini del suo cavaliere grazie a un nuovo morso logistillico. E Ruggiero, dopo questa avventura, sarà di nuovo un bravo eroe, un eroe “vero”; viaggerà e tornerà ai suoi doveri di soldato, come un Odisseo moralizzato, un Robinson Crusoe imborghesito: a partire dall’isola coprirà l’altra metà del planisfero, fino alla Scizia, alla Sarmazia, alla Russia, alla Prutenia, alla Pomerania, luoghi che ci sono diventati tanto cari. Un Odisseo pur sempre d’Oriente: Ariosto lo paragona ai re magi che, dopo aver saputo dell’ira di Erode contro il piccolo Gesù, tornano in Persia da una strada diversa, cioè senza passare dal via, da Gerusalemme,senza dire addio ad Alcina. La sua prima avventura sarà quella di un eroe che ha vinto la tentazione, che è rientrato nei ranghi: libererà la bella Angelica (lei sì che se lo meritava!), sul punto di essere sbranata dall’orca di Ebuda.
L’episodio di Alcina avrà un enorme successo, iconografico e soprattutto operistico; tra i tanti melodrammi, ricordiamo la Liberazione di Ruggiero da l’isola d’Alcina (1625), che vanta due primati: prima opera di una compositrice, Francesca Caccini (su libretto di Ferdinando Saracinelli), e prima opera esportata all’estero, per volontà di Władisław IV Waza, principe di quella Polonia percorsa in volo da Ruggiero. Sulla scena i giardini rivali di Alcina e Logistilla, i travestimenti dei personaggi, le loro molteplici transizioni sono ancora più efficaci.
Nessun eroe – sembra la morale fiabesca dell’episodio se non di tutto l’Orlando furioso – è immune dall’amore; anche i pii e i duri di cuore sperimentano questo sentimento, che sia o meno corrisposto. E lo prova il poema che si può considerare l’espressione per eccellenza del clima controriformistico della seconda metà del Cinquecento: la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Tra tutti i suoi personaggi, quello più associato a una storia di passione turbolenta è Tancredi, che le cronache medievali ricordano per le sue efferatezze durante l’assedio colonizzatore di Gerusalemme, e che in Tasso è protagonista di un triangolo amoroso: di lui è innamorata la principessa di Antiochia Erminia, mentre lui è innamorato della guerriera musulmana Clorinda, nata nel Regno d’Etiopia, altra eroina oltre i confini e oltre i generi. L’incontro fra Tancredi e Clorinda è però fatale; morte, amore e
↓ Domenico
Tintoretto, Tancredi battezza Clorinda, 15861600, olio su tela (Houston, The Museum of Fine Arts).
fede si congiungono nell’istante in cui il cristiano colpisce, riconosce e battezza la guerriera. Il proverbio greco per cui dal dolore deriva il sapere è condensato in un distico memorabile: «La vide, la conobbe, e restò senza / e voce e moto.Ahi vista! ahi conoscenza!» (XII, 67).
Nella Gerusalemme liberata c’è però un’altra coppia che rinverdisce la memoria della corte eterodossa di Alcina. Il guerriero Rinaldo, campione dell’esercito crociato, cede all’amore e alla pace nel giardino della maga Armida, che si contempla in uno specchio di sapore narcisistico. Rispetto ad Ariosto, Tasso si profonde in meno dettagli circa il nuovo outfit dell’eroe, ma, quando questi si vede a sua volta riflesso, l’immagine specchiata è inequivocabile: «con delicato culto adorno», «spira / tutto odori e lascivie il crine e ’l manto» e il ferro stesso della spada sembra «dal troppo lusso effeminato» (XVI, 30). Rinaldo come Ruggiero si è spostato nel mondo dell’amore e della raffinatezza estetica, tipicamente fem-
minile. Anche lui dovrà lasciarlo sotto la spinta dei doveri militari e sociali (il freudiano Super-Io), ma intanto se lo è ampiamente goduto. Armida, infine, non potrà sfuggire, come già Alcina, alla punizione: innamorata di Rinaldo, cercherà di colpirlo durante l’assedio finale, ma sarà da lui raggiunta e, disarmata, spinta alla conversione. Il corpo della maga viene così esposto a una colonizzazione che parte dall’eros per toccare ben altri livelli di possesso.
La mescolanza tra aspetti, fisici e interiori, tipicamente maschili e tipicamente femminili caratterizza una coppia di eroine fuori dagli schemi nella Scanderbeide di Margherita Sarrocchi. In questo poema epico-storico, il primo pubblicato da un’autrice (l’edizione definitiva, postuma, è del 1623), troviamo due personaggi femminili che scelgono una vita diversa da quella prefissata per il loro genere: Rosmonda, la figlia del sultano Amuratte, il «cattivo» della situazione, la quale ha imbracciato le armi per combattere contro i ribelli albanesi dell’Impero ottomano, nel Quattrocento, e Silveria, una donna che ha deciso di ritirarsi a vivere sul monte Olimpo. Rosmonda e Silveria, che non si conoscono, si incontrano per un fatto di sangue; la principessa ha infatti promesso a una donna di vendicare la morte dei suoi due figli, caduti – pare – per la furia ferina di Silveria, nata tra le selve. Messasi sulle sue tracce, Rosmonda la stana e scopre però dalle sue parole una versione diversa della storia: i due fratelli Silveria li ha uccisi perché avevano tentato di violentare lei che, asessuale seguace di Diana, aveva deciso di non cedere all’amore e quindi non aveva espresso alcun consenso. Silveria professa di non amare le carneficine umane, a lei bastano le battute di caccia («non che di sangue human nudrir mi piaccia, / bastan le fere a me, ch’uccido in caccia»: XIII, ott. 24); Rosmonda è convinta dalle sue argomentazioni, tanto da proclamare con l’autorità della legislatrice: «Morte unqua altra non fu con più ragione», dice, «non pena, no, merti, ma lode. Nome d’amante il cieco volgo impone così ad un cor che con inganno e frode l’odio ricopre sotto il vel d’amore, del chiaro honor donnesco insidiatore» (ott. 25).
Rosmonda assolve Silveria, non la perseguita, come invece aveva promesso alla madre degli uccisi, e arriva a elaborare una spiegazione modernissima della tentata violenza sessuale come frutto di un’errata interpretazione dell’amore. La gente, dice Rosmonda, chiama «amore», seduzione, ciò che una donna subisce senza consenso. È una visione nuova del «ratto» che può essere il frutto di una vicenda che a Roma aveva destato scalpore, nel 1599: la nobildonna Beatrice Cenci aveva ucciso il proprio padre abusante ed era stata per questo processata e condannata a morte. Come ricorda la curatrice dell’edizione inglese della Scanderbeide , Rinaldina Russell, Sarrocchi ospitò nella sua casa di Roma la donna a cui Cenci aveva affidato il proprio figlio, mostrando non solo di conoscere bene il caso, ma di esservi stata coinvolta, dalla parte della
Approfondire
• M. Bellonci, Lucrezia Borgia, Mondadori, Milano 2003.
• C. Franceschi Ferrucci, Degli studi delle donne italiane libri quattro, Pomba, Torino 1855.
• M. Sarrocchi, Scanderbeide: The Heroic Deeds of George Scanderbeg, King of Epirus, trans. R. Russell, The University of Chicago Press, Chicago 2006.
condannata. Le armi di Silveria, in questo quadro, diventano mezzo di legittima difesa e rivelano quelle battaglie quotidiane che, pur senza dichiarazioni di guerra formali, costringevano le donne a guerre continue, da una posizione subordinata, mal tutelata persino dal diritto. Che cosa resta dell’isola di Alcina, del giardino di Armida, delle selve di Silveria? Di quei mondi un po’ speciosi, che nei poemi sono l’alternativa alla guerra? Che fine han fatto il palazzo d’oro, il non-esercito di ermafroditi, lo specchio, le vesti delicate, la singletudine pacifica? Alcina, Armida, Silveria sono fra noi, solo che se ne stanno in disparte: vigilano intorno ai tavoli delle trattative e alle videoconferenze dei Carli e degli Agramanti di oggi; presidiano il Palazzo di Vetro; invitano a coltivare l’edera più della zizzania. Il potere, però, preferisce Melissa e Logistilla, si appella al finale prevaricatore delle storie, guai a ricordare le parentesi poco guerresche degli eroi. Bisognerebbe invece toglierle,quelle parentesi,e ricollocarle altrove, perché il regno colorato della pace non sia l’eccezione ma la regola.
↑ Francesco Hayez, Rinaldo e Armida, 1812-13, olio su tela (Venezia, Gallerie dell’Accademia).
Johnny L. Bertolio
si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente insegna all’Università di Torino e collabora con Loescher come autore, formatore e redattore nell’ambito umanistico.
Le scrittrici della Resistenza
Tra azione e pensiero: un percorso di rilettura di biografie, romanzi e articoli.
di Marzia Freni
Durante la Seconda guerra mondiale e la Resistenza le donne, come in parte già era successo durante la guerra del ’15-’18, hanno avuto la possibilità di ricoprire ruoli tradizionalmente maschili e di acquisire quindi una nuova identità. Improvvisamente irrompono sulla scena della Storia svolgendo i compiti più disparati: prima sostituiscono gli uomini impegnati al fronte sul posto di lavoro, poi, subito dopo l’8 settembre 1943, entrano nella Resistenza in vari modi: forniscono ai soldati abiti civili per sfuggire all’arresto, aprono le loro case per nasconderli, oppure imbracciano il fucile contro i tedeschi, si spostano, per lo più in bicicletta, per portare ordini, bombe e armi ai partigiani nascosti in montagna oppure in città.
