I sofisti e Socrate
MODULO
4
PROFILO 1. La sofistica 2. Protagora 3. Gorgia 4. I sofisti minori e il dibattito sulle leggi 5. Socrate: il filosofo come cittadino 6. Socrate: il dialogo come metodo di ricerca 7. Socrate: la virtù è sapere e porta alla felicità 8. Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte 9. Le scuole socratiche ITINERARI DI LETTURA 1. La politica: il cittadino e lo Stato 2. La verità assoluta non esiste 3. Socrate: il primato dell’etica 4. La maieutica socratica: oltre il relativismo PREPARARSI ALL’INTERROGAZIONE PER L’APPROFONDIMENTO QUESTIONI CHE CONTANO EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO
Il contesto storico-culturale
Dalla chiusura aristocratica alla dinamicità democratica Le comunità greche, come abbiamo già visto, si collocano in uno scenario geografico molto esteso, che va dalla Spagna e dalla Francia meridionale alle coste dell’Asia Minore. Particolarmente significativa è, al di fuori della madrepatria, la presenza greca nella cosiddetta «Magna Grecia» (ovvero nella parte continentale dell’Italia ellenizzata) e in Sicilia. Nel periodo che va dalla vittoria sui Persiani (478 a. C.) all’inizio della seconda guerra del Peloponneso (431 a. C.) l’intero mondo ellenico conosce una notevole fioritura sociale e culturale. In Grecia, in particolare, l’economia agraria lascia rapidamente il posto al nuovo modello artigianale e mercantile. Alla società aristocratica chiusa, in cui lo status sociale era legato alla nascita, subentra una società dinamica, aperta, caratterizzata dalla mobilità di classe legata alla ricchezza e alla capacità individuale. Dal punto di vista politico, nel v secolo a. C. si afferma ad Atene e in altre città LE IDEE
540-480 ca. Eraclito: tutto scorre
il modello della democrazia diretta, assembleare, alla quale tutti coloro che sono riconosciuti come cittadini possono partecipare in prima persona. La supremazia della politica Al fine di comprendere bene la misura delle libertà presenti nella Grecia antica, è importante sottolineare alcune differenze essenziali tra la pólis e lo Stato come noi lo concepiamo. La città-stato greca non solo ingloba la religione (che è religione di Stato), ma incarna i valori morali e gestisce in prima persona sia le gare sportive sia gli spettacoli teatrali. In essa non vi è una netta distinzione tra ciò che è «pubblico» e ciò che è «privato», tra la società civile e lo Stato, e questo comporta la mancanza di tolleranza nei confronti di chi esprime il dissenso civile. Il primato della politica (termine che deriva proprio da pólis) è tale che non esiste nella lingua greca un vocabolo equivalente al nostro «individuo», proprio perché il singolo acquista un’identità soltanto in quanto cittadino, in quanto membro di una comunità. Solamente all’interno di questo orizzonte culturale possiamo
496-28 ca. Anassagora: si conosce per contrasto
490 ca.-? Protagora 490 ca.-dopo 391 Gorgia
I sofisti e Socrate
525 a.C.
470/69-399 Socrate 470/60-? Prodico di Ceo
500 a.C.
60-80 000 schiavi su una popolazione libera di 150 000 abitanti È opportuno, inoltre, chiarire i limiti delle conquiste civili dei Greci: i neonati deformi, gracili, bastardi (nati da genitori con nazionalità diverse o al di fuori di un matrimonio ufficiale), tanto più se di sesso femminile, possono essere abbandonati; un padre, se scopre che la figlia ha avuto rapporti sessuali prima del matrimonio, ha facoltà di venderla; una figlia può essere promessa sposa persino all’età di cinque anni. Anche il modello della democrazia ateniese presenta dei limiti, perché in essa l’attività politica è accessibile solo ai cittadini cosiddetti liberi:
484-21 ca. Empedocle: si conosce per somiglianza
460 ca.-413 ca. Trasimaco 460/50-403 Crizia
475 a.C.
450-380 ca. Euclide di Megara 443 ca.-prima metà IV secolo Ippia
450 a.C.
478 liberazione dai Persiani delle città ioniche da parte dello spartano Pausania
148
capire l’affermazione che lo storico Tucidide mette in bocca a Pericle: chi si occupa solo degli affari privati e non partecipa all’attività politica è da considerarsi del tutto «inutile». Sono informazioni, queste, che è necessario tenere presente se vogliamo avere un’immagine accurata della società greca.
462-451 ad Atene riforma di Pericle e attuazione dello Stato democratico
443-429 età di Pericle
sono escluse le donne, come sono esclusi i numerosi schiavi e stranieri presenti in città (si tenga presente che nei periodi di massima fioritura della pólis gli schiavi toccano una cifra che va dalle 60 000 alle 80 000 unità su una popolazione libera di 150 000 abitanti). Siamo quindi in presenza di una massa notevole di esclusi. Questo tuttavia non ci autorizza a cadere nell’eccesso opposto e a definire la democrazia ateniese come il governo dei proprietari di schiavi, in quanto il numero dei cittadini liberi senza schiavi è tutt’altro che irrilevante. Possiamo invece parlare di una democrazia di fatto (non di diritto) accessibile a pochi. E un privilegio di un’élite (gli uomini liberi dalla fatica di lavorare) è anche la ricerca filosofica, sebbene teoricamente sia aperta a tutti in quanto tutti sono dotati di ragione. Il primato di Atene Grazie alle guerre contro i Persiani (che vengono sconfitti prima a Maratona nel 489 a. C., poi a Sa-
387-67 ca. Platone: filosofo è chi cerca la verità; mito della caverna
seconda metà del V secolo Antifonte
436 ca.-366 ca. Antistene 435-366 Aristippo
425 a.C.
431-404 guerra del Peloponneso (Atene contro Sparta), che si conclude con la capitolazione di Atene e l’instaurazione dell’oligarchia (Trenta tiranni)
413-323 ca. Diogene di Sinope
400 a.C.
399 condanna a morte di Socrate
375 a.C.
395-87 guerra corinzia contro l’egemonia di Sparta
403 restaurazione della democrazia ad Atene
350 a.C.
371-62 egemonia tebana
325 a.C.
358-23 unificazione della Macedonia e spedizioni di conquista di Filippo II e del figlio Alessandro
149
Il contesto storico-culturale
Dalla chiusura aristocratica alla dinamicità democratica Le comunità greche, come abbiamo già visto, si collocano in uno scenario geografico molto esteso, che va dalla Spagna e dalla Francia meridionale alle coste dell’Asia Minore. Particolarmente significativa è, al di fuori della madrepatria, la presenza greca nella cosiddetta «Magna Grecia» (ovvero nella parte continentale dell’Italia ellenizzata) e in Sicilia. Nel periodo che va dalla vittoria sui Persiani (478 a. C.) all’inizio della seconda guerra del Peloponneso (431 a. C.) l’intero mondo ellenico conosce una notevole fioritura sociale e culturale. In Grecia, in particolare, l’economia agraria lascia rapidamente il posto al nuovo modello artigianale e mercantile. Alla società aristocratica chiusa, in cui lo status sociale era legato alla nascita, subentra una società dinamica, aperta, caratterizzata dalla mobilità di classe legata alla ricchezza e alla capacità individuale. Dal punto di vista politico, nel v secolo a. C. si afferma ad Atene e in altre città LE IDEE
540-480 ca. Eraclito: tutto scorre
il modello della democrazia diretta, assembleare, alla quale tutti coloro che sono riconosciuti come cittadini possono partecipare in prima persona. La supremazia della politica Al fine di comprendere bene la misura delle libertà presenti nella Grecia antica, è importante sottolineare alcune differenze essenziali tra la pólis e lo Stato come noi lo concepiamo. La città-stato greca non solo ingloba la religione (che è religione di Stato), ma incarna i valori morali e gestisce in prima persona sia le gare sportive sia gli spettacoli teatrali. In essa non vi è una netta distinzione tra ciò che è «pubblico» e ciò che è «privato», tra la società civile e lo Stato, e questo comporta la mancanza di tolleranza nei confronti di chi esprime il dissenso civile. Il primato della politica (termine che deriva proprio da pólis) è tale che non esiste nella lingua greca un vocabolo equivalente al nostro «individuo», proprio perché il singolo acquista un’identità soltanto in quanto cittadino, in quanto membro di una comunità. Solamente all’interno di questo orizzonte culturale possiamo
496-28 ca. Anassagora: si conosce per contrasto
490 ca.-? Protagora 490 ca.-dopo 391 Gorgia
I sofisti e Socrate
525 a.C.
470/69-399 Socrate 470/60-? Prodico di Ceo
500 a.C.
60-80 000 schiavi su una popolazione libera di 150 000 abitanti È opportuno, inoltre, chiarire i limiti delle conquiste civili dei Greci: i neonati deformi, gracili, bastardi (nati da genitori con nazionalità diverse o al di fuori di un matrimonio ufficiale), tanto più se di sesso femminile, possono essere abbandonati; un padre, se scopre che la figlia ha avuto rapporti sessuali prima del matrimonio, ha facoltà di venderla; una figlia può essere promessa sposa persino all’età di cinque anni. Anche il modello della democrazia ateniese presenta dei limiti, perché in essa l’attività politica è accessibile solo ai cittadini cosiddetti liberi:
484-21 ca. Empedocle: si conosce per somiglianza
460 ca.-413 ca. Trasimaco 460/50-403 Crizia
475 a.C.
450-380 ca. Euclide di Megara 443 ca.-prima metà IV secolo Ippia
450 a.C.
478 liberazione dai Persiani delle città ioniche da parte dello spartano Pausania
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capire l’affermazione che lo storico Tucidide mette in bocca a Pericle: chi si occupa solo degli affari privati e non partecipa all’attività politica è da considerarsi del tutto «inutile». Sono informazioni, queste, che è necessario tenere presente se vogliamo avere un’immagine accurata della società greca.
462-451 ad Atene riforma di Pericle e attuazione dello Stato democratico
443-429 età di Pericle
sono escluse le donne, come sono esclusi i numerosi schiavi e stranieri presenti in città (si tenga presente che nei periodi di massima fioritura della pólis gli schiavi toccano una cifra che va dalle 60 000 alle 80 000 unità su una popolazione libera di 150 000 abitanti). Siamo quindi in presenza di una massa notevole di esclusi. Questo tuttavia non ci autorizza a cadere nell’eccesso opposto e a definire la democrazia ateniese come il governo dei proprietari di schiavi, in quanto il numero dei cittadini liberi senza schiavi è tutt’altro che irrilevante. Possiamo invece parlare di una democrazia di fatto (non di diritto) accessibile a pochi. E un privilegio di un’élite (gli uomini liberi dalla fatica di lavorare) è anche la ricerca filosofica, sebbene teoricamente sia aperta a tutti in quanto tutti sono dotati di ragione. Il primato di Atene Grazie alle guerre contro i Persiani (che vengono sconfitti prima a Maratona nel 489 a. C., poi a Sa-
387-67 ca. Platone: filosofo è chi cerca la verità; mito della caverna
seconda metà del V secolo Antifonte
436 ca.-366 ca. Antistene 435-366 Aristippo
425 a.C.
431-404 guerra del Peloponneso (Atene contro Sparta), che si conclude con la capitolazione di Atene e l’instaurazione dell’oligarchia (Trenta tiranni)
413-323 ca. Diogene di Sinope
400 a.C.
399 condanna a morte di Socrate
375 a.C.
395-87 guerra corinzia contro l’egemonia di Sparta
403 restaurazione della democrazia ad Atene
350 a.C.
371-62 egemonia tebana
325 a.C.
358-23 unificazione della Macedonia e spedizioni di conquista di Filippo II e del figlio Alessandro
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Il contesto storico-culturale
lamina nel 480 a. C.) Atene si conquista il primato sul campo, un primato che continua a svolgere nella lega navale ellenica (delio-attica) avente come obiettivo dichiarato la prosecuzione della difesa dai Persiani e che con il generale Cimone diventa addirittura interferenza negli affari di altre città. È questo il contesto in cui emerge una figura di altissima statura che segnerà la politica ateniese per un quarantennio: Pericle. Entra sulla scena politica quando ha circa trent’anni nel ruolo di accusatore di Cimone. La caduta in disgrazia di quest’ultimo in seguito a un’infelice operazione militare in soccorso di Sparta contro i Messeni (che si sono ribellati a Sparta, approfittando di un terribile terremoto che la mette in ginocchio) apre la strada a Pericle prima come personaggio influente, poi, per quindici anni consecutivi, in qualità di stratega. È lui che si fa promotore di una svolta propugnando il valore della democrazia, il primato dell’interesse pubblico su quello privato, la politica come campo di mediazione dei conflitti privati, la spesa pubblica come uno strumento di uguaglianza, il diritto alla remunerazione per i cittadini che esercitano una funzione pubblica. È sempre lui che fa di Atene una città cosmopolita attirando a sé i migliori intellettuali dalle aree più diverse della Grecia (da Anassagora a Protagora, da Parmenide a Zenone, da Gorgia a Prodico), che progetta la ricostruzione e la costruzione di edifici pubblici imponenti che rappresentano il segno tangibile dell’egemonia ateniese, che dà impulso alle attività economiche. Non mancano, tuttavia, dei problemi molto seri: in politica estera Pericle si trova a gestire le ribellioni di Mileto, Eubea e Samo, e il primo conflitto con Sparta; in politica interna, con le sue riforme, poi, inevitabilmente si scontra con gli interessi dei conservatori. Lo stesso storico Tucidide lo descrive come un demagogo, come colui che conduce il
150
popolo invece che farsi condurre da esso, come il primo cittadino che governa al posto del popolo. Diverse persone del suo entourage, poi, diventano bersaglio di attacchi: Anassagora, suo consulente, viene accusato di empietà, lo scultore Fidia di aver messo le mani su oro e avorio finalizzati alla realizzazione della statua di Atena, la sua compagna Aspasia di aver fatto della sua casa un bordello.
La filosofia e le arti Queste trasformazioni determinano l’abbandono dei temi naturalistici e la centralità dell’interesse per l’uomo, emerge nell’opera dei sofisti e di Socrate. Per entrambi, la filosofia ha come oggetto l’uomo e la società, e si realizza nella città, in una dimensione sociale e interpersonale.
Pericle esce di scena nel 429 a. C. dopo essere stato colpito dalla peste che ha infestato Atene nel 430 (muore con i suoi due figli legittimi – Pericle il giovane, figlio di Aspasia, verrà giustiziato nel 406 a. C., assieme ad altri strateghi, in seguito al celebre processo delle Arginuse di cui parla Platone nella sua Apologia di Socrate).
Allo sviluppo della filosofia fa riscontro la fioritura del teatro, della scultura e dell’architettura,
Il modello ateniese appare con tutta la sua forza nell’Epitaffio per i caduti della guerra del Peloponneso che Tucidide mette in bocca a Pericle (T1). Siamo di fronte a un discorso che esprime l’orgoglio di una città divenuta un modello per tante póleis greche: in primo luogo sotto il profilo politico in quanto Atene ha scelto la democrazia, un regime in cui i cittadini sono uguali davanti alla legge, chi amministra lo Stato non lo fa «nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza», chi è incaricato a occupare cariche pubbliche è selezionato non in base alla classe sociale di provenienza, ma al merito; un modello, in secondo luogo, nell’amore per il bello ma «senza esagerazione», nella cultura ma «senza mollezza», nella ricchezza ma solo come mezzo, nel gran numero di giochi e di feste e nella ingente quantità di beni importati da «tutta la terra», nell’equilibrio tra interessi privati e pubblici. L’Epitaffio è stato a lungo considerato il manifesto della democrazia. Tuttavia, tenendo presenti anche le critiche che lo stesso Tucidide rivolge a Pericle, dovremmo ritenerlo più un modello ideale che la descrizione della effettiva democrazia di Atene.
nonché della storiografia, un genere strettamente legato alla nuova realtà politica. La decadenza Con l’inizio della seconda guerra del Peloponneso fra Sparta e Atene, il modello delle póleis si avvia a un rapido declino. Dopo il governo dei Trenta tiranni, imposto da Sparta, la restaurata democrazia ateniese pronuncia la condanna a morte nei confronti di Socrate (399 a. C.): è quasi l’evento simbolico che pone fine alla simbiosi tra i filosofi e la città.
ATENE E LE PÓLEIS DEMOCRATICHE DEL V SECOLO A. C. Atene, patria di Antifonte, Crizia, Socrate, Antistene, negli anni in cui è governata da Pericle si trasforma in un laboratorio culturale grazie a personaggi di rilievo, tra cui Anassagora, Protagora e Gorgia. Il regime democratico è lo sfondo naturale
della sofistica. Occorre saper parlare in pubblico in modo persuasivo. Si forma, di conseguenza, un nuovo «mercato»: quello dei professionisti della parola, i «sofisti», che vendono la loro arte viaggiando da una città all’altra. Questo mercato viene subito avvertito
come scandaloso dagli intellettuali della tradizione. I sofisti sono quasi tutti stranieri, esclusi, in quanto tali, dalla politica. Essi vendono un sapere, o meglio un’arte – la retorica – che non solo si distingue dalla sapienza tradizionale, ma anche dalle arti tradizionali
quali quelle del medico o dell’artigiano. La retorica intende fornire gli strumenti di base al cittadino; il fatto però che si tratti di un’arte a pagamento porta inevitabilmente a suddividere i cittadini fra quelli che sono in grado di acquistarla e quelli che non possono permettersela. Ma i sofisti sono prima di tutto intellettuali controSinope
Abdera Calcedone
Lentini Siracusa
Delfi Megara Elide Atene Olimpia Argo Ceo Sparta
Cirene
Mileto
corrente che avvertono l’esigenza di voltare pagina, abbandonando le indagini sulla natura per cercare di risolvere i problemi della politica. Lo scenario dei sofisti è lo stesso in cui opera Socrate, la cui filosofia è anch’essa caratterizzata da un profondo umanesimo. Radicalmente diversi ne sono, però, il metodo e i contenuti. Alla retorica, che serve per persuadere, Socrate contrappone il dialogo come ricerca in comune, ai discorsi lunghi dei sofisti, che mirano a convincere gli ascoltatori, i discorsi brevi, che lasciano la parola all’interlocutore e aprono al confronto. Per i sofisti, la pólis è soprattutto il luogo del confronto politico e il filosofo insegna l’arte del discorso per primeggiare, per imporre il proprio punto di vista all’assemblea; per Socrate la pólis è prima di tutto comunità e il filosofo ne rappresenta, in un certo senso, la coscienza morale.
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Il contesto storico-culturale
lamina nel 480 a. C.) Atene si conquista il primato sul campo, un primato che continua a svolgere nella lega navale ellenica (delio-attica) avente come obiettivo dichiarato la prosecuzione della difesa dai Persiani e che con il generale Cimone diventa addirittura interferenza negli affari di altre città. È questo il contesto in cui emerge una figura di altissima statura che segnerà la politica ateniese per un quarantennio: Pericle. Entra sulla scena politica quando ha circa trent’anni nel ruolo di accusatore di Cimone. La caduta in disgrazia di quest’ultimo in seguito a un’infelice operazione militare in soccorso di Sparta contro i Messeni (che si sono ribellati a Sparta, approfittando di un terribile terremoto che la mette in ginocchio) apre la strada a Pericle prima come personaggio influente, poi, per quindici anni consecutivi, in qualità di stratega. È lui che si fa promotore di una svolta propugnando il valore della democrazia, il primato dell’interesse pubblico su quello privato, la politica come campo di mediazione dei conflitti privati, la spesa pubblica come uno strumento di uguaglianza, il diritto alla remunerazione per i cittadini che esercitano una funzione pubblica. È sempre lui che fa di Atene una città cosmopolita attirando a sé i migliori intellettuali dalle aree più diverse della Grecia (da Anassagora a Protagora, da Parmenide a Zenone, da Gorgia a Prodico), che progetta la ricostruzione e la costruzione di edifici pubblici imponenti che rappresentano il segno tangibile dell’egemonia ateniese, che dà impulso alle attività economiche. Non mancano, tuttavia, dei problemi molto seri: in politica estera Pericle si trova a gestire le ribellioni di Mileto, Eubea e Samo, e il primo conflitto con Sparta; in politica interna, con le sue riforme, poi, inevitabilmente si scontra con gli interessi dei conservatori. Lo stesso storico Tucidide lo descrive come un demagogo, come colui che conduce il
150
popolo invece che farsi condurre da esso, come il primo cittadino che governa al posto del popolo. Diverse persone del suo entourage, poi, diventano bersaglio di attacchi: Anassagora, suo consulente, viene accusato di empietà, lo scultore Fidia di aver messo le mani su oro e avorio finalizzati alla realizzazione della statua di Atena, la sua compagna Aspasia di aver fatto della sua casa un bordello.
La filosofia e le arti Queste trasformazioni determinano l’abbandono dei temi naturalistici e la centralità dell’interesse per l’uomo, emerge nell’opera dei sofisti e di Socrate. Per entrambi, la filosofia ha come oggetto l’uomo e la società, e si realizza nella città, in una dimensione sociale e interpersonale.
Pericle esce di scena nel 429 a. C. dopo essere stato colpito dalla peste che ha infestato Atene nel 430 (muore con i suoi due figli legittimi – Pericle il giovane, figlio di Aspasia, verrà giustiziato nel 406 a. C., assieme ad altri strateghi, in seguito al celebre processo delle Arginuse di cui parla Platone nella sua Apologia di Socrate).
Allo sviluppo della filosofia fa riscontro la fioritura del teatro, della scultura e dell’architettura,
Il modello ateniese appare con tutta la sua forza nell’Epitaffio per i caduti della guerra del Peloponneso che Tucidide mette in bocca a Pericle (T1). Siamo di fronte a un discorso che esprime l’orgoglio di una città divenuta un modello per tante póleis greche: in primo luogo sotto il profilo politico in quanto Atene ha scelto la democrazia, un regime in cui i cittadini sono uguali davanti alla legge, chi amministra lo Stato non lo fa «nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza», chi è incaricato a occupare cariche pubbliche è selezionato non in base alla classe sociale di provenienza, ma al merito; un modello, in secondo luogo, nell’amore per il bello ma «senza esagerazione», nella cultura ma «senza mollezza», nella ricchezza ma solo come mezzo, nel gran numero di giochi e di feste e nella ingente quantità di beni importati da «tutta la terra», nell’equilibrio tra interessi privati e pubblici. L’Epitaffio è stato a lungo considerato il manifesto della democrazia. Tuttavia, tenendo presenti anche le critiche che lo stesso Tucidide rivolge a Pericle, dovremmo ritenerlo più un modello ideale che la descrizione della effettiva democrazia di Atene.
nonché della storiografia, un genere strettamente legato alla nuova realtà politica. La decadenza Con l’inizio della seconda guerra del Peloponneso fra Sparta e Atene, il modello delle póleis si avvia a un rapido declino. Dopo il governo dei Trenta tiranni, imposto da Sparta, la restaurata democrazia ateniese pronuncia la condanna a morte nei confronti di Socrate (399 a. C.): è quasi l’evento simbolico che pone fine alla simbiosi tra i filosofi e la città.
ATENE E LE PÓLEIS DEMOCRATICHE DEL V SECOLO A. C. Atene, patria di Antifonte, Crizia, Socrate, Antistene, negli anni in cui è governata da Pericle si trasforma in un laboratorio culturale grazie a personaggi di rilievo, tra cui Anassagora, Protagora e Gorgia. Il regime democratico è lo sfondo naturale
della sofistica. Occorre saper parlare in pubblico in modo persuasivo. Si forma, di conseguenza, un nuovo «mercato»: quello dei professionisti della parola, i «sofisti», che vendono la loro arte viaggiando da una città all’altra. Questo mercato viene subito avvertito
come scandaloso dagli intellettuali della tradizione. I sofisti sono quasi tutti stranieri, esclusi, in quanto tali, dalla politica. Essi vendono un sapere, o meglio un’arte – la retorica – che non solo si distingue dalla sapienza tradizionale, ma anche dalle arti tradizionali
quali quelle del medico o dell’artigiano. La retorica intende fornire gli strumenti di base al cittadino; il fatto però che si tratti di un’arte a pagamento porta inevitabilmente a suddividere i cittadini fra quelli che sono in grado di acquistarla e quelli che non possono permettersela. Ma i sofisti sono prima di tutto intellettuali controSinope
Abdera Calcedone
Lentini Siracusa
Delfi Megara Elide Atene Olimpia Argo Ceo Sparta
Cirene
Mileto
corrente che avvertono l’esigenza di voltare pagina, abbandonando le indagini sulla natura per cercare di risolvere i problemi della politica. Lo scenario dei sofisti è lo stesso in cui opera Socrate, la cui filosofia è anch’essa caratterizzata da un profondo umanesimo. Radicalmente diversi ne sono, però, il metodo e i contenuti. Alla retorica, che serve per persuadere, Socrate contrappone il dialogo come ricerca in comune, ai discorsi lunghi dei sofisti, che mirano a convincere gli ascoltatori, i discorsi brevi, che lasciano la parola all’interlocutore e aprono al confronto. Per i sofisti, la pólis è soprattutto il luogo del confronto politico e il filosofo insegna l’arte del discorso per primeggiare, per imporre il proprio punto di vista all’assemblea; per Socrate la pólis è prima di tutto comunità e il filosofo ne rappresenta, in un certo senso, la coscienza morale.
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1. La sofistica
Uno sguardo d’insieme
La sofistica
1
I SOFISTI
ne consegue
ogni popolo ha i suoi valori
relativismo (non esiste una verità universale)
Atene, durante l’età di Pericle, diventa un laboratorio non soltanto politico ma anche culturale. A vivacizzarlo sono soprattutto alcuni intellettuali, per lo più stranieri, che vengono chiamati «sofisti», cioè sapienti. Si tratta di uomini di cultura che si distinguono subito per la spregiudicatezza con cui attaccano e dissacrano i valori della tradizione (motivo per cui vengono considerati una sorta di illuministi ante litteram): tra loro vi è chi giunge all’agnosticismo e chi, addirittura, all’ateismo; alcuni, poi, sono tanto critici da mettere in discussione la stessa democrazia e teorizzare la disuguaglianza naturale degli uomini.
La relatività dei valori
Ciò che i sofisti prendono a bersaglio è in primo luogo ogni presunta verità assoluta: da qui il loro relativismo, cioè la convinzione che i valori siano relativi ai diversi popoli e quindi siano diversi da pólis a pólis, da Paese a Paese. I Ragionamenti doppi (90, 2), di autore anonimo, sono chiari in proposito: i Persiani, ad esempio, considerano l’incesto una cosa buona, mentre i Greci ritengono che sia turpe; per i Lidi è una cosa buona che le giovani si sposino dopo aver praticato la prostituzione, mentre in Grecia tali fanciulle non troverebbero nessuno disponibile a sposarle; i Massageti sono convinti che la migliore sepoltura dei genitori sia lo stomaco dei figli, mentre in Grecia se qualcuno si comportasse in questo modo sarebbe cacciato dalla città come responsabile di un’azione terribile.
