Filosofia: dialogo cittadinanza - Seconda edizione

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M OD U LO

LO U OD M

Platone

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MODULO

PROFILO ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ

La ricerca sulla virtù Le idee e il rapporto con le cose Anima e corpo, ragione e passioni Eros e il filosofo La conoscenza Lo Stato e la missione del filosofo La revisione della teoria delle idee e la dialettica Politica ed etica negli ultimi dialoghi La cosmologia Le dottrine non scritte L’eredità di Platone

ITINERARI DI LETTURA ˆ I sensi e le idee ˆ Il mito della caverna e la teoria della conoscenza ˆ La concezione dell’anima: i miti della biga e dell’aldilà ˆ Il mito di Eros: il filosofo e le idee ˆ Lo Stato ideale

QUESTIONI CHE CONTANO Filosofia e altri linguaggi

ˆ Motivi platonici nella poesia di Petrarca Filosofia e cittadinanza

ˆ Platone totalitario? Filosofia e conoscenza di sé

ˆ L’amore, tra filosofia e psicologia

EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO ˆ Amore e sessualità


IL CONTESTO

Il contesto storico-culturale

428-427 Platone nasce ad Atene

431 inizia la guerra del Peloponneso (Atene contro Sparta)

162

408 ca. diventa allievo di Socrate

411 è introdotta l’oligarchia ad Atene 404 fine della guerra del Peloponneso con la capitolazione di Atene e l’instaurazione dell’oligarchia (Trenta tiranni)

395-388 dialoghi giovanili, o «socratici» (dall’Apologia di Socrate all’Eutidemo)

399 condanna a morte di Socrate 403 restaurazione della democrazia ad Atene

388 si reca per la prima volta a Siracusa

405-367 Dionigi I, tiranno di Siracusa, guida la resistenza delle città greche contro Cartagine

387 torna ad Atene e fonda l’Accademia

367 387-367 si reca per la dialoghi seconda volta della maturità a Siracusa (dal Menone al Fedro)

Taranto

Mag na G recia

358 inizio, con Filippo II, delle conquiste macedoni

Atene

Siracusa

Eg i t t o

365-347 dialoghi della vecchiaia, o «dialettici» (dal Parmenide alle Leggi), e Lettere 361 si reca per la terza volta a Siracusa

371-362 supremazia tebana

Megara

330 a. C.

430 a. C.

PLATONE E IL SUO TEMPO

410 a. C.

Platone si colloca quindi alla fine dell’età delle póleis, quando la città come scena dell’azione filosofica, senza la quale i sofisti e Socrate non potrebbero neppure essere immaginati, sta venendo meno, ma al tempo stesso quella dimensione collettiva del lógos, che si esprime nel dialogo o nei discorsi retorici, è avvertita ancora come un’esigenza. Potremmo dire che la sua è una filosofia per la città, cui è venuto però a mancare questo riferimento necessario. E al-

Ma sulla base di queste esigenze sostanzialmente «pratiche» (nel significato che il termine avrà nella filosofia aristotelica, cioè legate alla prassi, al comportamento individuale e sociale) Platone costruisce un imponente edificio metafisico, che giustifica l’universalità dei valori e al tempo stesso affronta tutti i problemi lasciati aperti dalle filosofie precedenti: quelli del divenire, della molteplicità e soprattutto quello sollevato da Parmenide, il rapporto tra lógos ed esistenza, tra le esigenze del pensiero e le apparenti evidenze dell’esperienza.

torna ad Atene, fondandovi l’Accademia (387 a. C.). Nel 367 a. C., dopo la morte di Dionigi I, fa ritorno a Siracusa, sperando di realizzare il proprio progetto politico con il nuovo tiranno, Dionigi II, anche questa volta senza successo. Il terzo viaggio a Siracusa, nel 361 a. C., rischia addirittura di concludersi tragicamente per l’ostilità di Dionigi II che minaccia di imprigionarlo, e soltanto l’intervento di Archita gli consente di fare ritorno ad Atene, dove si dedica all’insegnamento nell’Accademia fino alla morte, avvenuta nel 347 a. C.

350 a. C.

Politica ed etica nello Stato ideale

La filosofia a fondamento dell’universalità dei valori

I LUOGHI DELLA VITA DI PLATONE Platone nasce ad Atene intorno al 428/427 a. C. da famiglia ricca e di antica nobiltà. Il vero nome è Aristocle e il nomignolo con cui diverrà universalmente noto gli viene dato, sembra, dal maestro di ginnastica, per l’ampiezza delle spalle o della figura (plátos, in greco, significa «ampiezza»). Divenuto a vent’anni allievo di Socrate, rimane con il maestro fino alla di lui morte, nel 399 a. C., lasciando poi Atene. Dopo un soggiorno a Megara, viaggia molto, sicuramente anche in Egitto e nella Magna Grecia, dove conosce il pitagorico Archita di Taranto. Lascia di nuovo Atene nel 388 a. C. per il primo dei numerosi viaggi a Siracusa, dove tenta di indurre il tiranno Dionigi I a realizzare il modello di Stato che va elaborando, anche grazie all’appoggio del cognato di Dionigi, Dione, che diviene suo allievo. Fallito questo primo tentativo,

370 a. C.

In Platone è ancora forte il legame con la pólis, considerata, come per Socrate, il punto di riferimento irrinunciabile della vita dell’individuo, lo sfondo che dà senso all’esistenza. La morte di Socrate mette però in discussione il rapporto di Platone con la città, segnandone profondamente l’azione e la riflessione politica. Del resto, al tempo di Platone la pólis, come modello sociale e politico, è ormai in crisi. La Grecia è avviata verso la disgregazione della sua struttura tradizionale: alla lunga guerra del Peloponneso (431-404 a. C.) fa seguito un periodo di lotte conclusosi con la breve supremazia tebana, che prepara la strada alla definitiva conquista macedone, prima con Filippo II, poi con Alessandro Magno.

lora tenta di ricrearlo, dipingendo lo Stato perfetto che garantisca la realizzazione della virtù dei cittadini e della giustizia sociale. Uno Stato «ideale» nel significato, appunto, platonico, come modello cui guardare per trasformare la realtà, come cercherà più volte di fare con i suoi viaggi a Siracusa. Ma al tempo stesso è necessario garantire l’universalità dei valori contro il relativismo sofistico e contro il relativismo più pericoloso determinato dal venir meno della scena della pólis. Politica ed etica sono le preoccupazioni maggiori di Platone e si legano strettamente, come vedremo, l’una all’altra.

390 a. C.

La fine dell’età delle póleis

347 Platone muore ad Atene

331 vittoria di Alessandro contro Dario III, re di Persia; Alessandro 335 è acclamato Aristotele entra re dell’Asia nell’Accademia di Platone

336 assassinio di Filippo II; il figlio Alessandro doma l’insurrezione greca e nel 335 distrugge Tebe

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IL CONTESTO

Il contesto storico-culturale

428-427 Platone nasce ad Atene

431 inizia la guerra del Peloponneso (Atene contro Sparta)

162

408 ca. diventa allievo di Socrate

411 è introdotta l’oligarchia ad Atene 404 fine della guerra del Peloponneso con la capitolazione di Atene e l’instaurazione dell’oligarchia (Trenta tiranni)

395-388 dialoghi giovanili, o «socratici» (dall’Apologia di Socrate all’Eutidemo)

399 condanna a morte di Socrate 403 restaurazione della democrazia ad Atene

388 si reca per la prima volta a Siracusa

405-367 Dionigi I, tiranno di Siracusa, guida la resistenza delle città greche contro Cartagine

387 torna ad Atene e fonda l’Accademia

367 387-367 si reca per la dialoghi seconda volta della maturità a Siracusa (dal Menone al Fedro)

Taranto

Mag na G recia

358 inizio, con Filippo II, delle conquiste macedoni

Atene

Siracusa

Eg i t t o

365-347 dialoghi della vecchiaia, o «dialettici» (dal Parmenide alle Leggi), e Lettere 361 si reca per la terza volta a Siracusa

371-362 supremazia tebana

Megara

330 a. C.

430 a. C.

PLATONE E IL SUO TEMPO

410 a. C.

Platone si colloca quindi alla fine dell’età delle póleis, quando la città come scena dell’azione filosofica, senza la quale i sofisti e Socrate non potrebbero neppure essere immaginati, sta venendo meno, ma al tempo stesso quella dimensione collettiva del lógos, che si esprime nel dialogo o nei discorsi retorici, è avvertita ancora come un’esigenza. Potremmo dire che la sua è una filosofia per la città, cui è venuto però a mancare questo riferimento necessario. E al-

Ma sulla base di queste esigenze sostanzialmente «pratiche» (nel significato che il termine avrà nella filosofia aristotelica, cioè legate alla prassi, al comportamento individuale e sociale) Platone costruisce un imponente edificio metafisico, che giustifica l’universalità dei valori e al tempo stesso affronta tutti i problemi lasciati aperti dalle filosofie precedenti: quelli del divenire, della molteplicità e soprattutto quello sollevato da Parmenide, il rapporto tra lógos ed esistenza, tra le esigenze del pensiero e le apparenti evidenze dell’esperienza.

torna ad Atene, fondandovi l’Accademia (387 a. C.). Nel 367 a. C., dopo la morte di Dionigi I, fa ritorno a Siracusa, sperando di realizzare il proprio progetto politico con il nuovo tiranno, Dionigi II, anche questa volta senza successo. Il terzo viaggio a Siracusa, nel 361 a. C., rischia addirittura di concludersi tragicamente per l’ostilità di Dionigi II che minaccia di imprigionarlo, e soltanto l’intervento di Archita gli consente di fare ritorno ad Atene, dove si dedica all’insegnamento nell’Accademia fino alla morte, avvenuta nel 347 a. C.

350 a. C.

Politica ed etica nello Stato ideale

La filosofia a fondamento dell’universalità dei valori

I LUOGHI DELLA VITA DI PLATONE Platone nasce ad Atene intorno al 428/427 a. C. da famiglia ricca e di antica nobiltà. Il vero nome è Aristocle e il nomignolo con cui diverrà universalmente noto gli viene dato, sembra, dal maestro di ginnastica, per l’ampiezza delle spalle o della figura (plátos, in greco, significa «ampiezza»). Divenuto a vent’anni allievo di Socrate, rimane con il maestro fino alla di lui morte, nel 399 a. C., lasciando poi Atene. Dopo un soggiorno a Megara, viaggia molto, sicuramente anche in Egitto e nella Magna Grecia, dove conosce il pitagorico Archita di Taranto. Lascia di nuovo Atene nel 388 a. C. per il primo dei numerosi viaggi a Siracusa, dove tenta di indurre il tiranno Dionigi I a realizzare il modello di Stato che va elaborando, anche grazie all’appoggio del cognato di Dionigi, Dione, che diviene suo allievo. Fallito questo primo tentativo,

370 a. C.

In Platone è ancora forte il legame con la pólis, considerata, come per Socrate, il punto di riferimento irrinunciabile della vita dell’individuo, lo sfondo che dà senso all’esistenza. La morte di Socrate mette però in discussione il rapporto di Platone con la città, segnandone profondamente l’azione e la riflessione politica. Del resto, al tempo di Platone la pólis, come modello sociale e politico, è ormai in crisi. La Grecia è avviata verso la disgregazione della sua struttura tradizionale: alla lunga guerra del Peloponneso (431-404 a. C.) fa seguito un periodo di lotte conclusosi con la breve supremazia tebana, che prepara la strada alla definitiva conquista macedone, prima con Filippo II, poi con Alessandro Magno.

lora tenta di ricrearlo, dipingendo lo Stato perfetto che garantisca la realizzazione della virtù dei cittadini e della giustizia sociale. Uno Stato «ideale» nel significato, appunto, platonico, come modello cui guardare per trasformare la realtà, come cercherà più volte di fare con i suoi viaggi a Siracusa. Ma al tempo stesso è necessario garantire l’universalità dei valori contro il relativismo sofistico e contro il relativismo più pericoloso determinato dal venir meno della scena della pólis. Politica ed etica sono le preoccupazioni maggiori di Platone e si legano strettamente, come vedremo, l’una all’altra.

390 a. C.

La fine dell’età delle póleis

347 Platone muore ad Atene

331 vittoria di Alessandro contro Dario III, re di Persia; Alessandro 335 è acclamato Aristotele entra re dell’Asia nell’Accademia di Platone

336 assassinio di Filippo II; il figlio Alessandro doma l’insurrezione greca e nel 335 distrugge Tebe

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MODULO

4

Platone

La ricerca sulla virtù

1

1. La ricerca sulla virtù

La centralità della virtù

Platone e Socrate L’influenza di Socrate

Platone è stato allievo di Socrate per meno di dieci anni, dal 408-407 a. C. fino alla morte del maestro, nel 399 a. C. Ma questo rapporto segna profondamente la sua filosofia. Anche la condanna a morte di Socrate da parte della città alla quale aveva dedicato la propria vita rappresenta per lui un’esperienza decisiva, orientandolo a fare del problema politico uno dei temi centrali della sua riflessione, nel tentativo di costruire le basi di uno Stato giusto che promuova la virtù.

La filosofia come ricerca

Della filosofia di Socrate, Platone conserva prima di tutto lo spirito di ricerca. La filosofia non è un punto di arrivo, ma un percorso verso la verità e il bene, rappresentati da Platone dal mondo delle idee verso cui il filosofo tende. Però il filosofo – secondo l’etimologia (philêin, «amare», e sophı́a, «sapienza») non è il sapiente, ma colui che ama la sapienza: non la possiede, ma la desidera e la cerca, come leggiamo nel mito di Eros nel Simposio. La filosofia di Platone, come vedremo, è una ricerca senza fine: negli ultimi dialoghi, scritti dopo i sessant’anni, si autocritica e si rimette in discussione, rivedendo in profondità le proprie concezioni precedenti, e probabilmente nelle «dottrine non scritte», insegnate nell’Accademia, è andato modificando e integrando ancora le proprie teorie.

AA

T8

Il dialogo

Sarcofago romano con figura di filosofo seduto che legge da un rotolo, tra i suoi discepoli. II-III secolo d. C. (Città del Vaticano, Musei Vaticani).

164

AA AA

T3 T4

PROFILO

Anche molti dei contenuti della filosofia platonica si richiamano all’insegnamento socratico, specie quello della centralità della riflessione etica. Quasi tutti i dialoghi giovanili sono dedicati all’analisi di alcune virtù e della virtù in generale, ma anche nelle opere della maturità, in particolare nella Repubblica, quello etico è il tema centrale: lo Stato giusto realizza in se stesso la virtù e rende virtuosi i cittadini. Non bisogna poi dimenticare che l’idea di bene è quella suprema, quella che illumina tutte le altre, come fa il sole con le cose, secondo l’analogia stabilita nel mito della caverna, nella Repubblica. La virtù e il bene, come per Socrate, possono essere conosciuti mediante la ragione, superando gli aspetti individuali e tutto quello che ad essi ci lega, in particolare i sentimenti e le passioni. Platone condivide la fiducia socratica nella dimensione universale della ragione, che può stabilire verità valide per tutti gli uomini in quanto sostenute da argomentazioni razionali, superando il relativismo sofistico. Cosı̀ come le dimensioni apparenti di un oggetto cambiano da persona a persona, ma le sue misure matematiche sono le stesse per tutti, cosı̀ come un’opinione è soggettiva ma la dimostrazione di un teorema matematico ha una validità universale, allo stesso modo ciò che possiamo argomentare con la ragione è valido per tutti gli uomini, a differenza delle sensazioni, dei sentimenti e delle passioni.

Differenze

Ovviamente molte sono anche le differenze rispetto alla filosofia di Socrate; anzi, sul piano dei contenuti filosofici, sicuramente queste sono più numerose delle analogie, e le analizzeremo nel corso del Modulo. Senza entrare per ora nei dettagli, Platone ha costruito un vero e proprio sistema filosofico – anche se, come si è detto, sempre in fieri – e ha ricondotto il problema etico all’interno di una complessa metafisica incentrata sul mondo delle idee (il mondo intelligibile) e sulla sua alterità rispetto al mondo delle cose (il mondo visibile). In questo modo ha cercato di dare una risposta anche alle domande che Socrate aveva lasciato in sospeso o non si era poste, come quelle sul destino dell’anima dopo la morte, sulla nascita dell’universo, e altre ancora.

Il mito e il lógos

È significativo il fatto che, soprattutto per dare una risposta a queste domande, Platone faccia ricorso al mito, allontanandosi dal «ragionare» socratico. Come vedremo nel prossimo paragrafo, il mito svolge nel filosofare platonico più funzioni. Non sappiamo se Socrate ricorresse ai miti, anche se paiono estranei al suo modo di filosofare, basato sul dialogo e sulla scoperta comune.

Il Socrate dei dialoghi platonici

Nei dialoghi di Platone è spesso Socrate a narrare i miti, ma qui si apre un nuovo problema: in che misura Socrate protagonista della maggior parte dei dialoghi platonici corrisponde al Socrate storico e quanto è, invece, un’interpretazione platonica della sua figura? Molte delle informazioni sul pensiero socratico le ricaviamo proprio dai dialoghi platonici, ed è presumibile che in quelli giovanili, definiti appunto «socratici», Platone ne esponga fedelmente la filosofia, allontanandosene poi gradualmente in quelli via via successivi (è doveroso però ricordare che proprio la centralità della figura di Socrate è uno dei criteri per stabilire la cronologia dei dialoghi, rischiando cosı̀ un circolo vizioso). In ogni caso, le teorie filosofiche di Platone non sono riconducibili a quelle di Socrate, ma per molti aspetti nel filosofare platonico ritroviamo la finalità e lo stile di quello socratico.

Questa fedeltà al filosofare socratico trova espressione anche nella forma del dialogo, scelta per la quasi totalità delle proprie opere, che rende bene il senso non soltanto della ricerca, ma del cercare insieme, dialogando, sottoponendo alla critica della ragione tutti i presupposti, senza accettare nulla di non argomentato.

La scrittura platonica Il dialogo

Lo stile di Platone è molto particolare ed è una componente importante del suo modo di filosofare. Con la sola eccezione dell’Apologia di Socrate, tutte le sue opere sono scritte in forma di dialogo. Platone cerca di restare fedele a Socrate, che non scrisse mai nulla, convinto che la filosofia dovesse essere sempre dialogo reale, con interlocutori in carne ed ossa. Anche Platone condanna la scrittura: nel presentare il mito di Theuth sostiene che il testo scritto risponde alle domande sempre nello stesso modo. Il dialogo, invece, è ricerca, è

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MODULO

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Platone

La ricerca sulla virtù

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1. La ricerca sulla virtù

La centralità della virtù

Platone e Socrate L’influenza di Socrate

Platone è stato allievo di Socrate per meno di dieci anni, dal 408-407 a. C. fino alla morte del maestro, nel 399 a. C. Ma questo rapporto segna profondamente la sua filosofia. Anche la condanna a morte di Socrate da parte della città alla quale aveva dedicato la propria vita rappresenta per lui un’esperienza decisiva, orientandolo a fare del problema politico uno dei temi centrali della sua riflessione, nel tentativo di costruire le basi di uno Stato giusto che promuova la virtù.

La filosofia come ricerca

Della filosofia di Socrate, Platone conserva prima di tutto lo spirito di ricerca. La filosofia non è un punto di arrivo, ma un percorso verso la verità e il bene, rappresentati da Platone dal mondo delle idee verso cui il filosofo tende. Però il filosofo – secondo l’etimologia (philêin, «amare», e sophı́a, «sapienza») non è il sapiente, ma colui che ama la sapienza: non la possiede, ma la desidera e la cerca, come leggiamo nel mito di Eros nel Simposio. La filosofia di Platone, come vedremo, è una ricerca senza fine: negli ultimi dialoghi, scritti dopo i sessant’anni, si autocritica e si rimette in discussione, rivedendo in profondità le proprie concezioni precedenti, e probabilmente nelle «dottrine non scritte», insegnate nell’Accademia, è andato modificando e integrando ancora le proprie teorie.

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T8

Il dialogo

Sarcofago romano con figura di filosofo seduto che legge da un rotolo, tra i suoi discepoli. II-III secolo d. C. (Città del Vaticano, Musei Vaticani).

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AA AA

T3 T4

PROFILO

Anche molti dei contenuti della filosofia platonica si richiamano all’insegnamento socratico, specie quello della centralità della riflessione etica. Quasi tutti i dialoghi giovanili sono dedicati all’analisi di alcune virtù e della virtù in generale, ma anche nelle opere della maturità, in particolare nella Repubblica, quello etico è il tema centrale: lo Stato giusto realizza in se stesso la virtù e rende virtuosi i cittadini. Non bisogna poi dimenticare che l’idea di bene è quella suprema, quella che illumina tutte le altre, come fa il sole con le cose, secondo l’analogia stabilita nel mito della caverna, nella Repubblica. La virtù e il bene, come per Socrate, possono essere conosciuti mediante la ragione, superando gli aspetti individuali e tutto quello che ad essi ci lega, in particolare i sentimenti e le passioni. Platone condivide la fiducia socratica nella dimensione universale della ragione, che può stabilire verità valide per tutti gli uomini in quanto sostenute da argomentazioni razionali, superando il relativismo sofistico. Cosı̀ come le dimensioni apparenti di un oggetto cambiano da persona a persona, ma le sue misure matematiche sono le stesse per tutti, cosı̀ come un’opinione è soggettiva ma la dimostrazione di un teorema matematico ha una validità universale, allo stesso modo ciò che possiamo argomentare con la ragione è valido per tutti gli uomini, a differenza delle sensazioni, dei sentimenti e delle passioni.

Differenze

Ovviamente molte sono anche le differenze rispetto alla filosofia di Socrate; anzi, sul piano dei contenuti filosofici, sicuramente queste sono più numerose delle analogie, e le analizzeremo nel corso del Modulo. Senza entrare per ora nei dettagli, Platone ha costruito un vero e proprio sistema filosofico – anche se, come si è detto, sempre in fieri – e ha ricondotto il problema etico all’interno di una complessa metafisica incentrata sul mondo delle idee (il mondo intelligibile) e sulla sua alterità rispetto al mondo delle cose (il mondo visibile). In questo modo ha cercato di dare una risposta anche alle domande che Socrate aveva lasciato in sospeso o non si era poste, come quelle sul destino dell’anima dopo la morte, sulla nascita dell’universo, e altre ancora.

Il mito e il lógos

È significativo il fatto che, soprattutto per dare una risposta a queste domande, Platone faccia ricorso al mito, allontanandosi dal «ragionare» socratico. Come vedremo nel prossimo paragrafo, il mito svolge nel filosofare platonico più funzioni. Non sappiamo se Socrate ricorresse ai miti, anche se paiono estranei al suo modo di filosofare, basato sul dialogo e sulla scoperta comune.

Il Socrate dei dialoghi platonici

Nei dialoghi di Platone è spesso Socrate a narrare i miti, ma qui si apre un nuovo problema: in che misura Socrate protagonista della maggior parte dei dialoghi platonici corrisponde al Socrate storico e quanto è, invece, un’interpretazione platonica della sua figura? Molte delle informazioni sul pensiero socratico le ricaviamo proprio dai dialoghi platonici, ed è presumibile che in quelli giovanili, definiti appunto «socratici», Platone ne esponga fedelmente la filosofia, allontanandosene poi gradualmente in quelli via via successivi (è doveroso però ricordare che proprio la centralità della figura di Socrate è uno dei criteri per stabilire la cronologia dei dialoghi, rischiando cosı̀ un circolo vizioso). In ogni caso, le teorie filosofiche di Platone non sono riconducibili a quelle di Socrate, ma per molti aspetti nel filosofare platonico ritroviamo la finalità e lo stile di quello socratico.

Questa fedeltà al filosofare socratico trova espressione anche nella forma del dialogo, scelta per la quasi totalità delle proprie opere, che rende bene il senso non soltanto della ricerca, ma del cercare insieme, dialogando, sottoponendo alla critica della ragione tutti i presupposti, senza accettare nulla di non argomentato.

La scrittura platonica Il dialogo

Lo stile di Platone è molto particolare ed è una componente importante del suo modo di filosofare. Con la sola eccezione dell’Apologia di Socrate, tutte le sue opere sono scritte in forma di dialogo. Platone cerca di restare fedele a Socrate, che non scrisse mai nulla, convinto che la filosofia dovesse essere sempre dialogo reale, con interlocutori in carne ed ossa. Anche Platone condanna la scrittura: nel presentare il mito di Theuth sostiene che il testo scritto risponde alle domande sempre nello stesso modo. Il dialogo, invece, è ricerca, è

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MODULO

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Platone

1. La ricerca sulla virtù

procedere insieme verso una verità condivisa, perché basata sulla ragione. Platone sceglie però di usare comunque la scrittura, in modo da conservare il proprio messaggio, ma la piega verso il genere più vicino all’oralità, cioè il dialogo. I dialoghi platonici sono interessanti anche dal punto di vista letterario. Essi vengono infatti ambientati in uno scenario descritto in modo accurato, con personaggi ben caratterizzati e spesso in un contesto narrativo che accompagna e arricchisce l’esposizione delle argomentazioni filosofiche. Il mito

Le dottrine non scritte

All’interno dei dialoghi vengono spesso inseriti dei miti, che Platone usa sia per introdurre il lógos, cioè l’esposizione argomentata, sia per integrare il lógos, cioè per esprimere concetti che non possono essere spiegati ma debbono essere piuttosto «mostrati», attraverso il mito. In alcuni casi, attraverso il mito, l’esposizione platonica assume il tono della rivelazione. Oltre ad essere importanti per l’esposizione filosofica, i miti platonici sono interessanti e coinvolgenti anche sul piano letterario. Negli Itinerari di lettura puoi trovare i più noti: quello della caverna (T3, T4), quello del carro alato (T6), quello di Er, sul destino dell’anima dopo la morte (T7), quello di Eros (T8), oltre ad altri minori, quali il mito degli androgini o quello dei figli della Terra (T10). L’insegnamento di Platone presenta ancor oggi alcuni aspetti che non sono stati chiariti e che farebbero ipotizzare una fedeltà allo stile socratico ancora maggiore di quanto la stessa scrittura in forma di dialogo lasci presupporre. Nella Lettera VII, infatti, Platone afferma che le cose più importanti non possono essere scritte, ma comunicate soltanto in modo di-

PROFILO

retto, mediante la parola. Secondo alcuni critici, gli stessi dialoghi non conterrebbero la vera concezione filosofica di Platone, ma una sua versione divulgativa. La vera filosofia platonica sarebbe invece affidata alla «dottrine non scritte», cioè all’insegnamento orale nell’Accademia, di cui parliamo nel paragrafo Le dottrine non scritte (pp. 202-03).

I dialoghi giovanili come ricerca continua I dialoghi socratici

I dialoghi giovanili, o «socratici», vertono prevalentemente su un unico tema: la virtù. Spesso si prende in analisi una virtù specifica (il coraggio nel Lachete, la temperanza nel Carmide, la santità nell’Eutifrone, l’amicizia nel Liside), ma ci si pone soprattutto il problema di che cosa sia la virtù in generale, se e come possa essere conosciuta e se possa essere trasmessa (Gorgia e Protagora). Questi dialoghi vengono definiti aporetici perché in essi, seguendo lo stile socratico, non si giunge a una conclusione, ma si approfondisce e si chiarisce il problema giungendo via via all’accordo su alcuni aspetti, che sollevano però nuove domande, e cosı̀ via.

La filosofia come ricerca

Chiarire i problemi vuol dire ricercare e discutere le argomentazioni a favore di una tesi oppure, al contrario, dimostrare che una convinzione, anche se largamente accettata, non ha fondamenti razionali e deve quindi essere abbandonata. Lo scopo di Socrate, come è dipinto da Platone in questi primi dialoghi, non è la scoperta, ma la ricerca della verità.