Mostrano dunque la loro capacità di combattere, di compiere azioni pericolose superando i posti di blocco con semplicità e sicurezza, di affiggere in piena notte manifesti che incitano alla lotta sui muri delle città, di procurare cibo, di mettersi a studiare frequentando le riunioni politiche:
Giovani o vecchie, le donne nella Resistenza crescono, scoprono talenti e risorse che non sapevano di avere. Imparano tanto, tantissimo, e non solo dall’esperienza.1
Queste e molte altre azioni sono state raccontate in avvincenti romanzi, racconti, diari, articoli di giornale, tutti scritti dalle donne. Negli anni della Resistenza e del successivo processo di ricostruzione e democratizzazione dell’Italia repubblicana, dunque, si assiste a una vera e propria esplosione della letteratura delle donne e per le donne. Si tratta di un momento aurorale, in cui finalmente esse sperimentano la libertà di confrontarsi dopo la lunga notte del fascismo, che non solo aveva soppresso le libertà individuali, ma le aveva relegate a un ruolo subalterno e passivo all’interno della società. Da una parte la guerra e la Resistenza avevano rafforzato il ruolo tradizionale del maschio che combatte, dall’altra avevano aperto alle donne la strada dell’autonomia materiale e psicologica. E le donne avevano colto l’opportunità, partecipando attivamente alla lotta contro i nazifascisti e cominciando a raccontare e a raccontarsi. Dagli storici apprendiamo che il fenomeno Resistenza è molto complesso, e si configura in modo diverso tra nord e sud: l’Italia dopo l’8 settembre 1943 è spaccata in due, e mentre il sud viene gradualmente liberato dagli Alleati, al nord, dove si è instaurata la Repubblica Sociale italiana con la complicità dei tedeschi, la popolazione subisce la durissima occupazione tedesca, e i partigiani reagiscono combattendo strenuamente. Al sud, dall’autunno-inverno del 1943, e a Roma e in Abruzzo, dal giugno del 1944, la gente può sperimentare una qualche forma di libertà dopo la partenza dei tedeschi, pur dovendo affrontare le stesse difficoltà economiche, la fame e la disoccupazione che continuavano a subire tutte le italiane e tutti gli italiani.
Il sud appena liberato, dunque, si configura come un grande laboratorio culturale aperto e molto ricco di stimoli, grazie alla presenza degli Alleati, che da una parte favoriscono la libera circolazione delle idee, ma dall’altra svolgono compiti di controllo sui mezzi di comunicazione italiani, per esempio attraverso il Psychological Warfare Branch2. I suoi centri nevralgici sono Bari, Napoli e Roma, dove molte donne sono impegnate nel ruolo di scrittrici, attrici, giornaliste, redattrici e annunciatrici in trasmissioni radiofoniche – queste ultime con il compito di incitare la popolazione a combattere contro i tedeschi, come Alba De Céspedes, e poi di ricostruire l’Italia sul piano della cultura e dei valori democratici, come ad esempio Anna Garofalo, Paola Masino e Fausta Cialente, che da Radio Cairo in Egitto, ricopre lo stesso ruolo di Alba De Céspedes, svolgendo un’importante attività politica e vivacizzando l’ambiente con le esperienze culturali più diverse.
Renata Viganò
Il primo romanzo che ha come protagonista una partigiana è L’Agnese va a morire, di Renata Viganò, pubblicato nel 1949. Alcuni anni dopo, nel 1956, uscirà il Diario partigiano di Ada Gobetti, in cui racconta, da protagonista, della Resistenza a Torino e in Piemonte dal 1943 al 1945. Nel
1946 invece era stato pubblicato Fronti e frontiere, di Joyce Lussu, che presenta le rocambolesche avventure del periodo della clandestinità di Joyce ed Emilio Lussu, trascorso spostandosi in diversi paesi europei a partire dal 1940 fino al 1943.
Renata Viganò (1900-1976) ha partecipato attivamente alla Resistenza in Emilia-Romagna nel ruolo di staffetta e infermiera. L’Agnese va a morire , scritto con grande semplicità, con uno stile asciutto e antiretorico, ma proprio per questo intenso e commovente, è basato sull’esperienza di Viganò durante la guerra. Natalia Ginzburg, allora redattrice di Einaudi, lo aveva molto apprezzato e ne aveva caldeggiato la pubblicazione: «Un bellissimo romanzo partigiano. Magnifico stile misurato, sobrio, magnifici effetti di paesaggio. Tra i migliori libri sulla resistenza che si possano leggere»3.
È ambientato nelle valli di Comacchio e narra la storia di una donna non più giovane, Agnese, una contadina-lavandaia che, rimasta vedova, decide di seguire i partigiani perché non ha altra scelta: è completamente sola e ha ucciso un soldato tedesco che per gioco aveva ammazzato la sua gatta. Agnese ha un’incredibile energia e tenacia nel lavoro, sia quando percorre a piedi o in bicicletta molti chilometri per consegnare armi, scorte di cibo, legna sia quando si trova a gestire una “caserma” di cinquanta uomini.
↑ Ada Gobetti durante gli anni della Resistenza (24ilmagazine. ilsole24ore. com/2016/05/ ada-gobettipartigiana).
↑ Manifesto del film L'Agnese va a morire, 1976, tratto dal romanzo di Renata Viganò. Produzione Palamo Film/ Distribuzione in italiano
C.I.D.I.F., 1976.
Lei era sempre pronta, anche quando si sentiva stanca, o si trattava di cose di non grande importanza, [...] come quella volta che era un gran freddo, una ripresa di tempo rigido, e doveva andare ad avvertire una staffetta che Walter non poteva trovarsi all’appuntamento: con la cattiva stagione i piedi gli facevano ancora male.4
Pur essendo una donna semplice matura una coscienza politica:
Perché le ragazze dei signori vanno a ballare con un vestito nuovo e io non posso andarci a causa del vestito vecchio? –Perché il mio bambino porta le scarpe solo la domenica? – Perché mio figlio va a morire in Africa e quello del podestà resta a casa? [...] Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle 5
Nei confronti del Comandante Agnese è sempre in soggezione, si sente inferiore a lui, in primo luogo perché è donna, poi perché sa di essere priva di cultura. Spesso si sminuisce, ma è sempre pronta ad agire, obbedendo a qualsiasi ordine. Quando il Comandante le chiede un parere sul comportamento degli Alleati risponde: «Io non capisco niente, […] ma quello che c’è da fare, si fa»6. Nonostante le difficoltà, si sforza di imparare:
Si sedeva in disparte, con la calza in mano, e se afferrava un argomento, una frase che le apparivano comprensibili, dopo ci meditava sopra, approvando per tutto il
tempo che essi occupavano in altre cose, oscure per lei.7
Il personaggio di Agnese è così realistico da far pensare a una donna realmente vissuta. Sarà proprio l’autrice, dalle pagine de «L’Unità» del 17 novembre 1949, in un articolo dal titolo La storia di Agnese non è una fantasia, a testimoniare dell’esistenza di questa donna straordinaria:
la prima volta che vidi l’Agnese, o quella che nel mio libro porta il nome di Agnese, vivevo davvero in un brutto momento. Ero in un paese della Bassa, sola col mio bambino. Mio marito l’avevano preso le SS a Belluno, non ne sapevo più niente [...] a causa dell’arresto di mio marito avevo perso i contatti con i compagni, [...]. Venne l’Agnese, un giorno che stavo giù nel greto del fiume a guardar giocare il bambino sulla sabbia [...] mi arrivò vicino con i suoi brutti piedi scalzi nelle ciabatte.