Una merce speciale
Siamo in presenza, dunque, di filosofi di un genere del tutto nuovo, che offrono l’insegnamento dietro compenso in denaro, suscitando scandalo.
quindi
ma allora
il filosofo può solo contribuire a risolvere i problemi politici concreti dell’uomo
perciò
svolta antropologica
quindi
il filosofo non può offrire un «sapere», ma un «saper fare»: l’arte della retorica
condivide la
SOCRATE
però afferma che
esistono valori universali (la virtù)
È
in quanto di conseguenza
è possibile un sapere comune
la democrazia lo spazio dei nuovi filosofi. Siamo in presenza di una forma di governo che pone con forza l’esigenza della «formazione politica»: senza questa, infatti, i cittadini aventi diritto a partecipare all’assemblea non sarebbero in grado di fornire il loro fattivo contributo alla formazione delle leggi. In questa direzione si muovono sia i sofisti sia Socrate: i primi offrendo un «saper fare» (l’arte di costruire discorsi persuasivi) che è fondamentale in una democrazia che ha come cuore l’assemblea; Socrate invitando i suoi concittadini ad andare oltre il linguaggio, oltre la retorica, alla ricerca di valori senza i quali l’uomo non sarebbe tale, né sarebbe un buon cittadino. Questo pas-
152
raggiungibile con
basato sulla ragione
la maieutica e il dialogo
saggio fondamentale nella storia della riflessione filosofica è caratterizzato dunque da una svolta antropologica: l’interesse dei filosofi che operano nella pólis democratica non è più orientato a dipanare il mistero dell’universo, ma a offrire un contributo per risolvere i problemi della comunità, i problemi dell’uomo quale essere sociale. Al di là dei metodi e degli esiti teorici diversi, i sofisti e Socrate condividono dunque alcuni presupposti filosofici fondamentali: la centralità dell’uomo, l’idea che la ricerca della felicità debba essere il fine dell’azione, la convinzione che l’educazione formi gli individui e, quindi, che ogni individuo possa costruire il proprio destino, formando se stesso.
WEB
Illuministi ante litteram è possibile conoscere solo i fenomeni (rinuncia alla metafisica)
l’uomo non può sapere se esistono o meno gli dèi (agnosticismo religioso)
tempo, Erodoto precursore dell’antropologia culturale X Dialoghi filosofici, I sofisti
PROFILO
le sensazioni sono soggettive
X La storia e la cultura del
Il sapere insegnato dai sofisti non ha nulla a che vedere né con la sapienza tradizionale, né con le conoscenze professionali. Più che un sapere, anzi, il loro, è un «saper fare»: la retorica, vale a dire l’arte del parlare in pubblico in modo persuasivo, di costruire discorsi capaci di catturare il consenso. Essi si offrono, in altre parole, come professionisti della parola rispondendo così a una domanda forte del mercato espressa dalla democrazia: in questa sono gli stessi cittadini liberi che in assemblea, grazie proprio alla loro capacità di conquistare il consenso, riescono a far approvare determinate delibere invece di altre. Rispondono, in ultima analisi, a una imprescindibile esigenza di formazione «politica», una formazione che fornisca ai cittadini gli strumenti per emergere ovunque: non solo nelle assemblee deputate a prendere decisioni politiche, ma anche in tribunale e nella stessa conduzione degli affari privati. Retorica (dal greco rhetoriké téchne, «tecnica del parlare»). È l’arte di parlare e scrivere con forza persuasiva. Gli iniziatori, secondo la tradizione, sono Corace e Tisia. Si tratta di due «avvocati» che, ricorrendo alle tecniche studiate apposta per convincere le giurie popolari, perorano la causa delle famiglie siracusane che, rientrate dall’esilio nel 467 a. C., vogliono
tornare in possesso dei beni confiscati. Un altro padre della retorica è considerato Empedocle, il quale sottolinea l’esigenza di suscitare con il linguaggio reazioni emotive negli ascoltatori. La retorica registra nella storia alterne fortune: talora svalutata (in particolare, in seguito alla sofistica, a opera di Platone), talaltra molto apprezzata (si pensi al periodo
romano grazie a Cicerone e a Quintiliano). Oggi, nonostante la persistenza del significato negativo (presente in espressioni come «un discorso retorico» o «un articolo di giornale pieno di retorica»), si sta assistendo a una rifioritura della retorica, intesa come studio sistematico delle argomentazioni che si espongono per giustificare decisioni e scelte.
153
1. La sofistica
Uno sguardo d’insieme
La sofistica
1
I SOFISTI
ne consegue
ogni popolo ha i suoi valori
relativismo (non esiste una verità universale)
Atene, durante l’età di Pericle, diventa un laboratorio non soltanto politico ma anche culturale. A vivacizzarlo sono soprattutto alcuni intellettuali, per lo più stranieri, che vengono chiamati «sofisti», cioè sapienti. Si tratta di uomini di cultura che si distinguono subito per la spregiudicatezza con cui attaccano e dissacrano i valori della tradizione (motivo per cui vengono considerati una sorta di illuministi ante litteram): tra loro vi è chi giunge all’agnosticismo e chi, addirittura, all’ateismo; alcuni, poi, sono tanto critici da mettere in discussione la stessa democrazia e teorizzare la disuguaglianza naturale degli uomini.
La relatività dei valori
Ciò che i sofisti prendono a bersaglio è in primo luogo ogni presunta verità assoluta: da qui il loro relativismo, cioè la convinzione che i valori siano relativi ai diversi popoli e quindi siano diversi da pólis a pólis, da Paese a Paese. I Ragionamenti doppi (90, 2), di autore anonimo, sono chiari in proposito: i Persiani, ad esempio, considerano l’incesto una cosa buona, mentre i Greci ritengono che sia turpe; per i Lidi è una cosa buona che le giovani si sposino dopo aver praticato la prostituzione, mentre in Grecia tali fanciulle non troverebbero nessuno disponibile a sposarle; i Massageti sono convinti che la migliore sepoltura dei genitori sia lo stomaco dei figli, mentre in Grecia se qualcuno si comportasse in questo modo sarebbe cacciato dalla città come responsabile di un’azione terribile.
Una merce speciale
Siamo in presenza, dunque, di filosofi di un genere del tutto nuovo, che offrono l’insegnamento dietro compenso in denaro, suscitando scandalo.
quindi
ma allora
il filosofo può solo contribuire a risolvere i problemi politici concreti dell’uomo
perciò
svolta antropologica
quindi
il filosofo non può offrire un «sapere», ma un «saper fare»: l’arte della retorica
condivide la
SOCRATE
però afferma che
esistono valori universali (la virtù)
È
in quanto di conseguenza
è possibile un sapere comune
la democrazia lo spazio dei nuovi filosofi. Siamo in presenza di una forma di governo che pone con forza l’esigenza della «formazione politica»: senza questa, infatti, i cittadini aventi diritto a partecipare all’assemblea non sarebbero in grado di fornire il loro fattivo contributo alla formazione delle leggi. In questa direzione si muovono sia i sofisti sia Socrate: i primi offrendo un «saper fare» (l’arte di costruire discorsi persuasivi) che è fondamentale in una democrazia che ha come cuore l’assemblea; Socrate invitando i suoi concittadini ad andare oltre il linguaggio, oltre la retorica, alla ricerca di valori senza i quali l’uomo non sarebbe tale, né sarebbe un buon cittadino. Questo pas-
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raggiungibile con
basato sulla ragione
la maieutica e il dialogo
saggio fondamentale nella storia della riflessione filosofica è caratterizzato dunque da una svolta antropologica: l’interesse dei filosofi che operano nella pólis democratica non è più orientato a dipanare il mistero dell’universo, ma a offrire un contributo per risolvere i problemi della comunità, i problemi dell’uomo quale essere sociale. Al di là dei metodi e degli esiti teorici diversi, i sofisti e Socrate condividono dunque alcuni presupposti filosofici fondamentali: la centralità dell’uomo, l’idea che la ricerca della felicità debba essere il fine dell’azione, la convinzione che l’educazione formi gli individui e, quindi, che ogni individuo possa costruire il proprio destino, formando se stesso.
WEB
Illuministi ante litteram è possibile conoscere solo i fenomeni (rinuncia alla metafisica)
l’uomo non può sapere se esistono o meno gli dèi (agnosticismo religioso)
tempo, Erodoto precursore dell’antropologia culturale X Dialoghi filosofici, I sofisti
PROFILO
le sensazioni sono soggettive
X La storia e la cultura del
Il sapere insegnato dai sofisti non ha nulla a che vedere né con la sapienza tradizionale, né con le conoscenze professionali. Più che un sapere, anzi, il loro, è un «saper fare»: la retorica, vale a dire l’arte del parlare in pubblico in modo persuasivo, di costruire discorsi capaci di catturare il consenso. Essi si offrono, in altre parole, come professionisti della parola rispondendo così a una domanda forte del mercato espressa dalla democrazia: in questa sono gli stessi cittadini liberi che in assemblea, grazie proprio alla loro capacità di conquistare il consenso, riescono a far approvare determinate delibere invece di altre. Rispondono, in ultima analisi, a una imprescindibile esigenza di formazione «politica», una formazione che fornisca ai cittadini gli strumenti per emergere ovunque: non solo nelle assemblee deputate a prendere decisioni politiche, ma anche in tribunale e nella stessa conduzione degli affari privati. Retorica (dal greco rhetoriké téchne, «tecnica del parlare»). È l’arte di parlare e scrivere con forza persuasiva. Gli iniziatori, secondo la tradizione, sono Corace e Tisia. Si tratta di due «avvocati» che, ricorrendo alle tecniche studiate apposta per convincere le giurie popolari, perorano la causa delle famiglie siracusane che, rientrate dall’esilio nel 467 a. C., vogliono
tornare in possesso dei beni confiscati. Un altro padre della retorica è considerato Empedocle, il quale sottolinea l’esigenza di suscitare con il linguaggio reazioni emotive negli ascoltatori. La retorica registra nella storia alterne fortune: talora svalutata (in particolare, in seguito alla sofistica, a opera di Platone), talaltra molto apprezzata (si pensi al periodo
romano grazie a Cicerone e a Quintiliano). Oggi, nonostante la persistenza del significato negativo (presente in espressioni come «un discorso retorico» o «un articolo di giornale pieno di retorica»), si sta assistendo a una rifioritura della retorica, intesa come studio sistematico delle argomentazioni che si espongono per giustificare decisioni e scelte.
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I sofisti e Socrate
Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte
8
Il «demone» e la missione di Socrate Una voce interiore
180
Una morale umana, non divina
Lo stesso Reale, tuttavia, sottolinea il fatto, basandosi sull’Eutifrone di Platone, che la profonda religiosità non mette in discussione l’autonomia della sua morale in quanto i valori morali non sono tali perché sono voluti dalla divinità ma perché possiedono un’intrinseca validità. Anche Gregory Vlastos salva l’autonomia morale di Socrate, autonomia che il daimónion non inficia per nulla perché, indicando a Socrate ciò che non deve fare, lo stimola a trovare con la sua ragione la scelta giusta, ha cioè una funzione maieutica. Su tale ruolo maieutico si sofferma anche Francesco Adorno: secondo lui il demone socratico «non è né l’intuizione, né l’ispirazione, né l’interna voce romantica che dice quello che dobbiamo fare; anzi, l’opposto: è un “alt”, un’“attenzione”, non un “via libera”, esso è un invito a non “accontentarsi” mai, a non accettare nulla se non attraverso il vaglio critico, volta a volta, secondo ragione, mediante l’“esame”» (F. Adorno, Introduzione a Socrate, p. 112).
Ruolo morale della divinità
Socrate parla del divino come di qualcosa di soprannaturale: il suo divino, cioè, non ha nulla a che vedere con la divinità che i precedenti filosofi della natura hanno razionalizzato e collocato nella natura stessa. O meglio i suoi dèi sono nello stesso tempo soprannaturali e razionali «in quanto sono razionalmente morali» (G. Vlastos, Socrate, p. 216): essi incarnano al sommo grado quella virtù che costituisce ciò che rende davvero uomo un individuo. È impensabile che gli dèi possano fare del male a qualcuno, quindi è del tutto assente in Socrate l’idea, tipica della magia, secondo cui l’uomo, con i suoi riti, è in grado di realizzare i suoi desideri mediante potenze soprannaturali: gli dèi non sono funzionali agli interessi degli uomini (ricevere del bene o fare del male ai nemici), non decidono che cosa è giusto e che cosa non lo è, né assegnano premi e castighi nell’aldilà, ma vogliono per gli uomini ciò che gli uomini stessi vorrebbero se fossero virtuosi. La divinità, inoltre, non esercita solo un ruolo morale: stando ai Memorabili di Socrate di Senofonte, Socrate è convinto che senza una mente ordinatrice divina non si spiegherebbe l’ordine presente nell’universo (una concezione con molta probabilità mutuata da Anassagora).
Scuotere la città dal torpore
In questa dimensione del «sacro» si colloca la missione che Socrate sente di dover compiere e che egli chiama «divina»: risvegliare la sua città, punzecchiarla alla maniera di un «tafano», smascherare e svergognare tutti coloro che scambiano per valori il potere, la fama, la bellezza fisica. È una missione «pubblica», anzi «politica»: pur lontano dalla politica attiva, Socrate ha molto a cuore il bene della città, un bene che va oltre la politica stessa perché riguarda l’uomo, ogni uomo. La sua missione, tuttavia, viene ritenuta pericolosa: è per questo che gli avversari politici sferrano contro di lui il loro attacco, facendo ricorso strumentalmente al pretesto religioso e Socrate, come già Anassagora e Protagora, viene accusato di empietà. PROFILO
Nodi di discussione, Il demone socratico: siamo in presenza della religiosità di Socrate?, p. 221
Originale è il rapporto di Socrate con il divino: egli si sente lontanissimo dall’antropomorfismo della religione ufficiale, ma non si professa né agnostico, né tanto meno ateo. Non solo avverte come divina la sua missione, ma spesso fa riferimento a una voce divina (il «demone») che sente dentro di sé, una sorta di oracolo interiore che gli dice ciò che non deve fare, che gli fa provare vergogna se compie ciò che non è giusto. Il termine daimónion è stato oggetto di una pluralità di interpretazioni nel corso della storia: vi è stato chi l’ha letto come la voce della coscienza, chi l’ha interpretato in chiave psicoanalitica come manifestazione dell’inconscio e chi, ancora, come una semplice invenzione poetica. Secondo Giovanni Reale il daimónion può essere colto nel suo senso genuino solo all’interno della profonda religiosità di Socrate perché questi non soltanto credeva negli dèi, ma era anche convinto che gli déi comunicassero con gli uomini virtuosi mediante intermediari, i demoni appunto, che pur non avendo una natura personale, esprimevano comunque una voce soprannaturale, una voce tale da rivelare all’uomo buono ciò che è più importante nelle attività umane (vedi Senofonte, Memorabili di Socrate).
8. Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte
Il processo e la condanna Socrate rischia la vita sia durante il regime democratico sia sotto quello dei Trenta tiranni. Egli – se prendiamo per buona la fonte platonica – sta alla larga dalla politica attiva: la considera, infatti, rischiosissima. Lo racconta egli stesso nella sua «difesa». Siamo nel 406 a. C.; Atene, grazie alla battaglia navale delle Arginuse, riesce a sconfiggere i suoi avversari del Peloponneso, ma con costi materiali e umani pesanti: venticinque navi affondate e duemila morti. La reazione popolare è enorme: gli strateghi ateniesi (tra cui anche il figlio minore di Pericle) vengono accusati di non avere fatto il possibile per salvare i naufraghi e per recuperare i cadaveri. È in questo processo che Socrate si trova a svolgere casualmente – grazie al fatto che è stata sorteggiata la sua tribù – il suo primo incarico pubblico: è membro del comitato dei «pritani» (cinquanta cittadini) che ha il compito di presiedere il Consiglio dei Cinquecento, la giuria popolare. Ed è in tale ruolo che – lui solo contro tutti i pritani – vota contro la condanna a morte in massa degli strateghi denunciandone l’illegalità: la legge, infatti, prevede che gli imputati vengano giudicati personalmente. Così, con la stessa coerenza morale, si comporta sotto il regime dei Trenta tiranni. Nel 404 a. C. Atene è in ginocchio dopo la sconfitta subita da una coalizione di póleis capeggiata da Sparta. In questo clima matura il colpo di Stato degli aristocratici che, guidati da Crizia, approfittano della nuova situazione, per rovesciare, con l’appoggio di Sparta, il governo democratico e instaurare il regime dei Trenta tiranni. Molti democratici vengono massacrati e molti mandati in esilio. Socrate rimane ad Atene, ma non ha nulla da spartire con il governo degli oligarchici e con il terrore da loro imposto, pur essendo amico di Crizia e di altri giovani, critici nei confronti della democrazia. E lo dimostra quando Crizia lo convoca e gli ordina di andare ad arrestare il democratico Leonte di Socrate durante il processo per corruzione di giovani ed empietà, illustrazione del XIX secolo.
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Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte
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Una morale umana, non divina
Lo stesso Reale, tuttavia, sottolinea il fatto, basandosi sull’Eutifrone di Platone, che la profonda religiosità non mette in discussione l’autonomia della sua morale in quanto i valori morali non sono tali perché sono voluti dalla divinità ma perché possiedono un’intrinseca validità. Anche Gregory Vlastos salva l’autonomia morale di Socrate, autonomia che il daimónion non inficia per nulla perché, indicando a Socrate ciò che non deve fare, lo stimola a trovare con la sua ragione la scelta giusta, ha cioè una funzione maieutica. Su tale ruolo maieutico si sofferma anche Francesco Adorno: secondo lui il demone socratico «non è né l’intuizione, né l’ispirazione, né l’interna voce romantica che dice quello che dobbiamo fare; anzi, l’opposto: è un “alt”, un’“attenzione”, non un “via libera”, esso è un invito a non “accontentarsi” mai, a non accettare nulla se non attraverso il vaglio critico, volta a volta, secondo ragione, mediante l’“esame”» (F. Adorno, Introduzione a Socrate, p. 112).
Ruolo morale della divinità
Socrate parla del divino come di qualcosa di soprannaturale: il suo divino, cioè, non ha nulla a che vedere con la divinità che i precedenti filosofi della natura hanno razionalizzato e collocato nella natura stessa. O meglio i suoi dèi sono nello stesso tempo soprannaturali e razionali «in quanto sono razionalmente morali» (G. Vlastos, Socrate, p. 216): essi incarnano al sommo grado quella virtù che costituisce ciò che rende davvero uomo un individuo. È impensabile che gli dèi possano fare del male a qualcuno, quindi è del tutto assente in Socrate l’idea, tipica della magia, secondo cui l’uomo, con i suoi riti, è in grado di realizzare i suoi desideri mediante potenze soprannaturali: gli dèi non sono funzionali agli interessi degli uomini (ricevere del bene o fare del male ai nemici), non decidono che cosa è giusto e che cosa non lo è, né assegnano premi e castighi nell’aldilà, ma vogliono per gli uomini ciò che gli uomini stessi vorrebbero se fossero virtuosi. La divinità, inoltre, non esercita solo un ruolo morale: stando ai Memorabili di Socrate di Senofonte, Socrate è convinto che senza una mente ordinatrice divina non si spiegherebbe l’ordine presente nell’universo (una concezione con molta probabilità mutuata da Anassagora).
Scuotere la città dal torpore
In questa dimensione del «sacro» si colloca la missione che Socrate sente di dover compiere e che egli chiama «divina»: risvegliare la sua città, punzecchiarla alla maniera di un «tafano», smascherare e svergognare tutti coloro che scambiano per valori il potere, la fama, la bellezza fisica. È una missione «pubblica», anzi «politica»: pur lontano dalla politica attiva, Socrate ha molto a cuore il bene della città, un bene che va oltre la politica stessa perché riguarda l’uomo, ogni uomo. La sua missione, tuttavia, viene ritenuta pericolosa: è per questo che gli avversari politici sferrano contro di lui il loro attacco, facendo ricorso strumentalmente al pretesto religioso e Socrate, come già Anassagora e Protagora, viene accusato di empietà. PROFILO
Nodi di discussione, Il demone socratico: siamo in presenza della religiosità di Socrate?, p. 221
Originale è il rapporto di Socrate con il divino: egli si sente lontanissimo dall’antropomorfismo della religione ufficiale, ma non si professa né agnostico, né tanto meno ateo. Non solo avverte come divina la sua missione, ma spesso fa riferimento a una voce divina (il «demone») che sente dentro di sé, una sorta di oracolo interiore che gli dice ciò che non deve fare, che gli fa provare vergogna se compie ciò che non è giusto. Il termine daimónion è stato oggetto di una pluralità di interpretazioni nel corso della storia: vi è stato chi l’ha letto come la voce della coscienza, chi l’ha interpretato in chiave psicoanalitica come manifestazione dell’inconscio e chi, ancora, come una semplice invenzione poetica. Secondo Giovanni Reale il daimónion può essere colto nel suo senso genuino solo all’interno della profonda religiosità di Socrate perché questi non soltanto credeva negli dèi, ma era anche convinto che gli déi comunicassero con gli uomini virtuosi mediante intermediari, i demoni appunto, che pur non avendo una natura personale, esprimevano comunque una voce soprannaturale, una voce tale da rivelare all’uomo buono ciò che è più importante nelle attività umane (vedi Senofonte, Memorabili di Socrate).
8. Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte
Il processo e la condanna Socrate rischia la vita sia durante il regime democratico sia sotto quello dei Trenta tiranni. Egli – se prendiamo per buona la fonte platonica – sta alla larga dalla politica attiva: la considera, infatti, rischiosissima. Lo racconta egli stesso nella sua «difesa». Siamo nel 406 a. C.; Atene, grazie alla battaglia navale delle Arginuse, riesce a sconfiggere i suoi avversari del Peloponneso, ma con costi materiali e umani pesanti: venticinque navi affondate e duemila morti. La reazione popolare è enorme: gli strateghi ateniesi (tra cui anche il figlio minore di Pericle) vengono accusati di non avere fatto il possibile per salvare i naufraghi e per recuperare i cadaveri. È in questo processo che Socrate si trova a svolgere casualmente – grazie al fatto che è stata sorteggiata la sua tribù – il suo primo incarico pubblico: è membro del comitato dei «pritani» (cinquanta cittadini) che ha il compito di presiedere il Consiglio dei Cinquecento, la giuria popolare. Ed è in tale ruolo che – lui solo contro tutti i pritani – vota contro la condanna a morte in massa degli strateghi denunciandone l’illegalità: la legge, infatti, prevede che gli imputati vengano giudicati personalmente. Così, con la stessa coerenza morale, si comporta sotto il regime dei Trenta tiranni. Nel 404 a. C. Atene è in ginocchio dopo la sconfitta subita da una coalizione di póleis capeggiata da Sparta. In questo clima matura il colpo di Stato degli aristocratici che, guidati da Crizia, approfittano della nuova situazione, per rovesciare, con l’appoggio di Sparta, il governo democratico e instaurare il regime dei Trenta tiranni. Molti democratici vengono massacrati e molti mandati in esilio. Socrate rimane ad Atene, ma non ha nulla da spartire con il governo degli oligarchici e con il terrore da loro imposto, pur essendo amico di Crizia e di altri giovani, critici nei confronti della democrazia. E lo dimostra quando Crizia lo convoca e gli ordina di andare ad arrestare il democratico Leonte di Socrate durante il processo per corruzione di giovani ed empietà, illustrazione del XIX secolo.
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M 4
I sofisti e Socrate
Salamina, ma egli si rifiuta di ubbidire. Il governo dei Trenta tiranni dura poco, appena otto mesi: è tanto insopportabile che la stessa Sparta appoggia una controrivoluzione democratica che risulta vincente. La democrazia è restaurata, ma i democratici vincitori ora vivono di sospetti: hanno paura di chi osa disapprovarli, vedono cioè, nei loro critici, pericolosi nemici della pólis. Da qui la diffidenza nei confronti di Socrate il quale, avendo a lungo dialogato con i rampolli più brillanti dell’aristocrazia (tra cui lo stesso Crizia), viene accusato di essere non soltanto il maestro degli antidemocratici, ma anche di Alcibiade, il massimo responsabile della spericolata e disastrosa spedizione ateniese in Sicilia (vedi la scheda La Magna Grecia e la Sicilia: da Pitagora ad Alcibiade, p. 163).
T9 T10
La condanna
La morte di Socrate T12
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È nel clima di tali sospetti della restaurata democrazia che matura il processo a Socrate (399 a. C.), accusato di corrompere i giovani e di voler introdurre nuove divinità, cioè di essere immorale ed empio. Il processo è narrato da Platone, suo discepolo all’epoca dei fatti, nell’Apologia di Socrate. Anito, un esponente politico del partito democratico, l’ideatore e il promotore del processo, non si propone di farne un martire con la condanna a morte, ma di screditarlo, di togliergli l’aureola di uomo onestissimo: egli, infatti, non ha dubbi che Socrate, pur di salvarsi, scenderà a compromessi con la sua coscienza. Ma l’imputato si comporta in modo del tutto inatteso. Si difende, ma non si preoccupa minimamente di salvarsi. Smonta invece tutte le calunnie, da quella più antica di essere un pericoloso sofista, lanciatagli dal commediografo conservatore Aristofane nella sua commedia Le nuvole, a quelle più recenti. Socrate chiude la difesa chiedendo non pietà, ma giustizia. Si passa alla votazione: 280 sono i voti contrari all’imputato e 220 i favorevoli. A questo punto il condannato ha la facoltà di proporre una pena alternativa alla pena di morte, ad esempio l’esilio, ma Socrate si rifiuta di farlo perché sa di non aver mai commesso alcuna ingiustizia ed è consapevole che anche in esilio continuerebbe a compiere la sua missione e quindi sarebbe destinato a essere via via cacciato dalle città dove si recherebbe. Provoca anzi i giudici chiedendo di essere mantenuto a spese dello Stato perché nessuno, meglio di lui, ha offerto servizi ai suoi concittadini cercando di renderli davvero felici. Alla seconda votazione i voti a lui contrari aumentano: 360 contro 140. Socrate è condannato a morte, ma dimostra di non avere alcuna paura, perché è convinto che a un uomo che si è sempre comportato bene non può capitare nulla di male, né in vita né in morte. La condanna a morte non viene eseguita subito. Mentre Socrate è in carcere Critone, amico nonché discepolo, lo va a trovare con l’intento di proporgli la fuga, ma il filosofo rifiuta categoricamente la proposta: le leggi non vanno mai violate perché è solo grazie ad esse che l’uomo esce dall’animalità e diventa davvero uomo. Mai, dice con forza, si deve commettere ingiustizia, neanche quando si subisce ingiustizia: è un dovere dettato esclusivamente dalla ragione, rispetto alla quale il vivere e il morire sono del tutto secondari. È giunta l’ultima ora (quale è raccontata dal Fedone di Platone). Socrate è in cella circondato dagli amici. Arriva il carceriere con il veleno (la famosa cicuta – vedi la scheda a p. 183). Questi lo porta pestato in una tazza e, rivolto a Socrate, lo informa che deve passeggiare, dopo averlo bevuto, finché non sentirà il peso alle gambe: solo allora dovrà coricarsi e aspettare l’effetto. Socrate, sereno, «senza alterare il colore né l’espressione del viso», prende la tazza, prega gli dèi perché «la migrazione da questo mondo all’altro si compia con propizia fortuna», trattiene il respiro e beve «fino all’ultima goccia, senza alcun segno di disgusto e con facilità», poi cammina per la stanza. Quando sente le gambe pesanti, si sdraia, mentre il suo corpo progressivamente si raffredda. Le sue ultime parole sono: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio [dio della medicina]: dateglielo, non dimenticatevene!».