Pólis e coscienza: l’Apologia

Anche se in questi scritti mancano vere e proprie «tesi», vi sono già presenti alcuni temi che caratterizzeranno il seguito della riflessione platonica. Prima di tutto il rapporto tra la pólis e la coscienza come punti di riferimento dell’agire morale. Nell’Apologia di Socrate, dopo

FONTI E SCRITTI

Il corpus platonico Il corpus platonico, cioè l’insieme degli scritti attribuiti a Platone, si compone di 36 opere: 34 dialoghi, l’Apologia di Socrate e una raccolta di 13 lettere, di cui solo una sicuramente autentica. Altre opere in passato attribuite a Platone sono adesso riconosciute come spurie. La classificazione delle opere principali può essere cosı̀ riassunta (il punto interrogativo indica un’attribuzione dubbia): 1) dialoghi giovanili, o «socratici», scritti fra il 395 e il 388 a. C.: Apologia di Socrate, Critone, Ione, Eutifrone, Carmide, Lachete, Liside, Alcibiade primo (?), Alcibiade secondo (?), Ippia maggiore, Ippia minore, Repubblica libro I, Protagora, Gorgia, Menesseno, Cratilo, Eutidemo; 2) dialoghi della maturità, scritti fra il 387 e il 367 a. C.: Menone, Fedone, Simposio, Repubblica libri II-X, Fedro; 3) dialoghi della vecchiaia, o «dialettici», scritti dopo il 365 a. C.: Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi (in dodici libri, incompiuto). Questa classificazione è la più recente, ma nella storia del corpus sono stati spesso seguiti altri criteri. La prima edizione organica delle opere di Platone viene fatta dal grammatico Trasillo di Alessandria (I secolo d. C.), che le suddivide in nove tetralogie (gruppi

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di quattro opere), secondo un ordinamento conservato fino al Rinascimento e usato in ambito specialistico, in alcuni casi, anche oggi. La classificazione di Trasillo è la seguente: – Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone e Fedone; – Cratilo, Teeteto, Sofista e Politico; – Parmenide, Filebo, Simposio e Fedro; – Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco e Amanti; – Teage, Carmide, Lachete e Liside; – Eutidemo, Protagora, Gorgia e Menone; – Ippia maggiore, Ippia minore, Ione e Menesseno; – Clitofonte, La Repubblica, Timeo e Crizia; – Minosse, Leggi, Epinomide e Lettere. Non tutti i dialoghi attribuiti a Platone sono sicuramente autentici e su alcuni ci sono stati contrasti tra i vari critici fin dall’epoca di Trasillo, o anche prima. Oggi si tende a non considerare autentici i seguenti dialoghi: l’Alcibiade primo, l’Alcibiade secondo, le Amanti, il Teage, il Minosse; ci sono ancora pareri discordi per quanto riguarda l’Epinomide e il Clitofonte. Diogene Laerzio, nella Vita di Platone, attribuisce l’Epinomide, e anche le Leggi, a Filippo di Oplunte (IV secolo a. C.).

Altri dialoghi attribuiti inizialmente a Platone ma considerati spuri già da Trasillo sono: Midone o L’allevatore di cavalli, l’Erissia o Erasistrato, l’Alcione, Acefali o Sisifo, l’Assioco, i Feaci, il Demodoco, Chelidone, il Settimo giorno, l’Epimenide. Anche l’autenticità delle Lettere è controversa. C’è un comune accordo nell’attribuire a Platone la VII, mentre la I, la V, la VI, la XII e la XIII sono dai più considerate spurie. Altro problema importante è quello della datazione, che non è mai dichiarata in modo esplicito. Il primo a porre il problema di una cronologia complessiva delle opere di Platone è stato Friedrich Schleiermacher (1768-1834), nel 1804. Egli propose di ordinare i dialoghi in base al contenuto, ricostruendo attraverso la loro successione l’elaborazione del sistema filosofico di Platone. Questo criterio è però stato contestato, perché presuppone che Platone avesse già chiaro lo sviluppo del proprio sistema fin dall’inizio; inoltre, la genesi del sistema, che funge da criterio ordinatore, è una ricostruzione e non riflette necessariamente le tappe dell’elaborazione platonica. Proprio questo ragionamento ha indotto Karl Friedrich Hermann (1804-55), nell’opera Storia e sistema nella filosofia platonica, 1839, a contestare l’ordinamento di

Schleiermacher (il quale, ad esempio, poneva come prima opera di Platone il Fedro) e a ricercare all’interno dei dialoghi citazioni e richiami tali da consentire di stabilirne la successione, mentre altri studiosi integrarono tali riferimenti con le numerose indicazioni presenti nelle opere di Aristotele. Campbell, nel 1861, inaugurò il metodo stilometrico, poggiando la ricostruzione sugli aspetti stilistici oggettivi, come l’uso di certe particelle, la presenza o meno dello iato in alcune parole, e cosı̀ via. Nel 1897 Witold Lutosławski, definendo compiutamente questo metodo, partı̀ dall’analisi delle Leggi (sicuramente l’ultimo dialogo, dato che rimase incompiuto per la morte di Platone), individuandovi 500 stilemi (aspetti stilistici univoci). Misurando poi quanti di questi stilemi comparivano negli altri dialoghi, procedette a ritroso, misurando di volta in volta la distanza dalle Leggi. In alcuni casi il contesto in cui è ambientato il dialogo consente di determinare l’epoca in cui è stato scritto, sia pure in modo approssimativo; in altri casi è la combinazione degli aspetti stilistici con i contenuti a fornire agli studiosi elementi se non per una datazione almeno per una cronologia, cioè per stabilire la successione delle diverse opere. In questo modo si è giunti alla classificazione ricordata all’inizio di questa scheda, che è quella oggi più accreditata anche se non l’unica.

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MODULO

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Platone

1. La ricerca sulla virtù

procedere insieme verso una verità condivisa, perché basata sulla ragione. Platone sceglie però di usare comunque la scrittura, in modo da conservare il proprio messaggio, ma la piega verso il genere più vicino all’oralità, cioè il dialogo. I dialoghi platonici sono interessanti anche dal punto di vista letterario. Essi vengono infatti ambientati in uno scenario descritto in modo accurato, con personaggi ben caratterizzati e spesso in un contesto narrativo che accompagna e arricchisce l’esposizione delle argomentazioni filosofiche. Il mito

Le dottrine non scritte

All’interno dei dialoghi vengono spesso inseriti dei miti, che Platone usa sia per introdurre il lógos, cioè l’esposizione argomentata, sia per integrare il lógos, cioè per esprimere concetti che non possono essere spiegati ma debbono essere piuttosto «mostrati», attraverso il mito. In alcuni casi, attraverso il mito, l’esposizione platonica assume il tono della rivelazione. Oltre ad essere importanti per l’esposizione filosofica, i miti platonici sono interessanti e coinvolgenti anche sul piano letterario. Negli Itinerari di lettura puoi trovare i più noti: quello della caverna (T3, T4), quello del carro alato (T6), quello di Er, sul destino dell’anima dopo la morte (T7), quello di Eros (T8), oltre ad altri minori, quali il mito degli androgini o quello dei figli della Terra (T10). L’insegnamento di Platone presenta ancor oggi alcuni aspetti che non sono stati chiariti e che farebbero ipotizzare una fedeltà allo stile socratico ancora maggiore di quanto la stessa scrittura in forma di dialogo lasci presupporre. Nella Lettera VII, infatti, Platone afferma che le cose più importanti non possono essere scritte, ma comunicate soltanto in modo di-

PROFILO

retto, mediante la parola. Secondo alcuni critici, gli stessi dialoghi non conterrebbero la vera concezione filosofica di Platone, ma una sua versione divulgativa. La vera filosofia platonica sarebbe invece affidata alla «dottrine non scritte», cioè all’insegnamento orale nell’Accademia, di cui parliamo nel paragrafo Le dottrine non scritte (pp. 202-03).

I dialoghi giovanili come ricerca continua I dialoghi socratici

I dialoghi giovanili, o «socratici», vertono prevalentemente su un unico tema: la virtù. Spesso si prende in analisi una virtù specifica (il coraggio nel Lachete, la temperanza nel Carmide, la santità nell’Eutifrone, l’amicizia nel Liside), ma ci si pone soprattutto il problema di che cosa sia la virtù in generale, se e come possa essere conosciuta e se possa essere trasmessa (Gorgia e Protagora). Questi dialoghi vengono definiti aporetici perché in essi, seguendo lo stile socratico, non si giunge a una conclusione, ma si approfondisce e si chiarisce il problema giungendo via via all’accordo su alcuni aspetti, che sollevano però nuove domande, e cosı̀ via.

La filosofia come ricerca

Chiarire i problemi vuol dire ricercare e discutere le argomentazioni a favore di una tesi oppure, al contrario, dimostrare che una convinzione, anche se largamente accettata, non ha fondamenti razionali e deve quindi essere abbandonata. Lo scopo di Socrate, come è dipinto da Platone in questi primi dialoghi, non è la scoperta, ma la ricerca della verità.

Pólis e coscienza: l’Apologia

Anche se in questi scritti mancano vere e proprie «tesi», vi sono già presenti alcuni temi che caratterizzeranno il seguito della riflessione platonica. Prima di tutto il rapporto tra la pólis e la coscienza come punti di riferimento dell’agire morale. Nell’Apologia di Socrate, dopo

FONTI E SCRITTI

Il corpus platonico Il corpus platonico, cioè l’insieme degli scritti attribuiti a Platone, si compone di 36 opere: 34 dialoghi, l’Apologia di Socrate e una raccolta di 13 lettere, di cui solo una sicuramente autentica. Altre opere in passato attribuite a Platone sono adesso riconosciute come spurie. La classificazione delle opere principali può essere cosı̀ riassunta (il punto interrogativo indica un’attribuzione dubbia): 1) dialoghi giovanili, o «socratici», scritti fra il 395 e il 388 a. C.: Apologia di Socrate, Critone, Ione, Eutifrone, Carmide, Lachete, Liside, Alcibiade primo (?), Alcibiade secondo (?), Ippia maggiore, Ippia minore, Repubblica libro I, Protagora, Gorgia, Menesseno, Cratilo, Eutidemo; 2) dialoghi della maturità, scritti fra il 387 e il 367 a. C.: Menone, Fedone, Simposio, Repubblica libri II-X, Fedro; 3) dialoghi della vecchiaia, o «dialettici», scritti dopo il 365 a. C.: Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi (in dodici libri, incompiuto). Questa classificazione è la più recente, ma nella storia del corpus sono stati spesso seguiti altri criteri. La prima edizione organica delle opere di Platone viene fatta dal grammatico Trasillo di Alessandria (I secolo d. C.), che le suddivide in nove tetralogie (gruppi

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di quattro opere), secondo un ordinamento conservato fino al Rinascimento e usato in ambito specialistico, in alcuni casi, anche oggi. La classificazione di Trasillo è la seguente: – Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone e Fedone; – Cratilo, Teeteto, Sofista e Politico; – Parmenide, Filebo, Simposio e Fedro; – Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco e Amanti; – Teage, Carmide, Lachete e Liside; – Eutidemo, Protagora, Gorgia e Menone; – Ippia maggiore, Ippia minore, Ione e Menesseno; – Clitofonte, La Repubblica, Timeo e Crizia; – Minosse, Leggi, Epinomide e Lettere. Non tutti i dialoghi attribuiti a Platone sono sicuramente autentici e su alcuni ci sono stati contrasti tra i vari critici fin dall’epoca di Trasillo, o anche prima. Oggi si tende a non considerare autentici i seguenti dialoghi: l’Alcibiade primo, l’Alcibiade secondo, le Amanti, il Teage, il Minosse; ci sono ancora pareri discordi per quanto riguarda l’Epinomide e il Clitofonte. Diogene Laerzio, nella Vita di Platone, attribuisce l’Epinomide, e anche le Leggi, a Filippo di Oplunte (IV secolo a. C.).

Altri dialoghi attribuiti inizialmente a Platone ma considerati spuri già da Trasillo sono: Midone o L’allevatore di cavalli, l’Erissia o Erasistrato, l’Alcione, Acefali o Sisifo, l’Assioco, i Feaci, il Demodoco, Chelidone, il Settimo giorno, l’Epimenide. Anche l’autenticità delle Lettere è controversa. C’è un comune accordo nell’attribuire a Platone la VII, mentre la I, la V, la VI, la XII e la XIII sono dai più considerate spurie. Altro problema importante è quello della datazione, che non è mai dichiarata in modo esplicito. Il primo a porre il problema di una cronologia complessiva delle opere di Platone è stato Friedrich Schleiermacher (1768-1834), nel 1804. Egli propose di ordinare i dialoghi in base al contenuto, ricostruendo attraverso la loro successione l’elaborazione del sistema filosofico di Platone. Questo criterio è però stato contestato, perché presuppone che Platone avesse già chiaro lo sviluppo del proprio sistema fin dall’inizio; inoltre, la genesi del sistema, che funge da criterio ordinatore, è una ricostruzione e non riflette necessariamente le tappe dell’elaborazione platonica. Proprio questo ragionamento ha indotto Karl Friedrich Hermann (1804-55), nell’opera Storia e sistema nella filosofia platonica, 1839, a contestare l’ordinamento di

Schleiermacher (il quale, ad esempio, poneva come prima opera di Platone il Fedro) e a ricercare all’interno dei dialoghi citazioni e richiami tali da consentire di stabilirne la successione, mentre altri studiosi integrarono tali riferimenti con le numerose indicazioni presenti nelle opere di Aristotele. Campbell, nel 1861, inaugurò il metodo stilometrico, poggiando la ricostruzione sugli aspetti stilistici oggettivi, come l’uso di certe particelle, la presenza o meno dello iato in alcune parole, e cosı̀ via. Nel 1897 Witold Lutosławski, definendo compiutamente questo metodo, partı̀ dall’analisi delle Leggi (sicuramente l’ultimo dialogo, dato che rimase incompiuto per la morte di Platone), individuandovi 500 stilemi (aspetti stilistici univoci). Misurando poi quanti di questi stilemi comparivano negli altri dialoghi, procedette a ritroso, misurando di volta in volta la distanza dalle Leggi. In alcuni casi il contesto in cui è ambientato il dialogo consente di determinare l’epoca in cui è stato scritto, sia pure in modo approssimativo; in altri casi è la combinazione degli aspetti stilistici con i contenuti a fornire agli studiosi elementi se non per una datazione almeno per una cronologia, cioè per stabilire la successione delle diverse opere. In questo modo si è giunti alla classificazione ricordata all’inizio di questa scheda, che è quella oggi più accreditata anche se non l’unica.

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Platone

1. La ricerca sulla virtù

PROFILO

e di coniare il nome corrispondente. Sviluppa poi una serie di analisi filologiche per mostrare come, ad esempio, i nomi degli eroi ne esprimano le caratteristiche e le virtù. La conclusione di Socrate è che i nomi non esprimono la natura delle cose, ma il concetto che se ne è fatto chi ha attribuito alle cose un nome. Quindi, i nomi non servono soltanto a indicare le cose, ma ne insegnano il significato e il concetto e perciò hanno un’importante funzione formativa e didattica.

Il confronto con i sofisti

A. Feuerbach, Il simposio di Platone, 1873, olio su tela (Berlino, Nationalgalerie).

che Socrate ha pronunciato la propria difesa, il tribunale emette la sentenza, che è di condanna. Prima della sentenza l’accusatore avanza la richiesta di pena capitale e Socrate rifiuta di avvalersi della facoltà prevista dalla legge di chiedere una pena alternativa (che tradizionalmente, nel caso della pena di morte, era l’esilio), sostenendo che «il bene più grande per l’uomo è fare ogni giorno ragionamenti sulla virtù e sugli altri argomenti intorno ai quali mi avete ascoltato discutere e sottoporre ad esame me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta» (Apologia di Socrate, 38a, p. 42). Per Socrate la coscienza deve prevalere anche di fronte all’eventualità di una condanna a morte. Il Critone

Della condanna di Socrate si torna a parlare nel Critone, in una prospettiva diversa. Socrate è in carcere, in attesa dell’esecuzione della sentenza, e Critone cerca di indurlo a una fuga organizzata da lui e dagli altri discepoli. Ma Socrate rifiuta: benché ingiusta, la sua condanna è avvenuta sulla base delle leggi di Atene, quelle leggi che lo hanno «generato, allevato, educato» (Critone, 51c, p. 61) e che Socrate immagina vengano a interrogarlo per chiedergli conto del suo comportamento. Le leggi costituiscono il tessuto connettivo della pólis, all’interno della quale l’individuo forma la propria personalità. La fedeltà alla propria coscienza e la fedeltà alle leggi di Atene: sono questi i due punti di riferimento che spingono Socrate ad accettare la condanna.

Il Cratilo

Non tutti i dialoghi giovanili si occupano della virtù, che ne è comunque il tema quasi esclusivo. Nel Cratilo (la cui collocazione tra i dialoghi giovanili è contestata da alcuni studiosi: Francesco Adorno, ad esempio, lo pone tra i dialoghi della vecchiaia – cfr. F. Adorno, Introduzione a Platone, p. 26) si discute infatti il tema del linguaggio, della sua origine e della sua funzione. Prima dell’arrivo di Socrate, due interlocutori si confrontano su tesi diametralmente opposte: Ermogene, uno degli allievi di Socrate, sostiene che i nomi sono per convenzione e sono stati dati dagli uomini in base a un accordo; Cratilo, invece, della scuola di Eraclito, afferma che i nomi rispecchiano la natura della cosa, tanto che conoscendo il nome possiamo comprenderla nella sua vera realtà. Socrate propone una tesi intermedia: i nomi sono stati dati dagli uomini, e a volte esprimono le caratteristiche delle cose, a volte no, anche se dovrebbero farlo. Per questo, sarebbe opportuno che ci fossero dei «legislatori dei nomi», filosofi o consigliati da filosofi, capaci di cogliere la vera realtà della cosa (e Platone usa forse per la prima volta il termine éidos, «forma», per indicare tale realtà)

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Il Protagora e il Gorgia

L’analisi delle singole virtù, sviluppata nei dialoghi minori, rimanda sempre a una definizione che consenta di conoscere che cos’è la virtù in generale. Nei dialoghi che chiudono il periodo socratico, il Protagora e il Gorgia, il tema della virtù è sviluppato in un confronto con i protagonisti della sofistica.

La virtù è scienza?

L’argomento principale del Protagora è se la virtù sia insegnabile o meno. È possibile insegnare a essere virtuosi? Protagora, che come tutti i sofisti si proclama «maestro di virtù», sostiene ovviamente di sı̀, Socrate obietta che in questo caso gli individui virtuosi la insegnerebbero ai propri figli, che quindi sarebbero altrettanto virtuosi, mentre spesso ciò non avviene. Tuttavia Socrate sostiene che essa è una scienza, perché è conoscenza del bene. Ma allora come è possibile che una scienza non possa essere insegnata? Si tratta, evidentemente, di una scienza diversa dalle altre. Protagora, che aveva sostenuto l’insegnabilità della virtù, si adopera d’altro canto a dimostrare che essa non è scienza. Socrate sottolinea ironicamente questo rovesciamento delle parti, concludendo in questo modo il dialogo senza che emerga una tesi comune. Vedremo come la teoria delle idee risolva anche questa apparente contraddizione: la virtù è scienza in quanto conoscenza del bene e del male, una conoscenza però che non si può raggiungere mediante l’insegnamento di altri, ma va scoperta dentro di sé.

La retorica come falsa conoscenza

La critica alla sofistica, presente in secondo piano nel Protagora, è il tema centrale del Gorgia, un dialogo rivolto contro la retorica, che i sofisti facevano oggetto del proprio insegnamento. La retorica, l’arte della persuasione, era diventata per la nuova borghesia lo strumento per una rapida carriera politica, per ottenere potere e per raggiungere il successo personale. Socrate afferma che essa non è scienza, dato che il retore non può convincere il medico su argomenti di medicina, né il calzolaio sulla bontà o meno delle tecniche impiegate. Convince solo chi non è esperto di un’arte, su argomenti che non conosce, quindi non insegna, ma affascina o blandisce con la parola. La retorica sta alla politica come la cosmesi sta alla ginnastica: la seconda forma il fisico, la prima lo abbellisce semplicemente; o ancora, la retorica sta alla giustizia come la culinaria sta alla medicina: questa studia il rapporto tra i cibi e la salute, quella li rende soltanto più gradevoli.

Che cos’è la felicità?

Gli interlocutori di Socrate, Gorgia, ma soprattutto Polo e Callicle, esaltano la retorica come strumento di dominio sugli altri, legando al potere la felicità. Chi è in grado di fare del male ai propri nemici senza subire nessuna pena, è felice. Socrate dimostra, al contrario, che commettere ingiustizia rende infelici, tanto che, dovendo scegliere, è preferibile subirla che farla e, se si commette ingiustizia, la pena non è da evitare, ma da cercare e da accettare come il malato accetta la medicina che può guarirlo. La felicità non consiste neppure, come sostiene Callicle, nel piacere, dato che esso è legato al soddisfacimento di un bisogno e dipende quindi dal dolore. Ma il bene e il male non possono essere congiunti, quindi il primo non si identifica con il piacere.

Felicità e virtù

A differenza degli altri dialoghi socratici, il Gorgia propone tesi che si considerano dimostrate dal dialogo: la felicità (eudaimonı́a) consiste nella virtù, che è temperanza, cioè

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1. La ricerca sulla virtù

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e di coniare il nome corrispondente. Sviluppa poi una serie di analisi filologiche per mostrare come, ad esempio, i nomi degli eroi ne esprimano le caratteristiche e le virtù. La conclusione di Socrate è che i nomi non esprimono la natura delle cose, ma il concetto che se ne è fatto chi ha attribuito alle cose un nome. Quindi, i nomi non servono soltanto a indicare le cose, ma ne insegnano il significato e il concetto e perciò hanno un’importante funzione formativa e didattica.

Il confronto con i sofisti

A. Feuerbach, Il simposio di Platone, 1873, olio su tela (Berlino, Nationalgalerie).

che Socrate ha pronunciato la propria difesa, il tribunale emette la sentenza, che è di condanna. Prima della sentenza l’accusatore avanza la richiesta di pena capitale e Socrate rifiuta di avvalersi della facoltà prevista dalla legge di chiedere una pena alternativa (che tradizionalmente, nel caso della pena di morte, era l’esilio), sostenendo che «il bene più grande per l’uomo è fare ogni giorno ragionamenti sulla virtù e sugli altri argomenti intorno ai quali mi avete ascoltato discutere e sottoporre ad esame me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta» (Apologia di Socrate, 38a, p. 42). Per Socrate la coscienza deve prevalere anche di fronte all’eventualità di una condanna a morte. Il Critone

Della condanna di Socrate si torna a parlare nel Critone, in una prospettiva diversa. Socrate è in carcere, in attesa dell’esecuzione della sentenza, e Critone cerca di indurlo a una fuga organizzata da lui e dagli altri discepoli. Ma Socrate rifiuta: benché ingiusta, la sua condanna è avvenuta sulla base delle leggi di Atene, quelle leggi che lo hanno «generato, allevato, educato» (Critone, 51c, p. 61) e che Socrate immagina vengano a interrogarlo per chiedergli conto del suo comportamento. Le leggi costituiscono il tessuto connettivo della pólis, all’interno della quale l’individuo forma la propria personalità. La fedeltà alla propria coscienza e la fedeltà alle leggi di Atene: sono questi i due punti di riferimento che spingono Socrate ad accettare la condanna.

Il Cratilo

Non tutti i dialoghi giovanili si occupano della virtù, che ne è comunque il tema quasi esclusivo. Nel Cratilo (la cui collocazione tra i dialoghi giovanili è contestata da alcuni studiosi: Francesco Adorno, ad esempio, lo pone tra i dialoghi della vecchiaia – cfr. F. Adorno, Introduzione a Platone, p. 26) si discute infatti il tema del linguaggio, della sua origine e della sua funzione. Prima dell’arrivo di Socrate, due interlocutori si confrontano su tesi diametralmente opposte: Ermogene, uno degli allievi di Socrate, sostiene che i nomi sono per convenzione e sono stati dati dagli uomini in base a un accordo; Cratilo, invece, della scuola di Eraclito, afferma che i nomi rispecchiano la natura della cosa, tanto che conoscendo il nome possiamo comprenderla nella sua vera realtà. Socrate propone una tesi intermedia: i nomi sono stati dati dagli uomini, e a volte esprimono le caratteristiche delle cose, a volte no, anche se dovrebbero farlo. Per questo, sarebbe opportuno che ci fossero dei «legislatori dei nomi», filosofi o consigliati da filosofi, capaci di cogliere la vera realtà della cosa (e Platone usa forse per la prima volta il termine éidos, «forma», per indicare tale realtà)

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Il Protagora e il Gorgia

L’analisi delle singole virtù, sviluppata nei dialoghi minori, rimanda sempre a una definizione che consenta di conoscere che cos’è la virtù in generale. Nei dialoghi che chiudono il periodo socratico, il Protagora e il Gorgia, il tema della virtù è sviluppato in un confronto con i protagonisti della sofistica.

La virtù è scienza?

L’argomento principale del Protagora è se la virtù sia insegnabile o meno. È possibile insegnare a essere virtuosi? Protagora, che come tutti i sofisti si proclama «maestro di virtù», sostiene ovviamente di sı̀, Socrate obietta che in questo caso gli individui virtuosi la insegnerebbero ai propri figli, che quindi sarebbero altrettanto virtuosi, mentre spesso ciò non avviene. Tuttavia Socrate sostiene che essa è una scienza, perché è conoscenza del bene. Ma allora come è possibile che una scienza non possa essere insegnata? Si tratta, evidentemente, di una scienza diversa dalle altre. Protagora, che aveva sostenuto l’insegnabilità della virtù, si adopera d’altro canto a dimostrare che essa non è scienza. Socrate sottolinea ironicamente questo rovesciamento delle parti, concludendo in questo modo il dialogo senza che emerga una tesi comune. Vedremo come la teoria delle idee risolva anche questa apparente contraddizione: la virtù è scienza in quanto conoscenza del bene e del male, una conoscenza però che non si può raggiungere mediante l’insegnamento di altri, ma va scoperta dentro di sé.

La retorica come falsa conoscenza

La critica alla sofistica, presente in secondo piano nel Protagora, è il tema centrale del Gorgia, un dialogo rivolto contro la retorica, che i sofisti facevano oggetto del proprio insegnamento. La retorica, l’arte della persuasione, era diventata per la nuova borghesia lo strumento per una rapida carriera politica, per ottenere potere e per raggiungere il successo personale. Socrate afferma che essa non è scienza, dato che il retore non può convincere il medico su argomenti di medicina, né il calzolaio sulla bontà o meno delle tecniche impiegate. Convince solo chi non è esperto di un’arte, su argomenti che non conosce, quindi non insegna, ma affascina o blandisce con la parola. La retorica sta alla politica come la cosmesi sta alla ginnastica: la seconda forma il fisico, la prima lo abbellisce semplicemente; o ancora, la retorica sta alla giustizia come la culinaria sta alla medicina: questa studia il rapporto tra i cibi e la salute, quella li rende soltanto più gradevoli.

Che cos’è la felicità?

Gli interlocutori di Socrate, Gorgia, ma soprattutto Polo e Callicle, esaltano la retorica come strumento di dominio sugli altri, legando al potere la felicità. Chi è in grado di fare del male ai propri nemici senza subire nessuna pena, è felice. Socrate dimostra, al contrario, che commettere ingiustizia rende infelici, tanto che, dovendo scegliere, è preferibile subirla che farla e, se si commette ingiustizia, la pena non è da evitare, ma da cercare e da accettare come il malato accetta la medicina che può guarirlo. La felicità non consiste neppure, come sostiene Callicle, nel piacere, dato che esso è legato al soddisfacimento di un bisogno e dipende quindi dal dolore. Ma il bene e il male non possono essere congiunti, quindi il primo non si identifica con il piacere.