Vidi per primi quei brutti piedi, ero tanto piena di odio e di pena che mi fecero schifo. Poi intesi la sua voce che diceva: “È lei la Contessa?” e allora tutto cambiò colore: mai il mio nome di battaglia mi aveva dato tanta gioia nel sentirlo pronunciare 8
Sull’analisi critica del personaggio di Agnese è stato scritto molto: per esempio Valeria P. Babini mette in evidenzia la novità nella rappresentazione del femminile:
La sua disobbedienza al plurisecolare ruolo domestico famigliare metteva in luce il dovere, per tutti e dunque anche per le donne, di scegliere, di parteggiare. Qualsiasi fosse la strada che avesse portato a prendere coscienza della necessità di schierarsi, era quella la via che restituiva all’essere umano la sua dignità, al di là di ogni appartenenza a ruoli, ordini o mansioni.9
Ada Gobetti
Per avere una testimonianza appassionata e sincera sulla Resistenza in Piemonte, e in particolare a Torino, è indispensabile leggere Diario partigiano di Ada Gobetti (1902-1968). Così la descrive Benedetta Tobagi:
è una figura completa, gigantesca eppure totalmente accessibile. Frequenta i massimi intellettuali antifascisti dell’epoca,
[...] ed è intellettuale lei stessa. [...] Colta e razionale [...] Cospiratrice di prim’ordine, non perde però occasione di prendersi in giro.10
Ada nel 1943 ha quarantun anni e un figlio, Paolo, di diciotto, nato pochi giorni prima della morte di Piero Gobetti, suo padre. Entrambi hanno un ruolo attivo nella Resistenza in val di Susa. Ada è stata un importante punto di riferimento per tutti gli antifascisti piemontesi, e ha raccontato nel Diario partigiano (1956) i venti mesi di intensa attività svolta tra la casa di via Fabro a Torino, la casetta a Meana, in Val di Susa, e la Francia, nel portare documenti, notizie, cibo e armi ai partigiani. Il suo racconto è vivace e privo di retorica, e da alcuni passaggi emergono le sue intense emozioni: la paura per la sorte di Paolo e le sue grandi qualità umane, come la pietà nei confronti di un giovane partigiano ucciso, che dovrebbe avere l’età di suo figlio:
Quanto a me, la mia angoscia era giunta ormai a quel punto in cui, provvidenzialmente, si trasforma in stolida, se pur dolorosa indifferenza.11
No, non era Paolo, anche se non se ne scorgeva il viso, reclino. Ma non provai nessuna reazione di sollievo. Una pena insostenibile mi scosse tutta alla vista di quella giovane carne denudata e straziata, come se fosse stata la mia stessa carne, quella di mio figlio. [...] ognuna sente come figlio suo ogni figlio d’ogni altra donna.12
Negli ultimi mesi del 1943 Ada viene incaricata di organizzare i Gruppi di Difesa della Donna, che avrebbero svolto azioni di sostegno ai partigiani in clandestinità, portando cibo, medicinali, abiti, denaro e sussidi alle famiglie dei prigionieri politici e dei deportati. Inoltre, avrebbe dovuto compiere azioni di proselitismo nei confronti di altre donne; nello statuto sono presenti anche richieste che dimostrano una forte sensibilità politica,tra cui quella della parità giuridica, politica ed economica con gli uomini. Emerge da parte di Ada una vena polemica a proposito della scelta del nome:
L’organizzazione si chiama “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”. Non mi piace; in primo luogo, è troppo lungo; e poi perché “difesa” delle donne e “assistenza” ecc.
Non sarebbe più semplice dire “volontarie della libertà” anche per le donne?13
Dopo la liberazione di Torino e la fine della guerra Ada viene nominata vicesindaco della città: il diario si chiude con le riflessioni di Ada sul nuovo incarico, che la preoccupa molto. Sente il peso del gravoso compito di ricostruzione della società italiana del dopoguerra, in cui sarà impegnata ancora una volta in prima linea, nella consapevolezza che il rischio di un indebolimento delle istanze rivoluzionarie sarebbe stato molto forte:
confusamente intuivo però che incominciava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza, [...] ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti.14
Joyce Lussu
Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, più nota come Joyce Lussu (1912-1998), scrive un romanzo straordinario che merita di essere letto: è Fronti e frontiere (1946), in cui racconta le vicende vissute da lei e dal suo compagno Emilio Lussu, noto antifascista con un’intensa attività alle spalle: aveva fondato il Partito sardo d’Azione, aveva subìto un attentato fascista a cui era scampato, era stato mandato
dal regime al confino a Lipari, da cui era fuggito per raggiungere Parigi, dove era stato tra i promotori di “Giustizia e libertà” con i fratelli Rosselli e altri. Le loro imprese, «durante la guerra, sono travolgenti, rocambolesche, piene di rischi e pericoli» 15. La coppia vive l’esperienza della clandestinità e viaggia per un lungo periodo, spostandosi attraverso l’Europa: saranno prima in Francia, poi in Portogallo, in Inghilterra, a Gibilterra e in Svizzera, prima del rientro in Italia, avvenuto subito dopo l’armistizio. La fuga inizia a Parigi, quando nel 1940 giungono i tedeschi, e continua ovunque debbano portare aiuto a chi deve sfuggire ai nazifascisti: l’attività principale di Lussu consisteva infatti nell’organizzare l’espatrio degli ebrei o degli antifascisti, procurando loro i documenti e i mezzi per raggiungere gli Stati Uniti.
In realtà Lussu aveva un piano più ambizioso: avrebbe voluto andare in Corsica e da qui passare in Sardegna, dove vorrebbe voluto tentare un’insurrezione contro i nazifascisti. Ma in Sardegna Emilio arriverà solo alla fine di giugno del 1944, quindici giorni dopo la nascita del figlio Giovanni a Roma, per prendere contatti con il Partito d’Azione, mentre Joyce e il bambino giungeranno a settembre. Intanto Joyce aveva iniziato a lavorare alla prima stesura di Fronti e frontiere.
Nel testo lo sguardo della scrittrice è sempre orientato sulle donne incontrate durante il lungo periodo di clandestinità: pur nella difficoltà delle situazioni, tutte le donne presentano tratti di umanità ed esprimono affetto e solidarietà nei loro confronti. Joyce stessa, nella pagina iniziale di Fronti e frontiere, scrive:
Alcuni si domanderanno perché i capitoli portano come titoli dei nomi di donne, che non sono figure centrali nello svolgimento del racconto. […] si parla così poco di donne nella letteratura italiana, di donne nel pieno senso umano, e non solamente amoroso e sentimentale! Ma il filo della narrazione ha poi tradito questo intento iniziale.
Pure io lascio, in cima a ogni capitolo, questi nomi che mi sono cari, non come titolo, ma come dedica;16
Memorabile la presentazione di Madame Noёlie, conosciuta in un piccolo villaggio ai piedi dei Pirenei, che li ospitò per qualche tempo:
Era una contadina dagli occhi larghi e chiari e dal sorriso parco ma luminoso, piccola e magra e ormai vecchia, ma robustissima ancora. Era vedova da vent’anni e [...] coltivava, senza nessun aiuto, un gran numero di orticelli e campicelli sparsi qua e là, [...] avevamo l’usufrutto dell’orticello dietro la casa, a patto di lavorarlo e aumentarne la produzione. [...] scacciavamo la riflessione con la fatica, e quando l’incubo della realtà generale s’affacciava allo spirito [...], tacevamo o parlavamo d’altro. E Madame Noёlie, genio benefico e fonte perenne d’antica saggezza, presiedeva alla nostra convalescenza spirituale. Ci volle un po’ di tempo per entrare nella sua confidenza, poiché la sua scorza un po’ ruvida era fatta di timidezza. Ma rivelò poi un cuore generoso e una coscienza profonda. 17
Il libro termina con il ritorno di Joyce e di Emilio in Italia alla fine dell’estate del 1943, per prendere contatti con gli americani e per «discutere la questione istituzionale. In particolare, bisogna confrontarsi con Croce sul destino della monarchia nel paese»18. Nelle ultime pagine Joyce fa un breve accenno all’ultimo inverno di guerra:
trascorso a Roma sotto l’occupazione tedesca: le ansie, i pericoli, il martirio di tanti amici [...]. Altri descriveranno, meglio di me, la lunga attesa, fino a quella sera del 4 giugno, quando i tedeschi in fuga abbandonarono Roma, quattro anni dopo esser entrati invitti e orgogliosi a Parigi. [...] Fuggivano, ora, i carnefici, con il terrore della morte alle costole».19
Alba De Céspedes
È il sud, gradualmente liberato dagli Alleati, a offrire ampi spazi per l’affermazione delle donne in campo culturale. Un ruolo di primo piano per l’impulso dato alla cultura e per la libera circolazione di idee è svolto da Alba De Céspedes (1911-1997), intellettuale antifascista che nel 1938 aveva pubblicato Nessuno torna indietro , un romanzo censurato dal regime. All’annuncio dell’armistizio Alba è a Roma, ma ben presto, con il compagno Franco Bonous,decide di fuggire in Abruzzo e poi a Napoli e a Bari. Dal 10 dicembre 1943 al 10 febbraio del 1944 interviene nel programma Italia combatte, trasmesso da Radio Bari, con lo pseudonimo di Clorinda, poi dal 10 marzo 1944 fino al giorno della
liberazione di Roma da parte degli Alleati, trasmette da Radio Napoli, con gli stessi obiettivi: da una parte incoraggiare i partigiani del nord a combattere contro i tedeschi,dall’altra suggerire alle ascoltatrici di compiere azioni di sabotaggio, come tagliare le gomme ai camion dei tedeschi, togliere il tappo ai radiatori, far rotolare i tronchi sulle strade, passare ordini in ritardo oppure passarli con degli errori.
Al Congresso di Bari, tenutosi a fine gennaio del 1944, che ha votato all’unanimità la sfiducia e la delegittimazione del re, partecipa anche De Céspedes: il suo intervento viene trasmesso nella rubrica Italia combatte. In esso Clorinda afferma:
Questo congresso è stato la prima riunione ufficiale dei partiti d’opposizione. Andai là ad assistere, seduta in un palco. Perché la riunione si svolse al teatro Piccinni, [...]. E avevo anche dentro di me la sensazione di fare cosa proibita, non potevo ancora abituarmi all’idea che in Italia, ormai, ognuno poteva fare e dire quel che voleva. Quando vidi Benedetto Croce e [...] lo udii dire così semplicemente, la libertà, come avrebbe detto una parola qualunque, una di quelle parole che gli spiriti liberi sono abituati a pronunciare con dimestichezza, allora mi gettai ad applaudire furiosamente.20
Se il suo compito è quello di svegliare le coscienze, molto spesso esprime il timore che il popolo italiano, assuefatto al fascismo, non abbia la forza di ribellarsi, non sappia coltivare la libertà, ottenebrato com’è da «furberia, servilismo, opportunismo, adulazione, assenteismo»21.