Socrate è, senza dubbio, un personaggio affascinante e, nello stesso tempo, inquietante. Così parla di lui Alcibiade, nel Simposio di Platone: «A viva forza [...], come dalle Sirene, io me ne allontano, turandomi le orecchie e dandomi alla fuga [...]. Solo di fronte a lui, in verità, io mi vergogno. Infatti, io sono ben consapevole di non essere in grado di contraddirlo, mostrandogli che non bisogna fare le cose che egli mi esorta a fare. Ma, poi, non appena io mi allontano da lui, mi lascio avvincere dagli onori che la moltitudine tributa. Perciò mi sottraggo a lui e lo rifuggo. E quando lo rivedo, mi vergogno per quelle cose che mi aveva fatto ammettere. E più volte mi viene voglia di non vederlo più fra i vivi. Ma se questo, poi, si verificasse, so bene che proverei un dolore molto maggiore: e, allora, io non so proprio come regolarmi con quest’uomo» (Platone, Simposio, 216a-216c).
Socrate, la torpedine marina
L’eredità di Socrate Un’icona
Socrate, grazie alla idealizzazione che ne ha fatto il discepolo Platone, è diventato nella storia del pensiero occidentale un’icona, un simbolo, e lo è tuttora: l’emblema dell’autentico filosofo (non il sapiente, ma il ricercatore della verità), l’eroe che giganteggia per il suo rigore morale e la sua coerenza, il libero pensatore che osa sfidare il potere politico e ne rimane brutalmente schiacciato.
Istanze universali
Non vi è dubbio che Socrate sia stato portatore di istanze che trascendono il suo tempo: la consapevolezza dei limiti del sapere umano; la morale come una conquista personale; il primato della coscienza; l’esaltazione della bellezza interiore; il principio secondo cui non si deve mai commettere ingiustizia anche quando la si subisce; l’educazione intesa come auto-educazione.
Un uomo radicato nella sua Atene
È altrettanto indubbio però che Socrate sia stato un uomo del suo tempo, ben radicato nella sua Atene: un libero pensatore ma anche profondamente religioso, un intellettuale contro-corrente ma anche immerso nella cultura a lui contemporanea (non a caso conser-
LA STORIA E LA CULTURA DEL TEMPO
La cicuta
Siamo in presenza – proprio grazie alla morte di Socrate – di uno dei veleni più celebri della storia. Il suo potere è quello di provocare la cosiddetta «morte fredda», mediante cioè un raffreddamento progressivo del corpo a partire dai piedi. Una morte «dolce»? Secondo la testimonianza di Platone, sì, ma non è escluso che l’illustre discepolo abbia voluto idealizzare la morte del maestro: vi sono, infatti, altre fonti che ne danno descrizioni più realistiche. Dolce o meno, un fatto è certo: si tratta di una morte di gran lunga preferibile alle morti violente a cui si è condannati, nel periodo in questione, per altri reati. Un atto di «umanità»? Alcuni storici sono convinti di sì: si sarebbe cioè di fronte alla prova più alta di umanità da parte di un popolo che non ha saputo cancellare la pena capitale. Se-
condo altri, invece, non c’entra la generosità degli Ateniesi, ma il calcolo politico: non è un caso che un largo uso della cicuta venga effettuato dai Trenta tiranni con l’obiettivo di sbarazzarsi, in silenzio, senza il clamore dei processi, degli avversari politici. Il costo della cicuta, poi, considerata la rarità della pianta ad Atene, è tale che non può essere concessa a tutti i condannati a morte: è equivalente, grosso modo, all’alimentazione di un uomo adulto per alcuni mesi. È per questa ragione che, quando viene introdotta, non sostituisce automaticamente la morte per precipitazione, ma diventa un privilegio di chi può permettersi di sobbarcarsene la spesa. Se ti interessa saperne di più, leggi, di Eva Cantarella, I supplizi capitali, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 82-92.
PROFILO
I capi di imputazione e la difesa di Socrate
8. Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte
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I sofisti e Socrate
Salamina, ma egli si rifiuta di ubbidire. Il governo dei Trenta tiranni dura poco, appena otto mesi: è tanto insopportabile che la stessa Sparta appoggia una controrivoluzione democratica che risulta vincente. La democrazia è restaurata, ma i democratici vincitori ora vivono di sospetti: hanno paura di chi osa disapprovarli, vedono cioè, nei loro critici, pericolosi nemici della pólis. Da qui la diffidenza nei confronti di Socrate il quale, avendo a lungo dialogato con i rampolli più brillanti dell’aristocrazia (tra cui lo stesso Crizia), viene accusato di essere non soltanto il maestro degli antidemocratici, ma anche di Alcibiade, il massimo responsabile della spericolata e disastrosa spedizione ateniese in Sicilia (vedi la scheda La Magna Grecia e la Sicilia: da Pitagora ad Alcibiade, p. 163).
T9 T10
La condanna
La morte di Socrate T12
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È nel clima di tali sospetti della restaurata democrazia che matura il processo a Socrate (399 a. C.), accusato di corrompere i giovani e di voler introdurre nuove divinità, cioè di essere immorale ed empio. Il processo è narrato da Platone, suo discepolo all’epoca dei fatti, nell’Apologia di Socrate. Anito, un esponente politico del partito democratico, l’ideatore e il promotore del processo, non si propone di farne un martire con la condanna a morte, ma di screditarlo, di togliergli l’aureola di uomo onestissimo: egli, infatti, non ha dubbi che Socrate, pur di salvarsi, scenderà a compromessi con la sua coscienza. Ma l’imputato si comporta in modo del tutto inatteso. Si difende, ma non si preoccupa minimamente di salvarsi. Smonta invece tutte le calunnie, da quella più antica di essere un pericoloso sofista, lanciatagli dal commediografo conservatore Aristofane nella sua commedia Le nuvole, a quelle più recenti. Socrate chiude la difesa chiedendo non pietà, ma giustizia. Si passa alla votazione: 280 sono i voti contrari all’imputato e 220 i favorevoli. A questo punto il condannato ha la facoltà di proporre una pena alternativa alla pena di morte, ad esempio l’esilio, ma Socrate si rifiuta di farlo perché sa di non aver mai commesso alcuna ingiustizia ed è consapevole che anche in esilio continuerebbe a compiere la sua missione e quindi sarebbe destinato a essere via via cacciato dalle città dove si recherebbe. Provoca anzi i giudici chiedendo di essere mantenuto a spese dello Stato perché nessuno, meglio di lui, ha offerto servizi ai suoi concittadini cercando di renderli davvero felici. Alla seconda votazione i voti a lui contrari aumentano: 360 contro 140. Socrate è condannato a morte, ma dimostra di non avere alcuna paura, perché è convinto che a un uomo che si è sempre comportato bene non può capitare nulla di male, né in vita né in morte. La condanna a morte non viene eseguita subito. Mentre Socrate è in carcere Critone, amico nonché discepolo, lo va a trovare con l’intento di proporgli la fuga, ma il filosofo rifiuta categoricamente la proposta: le leggi non vanno mai violate perché è solo grazie ad esse che l’uomo esce dall’animalità e diventa davvero uomo. Mai, dice con forza, si deve commettere ingiustizia, neanche quando si subisce ingiustizia: è un dovere dettato esclusivamente dalla ragione, rispetto alla quale il vivere e il morire sono del tutto secondari. È giunta l’ultima ora (quale è raccontata dal Fedone di Platone). Socrate è in cella circondato dagli amici. Arriva il carceriere con il veleno (la famosa cicuta – vedi la scheda a p. 183). Questi lo porta pestato in una tazza e, rivolto a Socrate, lo informa che deve passeggiare, dopo averlo bevuto, finché non sentirà il peso alle gambe: solo allora dovrà coricarsi e aspettare l’effetto. Socrate, sereno, «senza alterare il colore né l’espressione del viso», prende la tazza, prega gli dèi perché «la migrazione da questo mondo all’altro si compia con propizia fortuna», trattiene il respiro e beve «fino all’ultima goccia, senza alcun segno di disgusto e con facilità», poi cammina per la stanza. Quando sente le gambe pesanti, si sdraia, mentre il suo corpo progressivamente si raffredda. Le sue ultime parole sono: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio [dio della medicina]: dateglielo, non dimenticatevene!».
Socrate è, senza dubbio, un personaggio affascinante e, nello stesso tempo, inquietante. Così parla di lui Alcibiade, nel Simposio di Platone: «A viva forza [...], come dalle Sirene, io me ne allontano, turandomi le orecchie e dandomi alla fuga [...]. Solo di fronte a lui, in verità, io mi vergogno. Infatti, io sono ben consapevole di non essere in grado di contraddirlo, mostrandogli che non bisogna fare le cose che egli mi esorta a fare. Ma, poi, non appena io mi allontano da lui, mi lascio avvincere dagli onori che la moltitudine tributa. Perciò mi sottraggo a lui e lo rifuggo. E quando lo rivedo, mi vergogno per quelle cose che mi aveva fatto ammettere. E più volte mi viene voglia di non vederlo più fra i vivi. Ma se questo, poi, si verificasse, so bene che proverei un dolore molto maggiore: e, allora, io non so proprio come regolarmi con quest’uomo» (Platone, Simposio, 216a-216c).
Socrate, la torpedine marina
L’eredità di Socrate Un’icona
Socrate, grazie alla idealizzazione che ne ha fatto il discepolo Platone, è diventato nella storia del pensiero occidentale un’icona, un simbolo, e lo è tuttora: l’emblema dell’autentico filosofo (non il sapiente, ma il ricercatore della verità), l’eroe che giganteggia per il suo rigore morale e la sua coerenza, il libero pensatore che osa sfidare il potere politico e ne rimane brutalmente schiacciato.
Istanze universali
Non vi è dubbio che Socrate sia stato portatore di istanze che trascendono il suo tempo: la consapevolezza dei limiti del sapere umano; la morale come una conquista personale; il primato della coscienza; l’esaltazione della bellezza interiore; il principio secondo cui non si deve mai commettere ingiustizia anche quando la si subisce; l’educazione intesa come auto-educazione.
Un uomo radicato nella sua Atene
È altrettanto indubbio però che Socrate sia stato un uomo del suo tempo, ben radicato nella sua Atene: un libero pensatore ma anche profondamente religioso, un intellettuale contro-corrente ma anche immerso nella cultura a lui contemporanea (non a caso conser-
LA STORIA E LA CULTURA DEL TEMPO
La cicuta
Siamo in presenza – proprio grazie alla morte di Socrate – di uno dei veleni più celebri della storia. Il suo potere è quello di provocare la cosiddetta «morte fredda», mediante cioè un raffreddamento progressivo del corpo a partire dai piedi. Una morte «dolce»? Secondo la testimonianza di Platone, sì, ma non è escluso che l’illustre discepolo abbia voluto idealizzare la morte del maestro: vi sono, infatti, altre fonti che ne danno descrizioni più realistiche. Dolce o meno, un fatto è certo: si tratta di una morte di gran lunga preferibile alle morti violente a cui si è condannati, nel periodo in questione, per altri reati. Un atto di «umanità»? Alcuni storici sono convinti di sì: si sarebbe cioè di fronte alla prova più alta di umanità da parte di un popolo che non ha saputo cancellare la pena capitale. Se-
condo altri, invece, non c’entra la generosità degli Ateniesi, ma il calcolo politico: non è un caso che un largo uso della cicuta venga effettuato dai Trenta tiranni con l’obiettivo di sbarazzarsi, in silenzio, senza il clamore dei processi, degli avversari politici. Il costo della cicuta, poi, considerata la rarità della pianta ad Atene, è tale che non può essere concessa a tutti i condannati a morte: è equivalente, grosso modo, all’alimentazione di un uomo adulto per alcuni mesi. È per questa ragione che, quando viene introdotta, non sostituisce automaticamente la morte per precipitazione, ma diventa un privilegio di chi può permettersi di sobbarcarsene la spesa. Se ti interessa saperne di più, leggi, di Eva Cantarella, I supplizi capitali, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 82-92.
PROFILO
I capi di imputazione e la difesa di Socrate
8. Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte
183
M 4
I sofisti e Socrate
9. Le scuole socratiche
di Socrate come «una sorta di terrorismo culturale», la sua missione come «la presunzione di cambiare l’umanità» in nome della divinità, il suo seminare dubbi come ipocrita perché egli era certo di «essere di una spanna sopra tutti gli altri» e sottolinea l’assurdità di definirlo come un Cristo ante litteram perché egli «non si sarebbe mai sognato di aprire le braccia agli emarginati» mentre ha privilegiato il dialogo con «personaggi importanti e influenti» (La vita tragicomica di Socrate, Milano, Salani, 2007, pp. 133, 136-137, 143, 146).
va alcuni tratti tipici dei sofisti: dall’anticonformismo alla passione per la confutazione e una certa inclinazione al paradosso), un eroe morale ma che non ha nulla a che vedere con l’ascetismo (così lo descrive J. Patočka: «un uomo che sa godere tra i gaudenti e che rinuncia a nessuno dei doni della vita»). Socrate, tra l’altro, è sì eterosessuale – ha avuto tre figli – ma anche omosessuale in sintonia con i costumi dell’intellighenzia del suo tempo (tra i suoi amati lo stesso Alcibiade descritto come un giovane di rara bellezza). La sua figura, poi, non è immune da incoerenze: lo stesso discepolo Platone sottolinea il paradosso di chi si propone di aiutare i suoi interlocutori a partorire la verità, senza tuttavia conoscerla egli stesso (come potrebbe riconoscerla, se fosse del tutto ignorante?). Vi è infine chi è giunto a demolire interamente l’aureola che si è costruita intorno al filosofo ateniese. È il caso, ad esempio, di Pietro Emanuele che descrive il martellante interrogare
X X X X X X X
Che significato ha il «demone» socratico? In che senso, secondo lo studioso Vlastos, il «divino» socratico è insieme soprannaturale e razionale? In che cosa consiste la missione «divina» di Socrate? Di che cosa viene accusato Socrate? Che difesa assume al processo? Perché rifiuta le alternative alla pena di morte? Con quale motivazione Socrate rifiuta la fuga dal carcere propostagli dall’amico e discepolo Critone?
PROFILO
Una lettura dissacrante
GUIDA ALLO STUDIO
LA MORTE DI SOCRATE
A. Canova, Critone chiude gli occhi a Socrate, 1790-92, gesso (Venezia, Museo Correr).
Canova rispetta scrupolosamente il racconto di Fedone della morte di Socrate, ad esempio scolpendo le catene, ormai sciolte, cui era stretto il filosofo nella sua lunga permanenza in carcere, ben indicata dalle inferriate alla finestra. Ed anche il vaso con la cicuta è ben visibile sulla nicchia del muro, così come gli effetti progressivamente paralizzanti del veleno, a partire dalle gambe e dalle braccia, sono indicati dalla rigidità corporea del filosofo.
Le scuole socratiche
9
Dopo la morte di Socrate, il suo appello morale a liberarsi da presunte certezze, e a cercare dentro di sé ciò che davvero conta nella vita e che davvero rende l’uomo libero, viene raccolto da alcuni suoi allievi: così nascono le scuole socratiche, accomunate dal riconoscere in Socrate il loro maestro.
INSEGNAMENTO SOCRATICO
ripreso e rielaborato da tre scuole
scuola cinica (Antistene, Diogene)
bene = liberazione dalle passioni e dai bisogni superflui
Tutta la composizione ricorda in modo preciso le modalità del compianto, ossia del tradizionale tema cristiano che illustrava il dolore degli apostoli di fronte al cadavere di Cristo. I due dolenti in piedi dietro al letto, ad esempio, sono una citazione di analoghe figure dipinte da Giotto nella cappella Bardi di Santa Croce a Firenze. Il significato suggerito sta quindi in una specie di santificazione del filosofo, la cui ascetica rettitudine avrebbe in qualche modo anticipato il messaggio cristiano.
184
scuola cirenaica (Aristippo)
bene = piacere (edonismo)
scuola megarica (Euclide, Eubulide)
bene = Essere (socratismo + eleatismo)
La scuola cinica La centralità dell’etica
Il nome della scuola deriva dal greco kýon, «cane»; originariamente, l’appellativo è dovuto, forse, al fatto che la scuola aveva sede in un ginnasio detto Cinosarge, «il cane agile». Antistene (436 ca. - 366 ca. a. C.), fondatore della scuola cinica, riprende dal maestro Socrate la centralità dell’etica e lo sforzo di rendere la propria vita coerente con le tesi
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I sofisti e Socrate
9. Le scuole socratiche
di Socrate come «una sorta di terrorismo culturale», la sua missione come «la presunzione di cambiare l’umanità» in nome della divinità, il suo seminare dubbi come ipocrita perché egli era certo di «essere di una spanna sopra tutti gli altri» e sottolinea l’assurdità di definirlo come un Cristo ante litteram perché egli «non si sarebbe mai sognato di aprire le braccia agli emarginati» mentre ha privilegiato il dialogo con «personaggi importanti e influenti» (La vita tragicomica di Socrate, Milano, Salani, 2007, pp. 133, 136-137, 143, 146).
va alcuni tratti tipici dei sofisti: dall’anticonformismo alla passione per la confutazione e una certa inclinazione al paradosso), un eroe morale ma che non ha nulla a che vedere con l’ascetismo (così lo descrive J. Patočka: «un uomo che sa godere tra i gaudenti e che rinuncia a nessuno dei doni della vita»). Socrate, tra l’altro, è sì eterosessuale – ha avuto tre figli – ma anche omosessuale in sintonia con i costumi dell’intellighenzia del suo tempo (tra i suoi amati lo stesso Alcibiade descritto come un giovane di rara bellezza). La sua figura, poi, non è immune da incoerenze: lo stesso discepolo Platone sottolinea il paradosso di chi si propone di aiutare i suoi interlocutori a partorire la verità, senza tuttavia conoscerla egli stesso (come potrebbe riconoscerla, se fosse del tutto ignorante?). Vi è infine chi è giunto a demolire interamente l’aureola che si è costruita intorno al filosofo ateniese. È il caso, ad esempio, di Pietro Emanuele che descrive il martellante interrogare
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Che significato ha il «demone» socratico? In che senso, secondo lo studioso Vlastos, il «divino» socratico è insieme soprannaturale e razionale? In che cosa consiste la missione «divina» di Socrate? Di che cosa viene accusato Socrate? Che difesa assume al processo? Perché rifiuta le alternative alla pena di morte? Con quale motivazione Socrate rifiuta la fuga dal carcere propostagli dall’amico e discepolo Critone?
PROFILO
Una lettura dissacrante
GUIDA ALLO STUDIO
LA MORTE DI SOCRATE
A. Canova, Critone chiude gli occhi a Socrate, 1790-92, gesso (Venezia, Museo Correr).
Canova rispetta scrupolosamente il racconto di Fedone della morte di Socrate, ad esempio scolpendo le catene, ormai sciolte, cui era stretto il filosofo nella sua lunga permanenza in carcere, ben indicata dalle inferriate alla finestra. Ed anche il vaso con la cicuta è ben visibile sulla nicchia del muro, così come gli effetti progressivamente paralizzanti del veleno, a partire dalle gambe e dalle braccia, sono indicati dalla rigidità corporea del filosofo.
Le scuole socratiche
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Dopo la morte di Socrate, il suo appello morale a liberarsi da presunte certezze, e a cercare dentro di sé ciò che davvero conta nella vita e che davvero rende l’uomo libero, viene raccolto da alcuni suoi allievi: così nascono le scuole socratiche, accomunate dal riconoscere in Socrate il loro maestro.
INSEGNAMENTO SOCRATICO
ripreso e rielaborato da tre scuole
scuola cinica (Antistene, Diogene)
bene = liberazione dalle passioni e dai bisogni superflui
Tutta la composizione ricorda in modo preciso le modalità del compianto, ossia del tradizionale tema cristiano che illustrava il dolore degli apostoli di fronte al cadavere di Cristo. I due dolenti in piedi dietro al letto, ad esempio, sono una citazione di analoghe figure dipinte da Giotto nella cappella Bardi di Santa Croce a Firenze. Il significato suggerito sta quindi in una specie di santificazione del filosofo, la cui ascetica rettitudine avrebbe in qualche modo anticipato il messaggio cristiano.
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scuola cirenaica (Aristippo)
bene = piacere (edonismo)
scuola megarica (Euclide, Eubulide)
bene = Essere (socratismo + eleatismo)
La scuola cinica La centralità dell’etica
Il nome della scuola deriva dal greco kýon, «cane»; originariamente, l’appellativo è dovuto, forse, al fatto che la scuola aveva sede in un ginnasio detto Cinosarge, «il cane agile». Antistene (436 ca. - 366 ca. a. C.), fondatore della scuola cinica, riprende dal maestro Socrate la centralità dell’etica e lo sforzo di rendere la propria vita coerente con le tesi
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M 4
I sofisti e Socrate
Bene = virtù = autosufficienza = libertà
Ciò che rende l’uomo del tutto «libero», secondo Antistene, è il dominio delle passioni, dai bisogni superflui e il rifiuto del piacere sensibile («vorrei piuttosto impazzire che provare piacere»), la liberazione dalla schiavitù dell’amore. Il bene, in altre parole, è la virtù: è questa che porta l’uomo a raggiungere l’autosufficienza (autarchia), l’indipendenza, la libertà.
Una vita «ascetica», una libertà «anarchica»
La libertà proclamata da Antistene taglia i ponti con la pólis stessa, con la tradizione, con i costumi, con gli sbandierati ideali della democrazia: la stessa morte di Socrate è considerata dai cinici la prova del fallimento di questi ideali e dei valori che sono alla base della convivenza civile. Senza dubbio Antistene si incammina sulla stessa strada tracciata dal maestro, ma approda a esiti diversi: Socrate non ha disprezzato i piaceri, non ha rotto con la pólis, ma ha solo indicato ai suoi interlocutori la via dell’uso «sapiente» dei beni esteriori e dei piaceri, e ha nettamente distinto le colpe degli uomini che l’hanno ingiustamente condannato dalle «leggi». Al contrario Antistene punta a una vita ascetica, a una libertà che potremmo definire «anarchica», individualista, antisociale, «privata».
Disprezzo per le convenzioni sociali
Il più illustre seguace di Antistene è Diogene di Sinope (413-323 ca. a. C.), che porta all’esasperazione il messaggio del maestro arrivando a un vero e proprio disprezzo dei beni esteriori – a tal punto da fare di una botte la sua casa – e delle convenzioni sociali: numerosi sono gli aneddoti che rivelano la sua sfrontatezza nei confronti del vivere comune. Il suo è un attacco violento contro tutto ciò che di artificiale l’uomo ha costruito, una sfida al comportamento comune in nome di una libertà totale, di una libertà senza alcuna regola, di una «natura» intesa in modo del tutto individualistico. La tradizione lo presenta per lo più come uno che, con una lanterna in mano, va alla ricerca di un «uomo»: un uomo che, cioè, sia davvero uomo, libero da qualsiasi forma di schiavitù.
La scuola cirenaica Bene = piacere
186
Un altro allievo di Socrate è Aristippo (435-366 a. C.), originario di Cirene, una colonia africana. Come Antistene, rompe con le convenzioni, con i vincoli sociali, con la stessa pólis e punta alla libertà interiore. A differenza del fondatore della scuola cinica, però, non esalta l’ascetismo, bensì il piacere, che si deve cercare di conseguire in ogni singolo istante della vita: non ha senso, infatti, tormentarsi per ciò che è accaduto e preoccuparsi per ciò che avverrà. Se, come diceva Socrate, tutto ciò che è bene è felicità e piacere, allora tutto ciò che piace e attrae è bene. La vita quindi deve essere goduta istante per istante, per quello che ogni attimo può donare. Occorre comunque essere attenti a non inseguire
piaceri che alla lunga possono provocare dolori, a conservare sempre la propria libertà, a non lasciarsi mai dominare dalle cose o dagli uomini. Un piacere che non è schiavitù
Il bene, secondo Aristippo, è il piacere (da qui il termine «edonismo», dal greco hedoné, «piacere»). Si tratta di un piacere, tuttavia, non inteso come schiavitù dei sensi e che, dunque, non rappresenta un travisamento totale del messaggio socratico. La ragione deve sempre guidare il comportamento e orientare verso la giusta misura nella ricerca del piacere. Antistene e Aristippo non fanno che accentuare aspetti differenti del pensiero di Socrate, in particolare sul tema del bene come fine: per il primo il bene per l’uomo è agire in modo virtuoso, mentre per il secondo è assaporare attimo per attimo i piaceri che non ci rendono schiavi. PROFILO
sostenute. Se la virtù è scienza, allora la conoscenza ha valore solo in funzione dell’agire: possiamo conoscere solo ciò che riguarda il comportamento, e le realtà sono sempre particolari, individuali. Questa convinzione è sorretta, nel pensiero dei cinici, da un rigido nominalismo, cioè da una concezione secondo la quale i nomi che si riferiscono a concetti generali, come la bontà, l’essere ecc., non hanno alcuna corrispondenza oggettiva, ma sono meri suoni: esistono, dunque, soltanto gli individui, i singoli enti riscontrabili dall’esperienza. È celebre la critica di Antistene a Platone, il quale, come vedremo, afferma l’esistenza di idee sovrasensibili: «Vedo i cavalli, ma non la cavallinità». In quest’ottica, che esclude la possibilità di conoscere nozioni generali, il compito della filosofia è di indicare la strada che conduce l’uomo alla virtù e alla felicità, liberandolo da ciò che può ostacolarlo in questo cammino.
9. Le scuole socratiche
La scuola megarica Bene = l’essere di Parmenide
Un altro discepolo di Socrate, Euclide di Megara, sviluppa sul piano ontologico la teoria del bene, facendone non solo l’unica virtù, ma l’unica realtà. In questo modo, il bene viene identificato con l’essere di Parmenide. Il bene, infatti, è uno solo anche se esistono diversi nomi per indicarlo: saggezza, Dio, intelletto. Euclide unifica, cioè, il messaggio di Socrate
IL DIOGENE “PATINATO” DI WATERHOUSE
J. W. Waterhouse, Diogene, 1882, olio su tela (Sydney, Art Gallery of New South Wales).
Waterhouse si sforza di rappresentare la verità storica dell’antica Grecia, almeno come la si immagina nell’età vittoriana (la seconda metà dell’Ottocento). Il tempio sullo sfondo, ad esempio, ha colonne doriche come quello della dea Cibele, presso il quale Diogene collocò la sua dimora. E anche i vezzosi ombrellini parasole, per quanto vagamente orientaleggianti, trovano qualche riscontro nelle pitture vascolari greche, per la prima volta nell’Ottocento oggetto di studio sistematico da parte degli archeologi.
La freschezza delle tre giovani ragazze serve a sottolineare, per contrasto, la secchezza del filosofo, così come i fiori si oppongono alle sterpaglie del suo giaciglio. Ma in una società in cui le donne potevano uscire di casa solo se accompagnate dal marito (raramente, quindi) è molto improbabile che tre ragazze potessero importunare un maschio, fosse anche se sui generis come Diogene. Particolare frutto della fantasia di Waterhouse è senz’altro lo scritto immaginato nelle mani di Diogene, data la sua convinzione che ogni forma di cultura fosse perniciosa.