Felicità e virtù

A differenza degli altri dialoghi socratici, il Gorgia propone tesi che si considerano dimostrate dal dialogo: la felicità (eudaimonı́a) consiste nella virtù, che è temperanza, cioè

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Il destino dell’anima

Platone

ordine ed equilibrio dell’anima. Sul piano politico, cioè relativo alla vita della città, il bene coincide con la giustizia, quindi «il più grande dei mali è l’ingiustizia per colui che la commette» (Gorgia, 509b, p. 916). L’ingiustizia è un male non solo per chi la subisce e per la città nel suo insieme, ma prima di tutto per chi la commette. Infatti il bene è la salute dell’anima, quindi il male maggiore non è la morte, bensı̀ «l’andare nell’Ade con l’anima carica di molte ingiustizie» (Ivi, 522e, p. 927). Rompendo con lo stile dei dialoghi socratici (alcuni critici collocano infatti il Gorgia tra le opere della maturità), Socrate propone una «dimostrazione» di questa tesi mediante la narrazione del primo dei miti escatologici, relativi cioè al destino finale dell’uomo, che ritroveremo in molti dialoghi. Dopo la morte, l’anima affronterà il giudizio degli dèi per essere indirizzata verso le «Isole dei Beati» oppure verso il Tartaro (la regione più profonda degli Inferi). La morte, infatti, separa il corpo dall’anima, e come il cadavere conserva le caratteristiche che il corpo aveva in vita, lo stesso avviene per l’anima, che conserva i segni di tutti i suoi comportamenti passati, dei vizi e dell’ingiustizia, cosı̀ come della virtù e della temperanza. La tesi conclusiva è «che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia più che dal riceverla, che l’uomo deve preoccuparsi non di apparire ma di essere buono, e in privato e in pubblico» (Ivi, 527b, p. 931). Il problema etico si lega quindi strettamente al dualismo anima/corpo e alla natura dell’anima, che sarà trattata in modo approfondito più avanti (vedi Anima e corpo, ragione e passioni, pp. 175 sgg.).

PROFILO

2. Le idee e il rapporto con le cose

Le idee e il rapporto con le cose

2

Idee matematiche idee come essenza trascendente dei valori e delle cose

le idee sono perfette, immutabili e uniche per ogni classe di cose

GUIDA ALLO STUDIO O Perché i dialoghi socratici sono anche detti «aporetici»? O Qual è il loro argomento principale? O Quale rapporto viene stabilito, particolarmente nel Gorgia, tra la virtù e la felicità?

sono

Idee-valori: il bene in sé, il bello in sé, il giusto in sé ecc.

Idee delle cose: la cavallinità, l’umanità ecc.

soluzione del problema del divenire

soluzione del problema della molteplicità

ne

partecipazione (metessi) legate all’esistente mediante

imitazione (mimesi)

il divenire riguarda le imitazioni delle idee, cioè i singoli individui, mentre l’idea è immutabile

consegue esiste un’unica idea per ogni classe di cose

La parte centrale della filosofia di Platone è rappresentata dalla teoria delle idee. Ma che cosa sono le idee? Come devono essere intese?

FILOSOFIA PER IMMAGINI

T1

Partiamo da un esempio tratto, non a caso, dalla matematica, che è al centro degli interessi di Platone insieme alla riflessione sulla virtù. Tutti abbiamo l’idea di triangolo isoscele. Essa non è una semplice generalizzazione di cose reali che hanno più o meno questa forma, perché nella realtà non esistono triangoli isosceli: le superfici delle cose visibili sono infatti irregolari, diverse l’una dall’altra, e in continuo divenire. L’idea di triangolo isoscele è invece unica e immutabile. Essa non è un insieme di percezioni, ma un insieme di proprietà (i lati obliqui uguali, cosı̀ come gli angoli alla base) che valgono per tutta una classe di figure che possiamo immaginare; essa è unica di fronte alla molteplicità dell’esistente e immutabile nel tempo, nonostante cambino le superfici indicate come «triangoli isosceli». Secondo Platone non potremmo definire una superficie esistente come «triangolo isoscele» se non avessimo già in mente l’idea di triangolo e quella più specifica di triangolo isoscele. Le superfici esistenti non sono che esempi imperfetti di questa idea, a partire dalla quale possiamo interpretarle e ricondurle a un modello, o forma, generale (êidos significa appunto «forma», «modello»). Quindi solo applicando all’esperienza le idee la rendiamo significativa e superiamo la molteplicità e il divenire che la caratterizzano. «Non conosciamo le cose con i sensi – scrive Platone nel Teeteto – ma con l’anima, mediante i sensi» (184c-d, pp. 231-32, parafrasi).

Le idee e l’universalità dei valori

Anche se l’esempio delle idee matematiche è particolarmente chiaro e, come vedremo, la matematica ha un’importanza particolare nella filosofia platonica, la prima formulazione della teoria delle idee è legata anche e soprattutto al piano etico, intendendo dare una risposta ai problemi lasciati in sospeso nei dialoghi socratici. Nel Fedone, dove parla in modo

AA

Una discussione su temi astronomici Oggetto di dibattito tra gli studiosi, questo mosaico raffigura, secondo la recente interpretazione dell’archeologo Konrad Gaiser, l’Accademia di Platone, colta in un momento di discussione su problemi astronomici. Questi, da sinistra a destra, i personaggi rappresentati: 1) Eraclide Pontico, che guida la discussione; 2) Speusippo, nipote di Platone e suo successore alla guida dell’Accademia; 3) Platone, in posizione centrale; 4) Eratostene di Cirene, un po’ distanziato dagli altri; 5) Eudosso di Cnido, anch’egli un po’ distanziato; 6) Senocrate; 7) Aristotele, in un atteggiamento un po’ polemico, spiegabile forse sulla base della sua ostilità verso la tesi astronomica di Eraclide Pontico, secondo la quale la Terra si muove e il cielo sta fermo. Accademia di Platone, mosaico della villa di Siminus Stephanus, Pompei, I secolo d. C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).

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MODULO

4

Il destino dell’anima

Platone

ordine ed equilibrio dell’anima. Sul piano politico, cioè relativo alla vita della città, il bene coincide con la giustizia, quindi «il più grande dei mali è l’ingiustizia per colui che la commette» (Gorgia, 509b, p. 916). L’ingiustizia è un male non solo per chi la subisce e per la città nel suo insieme, ma prima di tutto per chi la commette. Infatti il bene è la salute dell’anima, quindi il male maggiore non è la morte, bensı̀ «l’andare nell’Ade con l’anima carica di molte ingiustizie» (Ivi, 522e, p. 927). Rompendo con lo stile dei dialoghi socratici (alcuni critici collocano infatti il Gorgia tra le opere della maturità), Socrate propone una «dimostrazione» di questa tesi mediante la narrazione del primo dei miti escatologici, relativi cioè al destino finale dell’uomo, che ritroveremo in molti dialoghi. Dopo la morte, l’anima affronterà il giudizio degli dèi per essere indirizzata verso le «Isole dei Beati» oppure verso il Tartaro (la regione più profonda degli Inferi). La morte, infatti, separa il corpo dall’anima, e come il cadavere conserva le caratteristiche che il corpo aveva in vita, lo stesso avviene per l’anima, che conserva i segni di tutti i suoi comportamenti passati, dei vizi e dell’ingiustizia, cosı̀ come della virtù e della temperanza. La tesi conclusiva è «che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia più che dal riceverla, che l’uomo deve preoccuparsi non di apparire ma di essere buono, e in privato e in pubblico» (Ivi, 527b, p. 931). Il problema etico si lega quindi strettamente al dualismo anima/corpo e alla natura dell’anima, che sarà trattata in modo approfondito più avanti (vedi Anima e corpo, ragione e passioni, pp. 175 sgg.).

PROFILO

2. Le idee e il rapporto con le cose

Le idee e il rapporto con le cose

2

Idee matematiche idee come essenza trascendente dei valori e delle cose

le idee sono perfette, immutabili e uniche per ogni classe di cose

GUIDA ALLO STUDIO O Perché i dialoghi socratici sono anche detti «aporetici»? O Qual è il loro argomento principale? O Quale rapporto viene stabilito, particolarmente nel Gorgia, tra la virtù e la felicità?

sono

Idee-valori: il bene in sé, il bello in sé, il giusto in sé ecc.

Idee delle cose: la cavallinità, l’umanità ecc.

soluzione del problema del divenire

soluzione del problema della molteplicità

ne

partecipazione (metessi) legate all’esistente mediante

imitazione (mimesi)

il divenire riguarda le imitazioni delle idee, cioè i singoli individui, mentre l’idea è immutabile

consegue esiste un’unica idea per ogni classe di cose

La parte centrale della filosofia di Platone è rappresentata dalla teoria delle idee. Ma che cosa sono le idee? Come devono essere intese?

FILOSOFIA PER IMMAGINI

T1

Partiamo da un esempio tratto, non a caso, dalla matematica, che è al centro degli interessi di Platone insieme alla riflessione sulla virtù. Tutti abbiamo l’idea di triangolo isoscele. Essa non è una semplice generalizzazione di cose reali che hanno più o meno questa forma, perché nella realtà non esistono triangoli isosceli: le superfici delle cose visibili sono infatti irregolari, diverse l’una dall’altra, e in continuo divenire. L’idea di triangolo isoscele è invece unica e immutabile. Essa non è un insieme di percezioni, ma un insieme di proprietà (i lati obliqui uguali, cosı̀ come gli angoli alla base) che valgono per tutta una classe di figure che possiamo immaginare; essa è unica di fronte alla molteplicità dell’esistente e immutabile nel tempo, nonostante cambino le superfici indicate come «triangoli isosceli». Secondo Platone non potremmo definire una superficie esistente come «triangolo isoscele» se non avessimo già in mente l’idea di triangolo e quella più specifica di triangolo isoscele. Le superfici esistenti non sono che esempi imperfetti di questa idea, a partire dalla quale possiamo interpretarle e ricondurle a un modello, o forma, generale (êidos significa appunto «forma», «modello»). Quindi solo applicando all’esperienza le idee la rendiamo significativa e superiamo la molteplicità e il divenire che la caratterizzano. «Non conosciamo le cose con i sensi – scrive Platone nel Teeteto – ma con l’anima, mediante i sensi» (184c-d, pp. 231-32, parafrasi).

Le idee e l’universalità dei valori

Anche se l’esempio delle idee matematiche è particolarmente chiaro e, come vedremo, la matematica ha un’importanza particolare nella filosofia platonica, la prima formulazione della teoria delle idee è legata anche e soprattutto al piano etico, intendendo dare una risposta ai problemi lasciati in sospeso nei dialoghi socratici. Nel Fedone, dove parla in modo

AA

Una discussione su temi astronomici Oggetto di dibattito tra gli studiosi, questo mosaico raffigura, secondo la recente interpretazione dell’archeologo Konrad Gaiser, l’Accademia di Platone, colta in un momento di discussione su problemi astronomici. Questi, da sinistra a destra, i personaggi rappresentati: 1) Eraclide Pontico, che guida la discussione; 2) Speusippo, nipote di Platone e suo successore alla guida dell’Accademia; 3) Platone, in posizione centrale; 4) Eratostene di Cirene, un po’ distanziato dagli altri; 5) Eudosso di Cnido, anch’egli un po’ distanziato; 6) Senocrate; 7) Aristotele, in un atteggiamento un po’ polemico, spiegabile forse sulla base della sua ostilità verso la tesi astronomica di Eraclide Pontico, secondo la quale la Terra si muove e il cielo sta fermo. Accademia di Platone, mosaico della villa di Siminus Stephanus, Pompei, I secolo d. C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).

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MODULO

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Aristotele

PROFILO

5. L’anima e la conoscenza

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FILOSOFIA PER IMMAGINI

L’anima e la conoscenza

La longevità dell’astronomia aristotelico-tolemaica degli astri se non all’interno della teoria della creazione. Come letteralmente illustra questa immagine, senza l’aiuto degli angeli il mondo si fermerebbe.

tre funzioni: • vegetativa • sensitiva • intellettiva

l’anima è forma costituiscono

Se l’astronomia aristotelico-tolemaica è stata una delle teorie più longeve dell’intera storia della scienza, lo si deve sia alla sua forza esplicativa (era in grado di prevedere il moto degli astri con un margine d’errore di circa il 10%) sia alla sua compatibilità con la teologia cristiana.

il corpo è materia

unità inscindibile Il collegamento della psicologia con la filosofia prima è immediato, dato che l’uomo è sostanza e quindi, come tutte le sostanze, è un sinolo di materia e forma, che corrispondono al corpo e all’anima. La filosofia prima è dunque alla base sia della concezione dell’uomo (antropologia, la parte iniziale della mappa) sia della fisica (vedi mappa del cap. 4).

perciò

1) Pur realizzata due millenni dopo, questa immagine sintetizza bene i fondamenti dell’astronomia aristotelica. Al centro, nella regione sublunare, vi è la stratificazione dei quattro elementi: la terra, più pesante, è circondata dall’acqua, dall’aria e infine dal fuoco. 2) Una divergenza fra la dottrina aristotelica e quella cristiana riguardava l’origine del movimento delle sfere celesti. Per Aristotele, infatti, tale movimento, che dalla sfera esterna delle stelle fisse si comunica a quelle interne, si spiega con cause intrinseche al sistema stesso, un meccanismo che per propria natura tende finalisticamente verso Dio, il motore immobile. Per il cristianesimo, invece, non è possibile pensare il movimento

l’anima è mortale

conoscenza articolata in

precede

immaginazione

sensazione

2. Il movimento degli astri Gli angeli tengono in moto l’universo, XIV secolo, miniatura (Milano, Biblioteca Ambrosiana).

precede

intelletto

che

che

che

conosce i singoli individui mediante i cinque sensi e un senso comune

produce immagini e le combina: conoscenza di aspetti comuni

astrae dalle sensazioni e dalle immagini il concetto: conoscenza dell’universale

quindi

la conoscenza inizia dalla sensazione, ma solo l’intelletto può pervenire all’universale

1. Il cosmo aristotelico-tolemaico A. Cellarius, Harmonia Macrocosmica, planisfero del sistema tolemaico, 1660.

L’anima è mortale

Il superamento del dualismo platonico in ambito metafisico viene coerentemente sviluppato anche nella psicologia, lo studio dell’anima (psyché). Tutte le sostanze, cioè tutti gli individui, sono, come abbiamo visto, un sinolo inscindibile di materia e forma. Negli esseri viventi, compreso l’uomo, la forma è l’anima, strettamente congiunta con il corpo e quindi, come esso, mortale. L’anima è prima di tutto il principio della vita e solo secondariamente ha, come per Socrate e per Platone, un significato spirituale.

L’anima è unica

L’anima si differenzia nei diversi esseri viventi a seconda delle funzioni che svolge: abbiamo cosı̀ l’anima vegetativa, propria delle piante, responsabile della nutrizione e della riproduzione; quella sensitiva, caratteristica degli animali, che presiede alle sensazioni e al movimento; infine, l’anima razionale, propria dell’uomo. Non si tratta, come in Platone, di anime che coesistono, distinte l’una dall’altra, ma di un’unica anima che svolge più funzioni: quella razionale, ad esempio, garantisce anche la funzione vegetativa e sensitiva. La sensazione è comune agli animali e all’uomo, che è però il solo a possedere la ragione.

ATTIVITÀ O Qual era il ruolo riservato dall’astronomia aristotelica al Sole? E qual era considerata la differenza fra la zona sublunare e quella iperlunare?

O Quali erano le motivazioni religiose che sottostavano al dogma aristotelico del moto perfetto, uniforme e circolare, dei corpi celesti?

O Quali differenze noti tra la figura 1 e la figura 2? In che modo si coglie nella figura 2 l’intervento della divinità?

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Aristotele

PROFILO

5. L’anima e la conoscenza

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FILOSOFIA PER IMMAGINI

L’anima e la conoscenza

La longevità dell’astronomia aristotelico-tolemaica degli astri se non all’interno della teoria della creazione. Come letteralmente illustra questa immagine, senza l’aiuto degli angeli il mondo si fermerebbe.

tre funzioni: • vegetativa • sensitiva • intellettiva

l’anima è forma costituiscono

Se l’astronomia aristotelico-tolemaica è stata una delle teorie più longeve dell’intera storia della scienza, lo si deve sia alla sua forza esplicativa (era in grado di prevedere il moto degli astri con un margine d’errore di circa il 10%) sia alla sua compatibilità con la teologia cristiana.

il corpo è materia

unità inscindibile Il collegamento della psicologia con la filosofia prima è immediato, dato che l’uomo è sostanza e quindi, come tutte le sostanze, è un sinolo di materia e forma, che corrispondono al corpo e all’anima. La filosofia prima è dunque alla base sia della concezione dell’uomo (antropologia, la parte iniziale della mappa) sia della fisica (vedi mappa del cap. 4).

perciò

1) Pur realizzata due millenni dopo, questa immagine sintetizza bene i fondamenti dell’astronomia aristotelica. Al centro, nella regione sublunare, vi è la stratificazione dei quattro elementi: la terra, più pesante, è circondata dall’acqua, dall’aria e infine dal fuoco. 2) Una divergenza fra la dottrina aristotelica e quella cristiana riguardava l’origine del movimento delle sfere celesti. Per Aristotele, infatti, tale movimento, che dalla sfera esterna delle stelle fisse si comunica a quelle interne, si spiega con cause intrinseche al sistema stesso, un meccanismo che per propria natura tende finalisticamente verso Dio, il motore immobile. Per il cristianesimo, invece, non è possibile pensare il movimento

l’anima è mortale

conoscenza articolata in

precede

immaginazione

sensazione

2. Il movimento degli astri Gli angeli tengono in moto l’universo, XIV secolo, miniatura (Milano, Biblioteca Ambrosiana).

precede

intelletto

che

che

che

conosce i singoli individui mediante i cinque sensi e un senso comune

produce immagini e le combina: conoscenza di aspetti comuni

astrae dalle sensazioni e dalle immagini il concetto: conoscenza dell’universale

quindi

la conoscenza inizia dalla sensazione, ma solo l’intelletto può pervenire all’universale

1. Il cosmo aristotelico-tolemaico A. Cellarius, Harmonia Macrocosmica, planisfero del sistema tolemaico, 1660.

L’anima è mortale

Il superamento del dualismo platonico in ambito metafisico viene coerentemente sviluppato anche nella psicologia, lo studio dell’anima (psyché). Tutte le sostanze, cioè tutti gli individui, sono, come abbiamo visto, un sinolo inscindibile di materia e forma. Negli esseri viventi, compreso l’uomo, la forma è l’anima, strettamente congiunta con il corpo e quindi, come esso, mortale. L’anima è prima di tutto il principio della vita e solo secondariamente ha, come per Socrate e per Platone, un significato spirituale.

L’anima è unica

L’anima si differenzia nei diversi esseri viventi a seconda delle funzioni che svolge: abbiamo cosı̀ l’anima vegetativa, propria delle piante, responsabile della nutrizione e della riproduzione; quella sensitiva, caratteristica degli animali, che presiede alle sensazioni e al movimento; infine, l’anima razionale, propria dell’uomo. Non si tratta, come in Platone, di anime che coesistono, distinte l’una dall’altra, ma di un’unica anima che svolge più funzioni: quella razionale, ad esempio, garantisce anche la funzione vegetativa e sensitiva. La sensazione è comune agli animali e all’uomo, che è però il solo a possedere la ragione.

ATTIVITÀ O Qual era il ruolo riservato dall’astronomia aristotelica al Sole? E qual era considerata la differenza fra la zona sublunare e quella iperlunare?

O Quali erano le motivazioni religiose che sottostavano al dogma aristotelico del moto perfetto, uniforme e circolare, dei corpi celesti?

O Quali differenze noti tra la figura 1 e la figura 2? In che modo si coglie nella figura 2 l’intervento della divinità?

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Aristotele

Sensazione e intelletto

A differenza di quanto avveniva in Platone, comunque, per Aristotele c’è una stretta continuità tra sensazione e intelletto. La conoscenza inizia sempre dai sensi (la celebre frase «non c’è nulla nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi» è una parafrasi della seguente affermazione aristotelica: «Nessuno potrebbe imparare e intendere nulla se non apprendesse nulla coi sensi»: Sull’anima, III, 7, 432a) e avviene per un duplice passaggio dalla potenza all’atto. La facoltà sensitiva è potenza e diviene atto, cioè senziente, solo quando viene avvertita una sensazione. D’altra parte le qualità delle cose sono sensibili, e passano dalla potenza all’atto quando vengono sentite. La sensazione è dunque l’incontro di un momento soggettivo (la facoltà sensitiva, che differisce ad esempio nell’uomo e negli animali, ma anche, in minore misura, tra i diversi uomini) e un dato oggettivo, i sensibili, propri degli enti.

I sensibili comuni

Oltre ai sensibili che corrispondono ai cinque sensi (colori, suoni ecc.), Aristotele individua i cosiddetti sensibili comuni, come il moto o la grandezza, che non sono specifici di un senso in particolare ma ne coinvolgono diversi. A questi sensibili corrisponde un senso comune, che unifica più sensazioni. Esso non è un vero e proprio senso separato dagli altri, ma indica la capacità di due o più sensi di interagire tra di loro. Ad esso va ricondotta, oltre alla percezione dei sensibili comuni, la consapevolezza che accompagna la sensazione, il «sentire di sentire».

L’immagine e il concetto

Le sensazioni sono sempre conoscenza delle qualità delle singole cose o dei singoli individui, ovvero del particolare. La sensazione è affiancata dall’immaginazione (phantası́a), che produce immagini generiche delle cose, ricavando ad esempio dalla visione di molti cavalli concreti l’immagine del cavallo in generale. Inizia cosı̀ un processo di astrazione che porterà alla conoscenza del concetto. L’immagine, però, è comune anche agli animali, che sono in grado di riconoscere un nemico se appartiene a una specie di cui hanno visto esemplari diversi. Il concetto, invece, può essere conosciuto solo dall’uomo perché è l’oggetto dell’anima intellettiva. Se è vero che, diversamente da Platone, per Aristotele la conoscenza inizia dai sensi, è altrettanto vero che anche per lo Stagirita la conoscenza sensoriale è incompleta e non scientifica: mediante essa conosciamo i singoli enti e non gli universali, che sono l’oggetto della scienza. Solo l’intelletto consente di conoscere l’universale, cioè il concetto.

La conoscenza come processo di astrazione

Tale conoscenza avviene per astrazione. Al concetto corrisponde infatti, sul piano ontologico, la forma, che è dentro ogni singolo ente ma non è percepibile dai sensi. Dalla conoscenza di individui appartenenti alla stessa specie, l’intelletto astrae la forma comune a tutti, che sul piano conoscitivo è appunto il concetto. Esso differisce dall’immagine, che coglie ciò che è comune esteriormente, mentre il concetto astrae ciò che fa di un ente quello che è, cioè l’essenza, la forma. L’immagine di «uomo», ad esempio, è la rappresentazione generica di un essere a statura eretta, con due braccia, due gambe ecc.; il concetto di uomo è invece il conoscerlo come animale razionale, dal momento che la razionalità ne costituisce l’essenza.

La conoscenza come passaggio dalla potenza all’atto

Anche la conoscenza intellettiva è il risultato di un processo che vede un duplice passaggio dalla potenza all’atto. Le forme sono intelligibili e vengono intese ad opera della mente, che completa il processo di astrazione, pervenendo alla conoscenza dell’universale che è nelle cose.

Intelletto passivo e intelletto attivo

Fin qui l’analisi di Aristotele non presenta difficoltà. Esaminiamo ora il duplice passaggio dalla potenza all’atto accennato in precedenza. Specularmente a quanto avviene per la sensazione, anche l’intelletto è una facoltà in grado di conoscere l’universale, ma deve passare dalla potenza all’atto del conoscere. Aristotele parla di un intelletto passivo per indicare la possibilità di conoscere tutti i concetti, cui si affianca un intelletto attivo come conoscenza effettiva dei concetti. Ora, come avviene questo passaggio? Ogni uomo, durante la propria vita, conosce realmente un numero limitato di concetti, ma avrebbe potuto co-

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5. L’anima e la conoscenza

PROFILO

noscerne anche altri, quindi potenzialmente può conoscere tutto, anche se attualmente la sua conoscenza è limitata. Platone spiegava il rapporto tra conoscibile e conosciuto ricorrendo alla reminiscenza: ognuno ha visto, durante la permanenza dell’anima nel mondo delle idee, una certa quantità di idee, e il loro insieme rappresenta il conoscibile, che dunque è limitato. Tra queste, possiamo rievocarne, mediante l’educazione e l’esperienza, un numero più o meno ampio, corrispondente alla nostra conoscenza effettiva. Per Aristotele, invece, ogni uomo potenzialmente può apprendere tutto il conoscibile, pertanto il suo intelletto contiene potenzialmente tutti i concetti. Il passaggio dalla potenza all’atto richiede però la presenza dell’atto come guida del processo, quindi i concetti che da conoscibili diventano conosciuti richiedono la presenza degli stessi concetti in atto. Le interpretazioni dell’intelletto attivo

Il loro insieme è ciò che Aristotele chiama intelletto attivo. Egli non specifica però come debba intendersi tale intelletto, né se esso sia individuale o universale (alcuni interpreti posteriori lo identificheranno, ad esempio, con la mente divina). Di esso, però, afferma chiaramente che è immortale (essendo in atto, non può divenire né, quindi, perire). Quando la filosofia aristotelica sarà fatta propria dal cristianesimo, l’intelletto attivo verrà identificato con l’anima immortale, la cui assenza nel sistema aristotelico non si conciliava, evidentemente, con un’interpretazione cristiana.

GUIDA ALLO STUDIO O Come avviene la conoscenza? Che ruolo hanno in essa i sensi e l’intelletto? O Che cosa intende Aristotele per «immaginazione»? Perché è una facoltà intermedia tra i sensi e l’intelletto?

O In che senso la conoscenza è passaggio dalla potenza all’atto? O Che cos’è l’intelletto attivo? Quali problemi interpretativi ha sollevato?