Dopo la liberazione di Roma Alba De Céspedes torna in città, con l’idea di fondare una rivista, che uscirà per la prima volta a settembre 1944, con il titolo Mercurio. Mensile di politica, lettere, arte, scienze (l’ultimo numero sarà pubblicato a giugno del 1948). L’iniziativa sarà appoggiata anche da Benedetto Croce e si inquadra nell’ambito di una diffusa creazione di nuove testate e di nuovi progetti che testimoniano le spinte propulsive di rinnovamento e di ricostruzione dell’impegno collettivo per il paese: [...]
La rivista romana connotata, dunque, da accenti di pluralismo ed eclettismo svolge un ruolo particolarmente significativo nell’ambito delle riviste politico-culturali, poiché si interroga sulle contraddizioni
che segnano la storia italiana dell’immediato dopoguerra.22
La storia della rivista è divisa in due fasi: la prima, dal settembre 1944 al febbraio 1946, è caratterizzata dalle testimonianze sulla guerra partigiana e sulla lotta di liberazione; la seconda, da marzo-aprile 1946 a marzo-giugno 1948, racconta invece il processo di formazione dello stato democratico, lasciando ampio spazio alle questioni riguardanti l’acquisizione del diritto di voto alle donne e il loro ingresso in magistratura. Dopo il 1948 la rivista terminerà le sue pubblicazioni. L’intensa attività di Alba De Céspedes come redattrice, giornalista e direttrice di Mercurio è affiancata alla scrittura di un romanzo, Dalla parte di lei, pubblicato in Italia nel 1949, in cui racconta in un lungo arco di tempo, dagli anni Trenta fino alla liberazione di Roma, la storia di Alessandra Corteggiani, protagonista e io narrante. La narrazione si presenta come un memoriale, scritto da Alessandra durante la permanenza in carcere, dove si trova in attesa di giudizio per aver ucciso Francesco Minelli, suo marito. È diviso in tre parti: nella prima viene narrata la storia di Eleonora, madre di Alessandra, che vive nel mito del grande amore e arriva a suicidarsi per l’impossibilità di realizzare il suo sogno a causa della morale corrente e delle pressioni familiari; la seconda è ambientata in Abruzzo, dove Alessandra viene accolta a casa della nonna paterna dopo la morte della madre e dove rimane fino allo scoppio della guerra; nella terza Alessandra raggiunge il padre a Roma, si iscrive alla Facoltà di lettere, conosce Francesco, che era un elemento di spicco della Resistenza romana, e se ne innamora. È il romanzo della vita adulta di Alessandra, che comprende il matrimonio, l’impegno politico attivo nella Resistenza fino all’omicidio del marito e alla stesura della memoria difensiva.
Dall’armistizio alla liberazione di Roma Alessandra diventa una staffetta, in particolare durante la clandestinità e l’arresto di Francesco.
In quel tempo tutte le donne si recavano a prendere la verdura negli orti della periferia. [...] Nel pomeriggio si vedevano lunghe file di queste biciclette, guidate da donne. Al ritorno quando passavano dinanzi al posto di blocco i militi guardavano nei cestini e nelle cassette. Talvolta
si contentavano di guardare, altre volte affondavano la mano, frugavano, e portavano via una manciata di piselli. [...] Io avevo una bicicletta molto vecchia: pesava più delle altre anche perché sotto i piselli c’era l’insalata e, sotto l’insalata, c’erano le bombe. [...] ero davanti al posto di blocco. Il milite metteva la mano nel cestino. [...] sicché egli mi dette una spinta per il sellino senza sapere che, altrimenti, non sarei potuta ripartire perché non sentivo più le gambe e le bombe pesavano.23
Dopo la fine della lotta di liberazione Francesco è sempre più assorbito dagli incarichi istituzionali; la distanza emotiva tra i due aumenta. Alessandra, sempre più esasperata, arriva a compiere il gesto estremo, preceduto dalle riflessioni che gradualmente l’hanno portata a una situazione di non ritorno:
Non dissi più nulla; egli cambiò discorso, persuaso d’aver scherzosamente dissipato il nostro malumore: [...] poco dopo, mi trovai ad esser sola dietro il muro delle sue spalle. [...] vedevo le donne sveglie nel buio, dietro l’invalicabile muro delle spalle maschili. Parlavamo lingue diverse, ma tutte tentavamo invano di fare udire le stesse parole: nulla poteva attraversare l’incrollabile difesa di quelle spalle. Bisognava rassegnarsi ad essere sole, dietro il muro; [...]24
qualora io avessi deciso di abbandonare Francesco, la legge gli avrebbe ugualmente riconosciuto il diritto di rimanere padrone del mio corpo. E se io avessi usato della libertà del mio corpo, non avrei avuto soltanto frustate, come gli schiavi, ma addirittura il carcere e il disonore. L’unico modo in cui potevo disporre del mio corpo era quello di gettarlo nel fiume 25
De Céspedes in questo romanzo ha espresso la sua insofferenza nei confronti della mentalità maschile, ma soprattutto della società italiana, che continua a mantenere le donne in un ruolo di minorità; anche Natalia Ginzburg nel 1947 aveva dato alle stampe È stato così, in cui si racconta del matrimonio infelice di una donna senza nome, che alla fine arriva a uccidere il marito sparandogli negli occhi. Il periodo storico e il contesto culturale all’interno dei quali vengono scritti i due romanzi sono gli stessi, ma in quello di Natalia Ginzburg mancano i riferimenti alla Resistenza.
Fausta Cialente
Tra le donne che partecipano in forme diverse alla Resistenza e contribuiscono a creare un clima culturale aperto e libero c’è anche Fausta Cialente (1898-1994), militante antifascista, che nel 1921 ha sposato Enrico Terni, compositore e musicologo con cui si era trasferita in Egitto.
Alla fine degli anni Venti ha scritto un romanzo dal titolo Natalia, in cui esprime il desiderio omoerotico, che però è bloccato dalla censura del regime, e nel 1931 ha terminato la stesura di Cortile a Cleopatra, romanzo di ambientazione levantina.
Dopo un lungo soggiorno in Italia, allo scoppio della Seconda guerra mondiale Cialente ritorna in Egitto, dove inizia un’intensa attività politica antifascista.
Nel 1940 è incaricata, dai funzionari del British Ministry of Information, di coordinare la propaganda antifascista, e dal 21 ottobre 1940 al 14 febbraio 1943 è diventata responsabile della trasmissione Siamo italiani, parliamo agli italiani, mandata in onda da Radio Cairo. I notiziari che Fausta deve trasmettere erano diretti alle truppe italiane inviate dal regime fascista a combattere in Libia, ma dovrebbero essere ricevuti anche dall’Italia. Nello stesso tempo ha intrapreso l’attività giornalistica sul «Corriere d’Italia», su «Fronte Unito» e sul «Mattino della domenica», tre testate presenti al Cairo.
La sua collaborazione con Radio Cairo termina a causa dei contrasti ideologici con gli inglesi, sorti per le sue posizioni antimonarchiche e antimperialiste. A partire dal 21 ottobre 1943 Cialente fonda «Fronte Unito. Quindicinale italiano Indipendente di Lotta – Informazione –Cultura», distribuito tra i prigionieri militari in Egitto, Libia, Eritrea. Il settimanale termina le pubblicazioni nel 1947, poche settimane prima del ritorno di Cialente in Italia.
Parallelamente a questa intensa attività, dal 1941 al 1947, Cialente scrive un diario, dal titolo Diario di guerra, costituito da riflessioni e appunti di lavoro, che accompagnano l’attività della Resistenza. Tra questi spesso compare un rifiuto della letteratura, forse giudicata un’attività oziosa in un periodo così denso di avvenimenti importanti. Alla letteratura, comunque, si dedicherà intensamente a partire dal suo rientro in Italia, nel 1947. Il suo romanzo più autobiografico, in cui sono narrati gli eventi relativi al fascismo e
alla Seconda guerra mondiale, è Le quattro ragazze Wieselberger, pubblicato nel 1976 e vincitore del premio Strega nello stesso anno, in cui Cialente narra prima la storia di sua madre, Elsa Wieselberger, e poi la sua, fino agli anni Settanta.
Dal 1949 ha ripreso anche l’attività giornalistica, scrivendo su «Noi donne», sull’«Unità», su «Rinascita» e su «Vie Nuove». L’impegno politico antifascista costituisce la cifra della sua vita, come affermerà lei stessa negli anni Ottanta, intervistata da Sandra Petrignani:
sono aperta con la gente di cui mi fido (soprattutto politicamente, intendo). Voglio dire che per me la posizione politica di chi incontro è fondamentale. Io sono fra quelli che credono che essere di sinistra significhi ancora qualcosa…26
In conclusione, negli anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza le donne si affacciano alla ribalta della Storia proponendo una nuova immagine del femminile: da una parte le giovani e coraggiose combattenti, dall’altra le intellettuali raffinate e preparate; tuttavia, come abbiamo visto, spesso i ruoli si sovrappongono e si scambiano. Tutte, comunque, si sono spese, anche se in modi molto diversi, per creare una società più equa e meno discriminatoria nei confronti delle donne, anticipando l’esplosione del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta.