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I sofisti e Socrate
Bene = virtù = autosufficienza = libertà
Ciò che rende l’uomo del tutto «libero», secondo Antistene, è il dominio delle passioni, dai bisogni superflui e il rifiuto del piacere sensibile («vorrei piuttosto impazzire che provare piacere»), la liberazione dalla schiavitù dell’amore. Il bene, in altre parole, è la virtù: è questa che porta l’uomo a raggiungere l’autosufficienza (autarchia), l’indipendenza, la libertà.
Una vita «ascetica», una libertà «anarchica»
La libertà proclamata da Antistene taglia i ponti con la pólis stessa, con la tradizione, con i costumi, con gli sbandierati ideali della democrazia: la stessa morte di Socrate è considerata dai cinici la prova del fallimento di questi ideali e dei valori che sono alla base della convivenza civile. Senza dubbio Antistene si incammina sulla stessa strada tracciata dal maestro, ma approda a esiti diversi: Socrate non ha disprezzato i piaceri, non ha rotto con la pólis, ma ha solo indicato ai suoi interlocutori la via dell’uso «sapiente» dei beni esteriori e dei piaceri, e ha nettamente distinto le colpe degli uomini che l’hanno ingiustamente condannato dalle «leggi». Al contrario Antistene punta a una vita ascetica, a una libertà che potremmo definire «anarchica», individualista, antisociale, «privata».
Disprezzo per le convenzioni sociali
Il più illustre seguace di Antistene è Diogene di Sinope (413-323 ca. a. C.), che porta all’esasperazione il messaggio del maestro arrivando a un vero e proprio disprezzo dei beni esteriori – a tal punto da fare di una botte la sua casa – e delle convenzioni sociali: numerosi sono gli aneddoti che rivelano la sua sfrontatezza nei confronti del vivere comune. Il suo è un attacco violento contro tutto ciò che di artificiale l’uomo ha costruito, una sfida al comportamento comune in nome di una libertà totale, di una libertà senza alcuna regola, di una «natura» intesa in modo del tutto individualistico. La tradizione lo presenta per lo più come uno che, con una lanterna in mano, va alla ricerca di un «uomo»: un uomo che, cioè, sia davvero uomo, libero da qualsiasi forma di schiavitù.
La scuola cirenaica Bene = piacere
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Un altro allievo di Socrate è Aristippo (435-366 a. C.), originario di Cirene, una colonia africana. Come Antistene, rompe con le convenzioni, con i vincoli sociali, con la stessa pólis e punta alla libertà interiore. A differenza del fondatore della scuola cinica, però, non esalta l’ascetismo, bensì il piacere, che si deve cercare di conseguire in ogni singolo istante della vita: non ha senso, infatti, tormentarsi per ciò che è accaduto e preoccuparsi per ciò che avverrà. Se, come diceva Socrate, tutto ciò che è bene è felicità e piacere, allora tutto ciò che piace e attrae è bene. La vita quindi deve essere goduta istante per istante, per quello che ogni attimo può donare. Occorre comunque essere attenti a non inseguire
piaceri che alla lunga possono provocare dolori, a conservare sempre la propria libertà, a non lasciarsi mai dominare dalle cose o dagli uomini. Un piacere che non è schiavitù
Il bene, secondo Aristippo, è il piacere (da qui il termine «edonismo», dal greco hedoné, «piacere»). Si tratta di un piacere, tuttavia, non inteso come schiavitù dei sensi e che, dunque, non rappresenta un travisamento totale del messaggio socratico. La ragione deve sempre guidare il comportamento e orientare verso la giusta misura nella ricerca del piacere. Antistene e Aristippo non fanno che accentuare aspetti differenti del pensiero di Socrate, in particolare sul tema del bene come fine: per il primo il bene per l’uomo è agire in modo virtuoso, mentre per il secondo è assaporare attimo per attimo i piaceri che non ci rendono schiavi. PROFILO
sostenute. Se la virtù è scienza, allora la conoscenza ha valore solo in funzione dell’agire: possiamo conoscere solo ciò che riguarda il comportamento, e le realtà sono sempre particolari, individuali. Questa convinzione è sorretta, nel pensiero dei cinici, da un rigido nominalismo, cioè da una concezione secondo la quale i nomi che si riferiscono a concetti generali, come la bontà, l’essere ecc., non hanno alcuna corrispondenza oggettiva, ma sono meri suoni: esistono, dunque, soltanto gli individui, i singoli enti riscontrabili dall’esperienza. È celebre la critica di Antistene a Platone, il quale, come vedremo, afferma l’esistenza di idee sovrasensibili: «Vedo i cavalli, ma non la cavallinità». In quest’ottica, che esclude la possibilità di conoscere nozioni generali, il compito della filosofia è di indicare la strada che conduce l’uomo alla virtù e alla felicità, liberandolo da ciò che può ostacolarlo in questo cammino.
9. Le scuole socratiche
La scuola megarica Bene = l’essere di Parmenide
Un altro discepolo di Socrate, Euclide di Megara, sviluppa sul piano ontologico la teoria del bene, facendone non solo l’unica virtù, ma l’unica realtà. In questo modo, il bene viene identificato con l’essere di Parmenide. Il bene, infatti, è uno solo anche se esistono diversi nomi per indicarlo: saggezza, Dio, intelletto. Euclide unifica, cioè, il messaggio di Socrate
IL DIOGENE “PATINATO” DI WATERHOUSE
J. W. Waterhouse, Diogene, 1882, olio su tela (Sydney, Art Gallery of New South Wales).
Waterhouse si sforza di rappresentare la verità storica dell’antica Grecia, almeno come la si immagina nell’età vittoriana (la seconda metà dell’Ottocento). Il tempio sullo sfondo, ad esempio, ha colonne doriche come quello della dea Cibele, presso il quale Diogene collocò la sua dimora. E anche i vezzosi ombrellini parasole, per quanto vagamente orientaleggianti, trovano qualche riscontro nelle pitture vascolari greche, per la prima volta nell’Ottocento oggetto di studio sistematico da parte degli archeologi.
La freschezza delle tre giovani ragazze serve a sottolineare, per contrasto, la secchezza del filosofo, così come i fiori si oppongono alle sterpaglie del suo giaciglio. Ma in una società in cui le donne potevano uscire di casa solo se accompagnate dal marito (raramente, quindi) è molto improbabile che tre ragazze potessero importunare un maschio, fosse anche se sui generis come Diogene. Particolare frutto della fantasia di Waterhouse è senz’altro lo scritto immaginato nelle mani di Diogene, data la sua convinzione che ogni forma di cultura fosse perniciosa.
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Platone
7 La revisione della teoria delle idee
e la dialettica
7. La revisione della teoria delle idee e la dialettica I problemi della mimesi
dovrebbero esserci anche le idee di cose vili critica della teoria delle idee
perché
non esiste un’idea per ogni classe di cose
varrebbe l’argomento del «terzo uomo» quindi
superamento del rapporto di imitazione
ma allora
solo partecipazione
teoria dei generi Le argomentazioni Perché il rapporto di mimesi è problematico? Per tutte le cose che esistono possiamo immaginare idee a esse corrispondenti?
quindi
gli enti partecipano a una pluralità di idee
individuabili con il
il sistema filosofico
Mimesi e metessi
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Abbiamo visto che il legame tra le idee e le cose si articola in due tipi di rapporto principali: quello di imitazione (mimesi) e quello di partecipazione (metessi). Il primo corrisponde alla classe cui appartiene la cosa e ne determina l’essenza (Socrate è un uomo poiché imita l’idea di uomo), il secondo corrisponde ai predicati che la cosa possiede (Socrate è saggio in quanto partecipa dell’idea di saggezza).
Ogni teoria è la risposta a un problema e questo spesso è vero anche per i diversi passaggi in cui si articola una teoria. Allora, per capire meglio lo sviluppo argomentativo, è utile esplicitare la domanda cui ogni passaggio risponde. Ovviamente sono domande-guida, che non richiedono una risposta, ma aiutano a cercarla nel testo. Proviamo a farlo in questo capitolo particolarmente complesso. – Che cosa sono la mimesi e la metessi? Qual è la differenza tra i due concetti?
Inoltre Parmenide propone un altro argomento (successivamente formalizzato da Aristotele come argomento del «terzo uomo»): se le cose sono simili ma non identiche all’idea corrispondente, occorrerà ipotizzare una terza idea che le racchiuda entrambe. Essa però sarebbe solo simile e non identica alle altre due realtà, quindi dovremmo presupporre un’ulteriore idea che le unifichi, e così via all’infinito.
Ma l’obiezione più radicale riguarda la conoscibilità delle idee. Noi non abbiamo a che fare con esse, ma con le cose. «Se uno di noi è padrone o servo – argomenta Parmenide – non è certo servo del padrone in sé, di ciò che è in sé padrone, né il padrone è padrone del servo in sé, di ciò che è in sé servo, ma, essendo uomo, è l’uno o l’altro rispetto a un uomo» (Parmenide, 133d-e, p. 384). I rapporti tra le idee sono diversi dai rapporti tra le cose, ma sono questi ultimi che noi possiamo cogliere e dobbiamo spiegare, con una scienza riferita ad essi. La «scienza in sé», che appartiene al mondo delle idee e potrebbe conoscerle, non è propria dell’uomo ma solo della divinità, che a quel mondo appartiene.
metodo dialettico
La visione d’insieme della filosofia di Platone, che è importante ricostruire mediante il confronto tra le mappe concettuali, qui diviene più complessa e articolata. Dobbiamo infatti considerare che siamo in presenza di una svolta rispetto al pensiero precedente. Dovremo cercare quindi di cogliere sia le differenze sia le continuità. La differenza di fondo appare chiaramente dalla mappa e in particolare dalla casella centrale: il superamento del rapporto di imitazione tra le cose e le idee. Da qui derivano una serie di conseguenze che sono esplicitate nella parte conclusiva. Ci sono però anche continuità. Prima di tutto le idee rimangono trascendenti e continuano a costituire l’essenza delle cose, la vera realtà dietro ai fenomeni. Inoltre non viene messo in discussione il piano morale, quello delle idee-valori, il cui rapporto con la realtà era anche in precedenza di metessi, di partecipazione. Ogni volta che si parla di una svolta nel pensiero di un filosofo, anche se l’esposizione privilegia le differenze tra le due fasi per far meglio capire appunto le caratteristiche della svolta stessa, è utile chiedersi quali siano gli elementi di continuità, che sono anche, probabilmente, quelli che maggiormente caratterizzano l’autore che stiamo studiando.
Le argomentazioni
PROFILO
Parmenide incalza Socrate, chiedendogli se esista un’idea per gli enti matematici o morali (l’idea di uguale, di molteplice, di buono, di giusto ecc.), e qui Socrate risponde senza esitazione in modo affermativo; poi passa alle idee di esseri concreti (uomo, fuoco, acqua), e qui Socrate manifesta le prime incertezze; infine gli chiede se esistono idee anche per cose come «capelli, fango, sporcizia», provocando la convinta risposta negativa di Socrate. Ma allora come possono le idee essere la causa delle cose in quanto modelli da imitare se tale corrispondenza è in alcuni casi dubbia e in altri addirittura da escludere?
altrimenti
ne segue la
Nei dialoghi della vecchiaia Platone rivede radicalmente questa teoria. Affida a Parmenide («venerando e terribile insieme»: Teeteto, 183e, p. 231), nel dialogo omonimo, le critiche alla teoria secondo la quale esiste un’idea per ogni classe di cose, che ogni individuo imita in modo imperfetto.
La teoria dei generi La soluzione del problema
Il problema viene lasciato in sospeso nel Parmenide e ripreso nel Sofista, dove trova una soluzione mediante la Le argomentazioni cosiddetta teoria dei generi. Qui viene eliminato il rapSe le cose non possono più esseporto di imitazione, riconducendo tutto a quello di parre considerate come l’imitazione dell’idea corrispondente, da dove tecipazione. Alcune idee si combinano con altre come traggono la loro esistenza e la le lettere dell’alfabeto per formare i nomi. In questo loro razionalità? Come è possimodo l’essenza e la conoscibilità degli enti non vengono bile dare una risposta sulla base più spiegate mediante l’imitazione di una singola idea, del solo rapporto di metessi? ma come combinazione di più idee, che congiuntamente li definiscono. Ad esempio: secondo la teoria dell’imitazione il singolo uomo costituiva una copia dell’idea di uomo, ora invece l’uomo è spiegato mediante una serie di idee che
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M 5
Platone
7 La revisione della teoria delle idee
e la dialettica
7. La revisione della teoria delle idee e la dialettica I problemi della mimesi
dovrebbero esserci anche le idee di cose vili critica della teoria delle idee
perché
non esiste un’idea per ogni classe di cose
varrebbe l’argomento del «terzo uomo» quindi
superamento del rapporto di imitazione
ma allora
solo partecipazione
teoria dei generi Le argomentazioni Perché il rapporto di mimesi è problematico? Per tutte le cose che esistono possiamo immaginare idee a esse corrispondenti?
quindi
gli enti partecipano a una pluralità di idee
individuabili con il
il sistema filosofico
Mimesi e metessi
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Abbiamo visto che il legame tra le idee e le cose si articola in due tipi di rapporto principali: quello di imitazione (mimesi) e quello di partecipazione (metessi). Il primo corrisponde alla classe cui appartiene la cosa e ne determina l’essenza (Socrate è un uomo poiché imita l’idea di uomo), il secondo corrisponde ai predicati che la cosa possiede (Socrate è saggio in quanto partecipa dell’idea di saggezza).
Ogni teoria è la risposta a un problema e questo spesso è vero anche per i diversi passaggi in cui si articola una teoria. Allora, per capire meglio lo sviluppo argomentativo, è utile esplicitare la domanda cui ogni passaggio risponde. Ovviamente sono domande-guida, che non richiedono una risposta, ma aiutano a cercarla nel testo. Proviamo a farlo in questo capitolo particolarmente complesso. – Che cosa sono la mimesi e la metessi? Qual è la differenza tra i due concetti?
Inoltre Parmenide propone un altro argomento (successivamente formalizzato da Aristotele come argomento del «terzo uomo»): se le cose sono simili ma non identiche all’idea corrispondente, occorrerà ipotizzare una terza idea che le racchiuda entrambe. Essa però sarebbe solo simile e non identica alle altre due realtà, quindi dovremmo presupporre un’ulteriore idea che le unifichi, e così via all’infinito.
Ma l’obiezione più radicale riguarda la conoscibilità delle idee. Noi non abbiamo a che fare con esse, ma con le cose. «Se uno di noi è padrone o servo – argomenta Parmenide – non è certo servo del padrone in sé, di ciò che è in sé padrone, né il padrone è padrone del servo in sé, di ciò che è in sé servo, ma, essendo uomo, è l’uno o l’altro rispetto a un uomo» (Parmenide, 133d-e, p. 384). I rapporti tra le idee sono diversi dai rapporti tra le cose, ma sono questi ultimi che noi possiamo cogliere e dobbiamo spiegare, con una scienza riferita ad essi. La «scienza in sé», che appartiene al mondo delle idee e potrebbe conoscerle, non è propria dell’uomo ma solo della divinità, che a quel mondo appartiene.
metodo dialettico
La visione d’insieme della filosofia di Platone, che è importante ricostruire mediante il confronto tra le mappe concettuali, qui diviene più complessa e articolata. Dobbiamo infatti considerare che siamo in presenza di una svolta rispetto al pensiero precedente. Dovremo cercare quindi di cogliere sia le differenze sia le continuità. La differenza di fondo appare chiaramente dalla mappa e in particolare dalla casella centrale: il superamento del rapporto di imitazione tra le cose e le idee. Da qui derivano una serie di conseguenze che sono esplicitate nella parte conclusiva. Ci sono però anche continuità. Prima di tutto le idee rimangono trascendenti e continuano a costituire l’essenza delle cose, la vera realtà dietro ai fenomeni. Inoltre non viene messo in discussione il piano morale, quello delle idee-valori, il cui rapporto con la realtà era anche in precedenza di metessi, di partecipazione. Ogni volta che si parla di una svolta nel pensiero di un filosofo, anche se l’esposizione privilegia le differenze tra le due fasi per far meglio capire appunto le caratteristiche della svolta stessa, è utile chiedersi quali siano gli elementi di continuità, che sono anche, probabilmente, quelli che maggiormente caratterizzano l’autore che stiamo studiando.
Le argomentazioni
PROFILO
Parmenide incalza Socrate, chiedendogli se esista un’idea per gli enti matematici o morali (l’idea di uguale, di molteplice, di buono, di giusto ecc.), e qui Socrate risponde senza esitazione in modo affermativo; poi passa alle idee di esseri concreti (uomo, fuoco, acqua), e qui Socrate manifesta le prime incertezze; infine gli chiede se esistono idee anche per cose come «capelli, fango, sporcizia», provocando la convinta risposta negativa di Socrate. Ma allora come possono le idee essere la causa delle cose in quanto modelli da imitare se tale corrispondenza è in alcuni casi dubbia e in altri addirittura da escludere?
altrimenti
ne segue la
Nei dialoghi della vecchiaia Platone rivede radicalmente questa teoria. Affida a Parmenide («venerando e terribile insieme»: Teeteto, 183e, p. 231), nel dialogo omonimo, le critiche alla teoria secondo la quale esiste un’idea per ogni classe di cose, che ogni individuo imita in modo imperfetto.
La teoria dei generi La soluzione del problema
Il problema viene lasciato in sospeso nel Parmenide e ripreso nel Sofista, dove trova una soluzione mediante la Le argomentazioni cosiddetta teoria dei generi. Qui viene eliminato il rapSe le cose non possono più esseporto di imitazione, riconducendo tutto a quello di parre considerate come l’imitazione dell’idea corrispondente, da dove tecipazione. Alcune idee si combinano con altre come traggono la loro esistenza e la le lettere dell’alfabeto per formare i nomi. In questo loro razionalità? Come è possimodo l’essenza e la conoscibilità degli enti non vengono bile dare una risposta sulla base più spiegate mediante l’imitazione di una singola idea, del solo rapporto di metessi? ma come combinazione di più idee, che congiuntamente li definiscono. Ad esempio: secondo la teoria dell’imitazione il singolo uomo costituiva una copia dell’idea di uomo, ora invece l’uomo è spiegato mediante una serie di idee che
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Sintesi La sofistica X
Nella Grecia del V secolo a. C. si verificano profonde trasformazioni socioeconomiche che portano al declino dell’aristocrazia e all’imporsi delle nuove classi mercantili. Ad Atene e in molte altre póleis ciò determina la nascita di un nuovo regime politico, quello democratico. La creazione delle leggi è affidata all’assemblea, all’interno della quale diventa importante riuscire a convincere la maggioranza. Si diffonde pertanto un bisogno di istruzione e di formazione, indirizzato soprattutto alla retorica, l’arte del discorso. È questa l’arte che i sofisti insegnano a pagamento: essa è un saper fare, un insieme di abilità. Il ruolo del filosofo, quindi, secondo i sofisti cambia: egli non è più il ricercatore di verità assolute sul mistero dell’universo, poiché l’uomo non ha la possibilità di andare oltre l’esperienza umana; non è più chi raggiunge il sapere e poi lo dispensa agli altri uomini, ma chi riflette sui limiti della conoscenza umana e sulla sfera della politica, e offre lo strumento della retorica intesa come arte di saper parlare in pubblico in modo convincente che sia di aiuto per risolvere i problemi della politica stessa, cioè le questioni riguardanti la comunità.
Protagora X X
X
La verità – secondo Protagora – è relativa all’uomo, che è «misura di tutte le cose». Questa affermazione può essere intesa in vari modi, a seconda del significato che si assegna al termine «uomo»: così la verità può essere relativa al singolo (il malato percepisce i sapori in modo diverso dal sano), all’umanità (l’uomo non può andare oltre il punto di vista umano e accedere al divino), oppure alle varie comunità (ogni popolo ha i propri valori). In assenza di verità assolute (relativismo), quindi, il linguaggio non è più funzionale alla verità, ma diventa lo strumento per persuadere. Ecco perché Protagora esercita i suoi allievi a sviluppare sullo stesso tema discorsi doppi (antilogie). Egli però non intende giustificare tutto: in assenza di parametri assoluti occorre adoperarsi nell’assemblea per far approvare le leggi più utili alla comunità.
Gorgia X
X
Gorgia fa ricorso alla dialettica di Zenone, ma per demolire tutte le speculazioni della scuola eleatica riguardo all’essere, approdando allo scetticismo più radicale. Le sue tesi sono: nulla esiste; quand’anche l’essere esistesse, non sarebbe conoscibile; quand’anche l’essere fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. Il linguaggio, quindi, contrariamente alla tesi sostenuta da Parmenide, non ha nulla a che vedere con l’essere. Svincolato dall’essere e dalla verità, il linguaggio ha comunque un ruolo decisivo: enorme, infatti, è il suo potere di persuadere.
I sofisti minori e il dibattito sulle leggi X
X
X
L’elaborazione sofistica non si esaurisce nell’opera di Protagora e Gorgia, ma prosegue negli autori successivi, concentrandosi soprattutto sul tema delle leggi. Le leggi sono convenzioni, definite arbitrariamente da maggioranze politiche. Secondo Protagora tali leggi sono finalizzate all’utile collettivo, mentre secondo Antifonte e Ippia rappresentano una violenza nei confronti della natura in quanto impongono una disuguaglianza artificiale contro la naturale uguaglianza degli uomini. Vi è anche chi sostiene la tesi contraria: Callicle afferma che sono i deboli (i più) che impongono ai forti (una minoranza), attraverso le leggi, un’uguaglianza artificiale contro la disuguaglianza che esiste in natura. Trasimaco è convinto che le leggi altro non sono che la maschera dietro cui si cela l’utile del più forte. Crizia, infine, afferma che gli stessi dèi sono inventati dai potenti per soggiogare con maggiore efficacia i sudditi.
Socrate: il filosofo come cittadino X
X
Socrate non scrive nulla, affidando la sua concezione soltanto al dialogo. Riguardo al suo pensiero ci sono rimaste solo delle testimonianze, tra l’altro non sempre tra loro concordanti. Anche secondo Socrate, come per i sofisti, l’uomo non è in grado di accedere alla verità assoluta. Con loro egli condivide l’orizzonte degli interessi: una cul-
X
tura umanistica, cioè centrata sull’uomo e sui suoi problemi, non sull’esigenza di spiegare la natura. Per molti aspetti, tuttavia, si distacca dai sofisti: egli rifiuta in modo categorico il loro relativismo, lo scetticismo, l’assenza di scrupoli morali, e rifiuta di «giocare» con il linguaggio, di ridurlo cioè a semplice tecnica di persuasione. Socrate ritiene di avere una sorta di superiorità nei loro confronti: egli, almeno, sa di non sapere, mentre essi hanno la presunzione di sapere, ma non sanno.
Socrate: il dialogo come metodo di ricerca X
X
Socrate mira a superare il relativismo. Per fare questo è necessario mettere in moto una ricerca che può avviarsi solo se vi è la consapevolezza di non sapere. Ecco perché egli fa ricorso al dialogo: mediante questo può, fingendosi ignorante e ponendo una serie di domande (ironia), seminare dubbi nell’interlocutore in modo che questi si liberi dalle sue certezze e prenda consapevolezza della sua ignoranza, e può così aiutarlo ad avviare una ricerca tesa a partorire autonomamente la verità (maieutica). Non si tratta di svelare il mistero dell’universo, ma di scoprire ciò che è bene per l’uomo. Per questo occorre andare oltre la soggettività delle percezioni sensibili, oltre l’opinione, servendosi di ciò che accomuna tutti gli uomini, cioè la ragione: è questa che ci può condurre a rispondere alla domanda «che cos’è?», a scoprire il concetto e la definizione (una definizione stabile e universale perché sostenuta dalla ragione), in particolare della virtù.
X
Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte X
X
X
Alla luce della ragione si possono distinguere i beni esteriori (ciò che l’uomo ha) da quelli interiori (ciò che l’uomo è), si può fare un uso sapiente dei propri beni e dei propri impulsi e cogliere l’essenza stessa della virtù, cioè il sapere. Socrate è infatti convinto che il virtuoso sia il sapiente e che agendo in modo virtuoso e realizzando la propria natura razionale egli raggiunga la felicità. Perché, allora, c’è chi compie il male? Secondo Socrate ognuno agisce in base a ciò che ritiene bene: nessuno compie il male sapendo che è male, e chi lo
Socrate è lontano non solo dall’antropomorfismo della religione della pólis, ma anche dall’agnosticismo e dall’ateismo dei sofisti: egli, infatti, senza la dimensione del «sacro», non saprebbe spiegare la sua «missione»: scuotere la città dal torpore, spronarla a tralasciare i beni effimeri e aiutare ciascuno a intraprendere una propria «ricerca». Una missione che viene ritenuta pericolosa dai suoi avversari politici. Per questo Socrate viene accusato di essere empio e di corrompere i giovani, e per tali accuse è processato e condannato a morte. Esemplare è l’atteggiamento che assume al processo: pur difendendosi confutando le accuse, respinge qualsiasi compromesso, poiché ciò che ha a cuore non è la salvezza della propria vita, ma la coerenza con i propri princìpi morali.
Le scuole socratiche X
Socrate: la virtù è sapere e porta alla felicità X
compie lo fa perché scambia il male per il bene. Si compie il male, dunque, solo per ignoranza. Nessuno può fare il male volontariamente anche perché nessuno vuole la propria infelicità. Questa tesi sarà etichettata da Aristotele come intellettualismo etico: Socrate, cioè, avrebbe affermato il primato del conoscere nelle scelte etiche, trascurando del tutto la volontà. SINTESI
X
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I sofisti e Socrate
X
X
La scuola cinica. Uno degli allievi di Socrate, Antistene, portando alle estreme conseguenze l’idea del maestro secondo cui agire bene conduce alla libertà, sostiene che agire bene è liberarsi dai bisogni superflui (non naturali), dalle passioni, dal piacere, in altre parole è vivere in modo ascetico, troncando i rapporti con la stessa pólis. Diogene di Sinope, a sua volta, esaspera il pensiero di Antistene arrivando ad assumere un atteggiamento di disprezzo nei confronti di tutte le convenzioni sociali. La scuola cirenaica. Secondo Aristippo di Cirene, invece, l’uomo deve assaporare ogni piacere che la vita gli offre istante per istante, senza tuttavia rimanerne schiavo. La scuola megarica. Infine Euclide di Megara giunge a una sintesi tra il messaggio di Socrate e la dottrina eleatica: il «bene» non è altro che l’essere-Uno di Parmenide.
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Sintesi La sofistica X
Nella Grecia del V secolo a. C. si verificano profonde trasformazioni socioeconomiche che portano al declino dell’aristocrazia e all’imporsi delle nuove classi mercantili. Ad Atene e in molte altre póleis ciò determina la nascita di un nuovo regime politico, quello democratico. La creazione delle leggi è affidata all’assemblea, all’interno della quale diventa importante riuscire a convincere la maggioranza. Si diffonde pertanto un bisogno di istruzione e di formazione, indirizzato soprattutto alla retorica, l’arte del discorso. È questa l’arte che i sofisti insegnano a pagamento: essa è un saper fare, un insieme di abilità. Il ruolo del filosofo, quindi, secondo i sofisti cambia: egli non è più il ricercatore di verità assolute sul mistero dell’universo, poiché l’uomo non ha la possibilità di andare oltre l’esperienza umana; non è più chi raggiunge il sapere e poi lo dispensa agli altri uomini, ma chi riflette sui limiti della conoscenza umana e sulla sfera della politica, e offre lo strumento della retorica intesa come arte di saper parlare in pubblico in modo convincente che sia di aiuto per risolvere i problemi della politica stessa, cioè le questioni riguardanti la comunità.