FONTI E SCRITTI

Gli studi psicologici di Aristotele La Psicologia di Aristotele parla della psyché, cioè dell’anima, della sua natura, del fatto se sia o meno mortale ecc. Si tratta quindi di qualcosa che sembra avere poco a che fare con l’odierna psicologia. In parte queste considerazioni sono vere, ma spesso, soprattutto nell’esposizione manualistica, le tesi vengono esposte estrapolandole dal percorso di cui sono la conclusione, che è invece ricco di ricerche e di osservazioni empiriche. Alcune interessanti osservazioni relative a fatti psichici sono raccolte in brevi scritti chiamati nel loro insieme, durante il Medioevo, Parva naturalia. Il titolo, coniato da Egidio Romano verso la fine del XIII secolo, sottolinea come gli argomenti di questi brevi saggi rientrassero secondo Aristotele nell’ambito della fisica, la scienza della natura. Iniziamo la nostra analisi da uno scritto sui sogni (Dei sogni). Aristotele sottolinea in apertura la specificità dei sogni, che non si basano né sulle sensazioni né sul-

l’opinione, sebbene noi siamo convinti di percepire degli oggetti e di poter giudicare le loro qualità (ad esempio, siamo convinti di vedere un cavallo bianco). Spesso ai sogni si accompagnano riflessioni e ragionamenti, anche se sono le prime cose di cui ci dimentichiamo dopo il risveglio. Per questo Aristotele consiglia di soffermarsi sul sogno non appena svegli, per fissarne il ricordo. Per spiegare come sia possibile che nel sonno percepiamo oggetti e situazioni senza che la facoltà sensoriale sia attiva, Aristotele sostiene che i sensi trattengono le sensazioni per un certo periodo di tempo, anche quando l’oggetto che le ha prodotte non è più presente. La persistenza delle sensazioni, variamente deformate dal tempo trascorso, dà luogo alle immagini dei sogni. Soffermandosi sulle deformazioni sensoriali che troviamo sia nei sogni sia nell’esperienza, Aristotele descrive quella che la psicologia definisce

scienze umane

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Aristotele

Sensazione e intelletto

A differenza di quanto avveniva in Platone, comunque, per Aristotele c’è una stretta continuità tra sensazione e intelletto. La conoscenza inizia sempre dai sensi (la celebre frase «non c’è nulla nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi» è una parafrasi della seguente affermazione aristotelica: «Nessuno potrebbe imparare e intendere nulla se non apprendesse nulla coi sensi»: Sull’anima, III, 7, 432a) e avviene per un duplice passaggio dalla potenza all’atto. La facoltà sensitiva è potenza e diviene atto, cioè senziente, solo quando viene avvertita una sensazione. D’altra parte le qualità delle cose sono sensibili, e passano dalla potenza all’atto quando vengono sentite. La sensazione è dunque l’incontro di un momento soggettivo (la facoltà sensitiva, che differisce ad esempio nell’uomo e negli animali, ma anche, in minore misura, tra i diversi uomini) e un dato oggettivo, i sensibili, propri degli enti.

I sensibili comuni

Oltre ai sensibili che corrispondono ai cinque sensi (colori, suoni ecc.), Aristotele individua i cosiddetti sensibili comuni, come il moto o la grandezza, che non sono specifici di un senso in particolare ma ne coinvolgono diversi. A questi sensibili corrisponde un senso comune, che unifica più sensazioni. Esso non è un vero e proprio senso separato dagli altri, ma indica la capacità di due o più sensi di interagire tra di loro. Ad esso va ricondotta, oltre alla percezione dei sensibili comuni, la consapevolezza che accompagna la sensazione, il «sentire di sentire».

L’immagine e il concetto

Le sensazioni sono sempre conoscenza delle qualità delle singole cose o dei singoli individui, ovvero del particolare. La sensazione è affiancata dall’immaginazione (phantası́a), che produce immagini generiche delle cose, ricavando ad esempio dalla visione di molti cavalli concreti l’immagine del cavallo in generale. Inizia cosı̀ un processo di astrazione che porterà alla conoscenza del concetto. L’immagine, però, è comune anche agli animali, che sono in grado di riconoscere un nemico se appartiene a una specie di cui hanno visto esemplari diversi. Il concetto, invece, può essere conosciuto solo dall’uomo perché è l’oggetto dell’anima intellettiva. Se è vero che, diversamente da Platone, per Aristotele la conoscenza inizia dai sensi, è altrettanto vero che anche per lo Stagirita la conoscenza sensoriale è incompleta e non scientifica: mediante essa conosciamo i singoli enti e non gli universali, che sono l’oggetto della scienza. Solo l’intelletto consente di conoscere l’universale, cioè il concetto.

La conoscenza come processo di astrazione

Tale conoscenza avviene per astrazione. Al concetto corrisponde infatti, sul piano ontologico, la forma, che è dentro ogni singolo ente ma non è percepibile dai sensi. Dalla conoscenza di individui appartenenti alla stessa specie, l’intelletto astrae la forma comune a tutti, che sul piano conoscitivo è appunto il concetto. Esso differisce dall’immagine, che coglie ciò che è comune esteriormente, mentre il concetto astrae ciò che fa di un ente quello che è, cioè l’essenza, la forma. L’immagine di «uomo», ad esempio, è la rappresentazione generica di un essere a statura eretta, con due braccia, due gambe ecc.; il concetto di uomo è invece il conoscerlo come animale razionale, dal momento che la razionalità ne costituisce l’essenza.

La conoscenza come passaggio dalla potenza all’atto

Anche la conoscenza intellettiva è il risultato di un processo che vede un duplice passaggio dalla potenza all’atto. Le forme sono intelligibili e vengono intese ad opera della mente, che completa il processo di astrazione, pervenendo alla conoscenza dell’universale che è nelle cose.

Intelletto passivo e intelletto attivo

Fin qui l’analisi di Aristotele non presenta difficoltà. Esaminiamo ora il duplice passaggio dalla potenza all’atto accennato in precedenza. Specularmente a quanto avviene per la sensazione, anche l’intelletto è una facoltà in grado di conoscere l’universale, ma deve passare dalla potenza all’atto del conoscere. Aristotele parla di un intelletto passivo per indicare la possibilità di conoscere tutti i concetti, cui si affianca un intelletto attivo come conoscenza effettiva dei concetti. Ora, come avviene questo passaggio? Ogni uomo, durante la propria vita, conosce realmente un numero limitato di concetti, ma avrebbe potuto co-

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5. L’anima e la conoscenza

PROFILO

noscerne anche altri, quindi potenzialmente può conoscere tutto, anche se attualmente la sua conoscenza è limitata. Platone spiegava il rapporto tra conoscibile e conosciuto ricorrendo alla reminiscenza: ognuno ha visto, durante la permanenza dell’anima nel mondo delle idee, una certa quantità di idee, e il loro insieme rappresenta il conoscibile, che dunque è limitato. Tra queste, possiamo rievocarne, mediante l’educazione e l’esperienza, un numero più o meno ampio, corrispondente alla nostra conoscenza effettiva. Per Aristotele, invece, ogni uomo potenzialmente può apprendere tutto il conoscibile, pertanto il suo intelletto contiene potenzialmente tutti i concetti. Il passaggio dalla potenza all’atto richiede però la presenza dell’atto come guida del processo, quindi i concetti che da conoscibili diventano conosciuti richiedono la presenza degli stessi concetti in atto. Le interpretazioni dell’intelletto attivo

Il loro insieme è ciò che Aristotele chiama intelletto attivo. Egli non specifica però come debba intendersi tale intelletto, né se esso sia individuale o universale (alcuni interpreti posteriori lo identificheranno, ad esempio, con la mente divina). Di esso, però, afferma chiaramente che è immortale (essendo in atto, non può divenire né, quindi, perire). Quando la filosofia aristotelica sarà fatta propria dal cristianesimo, l’intelletto attivo verrà identificato con l’anima immortale, la cui assenza nel sistema aristotelico non si conciliava, evidentemente, con un’interpretazione cristiana.

GUIDA ALLO STUDIO O Come avviene la conoscenza? Che ruolo hanno in essa i sensi e l’intelletto? O Che cosa intende Aristotele per «immaginazione»? Perché è una facoltà intermedia tra i sensi e l’intelletto?

O In che senso la conoscenza è passaggio dalla potenza all’atto? O Che cos’è l’intelletto attivo? Quali problemi interpretativi ha sollevato?

FONTI E SCRITTI

Gli studi psicologici di Aristotele La Psicologia di Aristotele parla della psyché, cioè dell’anima, della sua natura, del fatto se sia o meno mortale ecc. Si tratta quindi di qualcosa che sembra avere poco a che fare con l’odierna psicologia. In parte queste considerazioni sono vere, ma spesso, soprattutto nell’esposizione manualistica, le tesi vengono esposte estrapolandole dal percorso di cui sono la conclusione, che è invece ricco di ricerche e di osservazioni empiriche. Alcune interessanti osservazioni relative a fatti psichici sono raccolte in brevi scritti chiamati nel loro insieme, durante il Medioevo, Parva naturalia. Il titolo, coniato da Egidio Romano verso la fine del XIII secolo, sottolinea come gli argomenti di questi brevi saggi rientrassero secondo Aristotele nell’ambito della fisica, la scienza della natura. Iniziamo la nostra analisi da uno scritto sui sogni (Dei sogni). Aristotele sottolinea in apertura la specificità dei sogni, che non si basano né sulle sensazioni né sul-

l’opinione, sebbene noi siamo convinti di percepire degli oggetti e di poter giudicare le loro qualità (ad esempio, siamo convinti di vedere un cavallo bianco). Spesso ai sogni si accompagnano riflessioni e ragionamenti, anche se sono le prime cose di cui ci dimentichiamo dopo il risveglio. Per questo Aristotele consiglia di soffermarsi sul sogno non appena svegli, per fissarne il ricordo. Per spiegare come sia possibile che nel sonno percepiamo oggetti e situazioni senza che la facoltà sensoriale sia attiva, Aristotele sostiene che i sensi trattengono le sensazioni per un certo periodo di tempo, anche quando l’oggetto che le ha prodotte non è più presente. La persistenza delle sensazioni, variamente deformate dal tempo trascorso, dà luogo alle immagini dei sogni. Soffermandosi sulle deformazioni sensoriali che troviamo sia nei sogni sia nell’esperienza, Aristotele descrive quella che la psicologia definisce

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6. L’etica: virtù e felicità

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ancora «illusione aristotelica»: se facciamo ruotare un oggetto tra due dita accavallate, abbiamo l’impressione di toccare due oggetti e non uno. Ciò dimostra che la sensazione può dipendere anche dallo stesso senso e non soltanto da un oggetto esterno: è un altro dei meccanismi che spiegano i sogni. Durante il sonno, quindi, riemergono sensazioni provate in precedenza o prodotte dai nostri sensi anche senza un oggetto, dando luogo a immagini non nette come quelle della veglia, ma più o meno deformate. Merita una breve analisi anche lo scritto Della memoria e della reminiscenza. Aristotele collega strettamente la memoria all’immagine e questa, a sua volta, alla sensazione. La memoria è dunque un processo che non coinvolge l’intelletto e il ragionamento, come è dimostrato dal fatto che riguarda anche gli animali. Aristotele paragona la memoria alla traccia lasciata da un anello, che permane anche quando ce lo togliamo. Approfondendo il discorso, introduce un’interessante distinzione. La traccia dell’esperienza che chiamiamo ricordo è sempre un’immagine, ma possiamo considerarla sia in quanto ausilio della memoria, che rinvia alle sensazioni da cui è originata, sia come immagine intesa come contenuto mentale, che fa parte, diremmo oggi, dei contenuti psichici indipendentemente dalla sua origine e dalla funzione di aiuto mnemonico. In altri termini i ricordi, una volta acquisiti, fanno parte della nostra psiche e hanno im-

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portanza di per sé, possiamo farne oggetto di riflessione, possono interagire con altre immagini, e cosı̀ via. Diversa dalla memoria è la reminiscenza, o il rammemorare. La prima è un processo meccanico, per cui non possiamo decidere se ricordare o meno. La seconda, invece, è il punto di arrivo di un processo intenzionale, mediante il quale recuperiamo il contenuto che non è parte della coscienza. Riprendendo, anche se in una prospettiva diversa, la teoria platonica, Aristotele ammette l’esistenza di una dimensione inconscia, che è possibile riportare alla coscienza. Dà anche qualche indicazione di metodo: «quand’uno vuole avere la reminiscenza di qualche cosa, farà cosı̀: cercherà di risalire a quel movimento iniziale al quale tiene dietro quello che cerca. Pertanto nel modo più rapido e più bello si producono le reminiscenze che prendono inizio da un principio: in effetti, come i fatti sono correlati tra loro secondo un certo ordine di successione, cosı̀ lo sono pure i movimenti mnemonici» (Della memoria e della reminiscenza, 451 B-452 A, p. 246). E poco più avanti sembra quasi tratteggiare un metodo associativo: «di qui l’opinione che si ha la reminiscenza quando si parta da luoghi mnemonici. E il motivo è che allora si passa velocemente da un punto all’altro: ad esempio dal latte al bianco, dal bianco all’aria, da questa all’umido e da qui uno si ricorda dell’autunno, se davvero cercava questa stagione» (Ivi, 452 A, p. 247).

PROFILO

L’etica è una scienza pratica e in quanto tale si basa su princı̀pi diversi da quelli delle scienze teoretiche. Le relazioni tra questi due ambiti sono però presenti e passano attraverso la concezione dell’anima. Nella seconda parte della mappa precedente abbiamo visto l’importanza che ha l’intelletto, che astrae dall’esperienza il concetto, giungendo quindi alla dimensione universale della conoscenza. L’intelletto e la ragione tornano in due prospettive diverse nella mappa relativa all’etica. Prima di tutto caratterizzano la natura umana e quindi sono la strada mediante cui possiamo raggiungere la felicità. Poi, e in modo conseguente, si esprimono nelle virtù dianoetiche, che conducono alla vita contemplativa e al conseguimento della massima felicità possibile per l’uomo.

La felicità come fine

Il fine delle scienze pratiche è la realizzazione della felicità: l’Etica tratta di quella individuale, la Politica di quella collettiva. Tra le due, Aristotele assegna la preminenza alla seconda, proprio perché il bene dello Stato garantisce la felicità di tutti i cittadini.

La felicità come realizzazione della propria natura

A differenza del Bene platonico, idea universale e quindi unica per tutti, la felicità è un concetto relativo, diverso per i diversi enti. Per Aristotele consiste infatti nella realizzazione della propria natura e dunque varia con il variare della natura stessa. La natura umana si distingue da quella degli altri esseri viventi per la razionalità, e dunque la felicità, per l’uomo, consiste nelle attività che realizzano al massimo grado la sua natura razionale. In generale, ciò significa agire secondo ragione, cioè in modo virtuoso. La virtù, pertanto, costituisce il fine dell’agire umano. In senso più specifico, però, la razionalità si estrinseca soprattutto nelle attività direttamente legate al pensiero, nella vita contemplativa, ossia nella vita dedita allo studio e alla ricerca. Non tutti gli uomini possono però raggiungere questo ideale, anche se tutti possono vivere secondo virtù.

Virtù dianoetiche ed etiche

Aristotele distingue quindi tra due livelli di felicità, cui corrispondono differenti tipi di virtù. La massima realizzazione dell’uomo consiste nelle virtù dianoetiche, legate alla ragione e al pensiero; il livello inferiore, invece, trova espressione nelle virtù etiche, che tutti possono raggiungere, legate al «costume» (éthos), cioè al controllo delle passioni mediante la ragione.

L’etica: virtù e felicità Le virtù etiche

LA FELICITÀ

realizzazione è la della propria natura

dal momento che la natura umana è razionale, allora

felicità = virtù = agire conforme a ragione

medietà

etiche

riguardano

rapporto

ragione-passioni

Virtù e passioni

esempio: coraggio come medietà tra viltà e temerarietà

mediante

Etica abitudine

sono

dianoetiche

288

riguardano

realizzazione dell’anima razionale

sono

• sapienza • intelligenza • scienza • saggezza • arte

producono

LE VIRTÙ

Abbiamo visto come Aristotele si differenzi da Platone per il rifiuto della trascendenza, cui contrappone l’immanenza e la conseguente rivalutazione del mondo visibile. A livello antropologico, il superamento del dualismo platonico si traduce nello stretto legame esistente tra anima e corpo, sinolo inscindibile, mentre per Platone si trattava di due entità etero-

massima felicità per l’uomo: vita contemplativa

Dal greco éthos, «costume», «abitudine», il termine è stato introdotto in filosofia da Aristotele per indicare la scienza pratica che si occupa dei princı̀pi che stanno alla base del comportamento umano e i criteri per valutarne la bontà o meno. In quanto collegata ai costumi, l’etica, in Aristotele, ha una forte connotazione sociale: è all’interno della comunità che si for-

mano le abitudini positive che, sedimentandosi come disposizioni stabili, danno luogo alla virtù. Nella filosofia posteriore «etica» e «morale» verranno usate abitualmente come sinonimi, fino a Hegel che stabilirà una netta distinzione tra «moralità» ed «eticità», attribuendo alla seconda una dimensione sociale e politica.

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MODULO

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Aristotele

6. L’etica: virtù e felicità

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ancora «illusione aristotelica»: se facciamo ruotare un oggetto tra due dita accavallate, abbiamo l’impressione di toccare due oggetti e non uno. Ciò dimostra che la sensazione può dipendere anche dallo stesso senso e non soltanto da un oggetto esterno: è un altro dei meccanismi che spiegano i sogni. Durante il sonno, quindi, riemergono sensazioni provate in precedenza o prodotte dai nostri sensi anche senza un oggetto, dando luogo a immagini non nette come quelle della veglia, ma più o meno deformate. Merita una breve analisi anche lo scritto Della memoria e della reminiscenza. Aristotele collega strettamente la memoria all’immagine e questa, a sua volta, alla sensazione. La memoria è dunque un processo che non coinvolge l’intelletto e il ragionamento, come è dimostrato dal fatto che riguarda anche gli animali. Aristotele paragona la memoria alla traccia lasciata da un anello, che permane anche quando ce lo togliamo. Approfondendo il discorso, introduce un’interessante distinzione. La traccia dell’esperienza che chiamiamo ricordo è sempre un’immagine, ma possiamo considerarla sia in quanto ausilio della memoria, che rinvia alle sensazioni da cui è originata, sia come immagine intesa come contenuto mentale, che fa parte, diremmo oggi, dei contenuti psichici indipendentemente dalla sua origine e dalla funzione di aiuto mnemonico. In altri termini i ricordi, una volta acquisiti, fanno parte della nostra psiche e hanno im-

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portanza di per sé, possiamo farne oggetto di riflessione, possono interagire con altre immagini, e cosı̀ via. Diversa dalla memoria è la reminiscenza, o il rammemorare. La prima è un processo meccanico, per cui non possiamo decidere se ricordare o meno. La seconda, invece, è il punto di arrivo di un processo intenzionale, mediante il quale recuperiamo il contenuto che non è parte della coscienza. Riprendendo, anche se in una prospettiva diversa, la teoria platonica, Aristotele ammette l’esistenza di una dimensione inconscia, che è possibile riportare alla coscienza. Dà anche qualche indicazione di metodo: «quand’uno vuole avere la reminiscenza di qualche cosa, farà cosı̀: cercherà di risalire a quel movimento iniziale al quale tiene dietro quello che cerca. Pertanto nel modo più rapido e più bello si producono le reminiscenze che prendono inizio da un principio: in effetti, come i fatti sono correlati tra loro secondo un certo ordine di successione, cosı̀ lo sono pure i movimenti mnemonici» (Della memoria e della reminiscenza, 451 B-452 A, p. 246). E poco più avanti sembra quasi tratteggiare un metodo associativo: «di qui l’opinione che si ha la reminiscenza quando si parta da luoghi mnemonici. E il motivo è che allora si passa velocemente da un punto all’altro: ad esempio dal latte al bianco, dal bianco all’aria, da questa all’umido e da qui uno si ricorda dell’autunno, se davvero cercava questa stagione» (Ivi, 452 A, p. 247).

PROFILO

L’etica è una scienza pratica e in quanto tale si basa su princı̀pi diversi da quelli delle scienze teoretiche. Le relazioni tra questi due ambiti sono però presenti e passano attraverso la concezione dell’anima. Nella seconda parte della mappa precedente abbiamo visto l’importanza che ha l’intelletto, che astrae dall’esperienza il concetto, giungendo quindi alla dimensione universale della conoscenza. L’intelletto e la ragione tornano in due prospettive diverse nella mappa relativa all’etica. Prima di tutto caratterizzano la natura umana e quindi sono la strada mediante cui possiamo raggiungere la felicità. Poi, e in modo conseguente, si esprimono nelle virtù dianoetiche, che conducono alla vita contemplativa e al conseguimento della massima felicità possibile per l’uomo.

La felicità come fine

Il fine delle scienze pratiche è la realizzazione della felicità: l’Etica tratta di quella individuale, la Politica di quella collettiva. Tra le due, Aristotele assegna la preminenza alla seconda, proprio perché il bene dello Stato garantisce la felicità di tutti i cittadini.

La felicità come realizzazione della propria natura

A differenza del Bene platonico, idea universale e quindi unica per tutti, la felicità è un concetto relativo, diverso per i diversi enti. Per Aristotele consiste infatti nella realizzazione della propria natura e dunque varia con il variare della natura stessa. La natura umana si distingue da quella degli altri esseri viventi per la razionalità, e dunque la felicità, per l’uomo, consiste nelle attività che realizzano al massimo grado la sua natura razionale. In generale, ciò significa agire secondo ragione, cioè in modo virtuoso. La virtù, pertanto, costituisce il fine dell’agire umano. In senso più specifico, però, la razionalità si estrinseca soprattutto nelle attività direttamente legate al pensiero, nella vita contemplativa, ossia nella vita dedita allo studio e alla ricerca. Non tutti gli uomini possono però raggiungere questo ideale, anche se tutti possono vivere secondo virtù.

Virtù dianoetiche ed etiche

Aristotele distingue quindi tra due livelli di felicità, cui corrispondono differenti tipi di virtù. La massima realizzazione dell’uomo consiste nelle virtù dianoetiche, legate alla ragione e al pensiero; il livello inferiore, invece, trova espressione nelle virtù etiche, che tutti possono raggiungere, legate al «costume» (éthos), cioè al controllo delle passioni mediante la ragione.

L’etica: virtù e felicità Le virtù etiche

LA FELICITÀ

realizzazione è la della propria natura

dal momento che la natura umana è razionale, allora

felicità = virtù = agire conforme a ragione

medietà

etiche

riguardano

rapporto

ragione-passioni

Virtù e passioni

esempio: coraggio come medietà tra viltà e temerarietà

mediante

Etica abitudine

sono

dianoetiche

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riguardano

realizzazione dell’anima razionale

sono

• sapienza • intelligenza • scienza • saggezza • arte

producono

LE VIRTÙ

Abbiamo visto come Aristotele si differenzi da Platone per il rifiuto della trascendenza, cui contrappone l’immanenza e la conseguente rivalutazione del mondo visibile. A livello antropologico, il superamento del dualismo platonico si traduce nello stretto legame esistente tra anima e corpo, sinolo inscindibile, mentre per Platone si trattava di due entità etero-

massima felicità per l’uomo: vita contemplativa

Dal greco éthos, «costume», «abitudine», il termine è stato introdotto in filosofia da Aristotele per indicare la scienza pratica che si occupa dei princı̀pi che stanno alla base del comportamento umano e i criteri per valutarne la bontà o meno. In quanto collegata ai costumi, l’etica, in Aristotele, ha una forte connotazione sociale: è all’interno della comunità che si for-

mano le abitudini positive che, sedimentandosi come disposizioni stabili, danno luogo alla virtù. Nella filosofia posteriore «etica» e «morale» verranno usate abitualmente come sinonimi, fino a Hegel che stabilirà una netta distinzione tra «moralità» ed «eticità», attribuendo alla seconda una dimensione sociale e politica.

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Aristotele

PER L’APPROFONDIMENTO

8

Secondo Aristotele, la proprietà privata e l’esclusività degli affetti rappresentano uno stimolo per l’interesse e per l’impegno personale, mentre la proprietà comune dei figli e delle donne deresponsabilizza. Mentre per Platone la proprietà in comune e l’abolizione della famiglia avrebbe contribuito, oltre che a evitare l’uso del potere a fini personali, a una maggiore coesione tra i custodi, per Aristotele vale il contrario: la comunanza dei figli e delle donne genera rivalità e riduce la coesione. Più articolata è l’analisi della proprietà privata in comune. Aristotele individua una serie di gradazioni, che sono da valutare in modo diverso.

Dialogo tra filosofi Aristotele e Platone: La critica alle concezioni politiche

A

ristotele prende in esame il progetto politico di Platone esposto nella Repubblica, nel secondo libro della Politica, criticandone numerosi aspetti e anche il modello generale. In apertura egli contesta l’idea di fondo della Repubblica, l’organicismo, cioè l’intenzione di fare dello Stato una realtà unitaria, simile a un solo individuo.

[...] inoltre, rispetto al fine ch’egli dice doversi assegnare allo stato, il suo piano, com’egli in realtà lo descrive, è impossibile e non è precisato in che modo si deve interpretare: intendo cioè l’unità che lo stato intero deve raggiungere, come il suo bene supremo, la più completa unità: il che Socrate pone quale principio fondamentale. Eppure è chiaro che se uno stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure uno stato, perché lo stato è per sua natura pluralità e diventando sempre più uno si ridurrà a famiglia

da stato e a uomo da famiglia: in realtà dobbiamo ammettere che la famiglia è più una dello stato e l’individuo della famiglia: di conseguenza chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe lo stato. D’altronde uno stato non consiste solo d’una massa di uomini, bensı̀ di uomini specificamente diversi, perché non si costituisce uno stato di elementi uguali. (Politica, 1261a, p. 32)

Il ragionamento di Aristotele può essere cosı̀ riassunto: la società ha origine dalla famiglia, che è la prima associazione di individui, poi abbiamo i villaggi e infine lo Stato. Esso è costituito da una pluralità di classi sociali, di villaggi e ovviamente di famiglie. Tutti questi elementi sono associati nello Stato, ma devono conservare la propria individualità. Se lo Stato fosse una unità, questa articolazione verrebbe meno e lo Stato perderebbe la propria funzione. In questa prospettiva, Aristotele respinge anche la comunione delle donne e dei beni, che caratterizza i guardiani dello stato platonico.

Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto a quel che è proprietà loro, di meno a quel che è possesso comune o, tutt’al più, nei limiti del loro personale interesse: piuttosto se ne disinteressano, oltre il resto, perché suppongono che ci pensi un altro, come nelle opere domestiche molti servi talora eseguono gli ordini peggio che pochi. Cosı̀ per ciascun cittadino ci sono un migliaio di figli, ma non nel senso che sono figli di ciascuno, ma uno qualunque sarà ugualmente figlio di uno qualunque, con la conseguenza che tutti

322

PER L’APPROFONDIMENTO

ugualmente se ne disinteresseranno. [...] Sembra poi che la comunanza delle donne e dei figli sia più utile tra gli agricoltori che tra i custodi perché dove donne e figli sono comuni ci sarà meno amicizia, e conviene che sia cosı̀ tra i sudditi onde obbediscano e non si ribellino. Insomma è necessario che da tale legge risulti proprio il contrario di quel che è giusto producano leggi ben fatte, contrario anche al motivo per cui Socrate ritiene di dover dare quelle disposizioni sui figli e le donne.

(In connessione con tali indagini bisogna esaminare il problema della proprietà, in che modo cioè deve essere disposta per chi vuole avere la migliore costituzione politica: sarà comune o non comune? Questo problema potrebbe essere esaminato anche prescindendo dalle prescrizioni date riguardo ai figli e alle donne e cioè, voglio dire: per quanto concerne la proprietà (anche se quelli sono separati secondo il costume oggi seguito da tutti) è meglio che le proprietà siano in comune ovvero l’uso, e cioè che i fondi siano separati e i frutti si mettano in comune e si consumino (come fanno taluni popoli) o, al contrario, che la terra sia in comune e in comune il lavoro dei campi, i frutti, invece, siano divisi secondo le esigenze

private (si dice, in realtà, che taluni barbari usino siffatto modo di collettivizzazione) o, infine, che fondi e frutti siano in comune? Ora, se i lavoratori dei campi fossero diversi, il caso sarebbe certo differente e più facile, ma se sono proprio loro a lavorarli per sé, la questione della proprietà presenta allora maggiori inconvenienti, perché se tra guadagno e lavoro non c’è proporzione, bensı̀ sproporzione, necessariamente ci saranno rimostranze contro chi guadagna e ricava molto con poco lavoro da parte di chi ricava meno con più lavoro. In generale la vita associata e la comunanza di interessi sono difficili in ogni campo dell’attività umana, ma soprattutto in tale materia. (Politica, 1262b-1263a, pp. 37-38)

Aristotele apprezza l’aiuto reciproco e il considerare in comune la proprietà all’interno della famiglia allargata, ad esempio tra fratelli o anche tra cugini, ma sempre come scelta volontaria, mentre il modello di riferimento dovrebbe comunque rimanere la proprietà privata della famiglia elementare (padre, madre e figli). Possono essere previsti, per il bene comune, anche limiti alla proprietà delle terre, ma non può mai essere messa in discussione, in ogni caso, la proprietà esclusiva dei raccolti e più in generale dei frutti del proprio lavoro. La critica di Aristotele spazia anche su molti altri temi. Non è a suo parere opportuno che i governanti costituiscano una vera e propria casta e siano sempre gli stessi, né che gli altri cittadini non possano ambire a ricoprire cariche pubbliche, togliendo cosı̀ un forte incentivo all’impegno personale e alimentando un clima di insofferenza o di ribellione. Contesta inoltre l’uguaglianza di ruoli tra uomini e donne. Secondo lui, invece, all’uomo spetta il lavoro nei campi, alla donna l’amministrazione e la cura della casa. Infine, secondo Aristotele i guardiani, privati della famiglia e della proprietà, non possono essere felici, come ammette lo stesso Socrate nel Libro IV della Repubblica. Ciò compromette però la possibilità che lo Stato nel suo insieme lo sia, contraddicendo le premesse stesse di Platone e la finalità generale della politica.