Non dobbiamo dimenticare che proprio negli anni del dopoguerra, e precisamente nel 1949,Simone de Beauvoir ha pubblicato in Francia Le Deuxième Sexe, un testo fondamentale, in cui afferma che donna non si nasce, ma lo si diventa per i condizionamenti sociali subiti. Per la prima volta compare la distinzione tra sesso biologico e genere, inteso come costrutto sociale. Tutto questo ha avuto un enorme impatto sul pensiero femminista e ha creato anche in Italia, dove il saggio è stato pubblicato solo nel 1961, le premesse per il successivo sviluppo del movimento femminista. Forse le autrici presentate non avevano letto Simone de Beauvoir alla fine degli anni Quaranta, ma sicuramente “sentivano” sulla loro pelle l’oppressione a cui le donne dovevano soggiacere e avevano potuto, anche grazie alla partecipazione alla Resistenza, sperimentare un modo di vivere e di partecipare alla vita comune più ricco e appagante.
NOTE
1. B. Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, Torino 2022, p.108.
2. Psycological Warfare Branch o PWB: «ufficio anglo-americano che durante la Seconda guerra mondiale ebbe il compito di controllare il settore della stampa e propaganda anche nei paesi di occupazione militare alleata» (da Enciclopedia online Treccani).
3. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta a gli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 448.
4. R.Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi,Torino 2005, p. 231.
5. Ivi, p. 166.
6. Ivi, p. 142.
7. Ivi, p. 227.
8. Ivi, p. 243.
9.V. P. Babini, Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione, La Tartaruga, Milano 2018, p. 202.
10. B. Tobagi, La Resistenza delle donne, p. 76.
11. A. Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, Torino 1972, p. 104.
12. Ivi, p. 107.
13. Ivi, p. 72.
14. Ivi, p. 375.
15. S. Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu , Bari-Roma, Laterza, 2022, p. 61.
16. J. Lussu, Fronti e frontiere, Abbot Edizioni, Roma 2023, p. 11.
17. Ivi, pp. 24-25.
18. S. Ballestra, La Sibilla, cit., p. 121.
19. J. Lussu, Fronti e frontiere, cit., p. 238.
20. Clorinda, «L’Italia combatte», in «Mercurio», 1944, n. 4, op. cit. in M. Avagliano, M. Palmieri, Paisà, sciuscià e segnorine. Il sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile, Bologna, il Mulino, 2021, p. 167.
21. V. P. Babini, Parole armate, cit., p. 38.
22. L. Di Nicola, Intellettuali italiane del Novecento. Una storia discontinua, Pacini Editore, Pisa 2020, pp. 133-134.
23. A. De Céspedes, Dalla parte di lei, Mondadori, Milano 2021, pp. 469-470.
24. Ivi, p. 343.
25. Ivi, p. 488.
26. S. Petrignani, Le signore della scrittura , La Tartaruga, Milano 2022, p. 48.
Marzia Freni
già docente di Discipline letterarie e latino in un liceo torinese, si è occupata e si occupa di formazione degli insegnanti, sia come docente a contratto sia come tutor coordinatrice.
La guerra in classe, tra le righe
La letteratura come documento: due proposte di percorsi tematici da affrontare in quinta superiore.
di Tommaso Gennaro
Lungo l’arco della scuola secondaria di secondo grado, studiando letteratura si intercettano incessantemente le risonanze di guerre che hanno riguardato più o meno da vicino la vita di poeti e scrittori. Ma forse mai come nel corso del quinto anno, quando si attraversa il Novecento, è possibile osservare così da vicino e attraverso un gran numero di testimonianze la natura e le implicazioni di un conflitto di grandissime proporzioni.
L’inedita e spropositata violenza delle guerre mondiali fu tale da provocare una profonda trasformazione nel modo di percepire e rappresentare la realtà in molti di coloro i quali assistettero, direttamente o indirettamente, a quei traumatici eventi. I due conflitti che hanno funestato la prima metà del XX secolo sono stati l’epicentro di un ripensamento che ha coinvolto, fra l’altro, le categorie di corpo umano e urbano.
L’eredità più ingombrante della Prima guerra mondiale,infatti,è stata il corpo dei reduci, tornati a casa con le tracce indelebili degli orrori sperimentati al fronte; in seguito, la Seconda guerra mondiale ha portato avanti con mezzi ancor più radicali la cancellazione dell’essere umano, compromettendone irreparabilmente l’integrità (basti pensare ai corpi resi cenere nei lager o polverizzati dalle atomiche). Entrambi i conflitti hanno poi trasfigurato i luoghi nei quali si sono svolti: la «Zona» di guerra si è estesa progressivamente, seguendo un movimento centripeto che dalle trincee porta in città, sicché i paesaggi della Grande guerra – cariati da mitragliatrici, cannoni e mortai – hanno lasciato ben presto il passo alle devastazioni urbane provocate dai bombardamenti aerei della guerra «Grandissima»1.
Nel corso del quinto anno, in classe, solitamente ci si accosta a questi drammatici eventi con la lettura parziale o integrale di libri che raccontano di esperienze vissute (Ungaretti, Sereni) o narrano storie a tema (Calvino, Fenoglio). Ma è anche possibile ipotizzare dei percorsi didattici tematici con i quali attraversare le guerre mondiali: due temi che possono essere proposti alle classi riguardano per l’appunto il corpo e la città. Debitamente inquadrati nell’opportuno contesto storico, questi percorsi raccoglieranno voci diverse, da approfondire con sondaggi più o meno consistenti in base all’interesse del docente e della classe, per dare conto dell’importanza e della pervasività che raggiunsero dopo le guerre le riflessioni intorno al corpo sfigurato e alla città distrutta. La letteratura funzionerà dunque come «documento»2 capace di testimoniare efficacemente una svolta nella visione del mondo occidentale all’indomani del 1918 e del 1945. Per questi percorsi è previsto inoltre il coinvolgimento di altre discipline: la storia, naturalmente, le letterature straniere, la storia dell’arte e il diritto.
Il corpo in guerra
La Prima guerra mondiale provocò, oltre ai milioni di morti, un elevatissimo numero di invalidi e mutilati3; l’immagine del corpo ferito o dilaniato del soldato torna infatti con insistenza in numerose opere del tempo. La classe può iniziare a prendere consapevolezza del rilievo di questa figura – il superstite sfregiato –muovendosi sui territori familiari della poesia italiana: un punto di partenza efficace sono senz’altro i versi di Rebora («C’è un corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata», Voce di vedetta morta; «O ferito laggiù nel valloncello […] Tra melma e sangue / Tronco senza gambe», Viatico) e di Ungaretti («Una intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata», Veglia); attraverso l’Ungaretti del Porto Sepolto , peraltro, oltre alla lettura a campione di testi significativi, si possono inseguire piste lessicali, come il lemma «fibra» – il «brandello di tessuto organico nel quale, alla fine, si riconosce ridotto l’essere umano,spogliato di tutto»4 – per ricostruire e analizzare il campo semantico bellico elaborato dal poeta di Alessandria. In seguito, insieme al o alla docente di storia dell’arte, la classe può confrontare le descrizioni dei poeti italiani con la rappresentazione dei soldati feriti offerta da alcuni artisti: un esempio è il pittore tedesco Otto Dix, tanto nel trittico La guerra (Der Krieg, 1929-32) quanto nei Giocatori di Skat (Die Skatspieler, 1920), nel quale sono raffigurati i corpi martoriati di reduci di guerra tragicamente rammendati e aggiustati.
Si possono poi affiancare le opere di autrici e autori stranieri con le e i docenti di letteratura inglese e, eventualmente, di altre lingue. Un esercizio che si può tentare con alcune classi è la lettura di Ellen La Motte, infermiera americana volontaria in Belgio durante la guerra, poco nota in Italia e non ancora tradotta. Nel suo libro di racconti, The Backwash of War (1916), reperibile gratuitamente in rete, un testo emblematico è A Surgical Triumph, che narra di una operazione di «rebuilding» su di un uomo gravemente ferito durante la guerra. Si può tentare un laboratorio di traduzione del racconto, diviso per parti su cui lavorare in gruppi.
In alternativa, non solo con quanti studiano altre lingue, si possono legge-
re – e non obbligatoriamente in originale – le testimonianze di altri autori, come lo spagnolo Miguel de Unamuno o il tedesco Leonhard Frank (il docente può preparare una piccola antologia di testi di questi autori da distribuire alla classe)5. Questi naturalmente sono solo alcuni nomi possibili fra i vari che possono essere individuati: ciò che conta è mostrare alla classe quanto il tema del corpo sfigurato dalla guerra sia sentito all’indomani della Grande guerra e venga sviluppato da diversi autori. Maggiore sarà il numero di esempi riportati, più sarà evidente alla classe che si tratta di un tema di estrema rilevanza.
Al termine di questa prima parte del percorso, una prima acquisizione è quindi che il corpo passato attraverso la Prima guerra mondiale non ne uscì indenne, tutt’altro: si tratta di un corpo le cui cicatrici raccontano eloquentemente l’eccezionalità di quel conflitto, diverso per intensità e violenza da tutti quelli combattuti prima di allora.