Protagora X X
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La verità – secondo Protagora – è relativa all’uomo, che è «misura di tutte le cose». Questa affermazione può essere intesa in vari modi, a seconda del significato che si assegna al termine «uomo»: così la verità può essere relativa al singolo (il malato percepisce i sapori in modo diverso dal sano), all’umanità (l’uomo non può andare oltre il punto di vista umano e accedere al divino), oppure alle varie comunità (ogni popolo ha i propri valori). In assenza di verità assolute (relativismo), quindi, il linguaggio non è più funzionale alla verità, ma diventa lo strumento per persuadere. Ecco perché Protagora esercita i suoi allievi a sviluppare sullo stesso tema discorsi doppi (antilogie). Egli però non intende giustificare tutto: in assenza di parametri assoluti occorre adoperarsi nell’assemblea per far approvare le leggi più utili alla comunità.
Gorgia X
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Gorgia fa ricorso alla dialettica di Zenone, ma per demolire tutte le speculazioni della scuola eleatica riguardo all’essere, approdando allo scetticismo più radicale. Le sue tesi sono: nulla esiste; quand’anche l’essere esistesse, non sarebbe conoscibile; quand’anche l’essere fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. Il linguaggio, quindi, contrariamente alla tesi sostenuta da Parmenide, non ha nulla a che vedere con l’essere. Svincolato dall’essere e dalla verità, il linguaggio ha comunque un ruolo decisivo: enorme, infatti, è il suo potere di persuadere.
I sofisti minori e il dibattito sulle leggi X
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L’elaborazione sofistica non si esaurisce nell’opera di Protagora e Gorgia, ma prosegue negli autori successivi, concentrandosi soprattutto sul tema delle leggi. Le leggi sono convenzioni, definite arbitrariamente da maggioranze politiche. Secondo Protagora tali leggi sono finalizzate all’utile collettivo, mentre secondo Antifonte e Ippia rappresentano una violenza nei confronti della natura in quanto impongono una disuguaglianza artificiale contro la naturale uguaglianza degli uomini. Vi è anche chi sostiene la tesi contraria: Callicle afferma che sono i deboli (i più) che impongono ai forti (una minoranza), attraverso le leggi, un’uguaglianza artificiale contro la disuguaglianza che esiste in natura. Trasimaco è convinto che le leggi altro non sono che la maschera dietro cui si cela l’utile del più forte. Crizia, infine, afferma che gli stessi dèi sono inventati dai potenti per soggiogare con maggiore efficacia i sudditi.
Socrate: il filosofo come cittadino X
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Socrate non scrive nulla, affidando la sua concezione soltanto al dialogo. Riguardo al suo pensiero ci sono rimaste solo delle testimonianze, tra l’altro non sempre tra loro concordanti. Anche secondo Socrate, come per i sofisti, l’uomo non è in grado di accedere alla verità assoluta. Con loro egli condivide l’orizzonte degli interessi: una cul-
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tura umanistica, cioè centrata sull’uomo e sui suoi problemi, non sull’esigenza di spiegare la natura. Per molti aspetti, tuttavia, si distacca dai sofisti: egli rifiuta in modo categorico il loro relativismo, lo scetticismo, l’assenza di scrupoli morali, e rifiuta di «giocare» con il linguaggio, di ridurlo cioè a semplice tecnica di persuasione. Socrate ritiene di avere una sorta di superiorità nei loro confronti: egli, almeno, sa di non sapere, mentre essi hanno la presunzione di sapere, ma non sanno.
Socrate: il dialogo come metodo di ricerca X
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Socrate mira a superare il relativismo. Per fare questo è necessario mettere in moto una ricerca che può avviarsi solo se vi è la consapevolezza di non sapere. Ecco perché egli fa ricorso al dialogo: mediante questo può, fingendosi ignorante e ponendo una serie di domande (ironia), seminare dubbi nell’interlocutore in modo che questi si liberi dalle sue certezze e prenda consapevolezza della sua ignoranza, e può così aiutarlo ad avviare una ricerca tesa a partorire autonomamente la verità (maieutica). Non si tratta di svelare il mistero dell’universo, ma di scoprire ciò che è bene per l’uomo. Per questo occorre andare oltre la soggettività delle percezioni sensibili, oltre l’opinione, servendosi di ciò che accomuna tutti gli uomini, cioè la ragione: è questa che ci può condurre a rispondere alla domanda «che cos’è?», a scoprire il concetto e la definizione (una definizione stabile e universale perché sostenuta dalla ragione), in particolare della virtù.
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Socrate: la missione del filosofo e la condanna a morte X
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Alla luce della ragione si possono distinguere i beni esteriori (ciò che l’uomo ha) da quelli interiori (ciò che l’uomo è), si può fare un uso sapiente dei propri beni e dei propri impulsi e cogliere l’essenza stessa della virtù, cioè il sapere. Socrate è infatti convinto che il virtuoso sia il sapiente e che agendo in modo virtuoso e realizzando la propria natura razionale egli raggiunga la felicità. Perché, allora, c’è chi compie il male? Secondo Socrate ognuno agisce in base a ciò che ritiene bene: nessuno compie il male sapendo che è male, e chi lo
Socrate è lontano non solo dall’antropomorfismo della religione della pólis, ma anche dall’agnosticismo e dall’ateismo dei sofisti: egli, infatti, senza la dimensione del «sacro», non saprebbe spiegare la sua «missione»: scuotere la città dal torpore, spronarla a tralasciare i beni effimeri e aiutare ciascuno a intraprendere una propria «ricerca». Una missione che viene ritenuta pericolosa dai suoi avversari politici. Per questo Socrate viene accusato di essere empio e di corrompere i giovani, e per tali accuse è processato e condannato a morte. Esemplare è l’atteggiamento che assume al processo: pur difendendosi confutando le accuse, respinge qualsiasi compromesso, poiché ciò che ha a cuore non è la salvezza della propria vita, ma la coerenza con i propri princìpi morali.
Le scuole socratiche X
Socrate: la virtù è sapere e porta alla felicità X
compie lo fa perché scambia il male per il bene. Si compie il male, dunque, solo per ignoranza. Nessuno può fare il male volontariamente anche perché nessuno vuole la propria infelicità. Questa tesi sarà etichettata da Aristotele come intellettualismo etico: Socrate, cioè, avrebbe affermato il primato del conoscere nelle scelte etiche, trascurando del tutto la volontà. SINTESI
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I sofisti e Socrate
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La scuola cinica. Uno degli allievi di Socrate, Antistene, portando alle estreme conseguenze l’idea del maestro secondo cui agire bene conduce alla libertà, sostiene che agire bene è liberarsi dai bisogni superflui (non naturali), dalle passioni, dal piacere, in altre parole è vivere in modo ascetico, troncando i rapporti con la stessa pólis. Diogene di Sinope, a sua volta, esaspera il pensiero di Antistene arrivando ad assumere un atteggiamento di disprezzo nei confronti di tutte le convenzioni sociali. La scuola cirenaica. Secondo Aristippo di Cirene, invece, l’uomo deve assaporare ogni piacere che la vita gli offre istante per istante, senza tuttavia rimanerne schiavo. La scuola megarica. Infine Euclide di Megara giunge a una sintesi tra il messaggio di Socrate e la dottrina eleatica: il «bene» non è altro che l’essere-Uno di Parmenide.
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1. La politica: il cittadino e lo Stato
Itinerari di lettura 15 SOMMARIO
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T1
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La politica, dal punto di vista teorico, è un’arte nobilissima: il suo oggetto non è l’interesse privato, ma il bene della collettività (pólis). Essa nasce come ricerca di un punto di equilibrio tra interessi contrastanti, come ricerca di un «ordine» che evita la prevaricazione di un ceto sociale sugli altri. In questo orizzonte culturale si colloca la condanna della tracotanza (hýbris) di chi punta a rompere tale ordine. La democrazia ateniese, esaltata da Pericle, è pienamente condivisa dai sofisti della prima generazione, che in essa trovano la propria ragion d’essere. La loro concezione è per alcuni versi elitaria, dato che insegnano a pagamento e quindi si rivolgono soprattutto ai figli delle famiglie più ricche: in ciò, riflettono le condizioni sociali dell’epoca, esprimendo l’aspirazione alla democrazia delle nuove classi artigianali e mercantili. I sofisti sono convinti, però, che ogni individuo, se opportunamente educato, sia in grado di partecipare alla vita della città e che la politica non richieda qualità speciali, ma solo una formazione adeguata, alla portata di tutti. Superata la concezione aristocratica della sacralità delle leggi, si pone il problema di spiegarne l’origine, e i sofisti lo affrontano in modo molto moderno: non si chiedono quali leggi siano «giuste» o meno, ma quale funzione esse svolgano nella società.
20
È vergognoso essere poveri? Il dibattito pubblico favorisce o indebolisce il momento decisionale?
25
30
35
Quali atteggiamenti vengono promossi dalla democrazia?
Pericle: La democrazia ateniese
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Il testo che qui ti viene sottoposto è di Tucidide: si tratta dell’epitaffio per i caduti della guerra del Peloponneso che il noto storico fa pronunciare a Pericle stesso. Democrazia e meritocrazia convivono o no? 5
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Abbiamo un sistema di governo che non emula le leggi dei vicini; ma siamo noi stessi un modello piuttosto che gli imitatori di altri. E quanto al nome, per il fatto che non si amministra lo Stato nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza, si chiama democrazia: secondo le leggi vi è per tutti l’eguaglianza per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene più che per il merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di fare del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale. Noi svolgiamo la nostra vita di cittadini liberamente, sia nei rapporti con lo Stato, sia per ciò che riguarda i sospetti reciproci nelle attività di tutti i giorni: non siamo adirati
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ITINERARI DI LETTURA
La politica: il cittadino e lo Stato
T1 TUCIDIDE (da La guerra del Peloponneso) Pericle: La democrazia ateniese T2 PLATONE (dal Protagora) Protagora: il dono della politica T3 ANTIFONTE (da Della verità) «Ciò che è prescritto dalla legge è un inciampo per la natura» T4 PLATONE (dalla Repubblica) Trasimaco: la giustizia è «ciò che giova al potere costituito» T5 PLATONE (dal Gorgia) Callicle: «A proprio favore i deboli pongono le leggi»
col nostro vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere, né infliggiamo molestie che, pur non facendo del male, sono tuttavia fastidiose alla vista. Mentre ci regoliamo nei nostri rapporti privati senza offendere, nella vita pubblica non ci comportiamo in modo illegale, soprattutto a causa del rispetto, perché diamo ascolto a coloro che di volta in volta sono in carica e alle leggi, specialmente quelle che sono stabilite per aiutare le vittime di ingiustizia e quelle che, senza essere scritte, portano a chi le viola una vergogna comunemente riconosciuta. Inoltre ci siamo procurati il più gran numero di svaghi per la mente come sollievo dalle fatiche, celebrando giochi e feste per tutto l’anno, e con belle case private, il cui godimento quotidiano scaccia la tristezza. E a causa della grandezza della città tutti i prodotti di tutta la terra sono importati, e succede che godiamo i beni prodotti da noi come se non ci appartenessero più di quelli che ci giungono dagli altri popoli. [...] Amiamo il bello senza esagerazione e la cultura senza mollezza. Ci serviamo della ricchezza più come mezzo per agire che per vantarcene a parole; e per chi è povero non è vergognoso ammettere la sua povertà, ma piuttosto è vergognoso non riuscire a evitarla di fatto. Vi è nelle stesse persone la cura dedicata agli affari privati insieme a quella per gli affari politici; e anche se ciascuno si dedica ad attività diverse, vi è la caratteristica di formare giudizi sugli affari pubblici in modo non inadeguato: noi infatti siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici, più che inattivo, inutile; e noi stessi almeno esprimiamo un giudizio, o riflettiamo correttamente, sulle varie questioni, senza considerare le parole dannose all’azione, ma considerando piuttosto un danno il non essere informati con le parole prima di procedere con l’azione a ciò che è necessario compiere. Infatti, a differenza degli altri, abbiamo questa qualità: mostriamo un grandissimo ardimento e contemporaneamente riflettiamo su ciò che stiamo per intraprendere: per gli altri, invece, è l’ignoranza che dà il coraggio, mentre la riflessione causa timore. Ma è giusto che vengano considerati più forti di tutti nello spirito coloro che, pur conoscendo più chiaramente la differenza tra le fatiche e i piaceri, tuttavia non rifuggono per questo dai pericoli. E anche in fatto di generosità ci comportiamo in modo contrario ai più: ci procuriamo gli amici non ricevendo benefici, ma facendoli. Ed è più costante nell’amicizia chi ha conferito il favore in modo tale da conservare, grazie alla benevolenza dimostrata verso la persona a cui ha dato il beneficio, la gratitudine che questi gli deve: chi invece è debitore è meno sensibile, perché sa che restituirà l’atto generoso non per ricevere gratitudine, ma per assolvere un debito. E siamo i soli a beneficare altri senza paura, non tanto per un calcolo dell’utilità che ne deriva quanto per la fiducia che nasce dalla libertà. Riassumendo, affermo che tutta la città è un esempio di educazione per la Grecia e che, a mio parere, il singolo individuo educato da noi può esser disponibile, e sufficiente, alle più svariate attività, con la massima versatilità e disinvoltura. E che questo non sia uno sfoggio di parole dette per l’occasione, ma piuttosto la verità dei fatti, lo indica la stessa potenza della città che abbiamo ottenuto attraverso queste caratteristiche di vita. (Tucidide, La guerra del peloponneso, II, 37-41; pp. 335, 337, 339)
T2
Protagora: Il dono della politica Il seguente testo è tratto dal Protagora di Platone. Si trova inserito nel celebre mito di Prometeo ed Epimeteo, che riguarda l’origine della civiltà. Il problema in oggetto è: la politica è un’arte che possiedono solo pochi specialisti o appartiene a tutti? Secondo il mito, in un primo momento
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1. La politica: il cittadino e lo Stato
Itinerari di lettura 15 SOMMARIO
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T1
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La politica, dal punto di vista teorico, è un’arte nobilissima: il suo oggetto non è l’interesse privato, ma il bene della collettività (pólis). Essa nasce come ricerca di un punto di equilibrio tra interessi contrastanti, come ricerca di un «ordine» che evita la prevaricazione di un ceto sociale sugli altri. In questo orizzonte culturale si colloca la condanna della tracotanza (hýbris) di chi punta a rompere tale ordine. La democrazia ateniese, esaltata da Pericle, è pienamente condivisa dai sofisti della prima generazione, che in essa trovano la propria ragion d’essere. La loro concezione è per alcuni versi elitaria, dato che insegnano a pagamento e quindi si rivolgono soprattutto ai figli delle famiglie più ricche: in ciò, riflettono le condizioni sociali dell’epoca, esprimendo l’aspirazione alla democrazia delle nuove classi artigianali e mercantili. I sofisti sono convinti, però, che ogni individuo, se opportunamente educato, sia in grado di partecipare alla vita della città e che la politica non richieda qualità speciali, ma solo una formazione adeguata, alla portata di tutti. Superata la concezione aristocratica della sacralità delle leggi, si pone il problema di spiegarne l’origine, e i sofisti lo affrontano in modo molto moderno: non si chiedono quali leggi siano «giuste» o meno, ma quale funzione esse svolgano nella società.
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È vergognoso essere poveri? Il dibattito pubblico favorisce o indebolisce il momento decisionale?
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Quali atteggiamenti vengono promossi dalla democrazia?
Pericle: La democrazia ateniese
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Il testo che qui ti viene sottoposto è di Tucidide: si tratta dell’epitaffio per i caduti della guerra del Peloponneso che il noto storico fa pronunciare a Pericle stesso. Democrazia e meritocrazia convivono o no? 5
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Abbiamo un sistema di governo che non emula le leggi dei vicini; ma siamo noi stessi un modello piuttosto che gli imitatori di altri. E quanto al nome, per il fatto che non si amministra lo Stato nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza, si chiama democrazia: secondo le leggi vi è per tutti l’eguaglianza per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene più che per il merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di fare del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale. Noi svolgiamo la nostra vita di cittadini liberamente, sia nei rapporti con lo Stato, sia per ciò che riguarda i sospetti reciproci nelle attività di tutti i giorni: non siamo adirati
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ITINERARI DI LETTURA
La politica: il cittadino e lo Stato
T1 TUCIDIDE (da La guerra del Peloponneso) Pericle: La democrazia ateniese T2 PLATONE (dal Protagora) Protagora: il dono della politica T3 ANTIFONTE (da Della verità) «Ciò che è prescritto dalla legge è un inciampo per la natura» T4 PLATONE (dalla Repubblica) Trasimaco: la giustizia è «ciò che giova al potere costituito» T5 PLATONE (dal Gorgia) Callicle: «A proprio favore i deboli pongono le leggi»
col nostro vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere, né infliggiamo molestie che, pur non facendo del male, sono tuttavia fastidiose alla vista. Mentre ci regoliamo nei nostri rapporti privati senza offendere, nella vita pubblica non ci comportiamo in modo illegale, soprattutto a causa del rispetto, perché diamo ascolto a coloro che di volta in volta sono in carica e alle leggi, specialmente quelle che sono stabilite per aiutare le vittime di ingiustizia e quelle che, senza essere scritte, portano a chi le viola una vergogna comunemente riconosciuta. Inoltre ci siamo procurati il più gran numero di svaghi per la mente come sollievo dalle fatiche, celebrando giochi e feste per tutto l’anno, e con belle case private, il cui godimento quotidiano scaccia la tristezza. E a causa della grandezza della città tutti i prodotti di tutta la terra sono importati, e succede che godiamo i beni prodotti da noi come se non ci appartenessero più di quelli che ci giungono dagli altri popoli. [...] Amiamo il bello senza esagerazione e la cultura senza mollezza. Ci serviamo della ricchezza più come mezzo per agire che per vantarcene a parole; e per chi è povero non è vergognoso ammettere la sua povertà, ma piuttosto è vergognoso non riuscire a evitarla di fatto. Vi è nelle stesse persone la cura dedicata agli affari privati insieme a quella per gli affari politici; e anche se ciascuno si dedica ad attività diverse, vi è la caratteristica di formare giudizi sugli affari pubblici in modo non inadeguato: noi infatti siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici, più che inattivo, inutile; e noi stessi almeno esprimiamo un giudizio, o riflettiamo correttamente, sulle varie questioni, senza considerare le parole dannose all’azione, ma considerando piuttosto un danno il non essere informati con le parole prima di procedere con l’azione a ciò che è necessario compiere. Infatti, a differenza degli altri, abbiamo questa qualità: mostriamo un grandissimo ardimento e contemporaneamente riflettiamo su ciò che stiamo per intraprendere: per gli altri, invece, è l’ignoranza che dà il coraggio, mentre la riflessione causa timore. Ma è giusto che vengano considerati più forti di tutti nello spirito coloro che, pur conoscendo più chiaramente la differenza tra le fatiche e i piaceri, tuttavia non rifuggono per questo dai pericoli. E anche in fatto di generosità ci comportiamo in modo contrario ai più: ci procuriamo gli amici non ricevendo benefici, ma facendoli. Ed è più costante nell’amicizia chi ha conferito il favore in modo tale da conservare, grazie alla benevolenza dimostrata verso la persona a cui ha dato il beneficio, la gratitudine che questi gli deve: chi invece è debitore è meno sensibile, perché sa che restituirà l’atto generoso non per ricevere gratitudine, ma per assolvere un debito. E siamo i soli a beneficare altri senza paura, non tanto per un calcolo dell’utilità che ne deriva quanto per la fiducia che nasce dalla libertà. Riassumendo, affermo che tutta la città è un esempio di educazione per la Grecia e che, a mio parere, il singolo individuo educato da noi può esser disponibile, e sufficiente, alle più svariate attività, con la massima versatilità e disinvoltura. E che questo non sia uno sfoggio di parole dette per l’occasione, ma piuttosto la verità dei fatti, lo indica la stessa potenza della città che abbiamo ottenuto attraverso queste caratteristiche di vita. (Tucidide, La guerra del peloponneso, II, 37-41; pp. 335, 337, 339)
T2
Protagora: Il dono della politica Il seguente testo è tratto dal Protagora di Platone. Si trova inserito nel celebre mito di Prometeo ed Epimeteo, che riguarda l’origine della civiltà. Il problema in oggetto è: la politica è un’arte che possiedono solo pochi specialisti o appartiene a tutti? Secondo il mito, in un primo momento
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I sofisti e Socrate
1. La politica: il cittadino e lo Stato
GUIDA ALL’ANALISI
T4
ni, quella delle leggi di natura ha la propria punizione in se stessa; 5. una volta dimostrata la superiorità delle leggi di natura su quelle dello Stato, Antifonte va oltre, affermando che le seconde sono spesso in contrasto con le prime, perché pretendono di imporre regole al nostro corpo e al nostro animo, costringendoci ad andare contro le nostre tendenze naturali; 6. le leggi di natura, per contro, sono in armonia con le nostre tendenze, per cui ciò che prescrivono è utile e ci procura piacere, ciò che ci proibiscono ci procura danno.
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Si guadagna di più a essere giusti o ingiusti?
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Trasimaco: La giustizia è «ciò che giova al potere costituito» Antifonte, mettendo in discussione la legge – le norme della pólis, i costumi, le prescrizioni religiose – e sottolineando il contrasto tra legge e natura, afferma il proprio cosmopolitismo, cioè il suo essere cittadino del mondo, non vincolato a una pólis o a un popolo. Si tratta, in altre parole, della messa in crisi della politica come espressione di un popolo. Su questa stessa strada troviamo, con motivazioni opposte, anche Trasimaco, il quale arriva a sostenere che ciò che viene sbandierato come «giustizia» non è altro che l’espressione degli interessi del più forte. Antifonte contesta le leggi della pólis in nome di princìpi universali; Trasimaco, al contrario, le riconduce all’utile individuale o di un gruppo ristretto di persone.
Anche oggi un’ingiustizia «perfetta» è considerata più autorevole della giustizia?
L’argomentazione Il filosofo deve sempre argomentare le sue tesi: questa è una delle caratteristiche principali della filosofia, che la distingue, ad esempio, dalla religione e dal mito. Per comprendere bene un testo, è utile individuare le tesi centrali e gli argomenti addotti per sostenerle. Leggi il brano seguente e svolgi gli spunti di lavoro.
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Orbene, ogni governo pone delle leggi in vista del proLa prima tesi è espressa in apertura: ogni governo fa le leggi per prio tornaconto: la democrazia porrà leggi democratiche, il proprio tornaconto. L’argomenla tirannia tiranniche, e così via. E una volta istituite, essi tazione parte dalla constataziodispongono che il proprio utile diventi per i sudditi il giune che ciò che viene considerato sto, sicché il trasgressore viene perseguito come nemico giusto è in realtà il vantaggio del più forte e il potere costituito ha della legge e della giustizia. Ecco qui, ottimo amico, quello la forza. che in ogni forma di governo io sostengo essere il giusto; in fondo è sempre la stessa cosa: ciò che giova al potere costituito. Questo, infatti, ha dalla sua la forza, e, quindi, chi ha il bene dell’intelletto non può non convenire che, in ogni caso, il giusto si identifica con il vantaggio del più forte. [...] ti illudi che i potentati degli Stati – coloro, s’intende, che hanno davvero in mano il potere – siano mossi da intenzioni diverse da quelle che animano il pastore nei con-
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Testo-laboratorio
Ritieni che sia così anche oggi?
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ITINERARI DI LETTURA
Antifonte sviluppa in questo brano un articolato ragionamento. Proviamo a ricostruirne i passaggi: 1. le leggi dello Stato sono costrittive se ci sono «testimoni» (r. 3), altrimenti non obbligano l’individuo; 2. quelle di natura, invece, facendo parte del nostro modo di essere, sono seguite sempre, spontaneamente, che vi siano o meno testimoni; 3. da questa prima differenza ne derivano altre: le prime sono «accessorie» (r. 4) e convenzionali, le seconde «essenziali» (r. 4) e originarie; 4. come conseguenza generale, la violazione delle leggi dello Stato comporta punizione solo se ci sono testimo-
fronti del suo gregge, e che essi ad altro mirino giorno e notte, che a trarre un vantaggio personale. [...] i sottomessi fanno l’interesse di chi è più forte, e in questo loro servire sono strumenti della sua felicità, e non certo della propria. Qui troviamo una nuova tesi: il [...] il giusto, a confronto con l’ingiusto, ci perde giusto perde sempre nel confronto sempre. Innanzi tutto nei reciproci rapporti di affari, con l’ingiusto. Le argomentazioni quando uno stipuli un contratto con un altro, non troa sostegno sono: a. nei contratti personali, il disonesto può fare veresti mai, a operazione conclusa, che l’onesto abbia il proprio tornaconto in misura avuto di più del disonesto; ne avrà anzi sempre di meno. maggiore del giusto (sottinteso: E poi anche nei rapporti con lo Stato, quando ci sia da dato che non deve preoccuparsi pagare delle tasse il giusto, a parità di censo, pagherà di di essere giusto). Quali altre argomentazioni riesci a trovare nel più, e l’ingiusto di meno. E se poi ci fosse da guadagnar brano a sostegno della tesi? qualcosa, il primo resterebbe a bocca asciutta, e il secondo farebbe lauti guadagni. In effetti, posto che l’uno e l’altro assumano una data carica, al giusto, ben che gli vada, capita che i suoi affari, per il fatto di non essere seguiti, vadano alla malora, mentre dal denaro pubblico, proprio a motivo della sua rettitudine, non trae alcun vantaggio. A ciò si aggiunga che egli finisce per incrinare i rapporti con conoscenti e parenti, per il fatto di non voler rendere loro alcun illecito favore. Per il disonesto, invece, le cose vanno in tutt’altro modo. [...] Eppure se uno non riuscisse a farla franca in uno L’ultima tesi è forse quella più qualsiasi di questi reati preso isolatamente, non solo indura: i piccoli disonesti vengono condannati e disprezzati, i capperebbe nella punizione, ma anche si tirerebbe adgrandi delinquenti sono invidiati dosso gli epiteti più infamanti. Non per nulla sacrileghi, e riveriti. Quale argomentazione schiavisti, scassinatori, rapinatori e malandrini sono sostiene questa tesi? chiamati quelli che si macchiano di siffatte colpe una alla volta. Al contrario, se qualcuno, oltre che appropriarsi dei beni dei cittadini, si appropriasse anche delle loro persone, facendoli schiavi, al posto di questi epiteti vergognosi si guadagnerebbe la nomea d’uomo felice e fortunato, e non solo da parte dei concittadini, ma anche di tutti gli altri che siano a conoscenza della sua perfetta ingiustizia. In effetti, quelli che son soliti condannare l’ingiustizia, la condannano non perché abbiano paura di farla, ma di subirla. Ecco, Socrate, perché l’ingiustizia, quando sia in sé perfetta, è più forte, più libera, più autorevole della giustizia. (Platone, Repubblica, I, 338e-339a, 343b-e, 344b-c, pp. 1092, 1096-97)
T5
Callicle: «A proprio favore i deboli pongono le leggi» Callicle, un personaggio del Gorgia di Platone, segue la strada del radicalismo di Trasimaco, ma anche, seppure con un’angolatura diversa, quella di Antifonte. Secondo lui le leggi sono contro natura perché altro non sono che imposizioni dei più deboli, tra loro coalizzati, nei confronti dei più forti per natura: esse sono, in altre parole, l’espressione dell’interesse della «massa», degli «uomini deboli» e il loro scopo è «piegare» e «incatenare» i migliori e i più forti.