(Politica, 1261b-1262a, pp. 34-36)

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Aristotele

PER L’APPROFONDIMENTO

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Secondo Aristotele, la proprietà privata e l’esclusività degli affetti rappresentano uno stimolo per l’interesse e per l’impegno personale, mentre la proprietà comune dei figli e delle donne deresponsabilizza. Mentre per Platone la proprietà in comune e l’abolizione della famiglia avrebbe contribuito, oltre che a evitare l’uso del potere a fini personali, a una maggiore coesione tra i custodi, per Aristotele vale il contrario: la comunanza dei figli e delle donne genera rivalità e riduce la coesione. Più articolata è l’analisi della proprietà privata in comune. Aristotele individua una serie di gradazioni, che sono da valutare in modo diverso.

Dialogo tra filosofi Aristotele e Platone: La critica alle concezioni politiche

A

ristotele prende in esame il progetto politico di Platone esposto nella Repubblica, nel secondo libro della Politica, criticandone numerosi aspetti e anche il modello generale. In apertura egli contesta l’idea di fondo della Repubblica, l’organicismo, cioè l’intenzione di fare dello Stato una realtà unitaria, simile a un solo individuo.

[...] inoltre, rispetto al fine ch’egli dice doversi assegnare allo stato, il suo piano, com’egli in realtà lo descrive, è impossibile e non è precisato in che modo si deve interpretare: intendo cioè l’unità che lo stato intero deve raggiungere, come il suo bene supremo, la più completa unità: il che Socrate pone quale principio fondamentale. Eppure è chiaro che se uno stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure uno stato, perché lo stato è per sua natura pluralità e diventando sempre più uno si ridurrà a famiglia

da stato e a uomo da famiglia: in realtà dobbiamo ammettere che la famiglia è più una dello stato e l’individuo della famiglia: di conseguenza chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe lo stato. D’altronde uno stato non consiste solo d’una massa di uomini, bensı̀ di uomini specificamente diversi, perché non si costituisce uno stato di elementi uguali. (Politica, 1261a, p. 32)

Il ragionamento di Aristotele può essere cosı̀ riassunto: la società ha origine dalla famiglia, che è la prima associazione di individui, poi abbiamo i villaggi e infine lo Stato. Esso è costituito da una pluralità di classi sociali, di villaggi e ovviamente di famiglie. Tutti questi elementi sono associati nello Stato, ma devono conservare la propria individualità. Se lo Stato fosse una unità, questa articolazione verrebbe meno e lo Stato perderebbe la propria funzione. In questa prospettiva, Aristotele respinge anche la comunione delle donne e dei beni, che caratterizza i guardiani dello stato platonico.

Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto a quel che è proprietà loro, di meno a quel che è possesso comune o, tutt’al più, nei limiti del loro personale interesse: piuttosto se ne disinteressano, oltre il resto, perché suppongono che ci pensi un altro, come nelle opere domestiche molti servi talora eseguono gli ordini peggio che pochi. Cosı̀ per ciascun cittadino ci sono un migliaio di figli, ma non nel senso che sono figli di ciascuno, ma uno qualunque sarà ugualmente figlio di uno qualunque, con la conseguenza che tutti

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PER L’APPROFONDIMENTO

ugualmente se ne disinteresseranno. [...] Sembra poi che la comunanza delle donne e dei figli sia più utile tra gli agricoltori che tra i custodi perché dove donne e figli sono comuni ci sarà meno amicizia, e conviene che sia cosı̀ tra i sudditi onde obbediscano e non si ribellino. Insomma è necessario che da tale legge risulti proprio il contrario di quel che è giusto producano leggi ben fatte, contrario anche al motivo per cui Socrate ritiene di dover dare quelle disposizioni sui figli e le donne.

(In connessione con tali indagini bisogna esaminare il problema della proprietà, in che modo cioè deve essere disposta per chi vuole avere la migliore costituzione politica: sarà comune o non comune? Questo problema potrebbe essere esaminato anche prescindendo dalle prescrizioni date riguardo ai figli e alle donne e cioè, voglio dire: per quanto concerne la proprietà (anche se quelli sono separati secondo il costume oggi seguito da tutti) è meglio che le proprietà siano in comune ovvero l’uso, e cioè che i fondi siano separati e i frutti si mettano in comune e si consumino (come fanno taluni popoli) o, al contrario, che la terra sia in comune e in comune il lavoro dei campi, i frutti, invece, siano divisi secondo le esigenze

private (si dice, in realtà, che taluni barbari usino siffatto modo di collettivizzazione) o, infine, che fondi e frutti siano in comune? Ora, se i lavoratori dei campi fossero diversi, il caso sarebbe certo differente e più facile, ma se sono proprio loro a lavorarli per sé, la questione della proprietà presenta allora maggiori inconvenienti, perché se tra guadagno e lavoro non c’è proporzione, bensı̀ sproporzione, necessariamente ci saranno rimostranze contro chi guadagna e ricava molto con poco lavoro da parte di chi ricava meno con più lavoro. In generale la vita associata e la comunanza di interessi sono difficili in ogni campo dell’attività umana, ma soprattutto in tale materia. (Politica, 1262b-1263a, pp. 37-38)

Aristotele apprezza l’aiuto reciproco e il considerare in comune la proprietà all’interno della famiglia allargata, ad esempio tra fratelli o anche tra cugini, ma sempre come scelta volontaria, mentre il modello di riferimento dovrebbe comunque rimanere la proprietà privata della famiglia elementare (padre, madre e figli). Possono essere previsti, per il bene comune, anche limiti alla proprietà delle terre, ma non può mai essere messa in discussione, in ogni caso, la proprietà esclusiva dei raccolti e più in generale dei frutti del proprio lavoro. La critica di Aristotele spazia anche su molti altri temi. Non è a suo parere opportuno che i governanti costituiscano una vera e propria casta e siano sempre gli stessi, né che gli altri cittadini non possano ambire a ricoprire cariche pubbliche, togliendo cosı̀ un forte incentivo all’impegno personale e alimentando un clima di insofferenza o di ribellione. Contesta inoltre l’uguaglianza di ruoli tra uomini e donne. Secondo lui, invece, all’uomo spetta il lavoro nei campi, alla donna l’amministrazione e la cura della casa. Infine, secondo Aristotele i guardiani, privati della famiglia e della proprietà, non possono essere felici, come ammette lo stesso Socrate nel Libro IV della Repubblica. Ciò compromette però la possibilità che lo Stato nel suo insieme lo sia, contraddicendo le premesse stesse di Platone e la finalità generale della politica.

(Politica, 1261b-1262a, pp. 34-36)

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Aristotele

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Nodi di discussione L’intelletto attivo

L’

intelletto attivo è uno dei concetti più complessi e più controversi di Aristotele. Si discuterà a lungo sul carattere universale o individuale, cioè se sia unico o se ve ne sia uno per ogni individuo, coincidendo – nell’interpretazione cristiana – con l’anima. L’intelletto attivo si pone per Aristotele come un’esigenza logica: se ogni passaggio dalla potenza all’atto richiede l’esistenza dell’atto già realizzato, per cui non può esistere il bambino se non esiste l’uomo, né la ghianda senza la quercia, allora la potenzialità di conoscere un’idea presuppone che quest’idea esista come attualmente conosciuta. Ciò non implica, però, che l’intelletto attivo sia immanente ai singoli individui, cosı̀ come «l’uomo» che il bambino è in potenza non è l’uomo che «quel» bambino diventerà, ma l’uomo in generale. Tale esigenza logica viene affermata, ma non analizzata a fondo da Aristotele. Infatti egli parla dell’intelletto attivo, o agente (noûs poietikós), una sola volta nelle sue opere e senza essere molto chiaro: si limita a dire che è qualcosa che sopravviene dall’esterno e che è incorruttibile e quindi immortale, anzi eterno. Lo paragona alla luce che consente di vedere attualmente i colori, che esistono soltanto in potenza finché la luce non li rivela. Allo stesso modo l’intelletto attivo rende attuali i concetti, presenti in potenza nell’intelletto passivo. Aristotele lascia aperti molti problemi: se l’intelletto viene dall’esterno, da dove viene? Se è eterno, come può essere dentro la nostra anima, come egli afferma in un altro passo? È diverso per ogni individuo o è unico per tutti? A queste domande cercano di rispondere i suoi interpreti, proponendo interpretazioni diverse. Per Alessandro d’Afrodisia (II-III secolo) l’intelletto è parte dell’anima individuale e muore con

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PER L’APPROFONDIMENTO

La critica Jaeger: Le novità del metodo di Aristotele

l’individuo. Egli distingue però tra un intelletto passivo, uno «acquisito» (in possesso dei concetti) e uno attivo. L’intelletto passivo, infatti, indica la possibilità di conoscere, ma via via che alcuni concetti passano dalla potenza all’atto, si forma un intelletto «acquisito», costituito dall’insieme delle nostre conoscenze, che è strettamente legato alla nostra individualità. I primi due sono nell’anima dell’uomo, mortale, il terzo è l’intelletto divino. Queste teorie verranno riprese nel Rinascimento italiano dal movimento detto appunto «alessandrismo» e rappresentato in particolare da Pietro Pomponazzi (1462-1525). Il maggiore interprete di Aristotele, Averroè (Ibn Rushd, 1126-98), sviluppando in modo originale le tesi di Alessandro d’Afrodisia, sostiene che l’intelletto attivo non è materiale, e dato che la materia è il principium individuationis, un intelletto immateriale non può che essere universale. Anche l’intelletto passivo, però, contenendo in potenza tutti i concetti, è universale, perché se contiene tutti i concetti non può differire a livello individuale. Quando la successiva filosofia cristiano-medievale riscopre Aristotele, si pone il problema di giustificare, all’interno della sua filosofia, l’immortalità dell’anima, senza la quale sarebbe risultata incompatibile con il cristianesimo. La psyché, in quanto forma dell’individuo, è legata al corpo e come questo mortale. L’unica dimensione spirituale e immortale dell’individuo, in Aristotele, era l’intelletto attivo. Alberto Magno e Tommaso d’Aquino sostengono la presenza, nell’anima individuale, di entrambi gli intelletti, tanto di quello passivo quanto di quello attivo, in seguito alla creazione divina. Dato che l’intelletto attivo, che è immortale, è parte dell’anima, anche questa deve essere immortale.

el Dialogo dei massimi sistemi Galileo Galilei, attraverso le parole di un interlocutore, Salviati, accusa il personaggio che rappresenta l’aristotelismo (Simplicio) di basarsi su un sapere libresco invece che sull’esperienza. In effetti l’aristotelismo del Seicento si presenta come una dottrina dogmatica e contraria alla verifica sperimentale. Invece, come scrive Jaeger nel brano

N

che segue, il metodo di Aristotele dava molta importanza all’osservazione e alla ricerca empirica e si presentava come fortemente innovativo rispetto al panorama culturale dell’epoca. Nel Liceo si studiavano direttamente piante e animali, li si sezionavano, si osservava e si analizzava, e solo alla fine si procedeva a una classificazione generale o alla formulazione di teorie.

I più antichi filosofi della natura sapevano soltanto interpretare, in modo divinatorio, singoli fenomeni sorprendenti. Il contributo dell’Accademia, come si è detto, non era stato quello della silloge e della descrizione particolare, bensı̀ quello della divisione logica in generi e specie universali. Certo, nei suoi ultimi anni, Platone aveva insistito vivamente sull’esigenza di non arrestarsi a mezza strada nel processo della divisione, ma di dividere fino all’indivisibile, per amore di quella compiutezza esauriente che sola poteva rendere sicuro un tal metodo. Ciò si riferiva tuttavia ancora alla specie, e non ai fenomeni sensibili. L’indivisibile di Platone restava pur sempre un universale. Aristotele fu il primo che passò a studiare la realtà sensibile come portatrice dell’universale. Anche rispetto alla precedente empiria dei medici e degli astronomi, questo ideale scientifico costituiva qualcosa di nuovo. Con fatica e pazienza indicibili egli dové condurre i suoi ascoltatori sulla nuova via, e gli

occorse più d’una parola di persuasione e di rimprovero per educare i giovani, abituati all’astratto giuoco concettuale dell’oratoria attica e che per educazione liberale intendevano la capacità di dominare retoricamente e logicamente i problemi politici, o tutt’al più, nel migliore dei casi, la scienza delle alte cose, a studiare con interessamento obbiettivo insetti e lombrichi o a considerare senza ripugnanza estetica, in occasione di sezioni anatomiche, le viscere degli animali. Nell’introduzione dell’opera Sulle parti degli animali egli indirizza a questo genere di ricerca i suoi ascoltatori con sottili chiarimenti metodologici, esprimendo insieme, in forma energicamente suggestiva, la gioia che arreca la scoperta di questo nuovo mondo di misteriose leggi, in cui si rivela l’arte della natura. (W. Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, trad. it. di G. Calogero, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 458-59 [ed. orig. Berlino, 1923])

Düring: La cosmologia di Aristotele

L

a cosmologia aristotelica ha avuto un destino singolare: «stravagante e arbitraria», come viene definita nel brano che segue, costituirà nonostante ciò la teoria di riferimento, in Occidente, per quasi duemila anni, e solo nel XVII secolo verrà definitivamente superata. La sua

longevità è da ricondurre soprattutto al fatto che venne fatta propria dalla Chiesa, ma anche alla concordanza con i dati dell’esperienza comune, che la rendeva facilmente comprensibile e quasi evidente di per sé, come sottolinea Düring.

Il tratto originale della cosmologia di Aristotele è la dottrina dei due movimenti naturali fondamentalmente del tutto diversi, quello rettili-

neo e quello circolare, e la dottrina, dedotta con logica coerenza, dell’eternità del movimento e del mondo. Da queste due assunzioni di fondo

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Aristotele

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Nodi di discussione L’intelletto attivo

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intelletto attivo è uno dei concetti più complessi e più controversi di Aristotele. Si discuterà a lungo sul carattere universale o individuale, cioè se sia unico o se ve ne sia uno per ogni individuo, coincidendo – nell’interpretazione cristiana – con l’anima. L’intelletto attivo si pone per Aristotele come un’esigenza logica: se ogni passaggio dalla potenza all’atto richiede l’esistenza dell’atto già realizzato, per cui non può esistere il bambino se non esiste l’uomo, né la ghianda senza la quercia, allora la potenzialità di conoscere un’idea presuppone che quest’idea esista come attualmente conosciuta. Ciò non implica, però, che l’intelletto attivo sia immanente ai singoli individui, cosı̀ come «l’uomo» che il bambino è in potenza non è l’uomo che «quel» bambino diventerà, ma l’uomo in generale. Tale esigenza logica viene affermata, ma non analizzata a fondo da Aristotele. Infatti egli parla dell’intelletto attivo, o agente (noûs poietikós), una sola volta nelle sue opere e senza essere molto chiaro: si limita a dire che è qualcosa che sopravviene dall’esterno e che è incorruttibile e quindi immortale, anzi eterno. Lo paragona alla luce che consente di vedere attualmente i colori, che esistono soltanto in potenza finché la luce non li rivela. Allo stesso modo l’intelletto attivo rende attuali i concetti, presenti in potenza nell’intelletto passivo. Aristotele lascia aperti molti problemi: se l’intelletto viene dall’esterno, da dove viene? Se è eterno, come può essere dentro la nostra anima, come egli afferma in un altro passo? È diverso per ogni individuo o è unico per tutti? A queste domande cercano di rispondere i suoi interpreti, proponendo interpretazioni diverse. Per Alessandro d’Afrodisia (II-III secolo) l’intelletto è parte dell’anima individuale e muore con

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PER L’APPROFONDIMENTO

La critica Jaeger: Le novità del metodo di Aristotele

l’individuo. Egli distingue però tra un intelletto passivo, uno «acquisito» (in possesso dei concetti) e uno attivo. L’intelletto passivo, infatti, indica la possibilità di conoscere, ma via via che alcuni concetti passano dalla potenza all’atto, si forma un intelletto «acquisito», costituito dall’insieme delle nostre conoscenze, che è strettamente legato alla nostra individualità. I primi due sono nell’anima dell’uomo, mortale, il terzo è l’intelletto divino. Queste teorie verranno riprese nel Rinascimento italiano dal movimento detto appunto «alessandrismo» e rappresentato in particolare da Pietro Pomponazzi (1462-1525). Il maggiore interprete di Aristotele, Averroè (Ibn Rushd, 1126-98), sviluppando in modo originale le tesi di Alessandro d’Afrodisia, sostiene che l’intelletto attivo non è materiale, e dato che la materia è il principium individuationis, un intelletto immateriale non può che essere universale. Anche l’intelletto passivo, però, contenendo in potenza tutti i concetti, è universale, perché se contiene tutti i concetti non può differire a livello individuale. Quando la successiva filosofia cristiano-medievale riscopre Aristotele, si pone il problema di giustificare, all’interno della sua filosofia, l’immortalità dell’anima, senza la quale sarebbe risultata incompatibile con il cristianesimo. La psyché, in quanto forma dell’individuo, è legata al corpo e come questo mortale. L’unica dimensione spirituale e immortale dell’individuo, in Aristotele, era l’intelletto attivo. Alberto Magno e Tommaso d’Aquino sostengono la presenza, nell’anima individuale, di entrambi gli intelletti, tanto di quello passivo quanto di quello attivo, in seguito alla creazione divina. Dato che l’intelletto attivo, che è immortale, è parte dell’anima, anche questa deve essere immortale.

el Dialogo dei massimi sistemi Galileo Galilei, attraverso le parole di un interlocutore, Salviati, accusa il personaggio che rappresenta l’aristotelismo (Simplicio) di basarsi su un sapere libresco invece che sull’esperienza. In effetti l’aristotelismo del Seicento si presenta come una dottrina dogmatica e contraria alla verifica sperimentale. Invece, come scrive Jaeger nel brano

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che segue, il metodo di Aristotele dava molta importanza all’osservazione e alla ricerca empirica e si presentava come fortemente innovativo rispetto al panorama culturale dell’epoca. Nel Liceo si studiavano direttamente piante e animali, li si sezionavano, si osservava e si analizzava, e solo alla fine si procedeva a una classificazione generale o alla formulazione di teorie.

I più antichi filosofi della natura sapevano soltanto interpretare, in modo divinatorio, singoli fenomeni sorprendenti. Il contributo dell’Accademia, come si è detto, non era stato quello della silloge e della descrizione particolare, bensı̀ quello della divisione logica in generi e specie universali. Certo, nei suoi ultimi anni, Platone aveva insistito vivamente sull’esigenza di non arrestarsi a mezza strada nel processo della divisione, ma di dividere fino all’indivisibile, per amore di quella compiutezza esauriente che sola poteva rendere sicuro un tal metodo. Ciò si riferiva tuttavia ancora alla specie, e non ai fenomeni sensibili. L’indivisibile di Platone restava pur sempre un universale. Aristotele fu il primo che passò a studiare la realtà sensibile come portatrice dell’universale. Anche rispetto alla precedente empiria dei medici e degli astronomi, questo ideale scientifico costituiva qualcosa di nuovo. Con fatica e pazienza indicibili egli dové condurre i suoi ascoltatori sulla nuova via, e gli

occorse più d’una parola di persuasione e di rimprovero per educare i giovani, abituati all’astratto giuoco concettuale dell’oratoria attica e che per educazione liberale intendevano la capacità di dominare retoricamente e logicamente i problemi politici, o tutt’al più, nel migliore dei casi, la scienza delle alte cose, a studiare con interessamento obbiettivo insetti e lombrichi o a considerare senza ripugnanza estetica, in occasione di sezioni anatomiche, le viscere degli animali. Nell’introduzione dell’opera Sulle parti degli animali egli indirizza a questo genere di ricerca i suoi ascoltatori con sottili chiarimenti metodologici, esprimendo insieme, in forma energicamente suggestiva, la gioia che arreca la scoperta di questo nuovo mondo di misteriose leggi, in cui si rivela l’arte della natura. (W. Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, trad. it. di G. Calogero, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 458-59 [ed. orig. Berlino, 1923])

Düring: La cosmologia di Aristotele

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a cosmologia aristotelica ha avuto un destino singolare: «stravagante e arbitraria», come viene definita nel brano che segue, costituirà nonostante ciò la teoria di riferimento, in Occidente, per quasi duemila anni, e solo nel XVII secolo verrà definitivamente superata. La sua

longevità è da ricondurre soprattutto al fatto che venne fatta propria dalla Chiesa, ma anche alla concordanza con i dati dell’esperienza comune, che la rendeva facilmente comprensibile e quasi evidente di per sé, come sottolinea Düring.

Il tratto originale della cosmologia di Aristotele è la dottrina dei due movimenti naturali fondamentalmente del tutto diversi, quello rettili-

neo e quello circolare, e la dottrina, dedotta con logica coerenza, dell’eternità del movimento e del mondo. Da queste due assunzioni di fondo

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viene dedotto tutto il resto. L’argomentazione è costruita in modo tale che Aristotele può incorporare nella sua dottrina tutti gli elementi tradizionali della precedente speculazione cosmologica che sono compatibili con queste due assunzioni. Nel confronto polemico con i precursori, e specialmente con Platone, Aristotele sottolinea continuamente il fatto che egli procede a partire dai dati della percezione, e che la sua dottrina concorda con i fatti dell’esperienza quotidiana. La cosa è vera. Ognuno vede che gli elementi possono muoversi spontaneamente in un determinato modo, che il Sole e il cielo stellato si muovono parimenti nella maniera ad essi conforme, e che questi movimenti si suc-

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Aristotele

cedono secondo leggi sempre uguali. Un piccolo numero di osservazioni elementari e corrette forma la base della cosmologia aristotelica. Il resto [...] è la più stravagante e arbitraria costruzione che ci si possa immaginare. Ma questa costruzione non era fine a se stessa; il suo scopo era di rendere comprensibile e di spiegare la struttura del processo naturale nell’universo. Riuscı̀ inoltre ad Aristotele con una teoria in cui quasi tutti i risultati sono falsi, di interpretare con tanta intelligenza i fatti dell’esperienza quotidiana che la sua concezione mantenne una potente forza di convinzione. (I. Düring, Aristotele, trad. it. di P. Donini, Milano, Mursia, 1976, p. 403)

Fonti e scritti La Metafisica

L’

opera si compone di 14 libri, scritti sicuramente in periodi diversi e presumibilmente non tutti autentici. Nel Libro I Aristotele definisce la «Sapienza» come conoscenza delle cause e del principio, che ci dicono non semplicemente che cosa una cosa è, ma perché è. La conoscenza scientifica è dunque un conoscere per cause. Usando come chiave di lettura la conoscenza del principio e delle cause, Aristotele propone un’ampia ricostruzione della filosofia presocratica, mostrando come attraverso gli autori successivi vengano individuate in periodi diversi le cause prime: materiale, efficiente, formale e finale. Il Libro II, la cui autenticità è controversa, è molto breve e sviluppa alcune tesi introduttive allo studio della filosofia, definita come studio delle cause supreme, il cui numero non può essere infinito, altrimenti non sarebbe possibile la conoscenza. L’ultimo capitolo affronta alcune questioni di metodo. Il Libro III individua e discute le aporie che si incontrano nello studio dei princı̀pi, sottolineando che è opportuno chiarire bene le difficoltà prima di intraprendere la ricerca. Enumera 14 aporie (Spetta a una sola scienza o a molte lo studio delle diverse cause? La scienza deve occuparsi solo delle sostanze o anche degli acci-

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denti? ecc.), discutendole anche alla luce delle opinioni dei filosofi precedenti. Il Libro IV, che è uno dei più importanti e probabilmente il più noto, si apre con la definizione della filosofia prima come studio dell’essere in quanto essere (ontologia). Definisce quindi le «molte accezioni» dell’essere, tra cui la principale è quella che lo identifica con la sostanza. Chiarito l’oggetto della metafisica, Aristotele affronta il problema del metodo, sottolineandone il carattere assiomatico e stabilendo, tra gli assiomi fondamentali, il principio di non contraddizione. Il Libro prosegue con una «confutazione degli errori di chi nega il principio di non-contraddizione» e con una critica al relativismo in cui si afferma che ogni proposizione significativa deve necessariamente essere o vera o falsa. In chiusura, Aristotele afferma che «non è neppure possibile che vi sia qualcosa di intermedio tra due enunciati contrari», che è il principio che verrà detto «del terzo escluso». Il Libro V è interamente dedicato alle definizioni dei concetti fondamentali, costituendo un interessante lessico filosofico che comprende, tra gli altri: principio, causa, natura, necessario, essere, sostanza, accidente, potenza ecc.