A questo punto, la classe può essere condotta nella seconda parte del percorso attraverso il confronto tra il corpo prodotto dalla Prima guerra mondiale e
↑ Opera composta dal pittore surrealista Paul Nasch durante la Prima guerra mondiale.
quello compromesso irreparabilmente dalla Seconda. Perché a differenza del conflitto che insanguinò mezzo mondo fra il 1914 e il 1918, la guerra successiva, portata avanti con strumenti di morte ancor più distruttivi, suscitò nell’immaginario collettivo l’immagine di un corpo annichilito, oramai ridotto ai minimi termini, quasi integralmente cancellato, provocando inoltre l’insorgenza di una nuova, tragica consapevolezza: non era più solo l’essere umano a poter essere ucciso, ma l’intera umanità.
Ecco dunque che la letteratura racconta di questa svolta inaudita con pagine ustionanti: un testimone d’eccezione in Italia è Primo Levi, tanto con il racconto Angelica farfalla (in Storie naturali , 1966), quanto con un drammatico apologo da I sommersi e i salvati (1986) in cui si rivela la sorte delle «ceneri umane» dei deportati, che diventano «materiale da calpestare» nei lager6; ugualmente significative, in questo senso, le descrizioni dei reperti esposti nel Museo atomico di Nagasaki fatte da Günther Anders7, a cui si può accostare la visione del film Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais.
In aggiunta, si possono evocare artisti celebri e altri meno noti, proiettando in classe tanto le cause delle trasformazioni dei corpi – dalle torture nei gulag rappresentate dai raccapriccianti disegni di Foma Jaremtschuk alla serie di teste degli Ostaggi (1942-45) di Jean Fautrier nate dalla visione delle esecuzioni di partigiani francesi a opera dei nazisti –, quanto gli effetti – i corpi scomposti di Picasso, a partire da Guernica (1937), o quelli dipinti da Francis Bacon dopo il 1943.
Come la storia dell’arte, anche il diritto può offrire spunti utili ad arricchire il quadro. In questo senso è possibile leggere la novità segnata dall’articolo 1 della Costituzione della Repubblica Federale Tedesca con il Grungesetz, la Legge fondamentale del 1949, che indicava nel valore riflessivo della «dignità» ( Würde ) 8 , posto come articolo incipitario della carta in sostituzione del valore illuministico dell’uguaglianza, il perno ideologico su cui rifondare la giustizia dopo le sperimentazioni naziste sui corpi delle cavie (il cosiddetto «materiale umano»)9. E con il docente della materia si può ragionare su questa innovazione nella grammatica giuridica in consonanza con le risposte alle bordate della storia provenienti da altre discipline.
La città in guerra
Un altro percorso possibile, simile per struttura e andamento (ragionare sulla guerra mettendo a confronto gli effetti della Prima e della Seconda guerra mondiale accostando documenti da diversi ambiti), riguarda la città. Anche in questo caso è possibile prendere le mosse dai versi dei poeti italiani che hanno partecipato alla Grande guerra, e ancora una volta i versi di Rebora («sul paese che fu», Fonte nelle macerie) e di Ungaretti («qualche / brandello di muro», S. Martino del Carso) sono il primo viatico per valutare le conseguenze della Grande guerra sul paesaggio italiano10; si possono però tentare anche strade meno battute, poeti meno frequentati11, oppure rivolgersi ad autori più recenti, come Andrea Zanzotto («tra pezzi di guerra sporgenti da terra», Rivolgersi agli ossari).
In aggiunta, la classe può vedere il panorama italiano postbellico in Umanità (1919)12, di Elvira Giallanella, un film dall’eccezionale valore documentario (è stato girato nelle zone del Carso subito dopo la fine della guerra) oltre che testimonianza preziosa di una pellicola diretta da una donna.
Con il/la docente di storia, la classe imparerà le novità nel modo di combattere introdotte durante la Prima guerra mondiale, e su tutte l’uso di aeroplani e dirigibili13 per bombardare, oltre che gli obiettivi militari, anche le città: la guerra, da questo momento, riguarderà sempre più la vita dei civili.
Collateralmente, studiando letteratura inglese sarà possibile leggere la testimonianza di prima mano di Virginia Woolf, che nei suoi Diari, alla fine di ottobre del 1917, racconta del «buco» provocato da uno Zeppelin a Piccadilly Circus 14; in alternativa, si potranno seguire le riflessioni di Herbert G. Wells, che nel suo romanzo di fantascienza La guerra nell’aria (1908) aveva previsto le conseguenze catastrofiche di un conflitto combattuto con mezzi aerei.
A questo punto, la classe può essere condotta nella seconda parte del percorso attraverso il confronto tra gli stravolgimenti dei paesaggi provocati dalla Prima guerra mondiale e le devastazioni senza precedenti provocate dalla Seconda. Rispetto alla Grande guerra, stavolta la «Zona»15 di guerra si è estesa e dai confini dei Paesi ha raggiunto le città, che diven-
tarono il teatro principale degli scontri, dando vita a un vero e proprio fronte urbano lungo il quale vennero combattute alcune delle battaglie decisive della Seconda guerra mondiale (su tutte, quella di Stalingrado).
In letteratura, Elsa Morante ha raccontato il bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma con pagine memorabili nella Storia (1974). La classe potrebbe leggere il libro integralmente in anticipo, o il/la docente potrebbe preparare un estratto dal romanzo16. Inoltre, per restare in Italia, poeti e poete, scrittori e scrittrici hanno riflettuto sulla condizione del Paese alla fine della guerra, a macerie ancora calde; da Nord a Sud, ne hanno scritto Giorgio Bassani, Dino Buzzati, Giorgio Caproni, Emilio Cecchi, Stefano D’Arrigo, Eduardo De Filippo, Natalia Ginzburg, Carlo Levi, Salvatore Quasimodo, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni, Umberto Saba, Vittorio Sereni, Elio Vittorini e tanti altri17. Il docente può scegliere i testi più congeniali, anche per prossimità geografica, e magari valutare l’opportunità di una gita in una località che ancora reca traccia della Seconda guerra mondiale.
Un’esperienza toccante, che si può realizzare anche online, è la visita “virtuale” di alcuni piccoli paesi che sono stati distrutti dalla guerra e, per volontà degli abitanti superstiti, al termine del conflitto non sono stati ricostruiti, diventando così musei a cielo aperto di quella insensata distruzione: Gessopalena in Italia e Oradour-sur-Glane in Francia18.
Utile, in questo senso, anche la visione del film Germania anno Zero (1948) di Roberto Rossellini.
Questi due percorsi si rivolgono a ragazze e ragazzi dell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado e sono pensati per promuovere una riflessione pluriangolare sulle guerre mondiali attraverso lo studio delle rappresentazioni – letterarie ma non solo – degli effetti dei due conflitti sul corpo e sulle città.
NOTE
1. G.L. Weinberg, World of Arms. Global History of World War II, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 3.
2. J. Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia , direzione R. Romano, Einaudi, Torino 1978, V, pp. 38-48.
3. B. Bracco, La patria ferita. I corpi dei Soldati italiani e la Grande guerra, Giunti, Firenze 2012;
M. Salvante, Italian Disabled Veterans between Experience and Representation, in S. McVeigh, N. Cooper, (a cura di), Men After War, Routledge, New York-London 2013, pp. 111-29.
4. A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, Bompiani, Milano 2018, p. 245.
5. M. de Unamuno, L’agonia dell’Europa. Scritti della Grande Guerra, a cura di E. Lodi, Medusa, Milano 2014; L. Frank, L’uomo è buono, trad. it. P. del Zoppo, Del Vecchio, Avellino 2014 (specialmente il racconto I mutilati di guerra, pp. 229-271).
6. P. Levi, Opere, a cura di M. Belpoliti, 2 voll., Einaudi, Torino 1997, II, p. 1089.
7. G. Anders, Diario di Hiroshima e Nagasaki. Un racconto, un testamento intellettuale, Ghibli, Milano 2014, pp. 131-133.
8. E. Resta, Biodiritto , in Enciclopedia Italiana Treccani, Treccani, Roma 2009, pp. 43-53; S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 140-210, 250-97.
9. S. Marinozzi (a cura di), Medicina eugenetica e shoah. Ricordare il male e promuovere la bioetica, Sapienza Università Editrice, Roma 2017.
10. M. Giancotti, Paesaggi del trauma, Bompiani, Milano 2017.
11. Basta sfogliare A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba cit.
12. La pellicola è di difficile reperibilità, ma si possono trovare delle scene online.
13. Cfr. F. Minniti, La rivoluzione verticale. Una storia culturale del volo nel primo Novecento, Donzelli, Roma 2018.
14. V. Woolf, Diari, a cura di G. Granato, vol. I. 1915-1919, Bompiani, Milano 2022, pp. 81-83.
15. E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, trad. it. R. Falcioni, il Mulino, Bologna 1985. 16. Alternative possibili: K. Vonnegut, Mattatoio n. 5 (1969) o W.G. Sebald, Austerlitz (2001).