Chi è più potente ha diritto ad avere di più?
Ma io credo che quelli che hanno stabilito le leggi siano stati gli uomini deboli e la massa. Dunque, a proprio favore i deboli pongono le leggi, cantano lodi e levano biasimi. E per spaventare coloro che sono più forti e capaci di avere sopravvento, in modo che non abbiano più di loro, dicono che è brutto e ingiusto avere sopravvento
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I sofisti e Socrate
1. La politica: il cittadino e lo Stato
GUIDA ALL’ANALISI
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ni, quella delle leggi di natura ha la propria punizione in se stessa; 5. una volta dimostrata la superiorità delle leggi di natura su quelle dello Stato, Antifonte va oltre, affermando che le seconde sono spesso in contrasto con le prime, perché pretendono di imporre regole al nostro corpo e al nostro animo, costringendoci ad andare contro le nostre tendenze naturali; 6. le leggi di natura, per contro, sono in armonia con le nostre tendenze, per cui ciò che prescrivono è utile e ci procura piacere, ciò che ci proibiscono ci procura danno.
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Si guadagna di più a essere giusti o ingiusti?
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Trasimaco: La giustizia è «ciò che giova al potere costituito» Antifonte, mettendo in discussione la legge – le norme della pólis, i costumi, le prescrizioni religiose – e sottolineando il contrasto tra legge e natura, afferma il proprio cosmopolitismo, cioè il suo essere cittadino del mondo, non vincolato a una pólis o a un popolo. Si tratta, in altre parole, della messa in crisi della politica come espressione di un popolo. Su questa stessa strada troviamo, con motivazioni opposte, anche Trasimaco, il quale arriva a sostenere che ciò che viene sbandierato come «giustizia» non è altro che l’espressione degli interessi del più forte. Antifonte contesta le leggi della pólis in nome di princìpi universali; Trasimaco, al contrario, le riconduce all’utile individuale o di un gruppo ristretto di persone.
Anche oggi un’ingiustizia «perfetta» è considerata più autorevole della giustizia?
L’argomentazione Il filosofo deve sempre argomentare le sue tesi: questa è una delle caratteristiche principali della filosofia, che la distingue, ad esempio, dalla religione e dal mito. Per comprendere bene un testo, è utile individuare le tesi centrali e gli argomenti addotti per sostenerle. Leggi il brano seguente e svolgi gli spunti di lavoro.
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Orbene, ogni governo pone delle leggi in vista del proLa prima tesi è espressa in apertura: ogni governo fa le leggi per prio tornaconto: la democrazia porrà leggi democratiche, il proprio tornaconto. L’argomenla tirannia tiranniche, e così via. E una volta istituite, essi tazione parte dalla constataziodispongono che il proprio utile diventi per i sudditi il giune che ciò che viene considerato sto, sicché il trasgressore viene perseguito come nemico giusto è in realtà il vantaggio del più forte e il potere costituito ha della legge e della giustizia. Ecco qui, ottimo amico, quello la forza. che in ogni forma di governo io sostengo essere il giusto; in fondo è sempre la stessa cosa: ciò che giova al potere costituito. Questo, infatti, ha dalla sua la forza, e, quindi, chi ha il bene dell’intelletto non può non convenire che, in ogni caso, il giusto si identifica con il vantaggio del più forte. [...] ti illudi che i potentati degli Stati – coloro, s’intende, che hanno davvero in mano il potere – siano mossi da intenzioni diverse da quelle che animano il pastore nei con-
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Testo-laboratorio
Ritieni che sia così anche oggi?
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ITINERARI DI LETTURA
Antifonte sviluppa in questo brano un articolato ragionamento. Proviamo a ricostruirne i passaggi: 1. le leggi dello Stato sono costrittive se ci sono «testimoni» (r. 3), altrimenti non obbligano l’individuo; 2. quelle di natura, invece, facendo parte del nostro modo di essere, sono seguite sempre, spontaneamente, che vi siano o meno testimoni; 3. da questa prima differenza ne derivano altre: le prime sono «accessorie» (r. 4) e convenzionali, le seconde «essenziali» (r. 4) e originarie; 4. come conseguenza generale, la violazione delle leggi dello Stato comporta punizione solo se ci sono testimo-
fronti del suo gregge, e che essi ad altro mirino giorno e notte, che a trarre un vantaggio personale. [...] i sottomessi fanno l’interesse di chi è più forte, e in questo loro servire sono strumenti della sua felicità, e non certo della propria. Qui troviamo una nuova tesi: il [...] il giusto, a confronto con l’ingiusto, ci perde giusto perde sempre nel confronto sempre. Innanzi tutto nei reciproci rapporti di affari, con l’ingiusto. Le argomentazioni quando uno stipuli un contratto con un altro, non troa sostegno sono: a. nei contratti personali, il disonesto può fare veresti mai, a operazione conclusa, che l’onesto abbia il proprio tornaconto in misura avuto di più del disonesto; ne avrà anzi sempre di meno. maggiore del giusto (sottinteso: E poi anche nei rapporti con lo Stato, quando ci sia da dato che non deve preoccuparsi pagare delle tasse il giusto, a parità di censo, pagherà di di essere giusto). Quali altre argomentazioni riesci a trovare nel più, e l’ingiusto di meno. E se poi ci fosse da guadagnar brano a sostegno della tesi? qualcosa, il primo resterebbe a bocca asciutta, e il secondo farebbe lauti guadagni. In effetti, posto che l’uno e l’altro assumano una data carica, al giusto, ben che gli vada, capita che i suoi affari, per il fatto di non essere seguiti, vadano alla malora, mentre dal denaro pubblico, proprio a motivo della sua rettitudine, non trae alcun vantaggio. A ciò si aggiunga che egli finisce per incrinare i rapporti con conoscenti e parenti, per il fatto di non voler rendere loro alcun illecito favore. Per il disonesto, invece, le cose vanno in tutt’altro modo. [...] Eppure se uno non riuscisse a farla franca in uno L’ultima tesi è forse quella più qualsiasi di questi reati preso isolatamente, non solo indura: i piccoli disonesti vengono condannati e disprezzati, i capperebbe nella punizione, ma anche si tirerebbe adgrandi delinquenti sono invidiati dosso gli epiteti più infamanti. Non per nulla sacrileghi, e riveriti. Quale argomentazione schiavisti, scassinatori, rapinatori e malandrini sono sostiene questa tesi? chiamati quelli che si macchiano di siffatte colpe una alla volta. Al contrario, se qualcuno, oltre che appropriarsi dei beni dei cittadini, si appropriasse anche delle loro persone, facendoli schiavi, al posto di questi epiteti vergognosi si guadagnerebbe la nomea d’uomo felice e fortunato, e non solo da parte dei concittadini, ma anche di tutti gli altri che siano a conoscenza della sua perfetta ingiustizia. In effetti, quelli che son soliti condannare l’ingiustizia, la condannano non perché abbiano paura di farla, ma di subirla. Ecco, Socrate, perché l’ingiustizia, quando sia in sé perfetta, è più forte, più libera, più autorevole della giustizia. (Platone, Repubblica, I, 338e-339a, 343b-e, 344b-c, pp. 1092, 1096-97)
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Callicle: «A proprio favore i deboli pongono le leggi» Callicle, un personaggio del Gorgia di Platone, segue la strada del radicalismo di Trasimaco, ma anche, seppure con un’angolatura diversa, quella di Antifonte. Secondo lui le leggi sono contro natura perché altro non sono che imposizioni dei più deboli, tra loro coalizzati, nei confronti dei più forti per natura: esse sono, in altre parole, l’espressione dell’interesse della «massa», degli «uomini deboli» e il loro scopo è «piegare» e «incatenare» i migliori e i più forti.
Chi è più potente ha diritto ad avere di più?
Ma io credo che quelli che hanno stabilito le leggi siano stati gli uomini deboli e la massa. Dunque, a proprio favore i deboli pongono le leggi, cantano lodi e levano biasimi. E per spaventare coloro che sono più forti e capaci di avere sopravvento, in modo che non abbiano più di loro, dicono che è brutto e ingiusto avere sopravvento
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sugli altri, e che questo appunto è il commettere ingiustizia: il cercare di avere più degli altri. E io credo che essi amino ottenere l’uguaglianza, perché sono più deboli. Per queste ragioni il cercare di avere più degli altri viene detto ingiusto e brutto per legge, e questo essi chiamano fare ingiustizia. Ma mi pare che la natura stessa mostri questo, ossia che è giusto che chi è migliore abbia più di chi è peggiore, e chi è più potente abbia più di chi è meno potente. E ci dimostra che è così in molti casi, e per quanto riguarda gli uomini, in tutte le Città e nelle famiglie, e negli altri animali; dimostra, cioè, che il giusto si giudica in questo modo: che il più forte domini il più debole e abbia più di lui. Infatti avvalendosi di quale diritto Serse portò guerra contro la Grecia, o il padre suo contro gli Sciti? [...] costoro fanno queste cose in base al diritto di natura, e, sì, per Zeus, anche in base alla legge, ma quella della natura, e non certo in base a quella che noi stabiliamo. Al fine di piegare i migliori e più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni, incatenandoli e seducendoli, li sottomettiamo, dicendo loro che bisogna essere uguali e che questo è bello e giusto. Ma, sono convinto, se nascesse un uomo dotato di una natura adeguata, allora essa scuoterebbe da sé, spezzerebbe e respingerebbe tutte queste cose, calpesterebbe le nostre scritture, i nostri incantesimi, i nostri sortilegi e le nostre leggi, che sono tutte contro natura, e, così ribellatosi, il nostro schiavo risulterebbe essere nostro padrone, e allora rifulgerebbe il giusto secondo natura.
X
Pericle, pur esaltando la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, non nega affatto ai cittadini il diritto di perseguire i propri interessi privati: in che senso?
X
Il discorso di Pericle, in più occasioni, sottolinea la misura, l’equilibrio degli Ateniesi: quale il significato?
X
Ti sembra attuale (al di là dell’enfasi espressa e dell’idealizzazione fatta del modello ateniese) la lezione di Pericle? T2 Analizza il brano di Protagora sull’arte politica.
2 X
T3 Analizza il brano di Antifonte sulle leggi.
3 X
Antifonte distingue nettamente le leggi umane dalle norme di natura (rr. 1-9) e sostiene che l’individuo applica la giustizia nel modo più vantaggioso per lui (rr. 2-3). – Quali sono, secondo Antifonte, le caratteristiche delle leggi umane e quali quelle delle norme di natura? Puoi rispondere con una tabella.
X
Nella seconda parte del brano Antifonte afferma che la maggior parte delle leggi umane è in contrasto con la natura (rr. 10-23). – Quali sono gli esempi riportati che denotano questo contrasto? – Ritieni che anche oggi vi siano leggi dello stesso tipo, leggi cioè che sono in contrasto con la natura?
(Platone, Gorgia, 483b-484b, pp. 894-95)
GUIDA ALL’ANALISI Sono i deboli (r. 1) che, con le loro leggi, impongono la loro «giustizia», nell’intento di instaurare l’uguaglianza: nessuno deve avere più degli altri (rr. 5-6). In questo modo fanno violenza alla legge di natura secondo cui il più forte deve dominare sul più debole, e deve avere «più di lui» (r. 13). Si tratta della legge che è comune agli animali e agli uomini: sulla base di quale legge, se non quella di natura, il re persiano Serse ha sferrato l’attacco alla Grecia?
Callicle osserva che, quando si cerca di soggiogare i più forti alle leggi poste per convenzione, ci si comporta come quando si vogliono domare fin da giovani i leoni. «Un uomo dotato di una natura adeguata» (rr. 19-20), cioè di grande forza, porrebbe fine, secondo lui, alla pretesa di uguaglianza fra tutti gli uomini e sarebbe in grado di instaurare «il giusto secondo natura» (r. 23).
Il brano distingue l’arte della politica dalle altre. Per chiarire i termini del discorso presenta poi un esempio di arte di tipo professionale. Infine asserisce che l’arte politica, a differenza delle altre, va distribuita a tutti. – Quale argomentazione viene usata a sostegno di tale tesi? – Si tratta di un’argomentazione sostenuta una volta sola o più volte? – Ti sembra convincente tale argomentazione? Motiva la risposta.
ITINERARI DI LETTURA
La legge del più forte è comune ad animali e uomini?
1. La politica: il cittadino e lo Stato
T4 Analizza il brano di Trasimaco sulla giustizia.
4 X
Ogni governo – secondo Trasimaco – assume le decisioni secondo i propri interessi (rr. 1-10). – Condividi questa tesi? Ritieni che valga anche oggi? Rispondi sulla base della tua esperienza e delle tue conoscenze.
X
Trasimaco sostiene che c’è tutto da guadagnare ad essere ingiusti e riporta alcuni esempi (rr. 17-31, 38-41). – Quali sono i vantaggi secondo Trasimaco? Riassumili nella tabella, riportando a fianco di ognuno le possibili obiezioni.
Vantaggi per l’ingiusto
Obiezioni
Nei rapporti d'affari, perché ... LAVORO SUL TESTO
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T1 A proposito del discorso di Pericle, svolgi le seguenti analisi. Pericle afferma la superiorità del principio meritocratico. – In che cosa consiste tale principio? – Ritieni che tale principio sia applicato oggi? – Ritieni, in particolare, che un cittadino povero, ma capace di fare un buon servizio alla comunità, abbia la possibilità oggi di occupare cariche pubbliche di qualche rilievo? «Inutile» viene definito chi non si occupa di politica. – Perché? Prova a rispondere tenendo conto del contesto della democrazia ateniese. – Fa’ poi un confronto con la situazione attuale: oggi chi non si occupa di politica è considerato in tal modo? Rispondi esprimendo anche una tua valutazione.
Nei rapporti con lo Stato, perché ... 5 X
T5 Analizza il brano di Callicle sulla giustizia. Le leggi, secondo Callicle, non sono imposte dai potenti, ma al contrario dalla massa dei deboli (rr. 1-8). – Perché i governanti – secondo Callicle – puntano all’obiettivo dell’uguaglianza? – In che cosa consiste, secondo i «deboli», il commettere ingiustizia? – Quali sono gli esempi di natura che vengono utilizzati per giustificare la tesi secondo cui la giustizia è il diritto del più forte?
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sugli altri, e che questo appunto è il commettere ingiustizia: il cercare di avere più degli altri. E io credo che essi amino ottenere l’uguaglianza, perché sono più deboli. Per queste ragioni il cercare di avere più degli altri viene detto ingiusto e brutto per legge, e questo essi chiamano fare ingiustizia. Ma mi pare che la natura stessa mostri questo, ossia che è giusto che chi è migliore abbia più di chi è peggiore, e chi è più potente abbia più di chi è meno potente. E ci dimostra che è così in molti casi, e per quanto riguarda gli uomini, in tutte le Città e nelle famiglie, e negli altri animali; dimostra, cioè, che il giusto si giudica in questo modo: che il più forte domini il più debole e abbia più di lui. Infatti avvalendosi di quale diritto Serse portò guerra contro la Grecia, o il padre suo contro gli Sciti? [...] costoro fanno queste cose in base al diritto di natura, e, sì, per Zeus, anche in base alla legge, ma quella della natura, e non certo in base a quella che noi stabiliamo. Al fine di piegare i migliori e più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni, incatenandoli e seducendoli, li sottomettiamo, dicendo loro che bisogna essere uguali e che questo è bello e giusto. Ma, sono convinto, se nascesse un uomo dotato di una natura adeguata, allora essa scuoterebbe da sé, spezzerebbe e respingerebbe tutte queste cose, calpesterebbe le nostre scritture, i nostri incantesimi, i nostri sortilegi e le nostre leggi, che sono tutte contro natura, e, così ribellatosi, il nostro schiavo risulterebbe essere nostro padrone, e allora rifulgerebbe il giusto secondo natura.
X
Pericle, pur esaltando la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, non nega affatto ai cittadini il diritto di perseguire i propri interessi privati: in che senso?
X
Il discorso di Pericle, in più occasioni, sottolinea la misura, l’equilibrio degli Ateniesi: quale il significato?
X
Ti sembra attuale (al di là dell’enfasi espressa e dell’idealizzazione fatta del modello ateniese) la lezione di Pericle? T2 Analizza il brano di Protagora sull’arte politica.
2 X
T3 Analizza il brano di Antifonte sulle leggi.
3 X
Antifonte distingue nettamente le leggi umane dalle norme di natura (rr. 1-9) e sostiene che l’individuo applica la giustizia nel modo più vantaggioso per lui (rr. 2-3). – Quali sono, secondo Antifonte, le caratteristiche delle leggi umane e quali quelle delle norme di natura? Puoi rispondere con una tabella.
X
Nella seconda parte del brano Antifonte afferma che la maggior parte delle leggi umane è in contrasto con la natura (rr. 10-23). – Quali sono gli esempi riportati che denotano questo contrasto? – Ritieni che anche oggi vi siano leggi dello stesso tipo, leggi cioè che sono in contrasto con la natura?
(Platone, Gorgia, 483b-484b, pp. 894-95)
GUIDA ALL’ANALISI Sono i deboli (r. 1) che, con le loro leggi, impongono la loro «giustizia», nell’intento di instaurare l’uguaglianza: nessuno deve avere più degli altri (rr. 5-6). In questo modo fanno violenza alla legge di natura secondo cui il più forte deve dominare sul più debole, e deve avere «più di lui» (r. 13). Si tratta della legge che è comune agli animali e agli uomini: sulla base di quale legge, se non quella di natura, il re persiano Serse ha sferrato l’attacco alla Grecia?
Callicle osserva che, quando si cerca di soggiogare i più forti alle leggi poste per convenzione, ci si comporta come quando si vogliono domare fin da giovani i leoni. «Un uomo dotato di una natura adeguata» (rr. 19-20), cioè di grande forza, porrebbe fine, secondo lui, alla pretesa di uguaglianza fra tutti gli uomini e sarebbe in grado di instaurare «il giusto secondo natura» (r. 23).
Il brano distingue l’arte della politica dalle altre. Per chiarire i termini del discorso presenta poi un esempio di arte di tipo professionale. Infine asserisce che l’arte politica, a differenza delle altre, va distribuita a tutti. – Quale argomentazione viene usata a sostegno di tale tesi? – Si tratta di un’argomentazione sostenuta una volta sola o più volte? – Ti sembra convincente tale argomentazione? Motiva la risposta.
ITINERARI DI LETTURA
La legge del più forte è comune ad animali e uomini?
1. La politica: il cittadino e lo Stato
T4 Analizza il brano di Trasimaco sulla giustizia.
4 X
Ogni governo – secondo Trasimaco – assume le decisioni secondo i propri interessi (rr. 1-10). – Condividi questa tesi? Ritieni che valga anche oggi? Rispondi sulla base della tua esperienza e delle tue conoscenze.
X
Trasimaco sostiene che c’è tutto da guadagnare ad essere ingiusti e riporta alcuni esempi (rr. 17-31, 38-41). – Quali sono i vantaggi secondo Trasimaco? Riassumili nella tabella, riportando a fianco di ognuno le possibili obiezioni.
Vantaggi per l’ingiusto
Obiezioni
Nei rapporti d'affari, perché ... LAVORO SUL TESTO
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T1 A proposito del discorso di Pericle, svolgi le seguenti analisi. Pericle afferma la superiorità del principio meritocratico. – In che cosa consiste tale principio? – Ritieni che tale principio sia applicato oggi? – Ritieni, in particolare, che un cittadino povero, ma capace di fare un buon servizio alla comunità, abbia la possibilità oggi di occupare cariche pubbliche di qualche rilievo? «Inutile» viene definito chi non si occupa di politica. – Perché? Prova a rispondere tenendo conto del contesto della democrazia ateniese. – Fa’ poi un confronto con la situazione attuale: oggi chi non si occupa di politica è considerato in tal modo? Rispondi esprimendo anche una tua valutazione.
Nei rapporti con lo Stato, perché ... 5 X
T5 Analizza il brano di Callicle sulla giustizia. Le leggi, secondo Callicle, non sono imposte dai potenti, ma al contrario dalla massa dei deboli (rr. 1-8). – Perché i governanti – secondo Callicle – puntano all’obiettivo dell’uguaglianza? – In che cosa consiste, secondo i «deboli», il commettere ingiustizia? – Quali sono gli esempi di natura che vengono utilizzati per giustificare la tesi secondo cui la giustizia è il diritto del più forte?
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I sofisti e Socrate
I sofisti e Socrate
PREPARARSI ALL’INTERROGAZIONE
L’OFFICINA DEL FILOSOFO CONCETTUALIZZARE
Confronto tra filosofi
Sofistica 1 Abbina le definizioni ai seguenti concetti:
1 I presocratici, i sofisti e Socrate
1. retorica • 2. relativismo • 3. svolta antropologica • 4. convenzionalità delle leggi • 5. pólis concezione secondo cui non è più l’enigma dell’universo l’oggetto della ricerca, ma l’uomo stesso l’arte di parlare in pubblico tesi secondo cui non esistono verità assolute città-stato concezione secondo cui le norme sono il frutto di decisioni degli uomini
I sofisti e Socrate concordano sull’impossibilità di conoscere oggettivamente il mondo naturale. Socrate si disinteressa fondamentalmente del problema, ponendo al centro la riflessione sull’uomo e sulla virtù. Tra i presocratici, l’etica è importante anche per Pitagora, che analizzeremo in riferimento a Platone. Presocratici
Sofisti
Socrate
Che cosa possiamo conoscere?
È possibile conoscere la vera realtà dietro alle apparenze: l’arché costituisce l’oggetto della conoscenza razionale e spiega anche i fenomeni.
Non esiste nessun arché dietro ai fenomeni, che sono la sola cosa che possiamo conoscere. La conoscenza è dunque soggettiva e diversa da individuo a individuo.
Non esiste nessun arché dietro ai fenomeni, che sono la sola cosa del mondo naturale che possiamo conoscere. La ragione ci consente però di arrivare a una conoscenza comune, e quindi universale, della virtù.
Su che cosa si basa l’etica?
Secondo Democrito, sulla ragione, intesa però come lo strumento mediante cui possiamo scegliere tra i piaceri senza lasciarci sopraffare dalle passioni.
Sul piacere e sull’utile individuale. Alcuni sofisti, però, indicano come criterio l’utile per la città (Protagora).
Sulla ragione, intesa come fondamento di ciò che è comune a tutti gli uomini, riconosciuto come tale nel dialogo mediante argomentazioni condivise.
COMPRENDERE 2 Riconosci le affermazioni vere da quelle false: 1. 2. 3. 4. 5.
V F
Socrate si occupa di metafisica per individuare un fondamento universale della morale Socrate si distingue dai sofisti perché si occupa soltanto di problemi morali e non di problemi politici L’universalità dei valori morali si fonda, per Socrate, sulla ragione Mediante il dialogo possiamo distinguere l’opinione individuale dalla verità comune, giustificabile mediante argomentazioni condivise L’espressione «intellettualismo etico» si riferisce al fatto che secondo Socrate soltanto il filosofo conosce il bene
PROBLEMATIZZARE Il bene 3 Discuti le seguenti questioni
2 I sofisti e Socrate
Le leggi e la giustizia • Tra i sofisti vi è chi utilizza il concetto di natura per sostenere che gli uomini sono tutti uguali, e vi è chi ne fa ricorso per affermare esattamente il contrario. Che cosa ne pensi? • Le leggi esprimono gli interessi generali, oppure – come sostiene Trasimaco – l’utile del più forte? Puoi discuterne con i compagni analizzando alcune leggi approvate recentemente o che sono al centro del dibattito politico.
I sofisti e Socrate sono contemporanei e concordano sulla svolta “umanistica” della filosofia. Le molte differenze tra loro, però, indicano come ambienti socio-culturali simili possano essere interpretati secondo prospettive diversificate.
Il rigore morale vale di più della vita Socrate dimostra, al processo, un grande rigore morale: secondo lui l’agire bene, in coerenza con i propri princìpi, vale più di qualsiasi altra cosa, più della stessa vita. Da qui il rifiuto di ogni compromesso: l’ipotesi dell’esilio, prima, e la proposta di fuga, dopo. • Che cosa ne pensi? Ritieni che Socrate sia ammirevole per il suo rigore morale, oppure consideri “masochistico” il suo atteggiamento? • Condividi la tesi socratica secondo cui non bisogna mai commettere ingiustizia (nemmeno quando si subisce ingiustizia), oppure ritieni che, poiché era stato condannato ingiustamente, Socrate avrebbe dovuto accettare la proposta di fuga?
216
La morale e il diritto
I sofisti
Qual è il fondamento della legge e della morale?
Per entrambi, l’uomo è il fondamento della legge e della morale.
Qual è il fondamento dei valori?
Non c’è un fondamento dei valori, perché non esistono valori oggettivi e universali. Infatti sono diversi da uomo a uomo, o almeno da popolo a popolo.
PREPARARSI ALL’INTERROGAZIONE
a. b. c. d. e.
Socrate
I valori e la virtù non sono oggettivi ma sono universali. Il fondamento della universalità è la ragione, che è uguale in tutti gli uomini, a differenza delle passioni o dell’utile, che cambiano da individuo a individuo.
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I sofisti e Socrate
I sofisti e Socrate
PREPARARSI ALL’INTERROGAZIONE
L’OFFICINA DEL FILOSOFO CONCETTUALIZZARE
Confronto tra filosofi
Sofistica 1 Abbina le definizioni ai seguenti concetti:
1 I presocratici, i sofisti e Socrate
1. retorica • 2. relativismo • 3. svolta antropologica • 4. convenzionalità delle leggi • 5. pólis concezione secondo cui non è più l’enigma dell’universo l’oggetto della ricerca, ma l’uomo stesso l’arte di parlare in pubblico tesi secondo cui non esistono verità assolute città-stato concezione secondo cui le norme sono il frutto di decisioni degli uomini
I sofisti e Socrate concordano sull’impossibilità di conoscere oggettivamente il mondo naturale. Socrate si disinteressa fondamentalmente del problema, ponendo al centro la riflessione sull’uomo e sulla virtù. Tra i presocratici, l’etica è importante anche per Pitagora, che analizzeremo in riferimento a Platone. Presocratici
Sofisti
Socrate
Che cosa possiamo conoscere?
È possibile conoscere la vera realtà dietro alle apparenze: l’arché costituisce l’oggetto della conoscenza razionale e spiega anche i fenomeni.
Non esiste nessun arché dietro ai fenomeni, che sono la sola cosa che possiamo conoscere. La conoscenza è dunque soggettiva e diversa da individuo a individuo.
Non esiste nessun arché dietro ai fenomeni, che sono la sola cosa del mondo naturale che possiamo conoscere. La ragione ci consente però di arrivare a una conoscenza comune, e quindi universale, della virtù.
Su che cosa si basa l’etica?