Il Libro VI riprende la definizione della metafisica e ne individua il posto nel contesto delle scienze. Propone in apertura la distinzione tra scienze teoretiche, pratiche e poietiche e, tra le prime, tra fisica, matematica e metafisica, nella quale Aristotele include anche la teologia. Ripercorre poi le diverse accezioni dell’essere, specificando che si può fare scienza soltanto dell’essere necessario e non di quello contingente. Il Libro VII analizza la principale accezione dell’essere, l’essere come sostanza, individuando quattro diverse definizioni di questo termine: come essenza, come universale, come genere e come sostrato. È proprio l’ultima che viene sviluppata, identificando tale sostrato nel sinolo tra materia e forma. Più complessa è l’analisi dell’essenza: Aristotele nega che essa sia separata dall’essere concreto, ma rappresenta la vera realtà dell’essere concreto, il «che cos’è» dell’essere. In questo senso, l’essenza si predica solo della sostanza e non delle altre categorie ed essa costituisce la definizione della cosa. L’essenza, identificandosi con la sostanza e non con gli altri predicati, costituisce il fondamento dell’identità di una cosa con se stessa. Aristotele si chiede poi, in riferimento alle teorie platoniche, se anche l’universale (l’uomo, l’animale ecc.) sia sostanza, rispondendo in modo negativo. Nel Libro VIII Aristotele riprende la definizione della sostanza come materia, come forma e come sinolo, approfondendo l’analisi dei rapporti tra materia e forma, la prima identificata con la potenza, la seconda con l’atto, mentre la cosa concreta è l’unione dei due momenti. Il Libro IX analizza in modo approfondito i concetti di potenza e atto, in relazione al divenire. La potenza e l’atto costituiscono la spiegazione del divenire, che è il passaggio dall’una all’altro. Il rapporto tra potenza e atto può essere inteso in modi diversi, che Aristotele esemplifica «per induzione», cioè proponendo casi concreti. Nonostante che l’atto venga dopo la potenza, esso è anteriore sia dal punto di vista logico sia dal punto di vista della sostanza. È l’atto che spiega la potenza, per un verso, e che ne determina il divenire, per l’altro. Anche nel tempo, l’atto è anteriore alla potenza secondo certi aspetti: è vero che la potenza precede l’atto per la produzione del singolo individuo (prima viene l’uovo e poi la gallina), ma l’atto precede la potenza come specie (è la gallina, cioè l’atto,

PER L’APPROFONDIMENTO

che produce l’uovo). Nell’ambito del sapere, chi impara passa dalla potenza all’atto, ma l’atto (la scienza che impara) deve preesistere all’apprendimento. Il Libro X è dedicato alla nozione di «uno» nei suoi diversi significati, enunciati in apertura e analizzati nel seguito. Il Libro XI è, per i primi 9 capitoli, una ricapitolazione degli altri libri e in quelli successivi (10-12, ma anche parzialmente il 9) riprende alcune nozioni della Fisica. Di particolare interesse è l’analisi dell’infinito. In quanto attuale, la sua esistenza viene considerata da Aristotele impossibile e ammessa solo come potenzialità mediante il processo, pensabile, di addizione progressiva. Il Libro XII è dedicato alla teologia, cioè al Primo motore immobile, Dio, definito «atto in atto» e «pensiero di pensiero». Aristotele individua quattro tipi di cambiamento, i primi tre (sostanziale, quantitativo e qualitativo) propri solo della sostanza corruttibile. Soltanto il moto locale è compatibile con la sostanza incorruttibile, che costituisce i cieli. Il cambiamento dalla potenza all’atto è determinato dalla dinamica tra la materia e la forma. Tra le tre definizioni di sostanza ricordate sopra, deve esistere, per necessità logica, anche quella immateriale. Infatti, se la materia si identifica con la potenza e la forma con l’atto, la sostanza in atto, priva di potenzialità, deve essere anche immateriale: essa è atto puro o atto in atto. L’esistenza dell’atto puro è necessaria anche come causa prima incausata e come origine del movimento. Il primo motore non può, a sua volta, essere in movimento, altrimenti si dovrebbe ipotizzare un’ulteriore causa, all’infinito. Esso non muove quindi come causa efficiente, poiché dovrebbe in questo caso muoversi, ma come causa finale. Nel Libro XIII Aristotele critica la teoria platonica dei numeri e delle idee come sostanze, sostenendo che non possono avere un’esistenza trascendente, separata dalle cose sensibili. Aristotele ripercorre brevemente la genesi dell’idealismo, evidenziandone i problemi cui intende rispondere ma anche la contraddittorietà della risposta. Nel Libro XIV Aristotele prosegue la critica all’idealismo platonico, soffermandosi in particolare sulle teorie matematiche. Questo capitolo, insieme al precedente, costituisce un’importante documentazione indiretta delle cosiddette «dottrine non scritte» dell’ultimo Platone.

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viene dedotto tutto il resto. L’argomentazione è costruita in modo tale che Aristotele può incorporare nella sua dottrina tutti gli elementi tradizionali della precedente speculazione cosmologica che sono compatibili con queste due assunzioni. Nel confronto polemico con i precursori, e specialmente con Platone, Aristotele sottolinea continuamente il fatto che egli procede a partire dai dati della percezione, e che la sua dottrina concorda con i fatti dell’esperienza quotidiana. La cosa è vera. Ognuno vede che gli elementi possono muoversi spontaneamente in un determinato modo, che il Sole e il cielo stellato si muovono parimenti nella maniera ad essi conforme, e che questi movimenti si suc-

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cedono secondo leggi sempre uguali. Un piccolo numero di osservazioni elementari e corrette forma la base della cosmologia aristotelica. Il resto [...] è la più stravagante e arbitraria costruzione che ci si possa immaginare. Ma questa costruzione non era fine a se stessa; il suo scopo era di rendere comprensibile e di spiegare la struttura del processo naturale nell’universo. Riuscı̀ inoltre ad Aristotele con una teoria in cui quasi tutti i risultati sono falsi, di interpretare con tanta intelligenza i fatti dell’esperienza quotidiana che la sua concezione mantenne una potente forza di convinzione. (I. Düring, Aristotele, trad. it. di P. Donini, Milano, Mursia, 1976, p. 403)

Fonti e scritti La Metafisica

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opera si compone di 14 libri, scritti sicuramente in periodi diversi e presumibilmente non tutti autentici. Nel Libro I Aristotele definisce la «Sapienza» come conoscenza delle cause e del principio, che ci dicono non semplicemente che cosa una cosa è, ma perché è. La conoscenza scientifica è dunque un conoscere per cause. Usando come chiave di lettura la conoscenza del principio e delle cause, Aristotele propone un’ampia ricostruzione della filosofia presocratica, mostrando come attraverso gli autori successivi vengano individuate in periodi diversi le cause prime: materiale, efficiente, formale e finale. Il Libro II, la cui autenticità è controversa, è molto breve e sviluppa alcune tesi introduttive allo studio della filosofia, definita come studio delle cause supreme, il cui numero non può essere infinito, altrimenti non sarebbe possibile la conoscenza. L’ultimo capitolo affronta alcune questioni di metodo. Il Libro III individua e discute le aporie che si incontrano nello studio dei princı̀pi, sottolineando che è opportuno chiarire bene le difficoltà prima di intraprendere la ricerca. Enumera 14 aporie (Spetta a una sola scienza o a molte lo studio delle diverse cause? La scienza deve occuparsi solo delle sostanze o anche degli acci-

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denti? ecc.), discutendole anche alla luce delle opinioni dei filosofi precedenti. Il Libro IV, che è uno dei più importanti e probabilmente il più noto, si apre con la definizione della filosofia prima come studio dell’essere in quanto essere (ontologia). Definisce quindi le «molte accezioni» dell’essere, tra cui la principale è quella che lo identifica con la sostanza. Chiarito l’oggetto della metafisica, Aristotele affronta il problema del metodo, sottolineandone il carattere assiomatico e stabilendo, tra gli assiomi fondamentali, il principio di non contraddizione. Il Libro prosegue con una «confutazione degli errori di chi nega il principio di non-contraddizione» e con una critica al relativismo in cui si afferma che ogni proposizione significativa deve necessariamente essere o vera o falsa. In chiusura, Aristotele afferma che «non è neppure possibile che vi sia qualcosa di intermedio tra due enunciati contrari», che è il principio che verrà detto «del terzo escluso». Il Libro V è interamente dedicato alle definizioni dei concetti fondamentali, costituendo un interessante lessico filosofico che comprende, tra gli altri: principio, causa, natura, necessario, essere, sostanza, accidente, potenza ecc.

Il Libro VI riprende la definizione della metafisica e ne individua il posto nel contesto delle scienze. Propone in apertura la distinzione tra scienze teoretiche, pratiche e poietiche e, tra le prime, tra fisica, matematica e metafisica, nella quale Aristotele include anche la teologia. Ripercorre poi le diverse accezioni dell’essere, specificando che si può fare scienza soltanto dell’essere necessario e non di quello contingente. Il Libro VII analizza la principale accezione dell’essere, l’essere come sostanza, individuando quattro diverse definizioni di questo termine: come essenza, come universale, come genere e come sostrato. È proprio l’ultima che viene sviluppata, identificando tale sostrato nel sinolo tra materia e forma. Più complessa è l’analisi dell’essenza: Aristotele nega che essa sia separata dall’essere concreto, ma rappresenta la vera realtà dell’essere concreto, il «che cos’è» dell’essere. In questo senso, l’essenza si predica solo della sostanza e non delle altre categorie ed essa costituisce la definizione della cosa. L’essenza, identificandosi con la sostanza e non con gli altri predicati, costituisce il fondamento dell’identità di una cosa con se stessa. Aristotele si chiede poi, in riferimento alle teorie platoniche, se anche l’universale (l’uomo, l’animale ecc.) sia sostanza, rispondendo in modo negativo. Nel Libro VIII Aristotele riprende la definizione della sostanza come materia, come forma e come sinolo, approfondendo l’analisi dei rapporti tra materia e forma, la prima identificata con la potenza, la seconda con l’atto, mentre la cosa concreta è l’unione dei due momenti. Il Libro IX analizza in modo approfondito i concetti di potenza e atto, in relazione al divenire. La potenza e l’atto costituiscono la spiegazione del divenire, che è il passaggio dall’una all’altro. Il rapporto tra potenza e atto può essere inteso in modi diversi, che Aristotele esemplifica «per induzione», cioè proponendo casi concreti. Nonostante che l’atto venga dopo la potenza, esso è anteriore sia dal punto di vista logico sia dal punto di vista della sostanza. È l’atto che spiega la potenza, per un verso, e che ne determina il divenire, per l’altro. Anche nel tempo, l’atto è anteriore alla potenza secondo certi aspetti: è vero che la potenza precede l’atto per la produzione del singolo individuo (prima viene l’uovo e poi la gallina), ma l’atto precede la potenza come specie (è la gallina, cioè l’atto,

PER L’APPROFONDIMENTO

che produce l’uovo). Nell’ambito del sapere, chi impara passa dalla potenza all’atto, ma l’atto (la scienza che impara) deve preesistere all’apprendimento. Il Libro X è dedicato alla nozione di «uno» nei suoi diversi significati, enunciati in apertura e analizzati nel seguito. Il Libro XI è, per i primi 9 capitoli, una ricapitolazione degli altri libri e in quelli successivi (10-12, ma anche parzialmente il 9) riprende alcune nozioni della Fisica. Di particolare interesse è l’analisi dell’infinito. In quanto attuale, la sua esistenza viene considerata da Aristotele impossibile e ammessa solo come potenzialità mediante il processo, pensabile, di addizione progressiva. Il Libro XII è dedicato alla teologia, cioè al Primo motore immobile, Dio, definito «atto in atto» e «pensiero di pensiero». Aristotele individua quattro tipi di cambiamento, i primi tre (sostanziale, quantitativo e qualitativo) propri solo della sostanza corruttibile. Soltanto il moto locale è compatibile con la sostanza incorruttibile, che costituisce i cieli. Il cambiamento dalla potenza all’atto è determinato dalla dinamica tra la materia e la forma. Tra le tre definizioni di sostanza ricordate sopra, deve esistere, per necessità logica, anche quella immateriale. Infatti, se la materia si identifica con la potenza e la forma con l’atto, la sostanza in atto, priva di potenzialità, deve essere anche immateriale: essa è atto puro o atto in atto. L’esistenza dell’atto puro è necessaria anche come causa prima incausata e come origine del movimento. Il primo motore non può, a sua volta, essere in movimento, altrimenti si dovrebbe ipotizzare un’ulteriore causa, all’infinito. Esso non muove quindi come causa efficiente, poiché dovrebbe in questo caso muoversi, ma come causa finale. Nel Libro XIII Aristotele critica la teoria platonica dei numeri e delle idee come sostanze, sostenendo che non possono avere un’esistenza trascendente, separata dalle cose sensibili. Aristotele ripercorre brevemente la genesi dell’idealismo, evidenziandone i problemi cui intende rispondere ma anche la contraddittorietà della risposta. Nel Libro XIV Aristotele prosegue la critica all’idealismo platonico, soffermandosi in particolare sulle teorie matematiche. Questo capitolo, insieme al precedente, costituisce un’importante documentazione indiretta delle cosiddette «dottrine non scritte» dell’ultimo Platone.

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L’Etica Nicomachea

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pera della piena maturità di Aristotele, prende il nome, presumibilmente, dal figlio, cui è indirizzata. Si compone di 10 libri, che trattano del metodo della ricerca e del concetto di «bene» (I), delle virtù etiche e dianoetiche (IIVI), delle passioni e del piacere (VII), dell’amicizia (VIII-IX), della vita contemplativa (X). Il primo Libro si apre con la definizione dell’oggetto e del metodo dell’etica. Essa va compresa nell’ambito della politica, intesa in senso lato come la scienza che organizza nel modo migliore la vita della pólis. Il fine deve essere il bene più importante. Il metodo non può essere dimostrativo, perché l’etica è una scienza pratica e non teoretica e quindi non studia un oggetto già dato, indipendente dall’uomo, ma studia ciò che l’uomo stesso produce. Come tale non è né oggettivo né necessario, di conseguenza non è suscettibile di dimostrazione. Il problema preliminare è determinare quale sia il bene supremo per l’uomo. Secondo l’analisi di Aristotele, esso consiste nella felicità, intesa come ciò che è conforme alla natura di ognuno; quella umana è quindi l’attività dell’anima conforme a ragione. Aristotele analizza i mezzi per raggiungerla. Dato che la felicità è «un’attività dell’anima conforme a una virtù perfetta» [13, 1102a, p. 25], per far ciò, è necessario chiedersi che cosa sia la virtù e sviluppare un’indagine intorno a essa, operando la distinzione tra virtù dianoetiche e virtù etiche. Il Libro II è interamente dedicato alle virtù etiche. In questa accezione, la virtù viene definita da Aristotele come una medietà tra due eccessi, disposizione che si acquisisce mediante l’abitudine, la ripetizione di comportamenti virtuosi. Nei paragrafi successivi, Aristotele chiarisce il rapporto tra passioni e virtù: le passioni non sono contrarie alla virtù, purché siano disciplinate dalla ragione. Riprende poi la definizione della virtù come «giusto mezzo», chiarendo però che non è uguale per tutti gli individui, né che in tutti i casi è cosı̀: ad esempio, la malignità, l’imprudenza, l’invidia sono comunque vizi, cosı̀ come l’adulterio, l’omicidio, il furto sono sempre azioni riprovevoli. Nel Libro III Aristotele affronta il problema dell’azione morale, distinguendo tra azioni volontarie e involontarie: solo le prime possono essere considerate morali o meno. Aristotele ri-

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tiene involontarie le azioni compiute per forza o per ignoranza, queste ultime purché producano poi dolore e pentimento. Le definizioni non sono comunque mai assolute, ma sempre relative alle diverse circostanze, e Aristotele propone una ricca casistica. Nella restante parte del Libro, Aristotele inizia l’analisi delle singole virtù che proseguirà nel Libro successivo. Qui vengono prese in considerazione il coraggio (parr. 6-9) e la moderazione (parr. 10-12). Nel Libro IV Aristotele prosegue l’analisi delle singole virtù, parlando della generosità (par. 1), della magnificenza (parr. 2-3), del giusto desiderio di onori (par. 4), della mansuetudine, dell’amabilità ecc. Il Libro V è interamente dedicato alla trattazione della giustizia. Interpretando in ogni caso la giustizia come medietà, Aristotele distingue tra quella distributiva, che riguarda la società, e quella correttiva, che riguarda i rapporti tra privati. In entrambi i casi la giustizia è una proporzione, in senso matematico. Ma mentre per la giustizia distributiva ciò che viene dato deve essere proporzionato al contributo di ognuno al benessere della comunità, diversi sono i criteri della giustizia commutativa, o «regolatrice», a seconda dei rapporti esistenti tra i privati interessati, delle circostanze, dell’entità del danno da riparare ecc. Dopo aver analizzato in dettaglio la «legge del taglione» dimostrandone la sostanziale ingiustizia, Aristotele propone l’importante distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, il primo valido sempre e ovunque, il secondo dipendente dalle leggi specifiche dei singoli popoli. Il libro si chiude con alcune considerazioni sul commettere ingiustizia (volontarietà ecc.) e sulla convenienza e sul conveniente come distinti dal giusto. Il Libro VI è dedicato all’analisi delle virtù dianoetiche, che sono la scienza, l’arte, la saggezza, l’intelligenza e la sapienza. Il Libro VII affronta il tema della continenza e dell’incontinenza, cioè del cedere o meno ai piaceri del mangiare, del bere e del sesso. Aristotele confuta la tesi socratica secondo cui chi pecca lo fa per ignoranza del bene e sostiene che l’incontinenza dipende dalla costituzione individuale, cioè dalla diversa forza che nei diversi individui hanno le pulsioni del corpo. Per

questo, l’incontinente non deve essere considerato malvagio, ma «come chi dorme o è ubriaco» [p. 184]. Nella seconda parte del Libro, Aristotele approfondisce il tema del piacere, che di per sé non è da condannare. La posizione di Aristotele è articolata: da un lato occorre considerare la natura del piacere, perché ve ne sono di moralmente positivi e di negativi, dall’altra le propensioni individuali, perché non tutti i piaceri sono tali per tutti. La conclusione cui perviene è che il piacere va considerato, in generale, come un bene, anche se occorre distinguere tra i diversi piaceri e, soprattutto, è necessario evitare ogni eccesso. I Libri VIII e IX sono per intero dedicati all’amicizia, considerata da Aristotele una virtù in senso proprio. Aristotele analizza i diversi tipi di amicizia, ordinandoli in modo gerarchico. Al livello più basso troviamo quella basata sull’utile, seguita da quella che deriva dal piacere, fino al livello più elevato, rappresentato dall’amicizia disinteressata, basata sull’affinità intellettuale.

PER L’APPROFONDIMENTO

Nel Libro IX Aristotele prende in esame sentimenti simili all’amicizia, quali la benevolenza, la concordia, la riconoscenza ecc., illustrandone le caratteristiche precipue. Il Libro X si apre con una ripresa del tema del piacere, già affrontato nel Libro VII. I piaceri vengono legati alla virtù: sono definiti buoni quelli legati ad attività virtuose. Ma il tema centrale del Libro è quello della felicità, considerata come il fine delle azioni umane. Dopo averla distinta dal divertimento, Aristotele definisce la felicità come attività conforme a virtù; quella conforme alla virtù superiore produrrà perciò il grado più elevato di felicità e quindi la vita contemplativa è connessa alla massima felicità possibile per l’uomo. Esiste tuttavia un ordinamento gerarchico della felicità, in base alla virtù prevalente nell’attività (professionale, lavorativa) cui ci si dedica. Subito dopo la vita contemplativa, Aristotele pone quella conforme alla virtù etica, riferendosi in modo specifico alla politica. Il libro si chiude con l’annuncio dell’opera relativa a questo tema.

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L’Etica Nicomachea

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pera della piena maturità di Aristotele, prende il nome, presumibilmente, dal figlio, cui è indirizzata. Si compone di 10 libri, che trattano del metodo della ricerca e del concetto di «bene» (I), delle virtù etiche e dianoetiche (IIVI), delle passioni e del piacere (VII), dell’amicizia (VIII-IX), della vita contemplativa (X). Il primo Libro si apre con la definizione dell’oggetto e del metodo dell’etica. Essa va compresa nell’ambito della politica, intesa in senso lato come la scienza che organizza nel modo migliore la vita della pólis. Il fine deve essere il bene più importante. Il metodo non può essere dimostrativo, perché l’etica è una scienza pratica e non teoretica e quindi non studia un oggetto già dato, indipendente dall’uomo, ma studia ciò che l’uomo stesso produce. Come tale non è né oggettivo né necessario, di conseguenza non è suscettibile di dimostrazione. Il problema preliminare è determinare quale sia il bene supremo per l’uomo. Secondo l’analisi di Aristotele, esso consiste nella felicità, intesa come ciò che è conforme alla natura di ognuno; quella umana è quindi l’attività dell’anima conforme a ragione. Aristotele analizza i mezzi per raggiungerla. Dato che la felicità è «un’attività dell’anima conforme a una virtù perfetta» [13, 1102a, p. 25], per far ciò, è necessario chiedersi che cosa sia la virtù e sviluppare un’indagine intorno a essa, operando la distinzione tra virtù dianoetiche e virtù etiche. Il Libro II è interamente dedicato alle virtù etiche. In questa accezione, la virtù viene definita da Aristotele come una medietà tra due eccessi, disposizione che si acquisisce mediante l’abitudine, la ripetizione di comportamenti virtuosi. Nei paragrafi successivi, Aristotele chiarisce il rapporto tra passioni e virtù: le passioni non sono contrarie alla virtù, purché siano disciplinate dalla ragione. Riprende poi la definizione della virtù come «giusto mezzo», chiarendo però che non è uguale per tutti gli individui, né che in tutti i casi è cosı̀: ad esempio, la malignità, l’imprudenza, l’invidia sono comunque vizi, cosı̀ come l’adulterio, l’omicidio, il furto sono sempre azioni riprovevoli. Nel Libro III Aristotele affronta il problema dell’azione morale, distinguendo tra azioni volontarie e involontarie: solo le prime possono essere considerate morali o meno. Aristotele ri-

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tiene involontarie le azioni compiute per forza o per ignoranza, queste ultime purché producano poi dolore e pentimento. Le definizioni non sono comunque mai assolute, ma sempre relative alle diverse circostanze, e Aristotele propone una ricca casistica. Nella restante parte del Libro, Aristotele inizia l’analisi delle singole virtù che proseguirà nel Libro successivo. Qui vengono prese in considerazione il coraggio (parr. 6-9) e la moderazione (parr. 10-12). Nel Libro IV Aristotele prosegue l’analisi delle singole virtù, parlando della generosità (par. 1), della magnificenza (parr. 2-3), del giusto desiderio di onori (par. 4), della mansuetudine, dell’amabilità ecc. Il Libro V è interamente dedicato alla trattazione della giustizia. Interpretando in ogni caso la giustizia come medietà, Aristotele distingue tra quella distributiva, che riguarda la società, e quella correttiva, che riguarda i rapporti tra privati. In entrambi i casi la giustizia è una proporzione, in senso matematico. Ma mentre per la giustizia distributiva ciò che viene dato deve essere proporzionato al contributo di ognuno al benessere della comunità, diversi sono i criteri della giustizia commutativa, o «regolatrice», a seconda dei rapporti esistenti tra i privati interessati, delle circostanze, dell’entità del danno da riparare ecc. Dopo aver analizzato in dettaglio la «legge del taglione» dimostrandone la sostanziale ingiustizia, Aristotele propone l’importante distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, il primo valido sempre e ovunque, il secondo dipendente dalle leggi specifiche dei singoli popoli. Il libro si chiude con alcune considerazioni sul commettere ingiustizia (volontarietà ecc.) e sulla convenienza e sul conveniente come distinti dal giusto. Il Libro VI è dedicato all’analisi delle virtù dianoetiche, che sono la scienza, l’arte, la saggezza, l’intelligenza e la sapienza. Il Libro VII affronta il tema della continenza e dell’incontinenza, cioè del cedere o meno ai piaceri del mangiare, del bere e del sesso. Aristotele confuta la tesi socratica secondo cui chi pecca lo fa per ignoranza del bene e sostiene che l’incontinenza dipende dalla costituzione individuale, cioè dalla diversa forza che nei diversi individui hanno le pulsioni del corpo. Per

questo, l’incontinente non deve essere considerato malvagio, ma «come chi dorme o è ubriaco» [p. 184]. Nella seconda parte del Libro, Aristotele approfondisce il tema del piacere, che di per sé non è da condannare. La posizione di Aristotele è articolata: da un lato occorre considerare la natura del piacere, perché ve ne sono di moralmente positivi e di negativi, dall’altra le propensioni individuali, perché non tutti i piaceri sono tali per tutti. La conclusione cui perviene è che il piacere va considerato, in generale, come un bene, anche se occorre distinguere tra i diversi piaceri e, soprattutto, è necessario evitare ogni eccesso. I Libri VIII e IX sono per intero dedicati all’amicizia, considerata da Aristotele una virtù in senso proprio. Aristotele analizza i diversi tipi di amicizia, ordinandoli in modo gerarchico. Al livello più basso troviamo quella basata sull’utile, seguita da quella che deriva dal piacere, fino al livello più elevato, rappresentato dall’amicizia disinteressata, basata sull’affinità intellettuale.

PER L’APPROFONDIMENTO

Nel Libro IX Aristotele prende in esame sentimenti simili all’amicizia, quali la benevolenza, la concordia, la riconoscenza ecc., illustrandone le caratteristiche precipue. Il Libro X si apre con una ripresa del tema del piacere, già affrontato nel Libro VII. I piaceri vengono legati alla virtù: sono definiti buoni quelli legati ad attività virtuose. Ma il tema centrale del Libro è quello della felicità, considerata come il fine delle azioni umane. Dopo averla distinta dal divertimento, Aristotele definisce la felicità come attività conforme a virtù; quella conforme alla virtù superiore produrrà perciò il grado più elevato di felicità e quindi la vita contemplativa è connessa alla massima felicità possibile per l’uomo. Esiste tuttavia un ordinamento gerarchico della felicità, in base alla virtù prevalente nell’attività (professionale, lavorativa) cui ci si dedica. Subito dopo la vita contemplativa, Aristotele pone quella conforme alla virtù etica, riferendosi in modo specifico alla politica. Il libro si chiude con l’annuncio dell’opera relativa a questo tema.

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QUESTIONI CHE CONTANO

QUESTIONI CHE CONTANO FILOSOFIA E CITTADINANZA

Etica e diritto: il problema della responsabilità Etica e diritto sono due ambiti distinti. L’etica si riferisce ai princı̀pi dai quali discendono le regole di comportamento che ognuno si dà, volontariamente e consapevolmente; il diritto riguarda invece le leggi, cioè le norme obbligatorie che ogni individuo deve rispettare in quanto membro di uno Stato. Nel nostro Codice penale la questione della responsabilità è molto importante. Possono essere sanzionate solo le azioni che implicano responsabilità, e alcune distinzioni, come vedremo, richiamano quelle di Aristotele. Si distingue intanto tra responsabilità civile e penale. La prima, in generale, consiste in un danno provocato ad altre persone, senza commettere reati sanzionati penalmente. In questo caso, la responsabilità è circoscritta alla riparazione del danno, mediante indennizzo, solo su richiesta della parte lesa. Ad esempio, se urto involontariamente una persona ed essa, cadendo, si frattura un braccio, sono tenuto a rimborsarle le spese mediche e il periodo di inattività lavorativa, ma non ho alcuna responsabilità penale. Questa seconda responsabilità, invece, riguarda comportamenti sanciti dalla legge come reati, poiché considerati di tale gravità che comportano un’offesa per la collettività nel suo insieme. In questo caso, le pene sono in genere di tipo detentivo e il reo viene giudicato indipendentemente dal fatto che la persona lesa lo denunci o meno. La responsabilità civile sussiste sempre, ogni volta che il mio comportamento provoca un danno, anche se non voluto. Quella penale, invece, presuppone la volontarietà, o comunque una colpa, per omissione o simili, e senza questa condizione non può esservi imputabilità.

T8

Alcuni articoli del Codice penale Gli articoli del Codice penale riportati di seguito chiariscono alcuni aspetti relativi alla responsabilità giuridica. Art. 42 Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva Nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge. La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione. Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Art. 43 Elemento psicologico del reato Il delitto: – è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; – è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente; – è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. [...]

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Art. 45 Caso fortuito o forza maggiore Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore. Art. 46 Costringimento fisico Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza. Dunque il reato è punibile solo se sussistono il dolo o la colpa. Anche in questo caso, però, il nostro codice prevede delle «attenuanti» che a volte richiamano le distinzioni di Aristotele. Art. 60 Errore sulla persona dell’offeso Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole. Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti. Art. 62 Circostanze attenuanti comuni Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: 1) l’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale; 2) l’aver agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui [...] Perché il reato sia imputabile a chi lo ha commesso (cioè perché chi lo ha commesso possa essere considerato responsabile), questi deve essere capace di intendere e di volere. Art. 85 Capacità d’intendere e di volere Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere. Art. 88 Vizio totale di mente Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere. Art. 90 Stati emotivi o passionali Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità.

DALLA FILOSOFIA ALL’ESPERIENZA O Confronta gli articoli del Codice penale riportati sopra con l’analisi aristotelica della «responsabilità» – presentata nell’Itinerario di lettura 2 (L’agire morale) – individuando analogie e differenze.