17. Mi permetto di rinviare a T. Gennaro, «Tra quanto resta di macerie». Le rovine di guerra nell’Italia del Novecento, «L’ospite ingrato» 14, II (2023), pp. 59-72.
18. A. Tarpino, Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Einaudi, Torino 2008, pp. 133-177.
Tommaso Gennaro
insegna in un liceo di Roma. Collabora da anni alle antologie di letteratura italiana edite da Loescher (già Rosa fresca aulentissima e Fresca rosa novella, e ora Letteratura visione del mondo) ed è autore, fra l’altro, del volume I percorsi dell’immaginazione. Letteratura visione del mondo: temi e intrecci (Loescher, 2021).
Di scuola e di pace
Si può educare alla pace?
Ovvero, si può insegnare e imparare, la pace?
ONU e UNESCO pensano di sì, e da anni la Rete scuole di pace si impegna a concretizzare il mandato di legge e a realizzare un’educazione civica trasversale e trasformativa, al cui centro ci sono la cura e il rispetto.
E, ovviamente, le e gli studenti.
di Aluisi Tosolini
Cappellino giallo in testa, si tenevano per mano camminando velocissimi dietro lo striscione che a caratteri cubitali recitava Prima di tutto la pace. In mano i cartelli colorati che avevano preparato nei primi giorni di scuola.
È con loro,con i bambini del Circolo Didattico “Aldo Moro” di Gubbio, che si è aperta la marcia straordinaria per la pace che il 21 settembre 2024 – Giornata Internazionale della Pace – si è snodata dalla basilica di Santa Maria degli Angeli alla piazza del comune di Assisi.
«La marcia di oggi – ha detto la dirigente Maria Gioia Pierotti – è un’attività pedagogica straordinaria, perché vede la compartecipazione del dirigente scolastico, del personale docente, del personale Ata e della nostra Amministrazione comunale».
E così ha continuato.
la scuola deve progettare interventi che sappiano considerare l’alunno cittadino del proprio tempo. Pertanto occorre sempre più che l’agire educativo sia guidato da obiettivi precisi e quanto più funzionali rispetto all’epoca che stiamo vivendo, che indubbiamente appare complessa. È per questo che come Dirigente scolastico ho deciso di aderire alla Rete nazionale delle Scuole di Pace attraverso i programmi di educazione alla cittadinanza. La scuola ha la grande opportunità di riaprire il futuro dei nostri ragazzi. Perché la pace si insegna e si impara. E la pace si fa, è un compito di realtà che chiede di essere realizzato tutti i giorni dando concretezza ai valori che costituiscono l’essenza stessa della persona. Da qui la necessità di rendere i nostri alunni costruttori di pace educandoli al bene comune.
La Rete scuole di pace
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Le parole di Maria Gioia Pierotti riassumono l’essenza della Rete delle scuole di pace. Si tratta di un gruppo consistente di scuole e di docenti che da anni concretizzano nelle attività educative gli obiettivi della Marcia PerugiAssisi, interfacciandosi sia con gli enti locali che aderiscono al Coordinamento nazionale enti locali per la pace e diritti
umani, sia con la Rete delle università per la pace (Runi Pace)1. La Rete delle scuole di pace è nata diversi decenni fa, e opera promuovendo “programmi” di educazione alla pace via via dettagliati in educazione alla cura, alla cittadinanza glocale, alla cittadinanza digitale. Il programma 2024/25 si intitola “Immagina” ed è stato presentato il 30 agosto 2024 nel corso di un incontro cui hanno partecipato oltre 800 insegnanti.
Dimensione trasversale e trasformativa dell’educazione alla pace —
Se educazione e pace vanno assieme, si può sostenere, come da metà degli anni Novanta sostiene la Rete delle scuole di pace, che «la pace si insegna, la pace si impara!». Ovvero, è possibile educare la «competenza di pace» che è una delle «competenze civiche» che la legge 92/2019 indica come traguardo della «disciplina trasversale» denominata Educazione civica (art. 2 comma 1).
La «dimensione trasversale» dell’Educazione civica implica che non esiste un docente delegato al suo insegnamento, ma tutti i saperi e tutte le discipline devono concorrere alla formazione del cittadino e della cittadina. Ciò ha un impatto anche a livello epistemologico, richiedendo il superamento di un approccio puramente disciplinare.
La legge 107/2015 indica, tra le priorità che le scuole assumono nella definizione della propria identità e missione (espressa nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa), proprio lo «sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva e democratica attraverso la valorizzazione dell’educazione interculturale e alla pace, il rispetto delle differenze e il dialogo tra le culture, il sostegno dell’assunzione di responsabilità nonché della solidarietà e della cura dei beni comuni e della consapevolezza dei diritti e dei doveri; […] sviluppo di comportamenti responsabili ispirati alla conoscenza e al rispetto della legalità, della sostenibilità ambientale, dei beni paesaggistici, del patrimonio e delle attività culturali».
La seconda caratteristica fondamentale dell’educazione alla pace, così come dell’educazione civica, è quella di essere un percorso trasformativo: non si educa infatti alla pace se non diventando artigiani di pace 2, trasformando quindi il
proprio mondo, la società in cui si vive, impegnandosi per il rispetto dei diritti di tutti e assumendo responsabilità e cura nei confronti di sé stessi, della relazione con gli altri, della comunità, delle istituzioni, dell’ambiente.
La terza caratteristica chiave dell’educazione alla pace è connessa al diretto protagonismo degli studenti e delle studentesse all’interno della scuola e della società. La dimensione trasformativa dell’educazione impatta sulla realtà, sulla società, sulla cultura e sullo stesso processo educativo, e non può che richiedere una didattica innovativa che metta davvero al centro l’apprendente, che diventa changemaker , promotore di innovazione sociale.
Negli ultimi anni, le proposte della Rete delle scuole di pace, ad esempio, si sono concentrate sui temi della cura (di sé, degli altri, dell’ambiente, dei diritti, della giustizia, della pace ecc.), sui laboratori di futuro, sulla «coltivazione del bene comune»,sull’educazione civica digitale e la costruzione di un curricolo di cittadinanza digitale: tutti percorsi che coniugano in modo innovativo le proposte che sono alla base sia del rapporto Unesco 2021 (Reimagining our futures together: A new social contract for education) sia del Trasforming education summit dell’ONU tenutosi a metà settembre 2022, e che ha trovato rilancio e sintesi nel Summit of the future3 di settembre 2024.
In sintesi, la scuola è chiamata a essere un controcanto rispetto alla narrazione corrente sulla guerra. Una voce di impegno e di speranza che, a partire dai più piccoli e dalle più piccole, lavora per far crescere dal basso un nuovo stile di relazioni e di convivenza, sull’esempio del nuovo contratto globale richiesto dal rapporto Unesco 2021 per re-immaginare con l’educazione il nostro futuro assieme.
La cura e gli esercizi di pace
La pace comincia da ciascuno di noi e ciascuno può fare qualcosa per costruirla ogni giorno. E proprio perché si tratta di un’esperienza scolastica, il percorso ha realizzato alcuni Quaderni rivolti direttamente ad alunni e alunne, intitolati Il mio quaderno degli esercizi di pace e Il quaderno degli esercizi di cura4
I due Quaderni degli esercizi di pace (curati da Flavio Lotti, uno per la scuola primaria e secondaria di primo grado e
l’altro per le superiori) contengono l’indicazione di quindici esercizi da realizzare a scuola. Si parte dall’«imparare a salutarci guardandoci negli occhi» e si finisce con l’impegno a «ripudiare la guerra». Nel mezzo, si lavora sulla cura dell’ambiente, ma anche delle parole che usiamo, sul rifiuto della violenza e sulla cura del vivere e lavorare insieme.
Ogni Quaderno illustra 15 esercizi da programmare e realizzare a scuola per imparare a diventare cittadini consapevoli e responsabili:
1. impariamo a salutarci guardandoci negli occhi;
2. impariamo a prenderci cura delle parole che usiamo;
3. impariamo a prenderci cura della vita;
4. impariamo a vivere e lavorare insieme;
5. impariamo a fare pace con gli altri;
6. impariamo a difendere i diritti umani;
7. impariamo a rifiutare la violenza;
8. impariamo a partecipare e decidere insieme;
9. impariamo a prenderci cura del mondo;
10. impariamo a prenderci cura dell’ambiente;
11. impariamo a fare cose difficili;
12. impariamo a essere solidali;
13. impariamo a metterci al servizio della comunità;
14. impariamo ad agire insieme per la pace;
15. impariamo a ripudiare la guerra.
Alla radice della proposta degli esercizi di base interagiscono due elementi, il primo filosofico, il secondo pedagogico-didattico.