Secondo Democrito, sulla ragione, intesa però come lo strumento mediante cui possiamo scegliere tra i piaceri senza lasciarci sopraffare dalle passioni.
Sul piacere e sull’utile individuale. Alcuni sofisti, però, indicano come criterio l’utile per la città (Protagora).
Sulla ragione, intesa come fondamento di ciò che è comune a tutti gli uomini, riconosciuto come tale nel dialogo mediante argomentazioni condivise.
COMPRENDERE 2 Riconosci le affermazioni vere da quelle false: 1. 2. 3. 4. 5.
V F
Socrate si occupa di metafisica per individuare un fondamento universale della morale Socrate si distingue dai sofisti perché si occupa soltanto di problemi morali e non di problemi politici L’universalità dei valori morali si fonda, per Socrate, sulla ragione Mediante il dialogo possiamo distinguere l’opinione individuale dalla verità comune, giustificabile mediante argomentazioni condivise L’espressione «intellettualismo etico» si riferisce al fatto che secondo Socrate soltanto il filosofo conosce il bene
PROBLEMATIZZARE Il bene 3 Discuti le seguenti questioni
2 I sofisti e Socrate
Le leggi e la giustizia • Tra i sofisti vi è chi utilizza il concetto di natura per sostenere che gli uomini sono tutti uguali, e vi è chi ne fa ricorso per affermare esattamente il contrario. Che cosa ne pensi? • Le leggi esprimono gli interessi generali, oppure – come sostiene Trasimaco – l’utile del più forte? Puoi discuterne con i compagni analizzando alcune leggi approvate recentemente o che sono al centro del dibattito politico.
I sofisti e Socrate sono contemporanei e concordano sulla svolta “umanistica” della filosofia. Le molte differenze tra loro, però, indicano come ambienti socio-culturali simili possano essere interpretati secondo prospettive diversificate.
Il rigore morale vale di più della vita Socrate dimostra, al processo, un grande rigore morale: secondo lui l’agire bene, in coerenza con i propri princìpi, vale più di qualsiasi altra cosa, più della stessa vita. Da qui il rifiuto di ogni compromesso: l’ipotesi dell’esilio, prima, e la proposta di fuga, dopo. • Che cosa ne pensi? Ritieni che Socrate sia ammirevole per il suo rigore morale, oppure consideri “masochistico” il suo atteggiamento? • Condividi la tesi socratica secondo cui non bisogna mai commettere ingiustizia (nemmeno quando si subisce ingiustizia), oppure ritieni che, poiché era stato condannato ingiustamente, Socrate avrebbe dovuto accettare la proposta di fuga?
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La morale e il diritto
I sofisti
Qual è il fondamento della legge e della morale?
Per entrambi, l’uomo è il fondamento della legge e della morale.
Qual è il fondamento dei valori?
Non c’è un fondamento dei valori, perché non esistono valori oggettivi e universali. Infatti sono diversi da uomo a uomo, o almeno da popolo a popolo.
PREPARARSI ALL’INTERROGAZIONE
a. b. c. d. e.
Socrate
I valori e la virtù non sono oggettivi ma sono universali. Il fondamento della universalità è la ragione, che è uguale in tutti gli uomini, a differenza delle passioni o dell’utile, che cambiano da individuo a individuo.
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I sofisti e Socrate
I sofisti e Socrate
I sofisti
Socrate
Confronto tra idee
La virtù è universale?
No, infatti da quanto detto sopra consegue il relativismo etico: i valori cambiano da popolo a popolo.
La virtù è universale come la ragione, mentre le passioni sono individuali come le opinioni.
L’anima e il corpo
Spiegazioni di tipo sociologico della morale e del diritto: – la legge è lo strumento dei più forti per sottomettere i deboli; – per altri, la legge è lo strumento dei più deboli per difendersi dai più forti (è questa la finalità della «giustizia» considerata come virtù). Alcuni sofisti mettono in contrapposizione le leggi con la natura, individuando in questa un possibile fondamento di universalità.
La legge è espressione della razionalità comune. Le leggi educano l’individuo e ne rendono possibile l’esistenza. Nel Critone Socrate immagina che le leggi gli parlino in questi termini: «Noi […] ti abbiamo generato, allevato, educato e […] abbiamo fatti partecipi di tutti quei beni che erano in nostra facoltà te e tutti quanti gli altri cittadini» (Critone, 51c-d).
Qual è la funzione delle leggi?
Definizione
La parola «anima» deriva dal latino anima, affine al greco ánemos, «vento», e ha il significato di «soffio vitale»; corrisponde a pnêuma, che significa «respiro», «soffio animatore» e viene tradotto spesso con «spirito». In questo senso, si distingue dalla psyché nel significato di anima che costituisce l’uomo insieme al corpo (sôma). Il primo significato fa spesso riferimento a un principio universale, all’anima del mondo o simili, mentre il secondo si riferisce di solito all’anima individuale.
Tradizione orfico-dionisiaca
Secondo la mitologia, Dioniso nacque dall’unione di Giove con Semele, figlia del re di Tebe, Cadmo. Era, la moglie di Giove, inviò contro il piccolo Dioniso i Titani, che lo sorpresero mentre giocava in una grotta, lo sbranarono e si cibarono del suo corpo. Giove, accortosi dell’accaduto, incenerì i Titani, riportando in vita Dioniso. Dalle ceneri dei Titani nacquero gli uomini, che hanno in sé la scintilla divina (l’anima) e la natura animalesca dei Titani (il corpo). L’anima, come il dio, è immortale, ed è nel corpo come in una prigione.
Pitagora
Pitagora riprende la tradizione orfico-dionisiaca, affermando che l’anima può liberarsi dalla prigione del corpo durante la vita terrena con la purificazione e, infine, con la morte del corpo stesso. Se non è completamente purificata l’anima però torna a incarnarsi (metempsicosi) nel corpo di un essere tanto più elevato quanto più si è purificata nella vita precedente.
Democrito
Democrito afferma un rigido monismo: tutto è materiale, anche l’anima, che è composta da atomi particolarmente sottili, in grado di compenetrare tutto il corpo. La psyché, infatti, presiede anche alla sensazione, oltre che al ragionamento, e quindi essa è ovunque si estendono gli organi di senso. Essendo materiale, alla morte del corpo si dissolve e cessa di esistere come anima individuale, mentre i suoi atomi, come tutti gli altri, andranno a costituire altri esseri.
I sofisti
I sofisti considerano il problema dell’immortalità o meno dell’anima uno di quelli che non è possibile conoscere e quindi si dichiarano agnostici. Possiamo conoscere soltanto i fenomeni e l’anima non può essere osservata né percepita con i sensi, quindi non possiamo sapere neppure se esista o meno.
Socrate
Socrate condivide in una certa misura la prospettiva sofistica secondo la quale non possiamo conoscere ciò che va al di là dei nostri sensi. Egli afferma però la conoscibilità della virtù e in genere di tutto ciò che riguarda l’ambito etico. L’immortalità dell’anima sembra dunque da lui affermata come esigenza morale e come dimensione spirituale dell’individuo contrapposta al corpo e alle passioni. In alcuni dialoghi di Platone, in particolare nel Fedone, Socrate propone anche alcune prove per dimostrare l’immortalità dell’anima e parla esplicitamente della vita dopo la morte, ma non possiamo sapere in che misura questo dialogo riporti le idee di Socrate e quanto, invece, rifletta le tesi del suo autore, che fa dell’immortalità dell’anima uno dei capisaldi del suo pensiero.
3 Socrate e Anassagora Dopo un iniziale interesse verso la filosofia di Anassagora, Socrate se ne allontana, perché non trova in essa le risposte alle domande “di senso”, ma soltanto spiegazioni di tipo naturalistico. Meccanicismo e finalismo
Anassagora
Socrate
Esiste un fine nell’universo, oppure tutto è regolato da leggi meccaniche?
Parlando di un’Intelligenza (Noûs) come regolatrice del cosmo, Anassagora lascia pensare a un ordine della natura orientato in senso finalistico.
Sono importanti le cause finali, perché quelle efficienti da sole non spiegano il senso degli eventi. Ad esempio, il movimento dei muscoli non è la causa vera per cui Socrate è in prigione.
Quasi nessuna. Anassagora spiega gli eventi in termini meccanicistici (cause efficienti) e ricorre a spiegazioni finalistiche soltanto in casi eccezionali e non significativi.
Socrate cercava in Anassagora la spiegazione del senso degli eventi, ma si rende conto che egli propone soltanto spiegazioni di tipo meccanicistico.
Che funzione ha l’Intelligenza nella spiegazione degli eventi?
218
PREPARARSI ALL’INTERROGAZIONE
La morale e il diritto
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I sofisti e Socrate
I sofisti e Socrate
I sofisti
Socrate
Confronto tra idee
La virtù è universale?
No, infatti da quanto detto sopra consegue il relativismo etico: i valori cambiano da popolo a popolo.
La virtù è universale come la ragione, mentre le passioni sono individuali come le opinioni.
L’anima e il corpo
Spiegazioni di tipo sociologico della morale e del diritto: – la legge è lo strumento dei più forti per sottomettere i deboli; – per altri, la legge è lo strumento dei più deboli per difendersi dai più forti (è questa la finalità della «giustizia» considerata come virtù). Alcuni sofisti mettono in contrapposizione le leggi con la natura, individuando in questa un possibile fondamento di universalità.
La legge è espressione della razionalità comune. Le leggi educano l’individuo e ne rendono possibile l’esistenza. Nel Critone Socrate immagina che le leggi gli parlino in questi termini: «Noi […] ti abbiamo generato, allevato, educato e […] abbiamo fatti partecipi di tutti quei beni che erano in nostra facoltà te e tutti quanti gli altri cittadini» (Critone, 51c-d).
Qual è la funzione delle leggi?
Definizione
La parola «anima» deriva dal latino anima, affine al greco ánemos, «vento», e ha il significato di «soffio vitale»; corrisponde a pnêuma, che significa «respiro», «soffio animatore» e viene tradotto spesso con «spirito». In questo senso, si distingue dalla psyché nel significato di anima che costituisce l’uomo insieme al corpo (sôma). Il primo significato fa spesso riferimento a un principio universale, all’anima del mondo o simili, mentre il secondo si riferisce di solito all’anima individuale.
Tradizione orfico-dionisiaca
Secondo la mitologia, Dioniso nacque dall’unione di Giove con Semele, figlia del re di Tebe, Cadmo. Era, la moglie di Giove, inviò contro il piccolo Dioniso i Titani, che lo sorpresero mentre giocava in una grotta, lo sbranarono e si cibarono del suo corpo. Giove, accortosi dell’accaduto, incenerì i Titani, riportando in vita Dioniso. Dalle ceneri dei Titani nacquero gli uomini, che hanno in sé la scintilla divina (l’anima) e la natura animalesca dei Titani (il corpo). L’anima, come il dio, è immortale, ed è nel corpo come in una prigione.
Pitagora
Pitagora riprende la tradizione orfico-dionisiaca, affermando che l’anima può liberarsi dalla prigione del corpo durante la vita terrena con la purificazione e, infine, con la morte del corpo stesso. Se non è completamente purificata l’anima però torna a incarnarsi (metempsicosi) nel corpo di un essere tanto più elevato quanto più si è purificata nella vita precedente.
Democrito
Democrito afferma un rigido monismo: tutto è materiale, anche l’anima, che è composta da atomi particolarmente sottili, in grado di compenetrare tutto il corpo. La psyché, infatti, presiede anche alla sensazione, oltre che al ragionamento, e quindi essa è ovunque si estendono gli organi di senso. Essendo materiale, alla morte del corpo si dissolve e cessa di esistere come anima individuale, mentre i suoi atomi, come tutti gli altri, andranno a costituire altri esseri.
I sofisti
I sofisti considerano il problema dell’immortalità o meno dell’anima uno di quelli che non è possibile conoscere e quindi si dichiarano agnostici. Possiamo conoscere soltanto i fenomeni e l’anima non può essere osservata né percepita con i sensi, quindi non possiamo sapere neppure se esista o meno.
Socrate
Socrate condivide in una certa misura la prospettiva sofistica secondo la quale non possiamo conoscere ciò che va al di là dei nostri sensi. Egli afferma però la conoscibilità della virtù e in genere di tutto ciò che riguarda l’ambito etico. L’immortalità dell’anima sembra dunque da lui affermata come esigenza morale e come dimensione spirituale dell’individuo contrapposta al corpo e alle passioni. In alcuni dialoghi di Platone, in particolare nel Fedone, Socrate propone anche alcune prove per dimostrare l’immortalità dell’anima e parla esplicitamente della vita dopo la morte, ma non possiamo sapere in che misura questo dialogo riporti le idee di Socrate e quanto, invece, rifletta le tesi del suo autore, che fa dell’immortalità dell’anima uno dei capisaldi del suo pensiero.
3 Socrate e Anassagora Dopo un iniziale interesse verso la filosofia di Anassagora, Socrate se ne allontana, perché non trova in essa le risposte alle domande “di senso”, ma soltanto spiegazioni di tipo naturalistico. Meccanicismo e finalismo
Anassagora
Socrate
Esiste un fine nell’universo, oppure tutto è regolato da leggi meccaniche?
Parlando di un’Intelligenza (Noûs) come regolatrice del cosmo, Anassagora lascia pensare a un ordine della natura orientato in senso finalistico.
Sono importanti le cause finali, perché quelle efficienti da sole non spiegano il senso degli eventi. Ad esempio, il movimento dei muscoli non è la causa vera per cui Socrate è in prigione.
Quasi nessuna. Anassagora spiega gli eventi in termini meccanicistici (cause efficienti) e ricorre a spiegazioni finalistiche soltanto in casi eccezionali e non significativi.
Socrate cercava in Anassagora la spiegazione del senso degli eventi, ma si rende conto che egli propone soltanto spiegazioni di tipo meccanicistico.
Che funzione ha l’Intelligenza nella spiegazione degli eventi?
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La morale e il diritto
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I sofisti e Socrate
PER L’APPROFONDIMENTO NODI DI DISCUSSIONE
DIALOGO TRA FILOSOFI
L’intellettualismo etico di Socrate: oltre il paradosso Socrate e Gorgia sulla retorica
Socrate – Esiste qualche cosa che chiami corpo e qualche cosa che chiami anima? Gorgia – E come no? Socrate – E per ciascuno di questi credi tu che ci sia un buon stato di salute? Gorgia – Io sì. Socrate – E ammetti anche che ci sia uno stato di salute apparente e non effettivo? Ti faccio un esempio: molti, in apparenza, sembrano essere sani di corpo e non è facile che qualcuno si accorga che, in effetti, non sono sani, tranne il medico e l’esperto di ginnastica. Gorgia – È vero quello che dici. Socrate – Qualcosa di questo genere dico che si verifica e nel corpo e nell’anima: c’è qualcosa che fa sembrare che il corpo e l’anima siano sani, mentre in realtà non lo sono affatto. Gorgia – È così. Socrate – Se mi riesce, cercherò di spiegarti in modo più chiaro ciò che dico. Dal momento che corpo e anima sono due cose distinte, dico che due sono anche le arti: quella che riguarda l’anima la chiamo politica, quella che riguarda il corpo non te la so indicare così con un nome solo, ma, pur essendo una sola la cura del corpo, dico che ci sono due parti di essa: l’una è la ginnastica, l’altra la medicina. Nella politica, poi, il corrispettivo della ginnastica è l’arte della legislazione, il corrispettivo della medicina è la giustizia. Le arti che formano le due coppie hanno fra di loro uno stretto rapporto, in quanto riguardano il medesimo oggetto: la medicina ha uno stretto rapporto con la ginnastica, l’arte della legislazione con la giustizia; tuttavia, esse hanno anche delle differenze le une rispetto alle altre. Queste arti sono dunque quattro e con le loro cure tendono a procurare sempre il bene maggiore, le une per il corpo, le altre per l’anima. Ora, la lusinga, essendosi accorta di questo, non certo con conoscenza, ma con cieca intuizione, si è di-
visa in quattro, insinuandosi sotto ciascuna di quelle parti, e simula di essere quell’arte sotto cui si è insinuata; e mentre non si dà per nulla pensiero del meglio, attira gli stolti con ciò è più piacevole e li inganna, sì da sembrare cosa di grandissimo valore. Ebbene, sotto la medicina si è insinuata la culinaria, la quale simula di conoscere i cibi migliori per il corpo, al punto che se un cuoco e un medico dovessero sostenere una gara in mezzo ai fanciulli, o in mezzo a uomini senza senno come i fanciulli, al fine di stabilire chi dei due si intenda dei cibi buoni e dei cibi dannosi, ossia se il medico o il cuoco, il medico morirebbe di fame. Perciò io chiamo questa attività lusinga e dico che è una brutta cosa, o Polo1, e questo lo dico in risposta alla tua domanda. Infatti mira al piacere e non al bene. E dico anche che essa non è un’arte ma una pratica, perché non possiede alcuna conoscenza della natura del soggetto cui si rivolge con i suoi consigli, né della natura delle cose che consiglia: perciò non conosce la ragione di ciascuna cosa. E io non chiamo arte una attività irrazionale. E se su queste due affermazioni hai dei dubbi, sono disposto a dartene spiegazione. E sotto la medicina si insinua la lusinga della culinaria; sotto la ginnastica, allo stesso modo, quella dell’agghindarsi, malefica, ingannatrice, ignobile e servile, la quale inganna con esteriori apparenze, colori, lisciature e vesti, al punto da far sì che, tratti a seguire una bellezza falsa, si trascuri la bellezza autentica, quella che si ottiene mediante la ginnastica. Per non andare troppo in lungo, voglio esprimermi come si esprimono i matematici, e, così, forse mi potrai seguire. Ti dirò, dunque, che l’agghindarsi sta alla ginnastica come la culinaria sta alla medicina e, ancora, che la sofistica sta alla legislazione come l’agghindarsi sta alla ginnastica, e che la retorica sta alla giustizia come la culinaria sta alla medicina.
S
olo il sapiente è virtuoso. Chi fa il male, di conseguenza, lo fa perché è ignorante: nessuno fa il male volontariamente sapendo che è male. È questo uno dei celebri paradossi di Socrate su cui si è fondata l’interpretazione «intellettualistica» dell’etica socratica. Socrate è tanto ingenuo da credere che basti conoscere il bene per farlo? Conoscere il bene significa conoscere la virtù. Ora, che cos’è la virtù? Che cosa significa agire bene? Secondo Socrate non significa comportarsi in sintonia con la tradizione, con i costumi, con le abitudini, ma scegliere dopo aver riflettuto, dopo aver interrogato la propria ragione. Ecco perché Socrate sostiene che la virtù è «conoscenza». Non si tratta di una conoscenza tecnica e neppure di quella tecnica speciale di cui sono maestri i sofisti, ma di un sapere decisamente superiore: sapere ciò che è bene e vantaggioso per l’uomo, sapere ciò che vale e ciò che non vale. E ciò che vale, secondo il filosofo ateniese, sono i «valori» dell’anima. Solo, quindi, chi ha questo tipo di conoscenza, chi conosce cioè i valori dell’uomo, agisce bene. Chi, di conseguenza, si comporta male, lo fa perché scambia il male per il bene. Nessuno, quindi, può peccare volontariamente?
Nell’Ippia minore di Platone Socrate (naturalmente è Platone che mette in bocca a Socrate tale affermazione) arriva a sostenere che, paradossalmente, è preferibile chi fa il male consapevolmente a chi fa il bene solo per abitudine, senza averlo scelto. Si può, quindi, fare il male sapendo di farlo? Siamo in presenza di una contraddizione? Il punto di vista di Socrate è lo stesso: è preferibile chi «sa» a chi «non sa», chi ha ricercato seguendo la guida della ragione prima di agire a chi non l’ha fatto. Il primato della ragione, della riflessione critica, dell’esame: questo è il cuore dell’etica socratica. La via da seguire non è quella dei modelli precostituiti (vuoi della tradizione, vuoi delle mode del momento): ciò che occorre fare è, invece, sottoporre sempre ogni comportamento al vaglio della ragione. È in questo orizzonte culturale, quindi, che il paradosso secondo cui la virtù è sapere (e che, di conseguenza, il vizio è ignoranza) appare più comprensibile. E ancora meno paradossale appare se si tiene presente che per Socrate, proprio perché è impensabile che un uomo desideri l’infelicità, è impensabile che voglia il male intenzionalmente sapendo che questo non può che procurargli conseguenze negative.
PER L’APPROFONDIMENTO
P
latone individua la differenza sostanziale tra i sofisti e Socrate: i primi restano fermi ai fenomeni, alle apparenze, mentre il secondo cerca di raggiungere la conoscenza scientifica, quella che è dietro ai fenomeni o, nella prospettiva di Platone, la conoscenza delle essenze. La proporzione matematica che stabilisce in chiusura illustra bene questa differenza: ginnastica e medicina sono le scienze del corpo, perché mirano a renderlo forte e sano, mentre la cosmesi e la culinaria hanno come oggetto l’apparenza. Allo stesso modo, la sofistica e la retorica colgono l’opinione, nell’ambito della politica e della giustizia, mentre la filosofia cerca l’essenza, cioè, per Socrate, il concetto di virtù in generale e della giustizia in particolare.
Il demone socratico: siamo in presenza della religiosità di Socrate?
S
ocrate è stato accusato, tra l’altro, di aver introdotto nuove «divinità». Un’accusa fondata? Il termine greco è daimónia. Gli accusatori, indubbiamente, si riferivano a ciò che Socrate aveva affermato ripetutamente, di avvertire cioè qualcosa di soprannaturale da lui chiamato daimónion. Siamo, allora, in presenza di un demone-intermediario di un dio? Il termine platonico è neutro: non si tratta di una realtà avente una natura personale, ma siamo, tuttavia, in presenza di una voce che ha del soprannaturale. Che cosa avevano gli dèi da rivelare all’uomo buono? Giovanni Reale cita Senofonte (Memorabili): ciò che nelle attività umane è più importante «gli dèi se lo sono riservato per loro e, quindi, non è affatto manifesto
agli uomini». Il daimónion, di conseguenza, rivela all’uomo virtuoso ciò che è patrimonio esclusivo degli dèi: una sorta di oracolo interiore. Jan Patoĉka vede nel daimónion sia qualcosa di «razionale» (la coscienza morale) sia qualcosa di «irrazionale» (il salto nell’ignoto). Prende, perciò, le distanze da chi, sottolineando il fatto che il demone socratico parla spesso di cose apparentemente banali, esclude che abbia a che fare con la sfera morale. Nello stesso tempo, però, non nega il carattere anche contingente del demone (il suo essere legato alla vita concreta del filosofo di Atene), come non nega il suo carattere divino: è esso che, quando Socrate si trova di fronte alla morte, lo accompagna sulla via dell’ignoto.
(Platone, Gorgia, 464a-465c, in Tutti gli scritti, Milano, Bompiani pp. 877-78)
1. Polo: giovane discepolo di Gorgia, nel dialogo interlocutore di Socrate.
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I sofisti e Socrate
I sofisti e Socrate
PER L’APPROFONDIMENTO NODI DI DISCUSSIONE
DIALOGO TRA FILOSOFI
L’intellettualismo etico di Socrate: oltre il paradosso Socrate e Gorgia sulla retorica
Socrate – Esiste qualche cosa che chiami corpo e qualche cosa che chiami anima? Gorgia – E come no? Socrate – E per ciascuno di questi credi tu che ci sia un buon stato di salute? Gorgia – Io sì. Socrate – E ammetti anche che ci sia uno stato di salute apparente e non effettivo? Ti faccio un esempio: molti, in apparenza, sembrano essere sani di corpo e non è facile che qualcuno si accorga che, in effetti, non sono sani, tranne il medico e l’esperto di ginnastica. Gorgia – È vero quello che dici. Socrate – Qualcosa di questo genere dico che si verifica e nel corpo e nell’anima: c’è qualcosa che fa sembrare che il corpo e l’anima siano sani, mentre in realtà non lo sono affatto. Gorgia – È così. Socrate – Se mi riesce, cercherò di spiegarti in modo più chiaro ciò che dico. Dal momento che corpo e anima sono due cose distinte, dico che due sono anche le arti: quella che riguarda l’anima la chiamo politica, quella che riguarda il corpo non te la so indicare così con un nome solo, ma, pur essendo una sola la cura del corpo, dico che ci sono due parti di essa: l’una è la ginnastica, l’altra la medicina. Nella politica, poi, il corrispettivo della ginnastica è l’arte della legislazione, il corrispettivo della medicina è la giustizia. Le arti che formano le due coppie hanno fra di loro uno stretto rapporto, in quanto riguardano il medesimo oggetto: la medicina ha uno stretto rapporto con la ginnastica, l’arte della legislazione con la giustizia; tuttavia, esse hanno anche delle differenze le une rispetto alle altre. Queste arti sono dunque quattro e con le loro cure tendono a procurare sempre il bene maggiore, le une per il corpo, le altre per l’anima. Ora, la lusinga, essendosi accorta di questo, non certo con conoscenza, ma con cieca intuizione, si è di-
visa in quattro, insinuandosi sotto ciascuna di quelle parti, e simula di essere quell’arte sotto cui si è insinuata; e mentre non si dà per nulla pensiero del meglio, attira gli stolti con ciò è più piacevole e li inganna, sì da sembrare cosa di grandissimo valore. Ebbene, sotto la medicina si è insinuata la culinaria, la quale simula di conoscere i cibi migliori per il corpo, al punto che se un cuoco e un medico dovessero sostenere una gara in mezzo ai fanciulli, o in mezzo a uomini senza senno come i fanciulli, al fine di stabilire chi dei due si intenda dei cibi buoni e dei cibi dannosi, ossia se il medico o il cuoco, il medico morirebbe di fame. Perciò io chiamo questa attività lusinga e dico che è una brutta cosa, o Polo1, e questo lo dico in risposta alla tua domanda. Infatti mira al piacere e non al bene. E dico anche che essa non è un’arte ma una pratica, perché non possiede alcuna conoscenza della natura del soggetto cui si rivolge con i suoi consigli, né della natura delle cose che consiglia: perciò non conosce la ragione di ciascuna cosa. E io non chiamo arte una attività irrazionale. E se su queste due affermazioni hai dei dubbi, sono disposto a dartene spiegazione. E sotto la medicina si insinua la lusinga della culinaria; sotto la ginnastica, allo stesso modo, quella dell’agghindarsi, malefica, ingannatrice, ignobile e servile, la quale inganna con esteriori apparenze, colori, lisciature e vesti, al punto da far sì che, tratti a seguire una bellezza falsa, si trascuri la bellezza autentica, quella che si ottiene mediante la ginnastica. Per non andare troppo in lungo, voglio esprimermi come si esprimono i matematici, e, così, forse mi potrai seguire. Ti dirò, dunque, che l’agghindarsi sta alla ginnastica come la culinaria sta alla medicina e, ancora, che la sofistica sta alla legislazione come l’agghindarsi sta alla ginnastica, e che la retorica sta alla giustizia come la culinaria sta alla medicina.