O In base all’analisi precedente, discuti con i tuoi compagni la differenza tra responsabilità giuridica e responsabilità morale. La prima è una formalizzazione della seconda o si tratta di ambiti diversi? Quali pene sono previste nei due casi? Che cosa corrisponde, sul piano giuridico, all’intenzione, che è condizione della responsabilità morale? O Sono stati omessi molti articoli che individuano altre circostanze che riducono giuridicamente la responsabilità. Fra queste, vi sono ad esempio l’ubriachezza e l’uso di droghe: le disposizioni del Codice meritano di essere discusse, perché ad esempio nel caso di «ubriachezza abituale» la pena è aumentata (art. 94) mentre l’ubriachezza «cronica» è equiparata all’incapacità totale o parziale di intendere e di volere e comporta la non punibilità o la riduzione della pena (art. 95); per l’uso delle sostanze stupefacenti valgono gli stessi criteri. Procurati il Codice penale (puoi trovarlo anche in Internet), leggi gli articoli omessi (dall’art. 85 all’art. 98, nella sezione intitolata «Della imputabilità») e discuti con i tuoi compagni se, per voi, è giusto che nei casi previsti la responsabilità debba essere considerata ridotta o assente.

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QUESTIONI CHE CONTANO

QUESTIONI CHE CONTANO FILOSOFIA E CITTADINANZA

Etica e diritto: il problema della responsabilità Etica e diritto sono due ambiti distinti. L’etica si riferisce ai princı̀pi dai quali discendono le regole di comportamento che ognuno si dà, volontariamente e consapevolmente; il diritto riguarda invece le leggi, cioè le norme obbligatorie che ogni individuo deve rispettare in quanto membro di uno Stato. Nel nostro Codice penale la questione della responsabilità è molto importante. Possono essere sanzionate solo le azioni che implicano responsabilità, e alcune distinzioni, come vedremo, richiamano quelle di Aristotele. Si distingue intanto tra responsabilità civile e penale. La prima, in generale, consiste in un danno provocato ad altre persone, senza commettere reati sanzionati penalmente. In questo caso, la responsabilità è circoscritta alla riparazione del danno, mediante indennizzo, solo su richiesta della parte lesa. Ad esempio, se urto involontariamente una persona ed essa, cadendo, si frattura un braccio, sono tenuto a rimborsarle le spese mediche e il periodo di inattività lavorativa, ma non ho alcuna responsabilità penale. Questa seconda responsabilità, invece, riguarda comportamenti sanciti dalla legge come reati, poiché considerati di tale gravità che comportano un’offesa per la collettività nel suo insieme. In questo caso, le pene sono in genere di tipo detentivo e il reo viene giudicato indipendentemente dal fatto che la persona lesa lo denunci o meno. La responsabilità civile sussiste sempre, ogni volta che il mio comportamento provoca un danno, anche se non voluto. Quella penale, invece, presuppone la volontarietà, o comunque una colpa, per omissione o simili, e senza questa condizione non può esservi imputabilità.

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Alcuni articoli del Codice penale Gli articoli del Codice penale riportati di seguito chiariscono alcuni aspetti relativi alla responsabilità giuridica. Art. 42 Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva Nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge. La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione. Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Art. 43 Elemento psicologico del reato Il delitto: – è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; – è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente; – è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. [...]

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Art. 45 Caso fortuito o forza maggiore Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore. Art. 46 Costringimento fisico Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza. Dunque il reato è punibile solo se sussistono il dolo o la colpa. Anche in questo caso, però, il nostro codice prevede delle «attenuanti» che a volte richiamano le distinzioni di Aristotele. Art. 60 Errore sulla persona dell’offeso Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole. Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti. Art. 62 Circostanze attenuanti comuni Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: 1) l’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale; 2) l’aver agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui [...] Perché il reato sia imputabile a chi lo ha commesso (cioè perché chi lo ha commesso possa essere considerato responsabile), questi deve essere capace di intendere e di volere. Art. 85 Capacità d’intendere e di volere Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere. Art. 88 Vizio totale di mente Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere. Art. 90 Stati emotivi o passionali Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità.

DALLA FILOSOFIA ALL’ESPERIENZA O Confronta gli articoli del Codice penale riportati sopra con l’analisi aristotelica della «responsabilità» – presentata nell’Itinerario di lettura 2 (L’agire morale) – individuando analogie e differenze.

O In base all’analisi precedente, discuti con i tuoi compagni la differenza tra responsabilità giuridica e responsabilità morale. La prima è una formalizzazione della seconda o si tratta di ambiti diversi? Quali pene sono previste nei due casi? Che cosa corrisponde, sul piano giuridico, all’intenzione, che è condizione della responsabilità morale? O Sono stati omessi molti articoli che individuano altre circostanze che riducono giuridicamente la responsabilità. Fra queste, vi sono ad esempio l’ubriachezza e l’uso di droghe: le disposizioni del Codice meritano di essere discusse, perché ad esempio nel caso di «ubriachezza abituale» la pena è aumentata (art. 94) mentre l’ubriachezza «cronica» è equiparata all’incapacità totale o parziale di intendere e di volere e comporta la non punibilità o la riduzione della pena (art. 95); per l’uso delle sostanze stupefacenti valgono gli stessi criteri. Procurati il Codice penale (puoi trovarlo anche in Internet), leggi gli articoli omessi (dall’art. 85 all’art. 98, nella sezione intitolata «Della imputabilità») e discuti con i tuoi compagni se, per voi, è giusto che nei casi previsti la responsabilità debba essere considerata ridotta o assente.

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MODULO

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QUESTIONI CHE CONTANO

Aristotele

Democrazia diretta e democrazia rappresentativa Leggi il brano di Norberto Bobbio (1909-2004), uno dei più importanti filosofi italiani della filosofia politica e del diritto.

T9

Bobbio: Democrazia Bobbio non si riferisce direttamente ad Aristotele: sta parlando della democrazia attuale e delle forme che può assumere. Ma l’analisi che propone riprende concetti già definiti da Aristotele, che sollevava problemi simili e auspicava un modello di democrazia non lontano dal nostro.

E

timologicamente «democrazia» significa «potere» (kràtos) del «popolo» (démos).

[...] Dalla democrazia degli antichi, la democrazia dei moderni si distingue rispetto al modo con cui il popolo esercita il potere: direttamente, nella piazza o agorà presso i Greci, nei comitia dei Romani, nell’arengo degli antichi Comuni medievali, o indirettamente, attraverso rappresentanti, negli Stati moderni. Ancora Montesquieu, verso la metà del Settecento, nelle pagine dedicate alla democrazia, adducendo come esempio di tale forma di governo Atene e Roma, scrive che il popolo che gode del potere supremo deve fare da solo tutto ciò che può fare bene e affidare ai suoi ministri solo ciò che non può fare da solo. Qualche anno dopo Rousseau, esaltando la democrazia degli antichi, respingeva la forma del governo rappresentativo vigente in Inghilterra, sostenendo che gli inglesi erano un popolo libero soltanto il giorno in cui andavano a votare. Oggi, invece, gli Stati democratici esistenti nel mondo sono tutti, se pure in varia guisa e con diverse forme di rappresentanza, governati nella forma della democrazia rappresentativa, solo in alcuni casi integrata da forme di democrazia diretta, come il referendum. [...] La democrazia diretta, vale a dire quella forma di governo in cui i cittadini hanno il diritto di prendere essi stessi le decisioni che li riguardano, e non soltanto quello di eleggere le persone che decideranno per loro, è rimasta come un ideale-limite, la cui forza propulsiva non è venuta meno, specie da quando la sempre più rapida diffusione dei calcolatori elettronici può permettere il voto

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a distanza di un grande numero di persone senza che sia necessaria la loro riunione in una pubblica piazza o in un’assemblea, eliminando di colpo il limite, di cui erano ben consapevoli i fautori della democrazia diretta, come lo stesso Rousseau, per cui questa forma di democrazia era possibile soltanto nei piccoli Stati. Si è detto, se pure in modo paradossale, indicando più una linea di tendenza che una vera e propria proposta di riforma istituzionale, che la democrazia del futuro potrebbe assomigliare alla democrazia del passato più che a quella del presente. Ciò che nel passaggio dalla democrazia diretta a quella rappresentativa cambia o, meglio, deve essere ulteriormente specificato, è il concetto stesso di popolo. «Popolo» designa un ente collettivo, e la parola ben si addice all’insieme di persone che si riuniscono in una piazza o in un’assemblea. Nelle democrazie rappresentative dei grandi Stati, coloro che godono dei diritti politici, vale a dire del diritto di partecipare, se pure indirettamente, alla presa delle decisioni collettive, non si riuniscono mai tutti insieme in una piazza o in un’assemblea per deliberare. [...] In una democrazia rappresentativa il singolo non è abitualmente un decisore; è quasi sempre soltanto un elettore. In quanto elettore, egli compie la sua scelta generalmente da solo, uti singulus, in una cabina separato da tutti gli altri. [...] Di fatto, alla base della democrazia rappresentativa, a differenza di quel che vale per la democrazia diretta, non c’è la sovranità del popolo ma la sovranità dei cittadini. (N. Bobbio, Elementi di politica, Antologia a cura di P. Polito, Torino, Einaudi, 1998, pp. 84-87)

DALLA FILOSOFIA ALL’ESPERIENZA Sia Platone sia Aristotele condannano la democrazia ateniese, che per molti aspetti costituisce una forma di democrazia diretta, e valutano invece positivamente (in particolare Aristotele) la politeı́a, che equivale alla nostra democrazia rappresentativa, dove le cariche vengono assegnate per elezione, in modo che possano emergere i migliori. O Quali sono le differenze tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa? O Bobbio accenna alla possibilità che la telematica possa rendere ancora possibile una forma di democrazia diretta, sostituendo all’antica agorà la «piazza virtuale». Quali strumenti della telematica potrebbero secondo te svolgere questo ruolo? Sapresti indicare, ad esempio, siti Internet, forum, egroup che a tuo parere aumentano le occasioni di dibattito e di confronto? Che ruolo svolgono o potrebbero svolgere le reti civiche, ormai presenti in quasi tutti i Comuni? O Individua nella nostra Costituzione gli articoli che parlano di forme di democrazia diretta.

FILOSOFIA E CONOSCENZA DI SÉ

Perché studiare filosofia?

D

a tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è oggetto della nostra indagine si riferisce a una unica e medesima scienza; essa deve speculare intorno ai princı̀pi primi e alle cause: infatti, anche il bene, cosı̀ come il fine delle cose, è una causa. Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della Luna e quelli del Sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che

ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita e anche all’agiatezza e al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, cosı̀ questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. (Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 1997, I, 2, 982b, pp. 11-12)

DALLA FILOSOFIA ALL’ESPERIENZA Aristotele afferma che gli uomini incominciarono a filosofare per la meraviglia e, progredendo, giunsero a porsi problemi sempre maggiori, come i fenomeni della Luna, del Sole e degli astri. Per noi questi non sono più problemi ma forse, se abbiamo uno spirito filosofico, continuiamo a meravigliarci, a porre domande. O Tu riesci ancora a meravigliarti per qualcosa? Quali sono le cose che suscitano la tua meraviglia? Prova a fare un breve elenco, indicando le prime 5 o 6 che ti vengono in mente, e poi confrontale con quelle indicate dai tuoi compagni.

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QUESTIONI CHE CONTANO

Aristotele

Democrazia diretta e democrazia rappresentativa Leggi il brano di Norberto Bobbio (1909-2004), uno dei più importanti filosofi italiani della filosofia politica e del diritto.

T9

Bobbio: Democrazia Bobbio non si riferisce direttamente ad Aristotele: sta parlando della democrazia attuale e delle forme che può assumere. Ma l’analisi che propone riprende concetti già definiti da Aristotele, che sollevava problemi simili e auspicava un modello di democrazia non lontano dal nostro.

E

timologicamente «democrazia» significa «potere» (kràtos) del «popolo» (démos).

[...] Dalla democrazia degli antichi, la democrazia dei moderni si distingue rispetto al modo con cui il popolo esercita il potere: direttamente, nella piazza o agorà presso i Greci, nei comitia dei Romani, nell’arengo degli antichi Comuni medievali, o indirettamente, attraverso rappresentanti, negli Stati moderni. Ancora Montesquieu, verso la metà del Settecento, nelle pagine dedicate alla democrazia, adducendo come esempio di tale forma di governo Atene e Roma, scrive che il popolo che gode del potere supremo deve fare da solo tutto ciò che può fare bene e affidare ai suoi ministri solo ciò che non può fare da solo. Qualche anno dopo Rousseau, esaltando la democrazia degli antichi, respingeva la forma del governo rappresentativo vigente in Inghilterra, sostenendo che gli inglesi erano un popolo libero soltanto il giorno in cui andavano a votare. Oggi, invece, gli Stati democratici esistenti nel mondo sono tutti, se pure in varia guisa e con diverse forme di rappresentanza, governati nella forma della democrazia rappresentativa, solo in alcuni casi integrata da forme di democrazia diretta, come il referendum. [...] La democrazia diretta, vale a dire quella forma di governo in cui i cittadini hanno il diritto di prendere essi stessi le decisioni che li riguardano, e non soltanto quello di eleggere le persone che decideranno per loro, è rimasta come un ideale-limite, la cui forza propulsiva non è venuta meno, specie da quando la sempre più rapida diffusione dei calcolatori elettronici può permettere il voto

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a distanza di un grande numero di persone senza che sia necessaria la loro riunione in una pubblica piazza o in un’assemblea, eliminando di colpo il limite, di cui erano ben consapevoli i fautori della democrazia diretta, come lo stesso Rousseau, per cui questa forma di democrazia era possibile soltanto nei piccoli Stati. Si è detto, se pure in modo paradossale, indicando più una linea di tendenza che una vera e propria proposta di riforma istituzionale, che la democrazia del futuro potrebbe assomigliare alla democrazia del passato più che a quella del presente. Ciò che nel passaggio dalla democrazia diretta a quella rappresentativa cambia o, meglio, deve essere ulteriormente specificato, è il concetto stesso di popolo. «Popolo» designa un ente collettivo, e la parola ben si addice all’insieme di persone che si riuniscono in una piazza o in un’assemblea. Nelle democrazie rappresentative dei grandi Stati, coloro che godono dei diritti politici, vale a dire del diritto di partecipare, se pure indirettamente, alla presa delle decisioni collettive, non si riuniscono mai tutti insieme in una piazza o in un’assemblea per deliberare. [...] In una democrazia rappresentativa il singolo non è abitualmente un decisore; è quasi sempre soltanto un elettore. In quanto elettore, egli compie la sua scelta generalmente da solo, uti singulus, in una cabina separato da tutti gli altri. [...] Di fatto, alla base della democrazia rappresentativa, a differenza di quel che vale per la democrazia diretta, non c’è la sovranità del popolo ma la sovranità dei cittadini. (N. Bobbio, Elementi di politica, Antologia a cura di P. Polito, Torino, Einaudi, 1998, pp. 84-87)

DALLA FILOSOFIA ALL’ESPERIENZA Sia Platone sia Aristotele condannano la democrazia ateniese, che per molti aspetti costituisce una forma di democrazia diretta, e valutano invece positivamente (in particolare Aristotele) la politeı́a, che equivale alla nostra democrazia rappresentativa, dove le cariche vengono assegnate per elezione, in modo che possano emergere i migliori. O Quali sono le differenze tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa? O Bobbio accenna alla possibilità che la telematica possa rendere ancora possibile una forma di democrazia diretta, sostituendo all’antica agorà la «piazza virtuale». Quali strumenti della telematica potrebbero secondo te svolgere questo ruolo? Sapresti indicare, ad esempio, siti Internet, forum, egroup che a tuo parere aumentano le occasioni di dibattito e di confronto? Che ruolo svolgono o potrebbero svolgere le reti civiche, ormai presenti in quasi tutti i Comuni? O Individua nella nostra Costituzione gli articoli che parlano di forme di democrazia diretta.

FILOSOFIA E CONOSCENZA DI SÉ

Perché studiare filosofia?

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a tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è oggetto della nostra indagine si riferisce a una unica e medesima scienza; essa deve speculare intorno ai princı̀pi primi e alle cause: infatti, anche il bene, cosı̀ come il fine delle cose, è una causa. Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della Luna e quelli del Sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che

ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita e anche all’agiatezza e al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, cosı̀ questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. (Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 1997, I, 2, 982b, pp. 11-12)

DALLA FILOSOFIA ALL’ESPERIENZA Aristotele afferma che gli uomini incominciarono a filosofare per la meraviglia e, progredendo, giunsero a porsi problemi sempre maggiori, come i fenomeni della Luna, del Sole e degli astri. Per noi questi non sono più problemi ma forse, se abbiamo uno spirito filosofico, continuiamo a meravigliarci, a porre domande. O Tu riesci ancora a meravigliarti per qualcosa? Quali sono le cose che suscitano la tua meraviglia? Prova a fare un breve elenco, indicando le prime 5 o 6 che ti vengono in mente, e poi confrontale con quelle indicate dai tuoi compagni.

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ARISTOTELE: I TEMI ETICI Secondo i Greci la necessità stessa della filosofia nasce dal fatto che gli uomini non sono completamente padroni di se stessi. Il raggiungimento della raziona-

i

L’uomo, secondo i Greci, controlla ancor meno l’invecchiamento e la sessualità, spesso non a caso immaginata come un altro animale che abita in noi.

L’EQUILIBRIO E IL FURORE

Menade danzante, tondo di uno kylix, 490-480 a. C. (Monaco, Staatliche Antikensammlungen). Nel sottolineare il valore etico, oltre che politico e medico, dell’equilibrio o “giusto mezzo”, Aristotele approfondisce una nozione e un’esigenza comuni alla mentalità dominante del suo tempo. Ma la società greca era attraversata anche da correnti di spiritualità “alternativa”, i cosiddetti “culti misterici”, in cui il focus stava nello sprigionarsi degli eccessi. La figura della menade danzante rappresentava al meglio questi valori.

DIGNITÀ UMANA E VALORE DELLA VITA

Galata suicida, copia romana da un originale ellenistico (Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps). La cultura greca, come del resto la nostra, riconosceva valori per cui è eticamente giustificato il sacrificio eroico della vita: la libertà politica e la dignità dell’esistenza prima di tutto. Gli stoici approfondirono il principio sino a teorizzare il suicidio volontario in età attempata, così da evitare la decadenza fisica e intellettuale della vecchiaia. Ma la scelta fra vita (come schiavo) e dignità (nel suicidio) si poneva drammaticamente per i nemici sconfitti.

Il galata rappresentato sull’altare di Pergamo, un secolo dopo la morte di Aristotele, mentre dà la morte a se stesso e alla moglie pur di non subire la schiavitù costituisce uno straordinario omaggio, forse unico nella storia: è un monumento teso a celebrare le virtù etiche di un popolo nemico e sconfitto con enormi sacrifici.

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lità non è infatti semplice perché è difficile controllare appieno la mente e ancor più lo spirito, spesso sconvolto da passioni che sembrano aggredire dall’esterno.

EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO

EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO

L’animale catturato dalla menade allude all’incipiente rito dello sparagmos, il suo dilaniamento a mani nude. Altri simboli tipici del furore menadico sono il serpente che porta attorcigliato sul capo e la pelle di animale sommariamente scuoiato (ha ancora le zampe) che porta sulle spalle.

Il valore morale del suicidio del guerriero galata è sottolineato dalla scelta di darsi la morte conficcandosi una spada fra le clavicole, il modo di morire considerato più onorevole.

I Greci disprezzavano i barbari e i popoli stranieri. La statua sottolinea come i Galati, di origine celtica, fossero così primitivi da combattere nudi e senza armatura. Per questo il loro frequente riscatto umano tramite il suicidio colpì l’immaginario greco. Ancora Aristotele, contestato però dagli stoici, riteneva che l’accettazione della schiavitù rivelasse la vera natura dell’individuo.

La danza rituale delle menadi, in onore di Dionisio, avveniva al suono ritmico e ossessivo dei flauti e dei tamburi. L’effetto ricercato non era di tipo artistico, non consisteva nell’armonia dei movimenti. Al contrario la menade cercava di disgiungersi dal corpo agitandosi con gesti il più inconsulti e disordinati possibile, aiutandosi in questa ricerca del disequilibrio con il tirso, un lungo bastone appesantito con pigne a una sola estremità.

I TESTI X Materiali online, La

scelta etica I comportamenti dotati di valenza etica sono solo quelli liberamente deliberati, non imposti dalle circostanze. E per essere moralmente valida la scelta deve essere motivata da considerazioni razionali, al di là degli impulsi e delle passioni personali.

X Materiali online,

Diversi tipi di amicizia La riflessione sul significato ultimo dell’amicizia e sulle diverse forme del suo manifestarsi è un tema su cui tornano parecchi filosofi greci, da Empedocle sino a Epicuro. Per Aristotele essa esprime la naturale socialità dell’uomo.

X Materiali online,

L’amicizia come comunità di vita L’uomo esiste veramente solo vivendo assieme ai suoi simili; la sua naturale socialità lo spinge a evitare la solitudine per realizzarsi in una comunità. X Materiali online, La giustificazione della schiavitù La tesi aristotelica secondo cui alcuni uomini nascono

schiavi, mentre altri nascono liberi «per natura», pur esprimendo la mentalità comune dell’epoca, sarà presto contestata dai filosofi ellenistici e poi dal cristianesimo. X M5, T6, La condizione della donna Le ragioni della superiorità maschile, che Aristotele considera fondata su insuperabili differenze di natura.

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ARISTOTELE: I TEMI ETICI Secondo i Greci la necessità stessa della filosofia nasce dal fatto che gli uomini non sono completamente padroni di se stessi. Il raggiungimento della raziona-

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L’uomo, secondo i Greci, controlla ancor meno l’invecchiamento e la sessualità, spesso non a caso immaginata come un altro animale che abita in noi.

L’EQUILIBRIO E IL FURORE

Menade danzante, tondo di uno kylix, 490-480 a. C. (Monaco, Staatliche Antikensammlungen). Nel sottolineare il valore etico, oltre che politico e medico, dell’equilibrio o “giusto mezzo”, Aristotele approfondisce una nozione e un’esigenza comuni alla mentalità dominante del suo tempo. Ma la società greca era attraversata anche da correnti di spiritualità “alternativa”, i cosiddetti “culti misterici”, in cui il focus stava nello sprigionarsi degli eccessi. La figura della menade danzante rappresentava al meglio questi valori.

DIGNITÀ UMANA E VALORE DELLA VITA

Galata suicida, copia romana da un originale ellenistico (Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps). La cultura greca, come del resto la nostra, riconosceva valori per cui è eticamente giustificato il sacrificio eroico della vita: la libertà politica e la dignità dell’esistenza prima di tutto. Gli stoici approfondirono il principio sino a teorizzare il suicidio volontario in età attempata, così da evitare la decadenza fisica e intellettuale della vecchiaia. Ma la scelta fra vita (come schiavo) e dignità (nel suicidio) si poneva drammaticamente per i nemici sconfitti.

Il galata rappresentato sull’altare di Pergamo, un secolo dopo la morte di Aristotele, mentre dà la morte a se stesso e alla moglie pur di non subire la schiavitù costituisce uno straordinario omaggio, forse unico nella storia: è un monumento teso a celebrare le virtù etiche di un popolo nemico e sconfitto con enormi sacrifici.

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lità non è infatti semplice perché è difficile controllare appieno la mente e ancor più lo spirito, spesso sconvolto da passioni che sembrano aggredire dall’esterno.

EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO

EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO

L’animale catturato dalla menade allude all’incipiente rito dello sparagmos, il suo dilaniamento a mani nude. Altri simboli tipici del furore menadico sono il serpente che porta attorcigliato sul capo e la pelle di animale sommariamente scuoiato (ha ancora le zampe) che porta sulle spalle.

Il valore morale del suicidio del guerriero galata è sottolineato dalla scelta di darsi la morte conficcandosi una spada fra le clavicole, il modo di morire considerato più onorevole.

I Greci disprezzavano i barbari e i popoli stranieri. La statua sottolinea come i Galati, di origine celtica, fossero così primitivi da combattere nudi e senza armatura. Per questo il loro frequente riscatto umano tramite il suicidio colpì l’immaginario greco. Ancora Aristotele, contestato però dagli stoici, riteneva che l’accettazione della schiavitù rivelasse la vera natura dell’individuo.

La danza rituale delle menadi, in onore di Dionisio, avveniva al suono ritmico e ossessivo dei flauti e dei tamburi. L’effetto ricercato non era di tipo artistico, non consisteva nell’armonia dei movimenti. Al contrario la menade cercava di disgiungersi dal corpo agitandosi con gesti il più inconsulti e disordinati possibile, aiutandosi in questa ricerca del disequilibrio con il tirso, un lungo bastone appesantito con pigne a una sola estremità.

I TESTI X Materiali online, La

scelta etica I comportamenti dotati di valenza etica sono solo quelli liberamente deliberati, non imposti dalle circostanze. E per essere moralmente valida la scelta deve essere motivata da considerazioni razionali, al di là degli impulsi e delle passioni personali.

X Materiali online,

Diversi tipi di amicizia La riflessione sul significato ultimo dell’amicizia e sulle diverse forme del suo manifestarsi è un tema su cui tornano parecchi filosofi greci, da Empedocle sino a Epicuro. Per Aristotele essa esprime la naturale socialità dell’uomo.

X Materiali online,

L’amicizia come comunità di vita L’uomo esiste veramente solo vivendo assieme ai suoi simili; la sua naturale socialità lo spinge a evitare la solitudine per realizzarsi in una comunità. X Materiali online, La giustificazione della schiavitù La tesi aristotelica secondo cui alcuni uomini nascono

schiavi, mentre altri nascono liberi «per natura», pur esprimendo la mentalità comune dell’epoca, sarà presto contestata dai filosofi ellenistici e poi dal cristianesimo. X M5, T6, La condizione della donna Le ragioni della superiorità maschile, che Aristotele considera fondata su insuperabili differenze di natura.

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EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO

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ABITUDINI E SECONDA NATURA

Scena di lotta, vaso a figure nere, VI secolo a. C. Secondo Aristotele, dal punto di vista etico non contano tanto le singole azioni quanto le abitudini, gli stili di vita che si sostanziano in uno specifico modo di essere, creando alla fine, nell’uomo adulto, una vera e propria seconda natura che si sovrappone alla prima, a volte negandola a volte confermandola. Sono le abitudini, non le singole azioni, a costituire i vizi.

Il concetto di “seconda natura” è valido anche in ambito fisiologico, come dimostra l’ambivalenza delle immagini connesse alle attività sportive. Queste sono salutari sino a quando rimangono a livello amatoriale, ottimizzando l’armonia corporea, ma risultano deformanti se praticate in modo intensivo. Spesso sono i lottatori, massicci, corpulenti e appesantiti dagli allenamenti, a esemplificare gli esiti degenerativi dell’eccesso sportivo.

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TEMPERANZA ED ECCESSI

Giovane che vomita, vaso a figure rosse, VI secolo (Wagner Museum, Würzburg). La padronanza di sé si ottiene con la temperanza, ossia con l’esercizio prolungato della moderazione e del giusto equilibrio fra le tendenze opposte che agitano l’esistenza umana. È un’idea che attraversa le maggiori tendenze della filosofia greca, condizionando anche le dottrine mediche e scientifiche.

L’equilibrio perseguito dai Greci non è una condizione statica ma dinamica. Prevede l’utilità funzionale di qualche eccesso saltuario (alimentare, alcolico, sessuale) purché non si fissi in abitudine diventando così vizio. La virtù diventa così una questione di quantità: il filosofo e scrittore latino Seneca riprende un luogo comune quando approva un’occasionale sbronza con gli amici (attività che aiuta a sciogliere i legami sociali) ma condanna l’eccesso quotidiano del vino.