Vediamo il primo. Devi cambiare la tua vita , questo è il titolo del volume che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha dedicato alla antropotecnica e che vede nell’esercizio l’elemento cruciale che permette di cambiare, trasformare, migliorare ad elevare la vita (propria e della propria comunità). Per Sloterdijk «esercizio» è l’insieme di pratiche attraverso cui «l’uomo produce l’uomo». Gli esseri umani, intensificando la propria azione su sé stessi (e, di conseguenza, sul mondo esteriore), producono cambiamenti nella propria physis, nella mentalità della propria epoca, e negli apparati sociali di cui sono membri. Da qui l’impegno «trasformativo», che Sloterdijk così sintetizza:
redarre le “regole monastiche” di un vivere-assieme che non distrugga la nostra biosfera: esse codificheranno quelle antropotecniche che risultano conformi all’esistenza nel contesto di tutti i contesti. Voler vivere al loro cospetto significherebbe prendere la decisione di assumere, in esercizi quotidiani, le buone abitudini di una sopravvivenza comune 5
È in fin dei conti,la posizione di Aristotele, che parlando di virtù etiche sostiene che esser derivano dalla “abitudine”, ovvero dalla assunzione di un habitus quotidiano. Scrive infatti Aristotele:
acquistiamo le virtù con un’attività precedente, come avviene anche per le altre arti. Infatti, le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra. Ebbene, così anche compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi. 6
Per quanto riguarda il secondo elemento, esso riguarda la consapevolezza che le competenze di pace, come tutte le competenze, comprendono al loro interno un intreccio di valori, conoscenze, abilità, atteggiamenti, e sono direttamente implicate nella risoluzione di problemi, nell’azione trasformativa della cultura, del mondo, della società.
La scuola come casa della pace e della cura
La scuola stessa deve divenire uno spazio nel quale sia possibile realizzare esperienze di pace, di cura, di benessere. L’elemento chiave dello star bene a scuola è la consapevolezza, da parte degli studenti, di sentirsi a casa.
E ciò riguarda sia la scuola come edificio, ambiente e spazio di apprendimento, sia come luogo di relazioni e di costruzione della propria identità personale e sociale, spazio culturale (scuola come intellettuale sociale), come punto di connessione con il territorio, come luogo in cui esercitare diritti e competenze, oltre ad assumere responsabilità verso i doveri connessi ai diritti, come luogo nel quale si apprende a negoziare regole e ruoli.
In sostanza, un luogo nel quale si è protagonisti in prima persona piuttosto
che semplici punti terminali del processo di trasmissione di saperi decisi da altri e insegnati in modalità spesso puramente “gentiliana”.
In Italia le e gli studenti (soprattutto nella scuola secondaria) sono ancora troppo spesso oggetti da istruire anziché soggetti che creano cultura, e che chiedono di essere accompagnati in questo processo da educatori mentori, tutor, coach, nell’ambito di istituzioni capaci di essere il contesto in cui il processo fiorisce anziché la fabbrica tardo-moderna dell’istruzione di massa.
La scuola come comunità
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Star bene a scuola richiede la costruzione di una comunità. Il che richiede riconoscimento delle plurime alterità, secondo le logiche indicate da Judith Butler e dal pensiero femminista, e la costruzione di uno spazio comune in cui esercitare la costruzione del sé nell’interazione con gli altri/le altre. È l’opposto dell’istituzione scolastica odierna, il cui centro troppo spesso pare essere soprattutto il “disciplinamento” di cui parla Foucault in Sorvegliare e punire nel 1975.
Uno degli elementi cardine dell’essere comunità è poi costituto dalla centralità dei riti.
Nel 2021 il filosofo Byung-Chul Han ha dedicato un breve e intenso saggio, intitolato La scomparsa dei riti. Una topo-
logia del presente proprio alla sparizione dei riti, evidenziando come «il silenzio, il raccoglimento, il senso di sacralità necessari allo svolgimento del rito fondano un legame tra il sé e l’Esterno, tra il sé e l’Altro – i riti oggettivano il mondo, strutturano un rapporto con il mondo, creando una comunità anche senza comunicazione».
Ed è estremamente interessante che, parlando di riti come elementi costituitivi di una società, Byung-Chul Han utilizzi un termine hegeliano Einhausung , che significa «accasamento»: «i riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa»7. Una bellissima definizione del processo educativo.
Tra i riti più semplici ma potenti troviamo l’accoglienza, il chiamarsi per nome, il semplicissimo e quotidiano reciproco salutarsi guardandosi negli occhi, come esercizio di costruzione di relazioni di pace e accoglienza.
Il ruolo di adulti e istituzioni: la politica della cura
Gli adulti (docenti, dirigenti, famiglie) e le istituzioni (la scuola in quanto istituzione, gli enti locali, il ministero dell’istru-
↑ Alunni che preparano un cartellone pacifista (@Halfpoint/ Shutterstock).
zione) sono chiamati a prendere atto di un elemento chiave delle relazioni umane: i processi formativi sono sempre un mettere al mondo il mondo, un mettere al mondo libertà.
Da Socrate in avanti, il maestro costruisce le condizioni di contesto entro le quali lo studente cresce e si forma. Lo stesso avviene per le istituzioni in quanto tali: esse non sono il futuro, ma realizzazione delle condizioni entro cui i nuovi soggetti possono costruire il presente/futuro come novità, e non come ripetizione.
Le scuole e le istituzioni sono così chiamate a realizzare quella che Luigina Mortari chiama «politica della cura»8. Cura di sé, degli altri, delle istituzioni, della natura, del mondo. Cura che è sempre relazionale apertura all’alterità, all’inedito. Solo così sarà possibile una cultura e una società del bene-essere, in cui ognuno/a e tutti/e possano sentirsi davvero a casa. Una scuola come casa della pace.
Le Linee guida per l’educazione alla pace
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Nel 2017 il MIUR ha trasmesso a tutte le scuole italiane le Linee Guida per l’Educazione alla Pace e alla Cittadinanza Glocale. Le Linee guida9 sono il frutto di un percorso di ricerca azione realizzato dalla Rete delle scuole per la pace cui hanno partecipato 162 docenti nel corso del programma Dalla grande guerra alla grande pace realizzato con il supporto della regione Friuli Venezia Giulia a partire dal 2014, nell’occasione del centenario dell’avvio della Prima guerra mondiale.
Si tratta di un agile documento metodologico, ancora oggi attualissimo, che supporta le e i docenti nel progettare, costruire e realizzare con le proprie e i propri studenti i percorsi di educazione alla pace, alla cittadinanza, ai diritti, alla solidarietà, alla cura. Percorsi con i quali affrontare anche questo momento storico, nel quale la guerra, con i suoi orrori, non solo è tornata nel cuore dell’Europa e al centro delle preoccupazioni, dell’angoscia, della scommessa per il futuro, ma è tornata a essere dicibile, pronunciabile. Ha conquistato spazio nell’immaginario collettivo. Da qui la necessità di re-immaginare un futuro diverso.
Magari partendo dalla capacità di immaginare e dalla voglia di futuro dei bambini di Gubbio, che il 21 settembre sono saliti ad Assisi con disegni di pace.
NOTE
1. Siti di riferimento sono rispettivamente https://www.perlapace.it/; https://www.lamiascuolaperlapace.it/; https://www.runipace.org/.
2. Artigiano e architetto di pace sono due categorie introdotte da Papa Francesco nella Enciclica «Fratelli tutti» del 2020. Al numero 231 Francesco distingue il ruolo dell’artigiano («i processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il suo stile di vita quotidiano») da quello dell’architetto («C’è una architettura della pace nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza…»).
Tuttavia, sostiene Papa Francesco, a diversi livelli di responsabilità ognuno di noi è spesso sia architetto sia artigiano.
3. Si veda https://www.un.org/en/common-agenda/summit-of-the-future.
4. I Quaderni sono distribuiti direttamente da Scuole di Pace; sono stati acquistati in diverse decine di migliaia e consegnati direttamente a ogni studente del gruppo o della casse che ci ha poi lavorato (il quaderno è infatti personale).
Diverse amministrazioni locali (enti locali per la pace) hanno personalizzato il quaderno per le scuole dei loro territori. Maggiori informazioni qui: https://www.perlapace.it/ ordina-quaderno-degli-esercizi-pace/.
5. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, trad. S. Franchini, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 556.
6. Etica nicomachea, libro II, 1.
7. B.-C. Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Nottetempo, Milano 2021, trad. it. S. Aglan-Bittazzi, p. 11.
8. L. Mortari, La politica della cura. Prendere a cuore la vita, Raffaello Cortina, Milano 2021.
9. Consultabili all’indirizzo http://www.perlapace.it/lineeguida/.
Aluisi Tosolini
filosofo dell’educazione, è coordinatore nazionale della Rete delle scuole di Pace e coordinatore scientifico di Casco Learning. Per 20 anni dirigente scolastico, è tra i fondatori del Movimento Avanguardie Educative. Ha insegnato didattica alle Università di Parma e Cattolica di Piacenza. Il suo ultimo libro si intitola Scuola bene comune. Idee per ripensare l’educazione, Emi, Brescia 2023.
QdR / Didattica e letteratura
La collana scientifica, dedicata a scuola e università, per riflettere su metodi e strumenti idonei a valorizzare il ruolo degli studi letterari, della scrittura, della lettura e dell’interpretazione delle opere.
DIRETTA DA
Natascia Tonelli
Simone Giusti
COMITATO SCIENTIFICO
Paolo Giovannetti (IULM)
Pasquale Guaragnella (Università degli Studi di Bari)
Marielle Macé (CRAL Parigi)
Francesco Stella (Università degli Studi di Siena)
I libri pubblicati nella collana sono reperibili in libreria o presso le agenzie di zona. Indice e prime pagine sono disponibili sul sito de «La ricerca».
La collana QdR / Didattica e letteratura è anche online www.laricerca.loescher.it/qdr-didattica-e-letteratura
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