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L’idea di equilibrio come mediazione fra eccesso e conseguente ri-equilibrio è fondamentale nella medicina umorale greca, nel presupposto che il sistema di fluidi (sangue, pneuma, bile, ma anche latte, lacrime, sperma e vomito) che attraversano il corpo umano tenda sempre, per sua natura, a ripristinare un ottimale “giusto mezzo”.


SINTESI

SINTESI La filosofia nelle scuole ............................................................................................................................................................... u L’epoca ellenistica è caratterizzata dalla nascita di

nuove scuole filosofiche. Sebbene i contrasti dottrinari siano notevoli, tutte le scuole ellenistiche organizzano l’insegnamento secondo rigide strutture curricolari, basate sulla scansione tripartita di logica, fisica ed etica. u Comuni a tutte le scuole sono l’interesse verso i

problemi dell’esistenza individuale e l’obiettivo dell’imperturbabilità, intesa come privazione di ogni turbamento e quindi di ogni dolore. u Tipici della filosofia praticata nelle scuole sono il

dogmatismo e l’accentuato proselitismo. L’epicureismo si distingue per lo sviluppo di un vero e proprio culto della personalità del maestro fondatore. u Comune a tutte le scuole, infine, è un approccio alla

filosofia intesa come terapia dell’anima. Dal paragone con la medicina, su cui insistono i pensatori di tutti gli indirizzi, derivano spunti di riflessione e una ricca terminologia medico-filosofica.

Lo stoicismo: tutto è lógos

...............................................................................................................................................................

u Alla logica stoica, molto innovativa, si deve la prima

elaborazione delle nozioni di segno, significante e significato, intendendo quest’ultimo come ciò che rimane costante in una traduzione e che costituisce il senso della frase. Agli stoici si deve anche la prima analisi delle proposizioni inferenziali ipotetiche. u La gnoseologia stoica ruota attorno alla nozione di

assenso, con la quale ci si riferisce all’atto mentale che accetta o rifiuta le impressioni sensibili, trasformandole cosı̀ in una compiuta e significativa immagine mentale. L’assenso va concesso in base ai criteri della evidenza e della non contraddittorietà con altre impressioni precedenti. u La fisica stoica si fonda sull’idea che il mondo sia un

sistema razionale governato dal lógos, variamente definito come Dio, spirito, pneuma cosmico. Ne deriva una spiritualità fondata sull’animismo (ogni essere, vivente o non vivente, possiede comunque un’anima), il panteismo (Dio non è un ente separato dal mondo ma coincidente con esso) e l’organicismo (tutti gli enti dell’universo sono fra loro collegati come in un organismo vivente). u Di grande interesse è la riflessione stoica sul tempo.

Connettendo l’idea della ciclicità del tempo con la

380

dottrina del lógos universale, si formula il principio di un eterno ritorno, scandito da conflagrazioni universali e nuove rinascite. In polemica con gli epicurei, gli stoici sostengono l’esistenza del fato e negano la possibilità del caso. Ne deriva la giustificazione della mantica, la predizione divinatoria. u L’etica stoica suggerisce di vivere secondo natura,

ossia secondo ragione. Questa si esprime nell’uomo come dovere, bene da salvaguardare anche più della vita. u Emozioni e sentimenti, sia positivi sia negativi, de-

vono essere estirpati dall’animo perché fonti di turbamento. Ciò è reso possibile dalla natura cognitiva delle passioni, che, per quanto non obbedienti alla ragione nel loro svolgersi, sorgono comunque da convinzioni razionali. La fonte di queste false convinzioni sta nel vivere in una dimensione sociale corruttrice. u La critica alla corruzione sociale non comporta la fuga

dalla società ma l’impegno politico in vista delle necessarie riforme. L’idea di un’universale dignità degli esseri umani porta alla contestazione della schiavitù e al cosmopolitismo.

Il Giardino di Epicuro

u Una parte importante della dottrina epicurea consiste

u Nell’operare scelte che non si possono evitare, gli

nel quadrifarmaco, ossia nella critica alle quattro forme fondamentali di angoscia. La paura degli dèi è conseguenza di una superstizione, perché gli dèi sono indifferenti al destino dell’uomo. La paura della morte è esorcizzata dalla considerazione che essa non è un’esperienza possibile, perché quando c’è la morte non c’è più l’individuo. Le altre angosce che vanno poste sotto controllo dalla ragione sono la paura del dolore fisico, sempre lieve se cronico e passeggero se acuto, e il timore di non riuscire a raggiungere il bene, che invece è facilmente ottenibile.

scettici consigliano di attenersi a quanto suggerisce la natura, alle norme della vita comune e alle tradizioni sancite dalle leggi e dalle consuetudini.

u L’etica epicurea si conclude con la proposta di un

calcolo razionale del piacere, capace di distinguere fra desideri naturali e necessari, desideri naturali e non necessari, desideri non naturali e non necessari.

Lo scetticismo

u La filosofia romana si caratterizza per l’eclettismo e

per uno spiccato interesse politico e retorico. La filosofia egemone nel mondo romano è lo stoicismo, i cui principali esponenti sono Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto. Mentre Seneca si caratterizza per la profondità psicologica dell’analisi, Epitteto ritorna al rigore teoretico del primo stoicismo greco.

La nascita delle scienze

...............................................................................................................................................................

...............................................................................................................................................................

u Lo scetticismo non è una scuola ma un movimento

filosofico scarsamente organizzato anche se influente. Gli scettici condividono con gli altri filosofi ellenistici l’ideale dell’imperturbabilità, ma, partendo dalla constatazione dell’incompatibilità delle altre dottrine filosofiche, concludono che la ricerca del vero è destinata a non produrre risultati. Praticano quindi il dubbio sistematico, l’afasia e l’epoché, ossia la sospensione del giudizio.

...............................................................................................................................................................

u Gli scettici sviluppano una serie di argomentazioni,

u La logica epicurea (canonica) si basa sul criterio che

dette «tropi», per dimostrare la necessità di sospendere il giudizio su molte questioni che le filosofie dogmatiche giudicano risolvibili.

bisogna assumere come vero ciò che si dimostra con evidenza. Evidenti e quindi sempre veri sono le sensazioni, le anticipazioni, in quanto elaborazioni di percezioni pregresse, e i giudizi di piacere; falsi possono essere opinioni e giudizi. La veridicità delle sensazioni è garantita dalla teoria fisica degli effluvi.

La filosofia a Roma

...............................................................................................................................................................

u La scienza antica si sviluppa ad Alessandria d’Egitto

approfittando delle nuove istituzioni della Biblioteca e del Museo, ma è segnata da una scissione fra teoria e tecnica. u Grande sviluppo hanno la geometria (nella sistema-

zione euclidea) e l’astronomia, il cui sviluppo è tuttavia complicato dal peso dei dogmi religiosi relativi al movimento degli astri. u La medicina sviluppa vari indirizzi di ricerca, alcuni

dei quali sono influenzati dalle dottrine filosofiche. u Il più grande medico dell’antichità è Galeno, la cui

fisiologia del corpo umano si fonda sul concetto aristotelico di causa finale.

u La fisica epicurea presenta solo in parte tratti origi-

nali, limitandosi a una riedizione dell’atomismo di Democrito, il cui materialismo permette a Epicuro di escludere ogni forma di finalismo. La nozione di deviazione degli atomi è introdotta per negare il determinismo. Un tratto distintivo della scuola epicurea sta nell’insistenza sull’idea di caso, un elemento di imponderabilità che permea la natura nel suo intimo. u L’etica gravita attorno alla nozione di piacere, con-

siderato da Epicuro il fine della vita. Anche se spesso è confusa con una forma di edonismo, in realtà l’etica epicurea suggerisce una distinzione fra piacere instabile e piacere stabile, l’unico da perseguirsi.

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SINTESI

SINTESI La filosofia nelle scuole ............................................................................................................................................................... u L’epoca ellenistica è caratterizzata dalla nascita di

nuove scuole filosofiche. Sebbene i contrasti dottrinari siano notevoli, tutte le scuole ellenistiche organizzano l’insegnamento secondo rigide strutture curricolari, basate sulla scansione tripartita di logica, fisica ed etica. u Comuni a tutte le scuole sono l’interesse verso i

problemi dell’esistenza individuale e l’obiettivo dell’imperturbabilità, intesa come privazione di ogni turbamento e quindi di ogni dolore. u Tipici della filosofia praticata nelle scuole sono il

dogmatismo e l’accentuato proselitismo. L’epicureismo si distingue per lo sviluppo di un vero e proprio culto della personalità del maestro fondatore. u Comune a tutte le scuole, infine, è un approccio alla

filosofia intesa come terapia dell’anima. Dal paragone con la medicina, su cui insistono i pensatori di tutti gli indirizzi, derivano spunti di riflessione e una ricca terminologia medico-filosofica.

Lo stoicismo: tutto è lógos

...............................................................................................................................................................

u Alla logica stoica, molto innovativa, si deve la prima

elaborazione delle nozioni di segno, significante e significato, intendendo quest’ultimo come ciò che rimane costante in una traduzione e che costituisce il senso della frase. Agli stoici si deve anche la prima analisi delle proposizioni inferenziali ipotetiche. u La gnoseologia stoica ruota attorno alla nozione di

assenso, con la quale ci si riferisce all’atto mentale che accetta o rifiuta le impressioni sensibili, trasformandole cosı̀ in una compiuta e significativa immagine mentale. L’assenso va concesso in base ai criteri della evidenza e della non contraddittorietà con altre impressioni precedenti. u La fisica stoica si fonda sull’idea che il mondo sia un

sistema razionale governato dal lógos, variamente definito come Dio, spirito, pneuma cosmico. Ne deriva una spiritualità fondata sull’animismo (ogni essere, vivente o non vivente, possiede comunque un’anima), il panteismo (Dio non è un ente separato dal mondo ma coincidente con esso) e l’organicismo (tutti gli enti dell’universo sono fra loro collegati come in un organismo vivente). u Di grande interesse è la riflessione stoica sul tempo.

Connettendo l’idea della ciclicità del tempo con la

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dottrina del lógos universale, si formula il principio di un eterno ritorno, scandito da conflagrazioni universali e nuove rinascite. In polemica con gli epicurei, gli stoici sostengono l’esistenza del fato e negano la possibilità del caso. Ne deriva la giustificazione della mantica, la predizione divinatoria. u L’etica stoica suggerisce di vivere secondo natura,

ossia secondo ragione. Questa si esprime nell’uomo come dovere, bene da salvaguardare anche più della vita. u Emozioni e sentimenti, sia positivi sia negativi, de-

vono essere estirpati dall’animo perché fonti di turbamento. Ciò è reso possibile dalla natura cognitiva delle passioni, che, per quanto non obbedienti alla ragione nel loro svolgersi, sorgono comunque da convinzioni razionali. La fonte di queste false convinzioni sta nel vivere in una dimensione sociale corruttrice. u La critica alla corruzione sociale non comporta la fuga

dalla società ma l’impegno politico in vista delle necessarie riforme. L’idea di un’universale dignità degli esseri umani porta alla contestazione della schiavitù e al cosmopolitismo.

Il Giardino di Epicuro

u Una parte importante della dottrina epicurea consiste

u Nell’operare scelte che non si possono evitare, gli

nel quadrifarmaco, ossia nella critica alle quattro forme fondamentali di angoscia. La paura degli dèi è conseguenza di una superstizione, perché gli dèi sono indifferenti al destino dell’uomo. La paura della morte è esorcizzata dalla considerazione che essa non è un’esperienza possibile, perché quando c’è la morte non c’è più l’individuo. Le altre angosce che vanno poste sotto controllo dalla ragione sono la paura del dolore fisico, sempre lieve se cronico e passeggero se acuto, e il timore di non riuscire a raggiungere il bene, che invece è facilmente ottenibile.

scettici consigliano di attenersi a quanto suggerisce la natura, alle norme della vita comune e alle tradizioni sancite dalle leggi e dalle consuetudini.

u L’etica epicurea si conclude con la proposta di un

calcolo razionale del piacere, capace di distinguere fra desideri naturali e necessari, desideri naturali e non necessari, desideri non naturali e non necessari.

Lo scetticismo

u La filosofia romana si caratterizza per l’eclettismo e

per uno spiccato interesse politico e retorico. La filosofia egemone nel mondo romano è lo stoicismo, i cui principali esponenti sono Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto. Mentre Seneca si caratterizza per la profondità psicologica dell’analisi, Epitteto ritorna al rigore teoretico del primo stoicismo greco.

La nascita delle scienze

...............................................................................................................................................................

...............................................................................................................................................................

u Lo scetticismo non è una scuola ma un movimento

filosofico scarsamente organizzato anche se influente. Gli scettici condividono con gli altri filosofi ellenistici l’ideale dell’imperturbabilità, ma, partendo dalla constatazione dell’incompatibilità delle altre dottrine filosofiche, concludono che la ricerca del vero è destinata a non produrre risultati. Praticano quindi il dubbio sistematico, l’afasia e l’epoché, ossia la sospensione del giudizio.

...............................................................................................................................................................

u Gli scettici sviluppano una serie di argomentazioni,

u La logica epicurea (canonica) si basa sul criterio che

dette «tropi», per dimostrare la necessità di sospendere il giudizio su molte questioni che le filosofie dogmatiche giudicano risolvibili.

bisogna assumere come vero ciò che si dimostra con evidenza. Evidenti e quindi sempre veri sono le sensazioni, le anticipazioni, in quanto elaborazioni di percezioni pregresse, e i giudizi di piacere; falsi possono essere opinioni e giudizi. La veridicità delle sensazioni è garantita dalla teoria fisica degli effluvi.

La filosofia a Roma

...............................................................................................................................................................

u La scienza antica si sviluppa ad Alessandria d’Egitto

approfittando delle nuove istituzioni della Biblioteca e del Museo, ma è segnata da una scissione fra teoria e tecnica. u Grande sviluppo hanno la geometria (nella sistema-

zione euclidea) e l’astronomia, il cui sviluppo è tuttavia complicato dal peso dei dogmi religiosi relativi al movimento degli astri. u La medicina sviluppa vari indirizzi di ricerca, alcuni

dei quali sono influenzati dalle dottrine filosofiche. u Il più grande medico dell’antichità è Galeno, la cui

fisiologia del corpo umano si fonda sul concetto aristotelico di causa finale.

u La fisica epicurea presenta solo in parte tratti origi-

nali, limitandosi a una riedizione dell’atomismo di Democrito, il cui materialismo permette a Epicuro di escludere ogni forma di finalismo. La nozione di deviazione degli atomi è introdotta per negare il determinismo. Un tratto distintivo della scuola epicurea sta nell’insistenza sull’idea di caso, un elemento di imponderabilità che permea la natura nel suo intimo. u L’etica gravita attorno alla nozione di piacere, con-

siderato da Epicuro il fine della vita. Anche se spesso è confusa con una forma di edonismo, in realtà l’etica epicurea suggerisce una distinzione fra piacere instabile e piacere stabile, l’unico da perseguirsi.

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1. Libertà dalle paure

ITINERARI DI LETTURA " L’angoscia

1

" T1 EPICURO

T1

della morte

Libertà dalle paure (dalla Lettera a Meneceo), Consigli contro le paure

Epicuro: Consigli contro le paure Le tre fondamentali paure che angustiano l’animo dell’uomo sono quella degli dèi, quella del destino e quella della morte. Per costruire la possibilità di una vita felice si deve quindi partire da una confutazione razionale di tali passioni.

" L’indiffe-

renza degli dèi

" Che cosa,

secondo Epicuro, rende certa l’esistenza degli dèi?

" Fato e su-

perstizione

382

5

10

avere grande fortuna con stolto consiglio; è meglio infatti che, fra le nostre azioni, qualcuna pur compiuta con retto giudizio <non sia condotta a buon fine dalla sorte piuttosto che un’azione senza retto giudizio> sia poi condotta a buon fine dalla sorte. [...] [c] Abı̀tuati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiede nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. Perciò la retta conoscenza che la morte non è niente per noi rende gioiosa la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitamente il tempo, ma sopprimendo il desiderio dell’immortalità. Nulla c’è di temibile nel vivere per chi si sia veracemente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più. E cosı̀ anche stolto è chi afferma di temere la morte non perché gli arrecherà dolore sopravvenendo, ma perché arreca dolore il fatto di sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano che ci addolori nell’attesa. Il più terribile dei mali dunque, la morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più. [d] Essa non ha alcun significato né per i viventi né per i morti, perché per gli uni non è niente, e, quanto agli altri, essi non sono più. Ma il volgo ora fugge la morte come il più grande dei mali, ora invece <la cerca> come cessazione <dei mali> della vita. <Il saggio, al contrario, non chiede di vivere> né teme il non vivere: non è contrario alla vita, ma neanche ritiene che la morte sia un male. E cosı̀ come del cibo non aspira al più abbondante ma al più gradevole, del tempo cerca di godere non il più lungo, ma il più dolce. Chi esorta il giovane a ben vivere, il vecchio a ben morire, è uno stolto; e non solo per ciò che la vita ha di piacevole, ma anche perché uno solo è l’esercizio del ben vivere e del ben morire. Ma assai peggio fa chi dice: bello sarebbe non esser nati, o «non appena nati, subito ripassar le porte dell’Ade». Se è persuaso di ciò che dice, perché non esce dalla vita? Ciò è in suo potere, se questa è la sua salda convinzione. Ma se scherza, è stolto a farlo riguardo a cose cui non si conviene.

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(Epicuro, Lettera a Meneceo, pp. 187, 193-94, 188-89)

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K

" Sull’esistenza del fato polemizzano epicurei e stoici

[a] Per prima cosa devi ritenere che la divinità sia un essere vivente immortale e felice, cosı̀ come è suggerito dalla comune nozione del divino, e non attribuirle niente che sia estraneo all’immortalità e discorde dalla beatitudine; pensa invece di essa tutto ciò che può essere atto a preservare la felicità insieme con l’immortalità. Gli dèi esistono: abbiamo di essi conoscenza evidente. Ma non esistono nella forma in cui li concepisce il volgo; e questo toglie loro ogni fondamento reale nella forma in cui è uso concepirli. Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che applica le opinioni del volgo agli dèi: infatti i giudizi di questo circa gli dèi non sono prenozioni, ma supposizioni false; e in base a tali supposizioni si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefizi. Non avendo intimità che con le proprie virtù, essi accolgono quelli che sono loro simili, considerando straniero chi non è tale. [...] [b] Chi, quindi, potresti ritenere superiore a colui che ha pie credenze nei riguardi degli dèi, non nutre alcun timore nei riguardi della morte, sa comprendere che cosa sia veramente il bene secondo natura, e sa che il sommo dei beni è facilmente raggiungibile e facile a conseguirsi, mentre il sommo dei mali ha breve durata o intensità lieve; colui che deride quel <destino> da alcuni addotto come supremo potere, <e afferma che alcune cose avvengono per necessità>, altre per sorte, altre per nostra azione e che vede bene come la necessità sia irresponsabile, la sorte instabile, il nostro arbitrio libero, sı̀ che ad esso consegue naturalmente lode o biasimo? [...] Quanto al fato, di cui parlano i fisici, era meglio credere ai miti sugli dèi che essere schiavi di esso: i miti infatti permettevano agli uomini di sperare di placare gli dèi per mezzo degli onori, il fato invece ha un’implacabile necessità. E in verità sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dèi che non rendersi schiavi di quel fato che predicano i fisici: quel mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli dèi con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile. Un uomo siffatto non considera la sorte una divinità, poiché la divinità non fa niente che sia privo di ordine; ma neanche una causa priva di fondamento reale, poiché, se non crede che da essa provengano agli uomini bene e male in ordine alla vita felice, crede però che da essa possa semplicemente provenire l’avvio a grandi beni e mali. E crede che sia preferibile cadere nella sfortuna con retta ragione che

" Ars vivendi e ars moriendi

ITINERARI DI LETTURA

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[a] La prova dell’esistenza degli dèi sta nella conoscenza evidente che ne abbiamo. Tutti gli uomini, infatti, posseggono una chiara rappresentazione mentale del termine «dio» e quando sentono tale parola sanno perfettamente di cosa si sta parlando. Dunque questo concetto o «anticipazione», comune a tutti gli uomini di tutte le epoche, non può essere falsa. [b] Un’attenzione particolare merita la nozione di fortuna, che Aristotele per primo aveva teorizzato distinguendola dal caso. Mentre quest’ultimo si realizza nel mondo fisico, si parla di fortuna solo nel campo delle azioni umane: nessuno infatti direbbe che le pietre che formano l’altare sono più «fortunate» di quelle del selciato, calpestate dai piedi. Chi non agisce liberamente non può conoscere quell’inaspettato realizzarsi di aspirazioni improbabili che

GUIDA ALL’ANALISI

definiamo «fortuna». Ebbene, Epicuro non nega che la vita sia in buona parte imprevedibile e quindi esista una sorte. Nega però che possa essere «letta». In un duplice senso: 1) non è possibile prevedere il futuro; 2) non è possibile valutare la propria sorte neppure nel momento in cui si realizza. Lo prova l’esperienza comune secondo cui «non tutti i mali vengono per nuocere». [c] È falso che la paura della morte non possa essere sconfitta da un ragionamento corretto. La prova è che la paura stessa, ben lungi dall’essere un sentimento irrazionale, è frutto di una precisa convinzione, che cioè sia augurabile vivere in eterno o almeno il più a lungo possibile. Il fatto di aver scoperto all’origine della paura una credenza, ossia un giudizio della ragione, è importante, perché pone la possibilità del suo superamento. Ogni creden-

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1. Libertà dalle paure

ITINERARI DI LETTURA " L’angoscia

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" T1 EPICURO

T1

della morte

Libertà dalle paure (dalla Lettera a Meneceo), Consigli contro le paure

Epicuro: Consigli contro le paure Le tre fondamentali paure che angustiano l’animo dell’uomo sono quella degli dèi, quella del destino e quella della morte. Per costruire la possibilità di una vita felice si deve quindi partire da una confutazione razionale di tali passioni.

" L’indiffe-

renza degli dèi

" Che cosa,

secondo Epicuro, rende certa l’esistenza degli dèi?

" Fato e su-

perstizione

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avere grande fortuna con stolto consiglio; è meglio infatti che, fra le nostre azioni, qualcuna pur compiuta con retto giudizio <non sia condotta a buon fine dalla sorte piuttosto che un’azione senza retto giudizio> sia poi condotta a buon fine dalla sorte. [...] [c] Abı̀tuati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiede nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. Perciò la retta conoscenza che la morte non è niente per noi rende gioiosa la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitamente il tempo, ma sopprimendo il desiderio dell’immortalità. Nulla c’è di temibile nel vivere per chi si sia veracemente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più. E cosı̀ anche stolto è chi afferma di temere la morte non perché gli arrecherà dolore sopravvenendo, ma perché arreca dolore il fatto di sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano che ci addolori nell’attesa. Il più terribile dei mali dunque, la morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più. [d] Essa non ha alcun significato né per i viventi né per i morti, perché per gli uni non è niente, e, quanto agli altri, essi non sono più. Ma il volgo ora fugge la morte come il più grande dei mali, ora invece <la cerca> come cessazione <dei mali> della vita. <Il saggio, al contrario, non chiede di vivere> né teme il non vivere: non è contrario alla vita, ma neanche ritiene che la morte sia un male. E cosı̀ come del cibo non aspira al più abbondante ma al più gradevole, del tempo cerca di godere non il più lungo, ma il più dolce. Chi esorta il giovane a ben vivere, il vecchio a ben morire, è uno stolto; e non solo per ciò che la vita ha di piacevole, ma anche perché uno solo è l’esercizio del ben vivere e del ben morire. Ma assai peggio fa chi dice: bello sarebbe non esser nati, o «non appena nati, subito ripassar le porte dell’Ade». Se è persuaso di ciò che dice, perché non esce dalla vita? Ciò è in suo potere, se questa è la sua salda convinzione. Ma se scherza, è stolto a farlo riguardo a cose cui non si conviene.

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(Epicuro, Lettera a Meneceo, pp. 187, 193-94, 188-89)

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[a] Per prima cosa devi ritenere che la divinità sia un essere vivente immortale e felice, cosı̀ come è suggerito dalla comune nozione del divino, e non attribuirle niente che sia estraneo all’immortalità e discorde dalla beatitudine; pensa invece di essa tutto ciò che può essere atto a preservare la felicità insieme con l’immortalità. Gli dèi esistono: abbiamo di essi conoscenza evidente. Ma non esistono nella forma in cui li concepisce il volgo; e questo toglie loro ogni fondamento reale nella forma in cui è uso concepirli. Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che applica le opinioni del volgo agli dèi: infatti i giudizi di questo circa gli dèi non sono prenozioni, ma supposizioni false; e in base a tali supposizioni si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefizi. Non avendo intimità che con le proprie virtù, essi accolgono quelli che sono loro simili, considerando straniero chi non è tale. [...] [b] Chi, quindi, potresti ritenere superiore a colui che ha pie credenze nei riguardi degli dèi, non nutre alcun timore nei riguardi della morte, sa comprendere che cosa sia veramente il bene secondo natura, e sa che il sommo dei beni è facilmente raggiungibile e facile a conseguirsi, mentre il sommo dei mali ha breve durata o intensità lieve; colui che deride quel <destino> da alcuni addotto come supremo potere, <e afferma che alcune cose avvengono per necessità>, altre per sorte, altre per nostra azione e che vede bene come la necessità sia irresponsabile, la sorte instabile, il nostro arbitrio libero, sı̀ che ad esso consegue naturalmente lode o biasimo? [...] Quanto al fato, di cui parlano i fisici, era meglio credere ai miti sugli dèi che essere schiavi di esso: i miti infatti permettevano agli uomini di sperare di placare gli dèi per mezzo degli onori, il fato invece ha un’implacabile necessità. E in verità sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dèi che non rendersi schiavi di quel fato che predicano i fisici: quel mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli dèi con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile. Un uomo siffatto non considera la sorte una divinità, poiché la divinità non fa niente che sia privo di ordine; ma neanche una causa priva di fondamento reale, poiché, se non crede che da essa provengano agli uomini bene e male in ordine alla vita felice, crede però che da essa possa semplicemente provenire l’avvio a grandi beni e mali. E crede che sia preferibile cadere nella sfortuna con retta ragione che

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[a] La prova dell’esistenza degli dèi sta nella conoscenza evidente che ne abbiamo. Tutti gli uomini, infatti, posseggono una chiara rappresentazione mentale del termine «dio» e quando sentono tale parola sanno perfettamente di cosa si sta parlando. Dunque questo concetto o «anticipazione», comune a tutti gli uomini di tutte le epoche, non può essere falsa. [b] Un’attenzione particolare merita la nozione di fortuna, che Aristotele per primo aveva teorizzato distinguendola dal caso. Mentre quest’ultimo si realizza nel mondo fisico, si parla di fortuna solo nel campo delle azioni umane: nessuno infatti direbbe che le pietre che formano l’altare sono più «fortunate» di quelle del selciato, calpestate dai piedi. Chi non agisce liberamente non può conoscere quell’inaspettato realizzarsi di aspirazioni improbabili che

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definiamo «fortuna». Ebbene, Epicuro non nega che la vita sia in buona parte imprevedibile e quindi esista una sorte. Nega però che possa essere «letta». In un duplice senso: 1) non è possibile prevedere il futuro; 2) non è possibile valutare la propria sorte neppure nel momento in cui si realizza. Lo prova l’esperienza comune secondo cui «non tutti i mali vengono per nuocere». [c] È falso che la paura della morte non possa essere sconfitta da un ragionamento corretto. La prova è che la paura stessa, ben lungi dall’essere un sentimento irrazionale, è frutto di una precisa convinzione, che cioè sia augurabile vivere in eterno o almeno il più a lungo possibile. Il fatto di aver scoperto all’origine della paura una credenza, ossia un giudizio della ragione, è importante, perché pone la possibilità del suo superamento. Ogni creden-

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