S
olo il sapiente è virtuoso. Chi fa il male, di conseguenza, lo fa perché è ignorante: nessuno fa il male volontariamente sapendo che è male. È questo uno dei celebri paradossi di Socrate su cui si è fondata l’interpretazione «intellettualistica» dell’etica socratica. Socrate è tanto ingenuo da credere che basti conoscere il bene per farlo? Conoscere il bene significa conoscere la virtù. Ora, che cos’è la virtù? Che cosa significa agire bene? Secondo Socrate non significa comportarsi in sintonia con la tradizione, con i costumi, con le abitudini, ma scegliere dopo aver riflettuto, dopo aver interrogato la propria ragione. Ecco perché Socrate sostiene che la virtù è «conoscenza». Non si tratta di una conoscenza tecnica e neppure di quella tecnica speciale di cui sono maestri i sofisti, ma di un sapere decisamente superiore: sapere ciò che è bene e vantaggioso per l’uomo, sapere ciò che vale e ciò che non vale. E ciò che vale, secondo il filosofo ateniese, sono i «valori» dell’anima. Solo, quindi, chi ha questo tipo di conoscenza, chi conosce cioè i valori dell’uomo, agisce bene. Chi, di conseguenza, si comporta male, lo fa perché scambia il male per il bene. Nessuno, quindi, può peccare volontariamente?
Nell’Ippia minore di Platone Socrate (naturalmente è Platone che mette in bocca a Socrate tale affermazione) arriva a sostenere che, paradossalmente, è preferibile chi fa il male consapevolmente a chi fa il bene solo per abitudine, senza averlo scelto. Si può, quindi, fare il male sapendo di farlo? Siamo in presenza di una contraddizione? Il punto di vista di Socrate è lo stesso: è preferibile chi «sa» a chi «non sa», chi ha ricercato seguendo la guida della ragione prima di agire a chi non l’ha fatto. Il primato della ragione, della riflessione critica, dell’esame: questo è il cuore dell’etica socratica. La via da seguire non è quella dei modelli precostituiti (vuoi della tradizione, vuoi delle mode del momento): ciò che occorre fare è, invece, sottoporre sempre ogni comportamento al vaglio della ragione. È in questo orizzonte culturale, quindi, che il paradosso secondo cui la virtù è sapere (e che, di conseguenza, il vizio è ignoranza) appare più comprensibile. E ancora meno paradossale appare se si tiene presente che per Socrate, proprio perché è impensabile che un uomo desideri l’infelicità, è impensabile che voglia il male intenzionalmente sapendo che questo non può che procurargli conseguenze negative.
PER L’APPROFONDIMENTO
P
latone individua la differenza sostanziale tra i sofisti e Socrate: i primi restano fermi ai fenomeni, alle apparenze, mentre il secondo cerca di raggiungere la conoscenza scientifica, quella che è dietro ai fenomeni o, nella prospettiva di Platone, la conoscenza delle essenze. La proporzione matematica che stabilisce in chiusura illustra bene questa differenza: ginnastica e medicina sono le scienze del corpo, perché mirano a renderlo forte e sano, mentre la cosmesi e la culinaria hanno come oggetto l’apparenza. Allo stesso modo, la sofistica e la retorica colgono l’opinione, nell’ambito della politica e della giustizia, mentre la filosofia cerca l’essenza, cioè, per Socrate, il concetto di virtù in generale e della giustizia in particolare.
Il demone socratico: siamo in presenza della religiosità di Socrate?
S
ocrate è stato accusato, tra l’altro, di aver introdotto nuove «divinità». Un’accusa fondata? Il termine greco è daimónia. Gli accusatori, indubbiamente, si riferivano a ciò che Socrate aveva affermato ripetutamente, di avvertire cioè qualcosa di soprannaturale da lui chiamato daimónion. Siamo, allora, in presenza di un demone-intermediario di un dio? Il termine platonico è neutro: non si tratta di una realtà avente una natura personale, ma siamo, tuttavia, in presenza di una voce che ha del soprannaturale. Che cosa avevano gli dèi da rivelare all’uomo buono? Giovanni Reale cita Senofonte (Memorabili): ciò che nelle attività umane è più importante «gli dèi se lo sono riservato per loro e, quindi, non è affatto manifesto
agli uomini». Il daimónion, di conseguenza, rivela all’uomo virtuoso ciò che è patrimonio esclusivo degli dèi: una sorta di oracolo interiore. Jan Patoĉka vede nel daimónion sia qualcosa di «razionale» (la coscienza morale) sia qualcosa di «irrazionale» (il salto nell’ignoto). Prende, perciò, le distanze da chi, sottolineando il fatto che il demone socratico parla spesso di cose apparentemente banali, esclude che abbia a che fare con la sfera morale. Nello stesso tempo, però, non nega il carattere anche contingente del demone (il suo essere legato alla vita concreta del filosofo di Atene), come non nega il suo carattere divino: è esso che, quando Socrate si trova di fronte alla morte, lo accompagna sulla via dell’ignoto.
(Platone, Gorgia, 464a-465c, in Tutti gli scritti, Milano, Bompiani pp. 877-78)
1. Polo: giovane discepolo di Gorgia, nel dialogo interlocutore di Socrate.
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I sofisti e Socrate
I sofisti e Socrate
LA CRITICA
dentro di noi questa esigenza di conoscerlo, dobbiamo per prima cosa lavorare su noi stessi. «Conosci te stesso»: questa formula non ha nulla a che vedere con le interpretazioni psicoanalitiche, con l’introspezione, con la contemplazione interiore. Conoscere noi stessi significa scoprire dentro di noi la radice più
Reale: Il ruolo strategico delle domande
profonda del nostro senso del vero, ma anche le debolezze e le lacune di questa radice; scoprire anche il nostro non-sapere, le nostre tendenze all’illusione, la nostra propensione a ingannare noi stessi. (J. Hersh, Storia della filosofia come stupore, trad. it. di A. Bramati, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 16, 17, 19)
L
Reale: L’anima, con Socrate, diventa la facoltà essenziale dell’uomo
L L’esperienza conoscitiva presuppone strutturalmente il porre domande sulle cose, per sapere se esse stanno in un certo modo oppure in un altro. Gadamer ha ben dimostrato come la domanda, nella misura in cui abbia senso, ponga anche la prospettiva, ossia la direzione nella quale può essere data una risposta significante. Di conseguenza, porre domande è più difficile che non dare risposte alle domande, in quanto predetermina lo spazio e la direzione della risposta. Ed è proprio questa una delle caratteristiche più tipiche della dialettica socratica, soprattutto come essa ci viene presentata da Platone. Gadamer scrive: «Una delle grandi intuizioni che troviamo nella presentazione platonica di Socrate è quella secondo cui, all’opposto di ogni opinione comune, il domandare è più difficile del rispondere. Quando gli interlocutori
del dialogo socratico, imbarazzati di dover rispondere alle incalzanti domande di Socrate, vogliono rovesciare le cose e rivendicano per sé la parte, creduta vantaggiosa, del domandare, proprio allora falliscono completamente. [...] Chi nel discorso non cerca di penetrare l’essenza di un problema, ma solo di aver ragione, considererà naturalmente il domandare più facile del rispondere. Il domandare non nasconde infatti il pericolo di incontrare una domanda a cui non si sa rispondere. Ma il rovesciamento di cui si diceva e il fallimento che ne consegue mostrano che, in realtà, chi crede di sapere di più non è capace di domandare. Per essere capaci di domandare bisogna voler sapere, il che significa però che bisogna sapere di non sapere». (G. Reale, Socrate, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 169-70)
Hersh: La coscienza si interroga su se stessa
I
n che cosa consiste esattamente la consapevolezza socratica di non sapere? Che cos’è questa professione di ignoranza? Il brano di Jeanne Hersh che qui ti viene proposto cerca di sondare queste domande.
«Io so di non sapere»: questa celebre frase di Socrate, per cui la Pizia lo dichiarò l’uomo più saggio di Atene, non riflette nessuna eccessiva modestia, ma significa: ho stimolato il mio senso del vero a tal punto che la mia esigenza di verità non si accontenta più delle apparenze che talvolta considero valide. Ciò che possiedo è l’esigenza di una verità più alta, non la verità stessa. Qui cogliamo la differenza radicale che separa Socrate dai filosofi precedenti: lo stimolo
222
o studioso Giovanni Reale, mediante il confronto tra diversi autori, mette in rilievo l’evoluzione nella storia greca del concetto di anima, evoluzione che registra una tappa importante con Socrate: è il concetto socratico di anima che, secondo lui, è diventato un «punto di riferimento irreversibile nella storia della cultura occidentale».
Omero parla infatti della psyché soprattutto nel momento della morte dell’uomo. La morte coincide con l’uscita della psyché che, volando via dalla bocca (o anche dalla ferita) con l’ultimo respiro, se ne va nell’Ade. [...] [Per Anassimene] l’«origine», come è noto, non è l’acqua, bensì l’aria, che, condensandosi e dilatandosi, dà origine a tutte quante le cose. Dell’aria, principio di tutte le cose, vien detto che è «vicina all’incorporeo (asómatos)» e che è infinita. Ma per comprendere tali affermazioni, bisogna tener presente che il termine asómatos nei filosofi naturalisti significa ciò che, pur essendo di natura fisica, è non-visibile, non-palpabile, privo di densità, di spessore e di rigidi confini. E in questo senso asómatos si associa bene con il termine «infinito» (ápeiron). [...] In effetti, parlando di profondità dell’anima, Eraclito intende affermare che l’anima si estende all’infinito, e che quindi ha una dimensione ben diversa da ciò che è fisico. [...] Democrito pensava che sia il corpo che l’anima dell’uomo derivino da un incontro di atomi. [...] Gli atomi dell’anima, sono, comunque, della stessa natura materiale di quelli del corpo, anche se più perfetti. E sono detti «divini» per la loro maggiore perfezione rispetto agli altri, anche se hanno la stessa natura fisica.
[...] Gorgia intendeva quindi la psyché come sede delle facoltà intellettive, oltre che emotive. [...] Socrate distingue nettamente ciò che l’uomo è in sé e per sé, ossia la sua anima, da ciò che ha, ossia dal suo corpo e dai suoi beni materiali. L’anima e la virtù dell’anima sono le cose di maggior valore, mentre i beni materiali e il corpo stesso sono di minor valore. La maggior parte degli uomini si cura quasi solo di ciò che ha, ossia del suo corpo e dei suoi beni; e non si cura invece di ciò che è, ossia della sua anima, «in modo che diventi il più possibile buona». [...] L’uomo non è dunque il suo corpo, bensì ciò che si serve del suo corpo, assoggettandolo al proprio comando. In altri termini, Socrate ha parlato dell’anima come di una facoltà essenziale dell’uomo, ha illustrato le sue funzioni di conoscere il bene e il male, di dominare e dirigere le azioni umane [...]. L’Occidente ha in questo modo guadagnato, proprio mediante Socrate, quello che si è imposto come punto di riferimento irreversibile nella storia della cultura occidentale, ossia uno di quei concetti che, per dirla con Patočka, ha determinato la specificità dell’Europa.
PER L’APPROFONDIMENTO
a filosofia scaturisce dalle domande: sono queste che mettono in moto la ricerca. È ciò che abbiamo trovato in Socrate. Il brano di Giovanni Reale che qui viene presentato ha proprio come tema le domande socratiche. L’autore, citando ampiamente Hans-Georg Gadamer, filosofo tedesco del Novecento, sottolinea come sia più difficile porre le domande che rispondere: solo chi punta, con il discorso, esclusivamente ad aver ragione, e non a «penetrare l’essenza di un problema», riterrà che domandare sia più facile che rispondere.
(G. Reale, Socrate, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 198, 201, 203, 205, 206, 211, 212, 213, 231)
della ricerca non è più diretto verso la spiegazione del mondo o la comprensione dell’essere in sé, ma verso l’uomo che cerca se stesso. La coscienza che l’uomo ha del mondo s’interroga su se stessa. Meglio: la mia coscienza s’interroga su se stessa. Io mi interrogo sul mio sapere, sui miei pensieri e, posto che la mia esigenza di verità diventi abbastanza forte, scopro che il mio sapere è in larga misura non-sapere. Di conseguenza, se vogliamo conoscere il vero e sviluppare
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LA CRITICA
dentro di noi questa esigenza di conoscerlo, dobbiamo per prima cosa lavorare su noi stessi. «Conosci te stesso»: questa formula non ha nulla a che vedere con le interpretazioni psicoanalitiche, con l’introspezione, con la contemplazione interiore. Conoscere noi stessi significa scoprire dentro di noi la radice più
Reale: Il ruolo strategico delle domande
profonda del nostro senso del vero, ma anche le debolezze e le lacune di questa radice; scoprire anche il nostro non-sapere, le nostre tendenze all’illusione, la nostra propensione a ingannare noi stessi. (J. Hersh, Storia della filosofia come stupore, trad. it. di A. Bramati, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 16, 17, 19)
L
Reale: L’anima, con Socrate, diventa la facoltà essenziale dell’uomo
L L’esperienza conoscitiva presuppone strutturalmente il porre domande sulle cose, per sapere se esse stanno in un certo modo oppure in un altro. Gadamer ha ben dimostrato come la domanda, nella misura in cui abbia senso, ponga anche la prospettiva, ossia la direzione nella quale può essere data una risposta significante. Di conseguenza, porre domande è più difficile che non dare risposte alle domande, in quanto predetermina lo spazio e la direzione della risposta. Ed è proprio questa una delle caratteristiche più tipiche della dialettica socratica, soprattutto come essa ci viene presentata da Platone. Gadamer scrive: «Una delle grandi intuizioni che troviamo nella presentazione platonica di Socrate è quella secondo cui, all’opposto di ogni opinione comune, il domandare è più difficile del rispondere. Quando gli interlocutori
del dialogo socratico, imbarazzati di dover rispondere alle incalzanti domande di Socrate, vogliono rovesciare le cose e rivendicano per sé la parte, creduta vantaggiosa, del domandare, proprio allora falliscono completamente. [...] Chi nel discorso non cerca di penetrare l’essenza di un problema, ma solo di aver ragione, considererà naturalmente il domandare più facile del rispondere. Il domandare non nasconde infatti il pericolo di incontrare una domanda a cui non si sa rispondere. Ma il rovesciamento di cui si diceva e il fallimento che ne consegue mostrano che, in realtà, chi crede di sapere di più non è capace di domandare. Per essere capaci di domandare bisogna voler sapere, il che significa però che bisogna sapere di non sapere». (G. Reale, Socrate, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 169-70)
Hersh: La coscienza si interroga su se stessa
I
n che cosa consiste esattamente la consapevolezza socratica di non sapere? Che cos’è questa professione di ignoranza? Il brano di Jeanne Hersh che qui ti viene proposto cerca di sondare queste domande.
«Io so di non sapere»: questa celebre frase di Socrate, per cui la Pizia lo dichiarò l’uomo più saggio di Atene, non riflette nessuna eccessiva modestia, ma significa: ho stimolato il mio senso del vero a tal punto che la mia esigenza di verità non si accontenta più delle apparenze che talvolta considero valide. Ciò che possiedo è l’esigenza di una verità più alta, non la verità stessa. Qui cogliamo la differenza radicale che separa Socrate dai filosofi precedenti: lo stimolo
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o studioso Giovanni Reale, mediante il confronto tra diversi autori, mette in rilievo l’evoluzione nella storia greca del concetto di anima, evoluzione che registra una tappa importante con Socrate: è il concetto socratico di anima che, secondo lui, è diventato un «punto di riferimento irreversibile nella storia della cultura occidentale».
Omero parla infatti della psyché soprattutto nel momento della morte dell’uomo. La morte coincide con l’uscita della psyché che, volando via dalla bocca (o anche dalla ferita) con l’ultimo respiro, se ne va nell’Ade. [...] [Per Anassimene] l’«origine», come è noto, non è l’acqua, bensì l’aria, che, condensandosi e dilatandosi, dà origine a tutte quante le cose. Dell’aria, principio di tutte le cose, vien detto che è «vicina all’incorporeo (asómatos)» e che è infinita. Ma per comprendere tali affermazioni, bisogna tener presente che il termine asómatos nei filosofi naturalisti significa ciò che, pur essendo di natura fisica, è non-visibile, non-palpabile, privo di densità, di spessore e di rigidi confini. E in questo senso asómatos si associa bene con il termine «infinito» (ápeiron). [...] In effetti, parlando di profondità dell’anima, Eraclito intende affermare che l’anima si estende all’infinito, e che quindi ha una dimensione ben diversa da ciò che è fisico. [...] Democrito pensava che sia il corpo che l’anima dell’uomo derivino da un incontro di atomi. [...] Gli atomi dell’anima, sono, comunque, della stessa natura materiale di quelli del corpo, anche se più perfetti. E sono detti «divini» per la loro maggiore perfezione rispetto agli altri, anche se hanno la stessa natura fisica.
[...] Gorgia intendeva quindi la psyché come sede delle facoltà intellettive, oltre che emotive. [...] Socrate distingue nettamente ciò che l’uomo è in sé e per sé, ossia la sua anima, da ciò che ha, ossia dal suo corpo e dai suoi beni materiali. L’anima e la virtù dell’anima sono le cose di maggior valore, mentre i beni materiali e il corpo stesso sono di minor valore. La maggior parte degli uomini si cura quasi solo di ciò che ha, ossia del suo corpo e dei suoi beni; e non si cura invece di ciò che è, ossia della sua anima, «in modo che diventi il più possibile buona». [...] L’uomo non è dunque il suo corpo, bensì ciò che si serve del suo corpo, assoggettandolo al proprio comando. In altri termini, Socrate ha parlato dell’anima come di una facoltà essenziale dell’uomo, ha illustrato le sue funzioni di conoscere il bene e il male, di dominare e dirigere le azioni umane [...]. L’Occidente ha in questo modo guadagnato, proprio mediante Socrate, quello che si è imposto come punto di riferimento irreversibile nella storia della cultura occidentale, ossia uno di quei concetti che, per dirla con Patočka, ha determinato la specificità dell’Europa.
PER L’APPROFONDIMENTO
a filosofia scaturisce dalle domande: sono queste che mettono in moto la ricerca. È ciò che abbiamo trovato in Socrate. Il brano di Giovanni Reale che qui viene presentato ha proprio come tema le domande socratiche. L’autore, citando ampiamente Hans-Georg Gadamer, filosofo tedesco del Novecento, sottolinea come sia più difficile porre le domande che rispondere: solo chi punta, con il discorso, esclusivamente ad aver ragione, e non a «penetrare l’essenza di un problema», riterrà che domandare sia più facile che rispondere.
(G. Reale, Socrate, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 198, 201, 203, 205, 206, 211, 212, 213, 231)
della ricerca non è più diretto verso la spiegazione del mondo o la comprensione dell’essere in sé, ma verso l’uomo che cerca se stesso. La coscienza che l’uomo ha del mondo s’interroga su se stessa. Meglio: la mia coscienza s’interroga su se stessa. Io mi interrogo sul mio sapere, sui miei pensieri e, posto che la mia esigenza di verità diventi abbastanza forte, scopro che il mio sapere è in larga misura non-sapere. Di conseguenza, se vogliamo conoscere il vero e sviluppare
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I sofisti e Socrate
Questioni che contano
DALLA FILOSOFIA ALL’ ESPERIENZA
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FILOSOFIA E ALTRI LINGUAGGI
La retorica, ovvero l’arte del persuadere
1) Prova a scrivere in una tabella a) tutti gli argomenti utili a sostenere la desiderabilità del servizio di leva e del servizio civile obbligatori, e b) tutti quelli che viceversa servono a giustificare la preferenza per il servizio di leva e il servizio civile volontari. 2) Rileggi gli argomenti e decidi quali sono i più fondati e persuasivi, cioè quali sono in grado di reggere meglio a una discussione approfondita. 3) Infine, confronta la tua tabella con quella dei tuoi compagni e cerca di costruire con loro una tabella riassuntiva che raccolga i migliori argomenti a sostegno di ciascuna tesi. X
T15
Perelman e Olbrechts-Tyteca: L’uso dell’argomentazione Si può tentare in effetti di ottenere uno stesso risultato ricorrendo o alla violenza o al discorso che mira all’adesione degli spiriti. In funzione di questa alternativa si concepisce nel modo più netto l’opposizione fra libertà spirituale e costrizione. L’uso dell’argomentazione implica la rinuncia al ricorso esclusivo alla forza, implica che si attribuisca un certo pregio all’adesione dell’interlocutore ottenuta con l’aiuto di una persuasione ragionata, che non si tratti l’interlocutore stesso come un oggetto, ma si ricorra alla sua libertà di giudizio. L’uso dell’argomentazione presuppone che si stabilisca una comunità di spiriti che per tutta la sua durata esclude l’uso della violenza. [...] Il fanatico è colui che, aderendo a una tesi contestata, della quale non si può fornire la prova indiscutibile, tuttavia rifiuta di ammettere la possibilità di sottoporla a una libera discussione, e respinge così le condizioni preliminari che permetterebbero di esercitare su quel punto l’argomentazione. Identificando l’adesione a una tesi col riconoscimento della sua verità assoluta, si giunge talvolta non al fanatismo, ma allo scetticismo. Chi esige da un’argomentazione che essa fornisca prove di valore assoluto, prove dimostrative, e non si accontenta di meno per aderire a una tesi, disconosce allo stesso modo del fanatico la caratteristica propria del procedimento argomentativo. [...] Solo l’esistenza di un processo argomentativo che non sia né cogente né arbitrario, dà un senso alla libertà umana, condizione per l’esercizio di una scelta ragionevole. Se la libertà fosse solo adesione necessaria a un ordine naturale dato precedentemente, esso escluderebbe ogni possibilità di scelta: se l’esercizio della libertà non fosse fondato su delle ragioni, ogni scelta sarebbe irrazionale e si ridurrebbe a una decisione arbitraria che agirebbe in un vuoto intellettuale. Grazie alla possibilità di un’argomentazione, che fornisce le ragioni, ma delle ragioni non cogenti, è possibile sfuggire al dilemma: adesione a una verità obiettivamente e universalmente valida, o ricorso alla suggestione e alla violenza per far accettare le proprie opinioni e decisioni. (C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, trad. it. di C. Schick e M. Mayer, Torino, Einaudi, 1966, pp. 58-59, 66, 538)
224
Nelle democrazie dei paesi avanzati i politici cercano di conquistare il consenso popolare non solo con argomentazioni articolate, ma anche con altri mezzi: quali? Che cosa pensi dell’efficacia di tali mezzi?
QUESTIONI CHE CONTANO
Ti proponiamo un brano ricavato dal Trattato dell’argomentazione di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca. Questo libro, uscito nel 1958, ha segnato una rinascita della retorica poiché ha saputo rilanciarne un aspetto che per molto tempo era rimasto in secondo piano, cioè lo studio dei tipi di argomenti che utilizziamo nello scritto e nel parlato per convincere chi ci legge o ci ascolta a aderire alle nostre tesi.
Le argomentazioni che utilizziamo per giustificare le nostre opinioni e per convincere gli altri della loro giustezza devono essere ragionevoli. In effetti, molto spesso, quando si discute su una decisione da prendere, su un giudizio da emettere ecc., tutti i partecipanti alla discussione – pur affermando tesi diverse o opposte – forniscono argomenti fondati e ragionevoli. Spesso perciò la decisione di ciascuno è determinata dalla gerarchia nella quale si collocano gli argomenti, dal peso che ciascuno liberamente assegna ai ragionamenti proposti. In ogni caso, discutere e confrontarsi con gli altri è sempre molto utile, perché quasi sempre ci permette di scoprire argomentazioni che non ci erano venute in mente, e ci spinge a esprimere in modo più chiaro e persuasivo i ragionamenti che avevamo già svolto per conto nostro. Ti proponiamo un esercizio.
FILOSOFIA E CITTADINANZA
Diritti politici Lo studio dei sofisti, nel contesto dell’Atene del V secolo, può essere considerato, almeno in parte, un’introduzione alla politica. Anche tu, probabilmente, sei coinvolto a più livelli nella politica. Sicuramente lo sei nelle assemblee di classe e di istituto, e a un livello di responsabilità maggiore se rivesti il ruolo di «rappresentante». Forse, però, stai cominciando a guardare anche oltre la tua scuola: ad esempio se sei impegnato nella consulta giovanile della tua città o della tua provincia, se hai già partecipato a manifestazioni contro disegni di legge da te considerati ingiusti, se sei militante in qualche movimento. In questi casi stai già facendo politica. Gli spunti che troverai qui sono ulteriori stimoli per riflettere sui diritti politici. Del resto, grazie alle tecnologie a tua disposizione, hai nuove opportunità per far sentire la tua voce e per partecipare alla «cosa pubblica».
T16
Sartori: Una democrazia telematica è possibile.
Ma è anche opportuna? La democrazia diretta e assembleare di tipo ateniese sarebbe realizzabile oggi? Se ci si riferisce alla forma di governo nazionale, di sicuro mancherebbe il luogo fisico: quale agorà sarebbe sufficientemente grande da accogliere decine di milioni di cittadini? La democrazia diretta e as-
225
M 4
I sofisti e Socrate
Questioni che contano
DALLA FILOSOFIA ALL’ ESPERIENZA
X
FILOSOFIA E ALTRI LINGUAGGI
La retorica, ovvero l’arte del persuadere
1) Prova a scrivere in una tabella a) tutti gli argomenti utili a sostenere la desiderabilità del servizio di leva e del servizio civile obbligatori, e b) tutti quelli che viceversa servono a giustificare la preferenza per il servizio di leva e il servizio civile volontari. 2) Rileggi gli argomenti e decidi quali sono i più fondati e persuasivi, cioè quali sono in grado di reggere meglio a una discussione approfondita. 3) Infine, confronta la tua tabella con quella dei tuoi compagni e cerca di costruire con loro una tabella riassuntiva che raccolga i migliori argomenti a sostegno di ciascuna tesi. X
T15
Perelman e Olbrechts-Tyteca: L’uso dell’argomentazione Si può tentare in effetti di ottenere uno stesso risultato ricorrendo o alla violenza o al discorso che mira all’adesione degli spiriti. In funzione di questa alternativa si concepisce nel modo più netto l’opposizione fra libertà spirituale e costrizione. L’uso dell’argomentazione implica la rinuncia al ricorso esclusivo alla forza, implica che si attribuisca un certo pregio all’adesione dell’interlocutore ottenuta con l’aiuto di una persuasione ragionata, che non si tratti l’interlocutore stesso come un oggetto, ma si ricorra alla sua libertà di giudizio. L’uso dell’argomentazione presuppone che si stabilisca una comunità di spiriti che per tutta la sua durata esclude l’uso della violenza. [...] Il fanatico è colui che, aderendo a una tesi contestata, della quale non si può fornire la prova indiscutibile, tuttavia rifiuta di ammettere la possibilità di sottoporla a una libera discussione, e respinge così le condizioni preliminari che permetterebbero di esercitare su quel punto l’argomentazione. Identificando l’adesione a una tesi col riconoscimento della sua verità assoluta, si giunge talvolta non al fanatismo, ma allo scetticismo. Chi esige da un’argomentazione che essa fornisca prove di valore assoluto, prove dimostrative, e non si accontenta di meno per aderire a una tesi, disconosce allo stesso modo del fanatico la caratteristica propria del procedimento argomentativo. [...] Solo l’esistenza di un processo argomentativo che non sia né cogente né arbitrario, dà un senso alla libertà umana, condizione per l’esercizio di una scelta ragionevole. Se la libertà fosse solo adesione necessaria a un ordine naturale dato precedentemente, esso escluderebbe ogni possibilità di scelta: se l’esercizio della libertà non fosse fondato su delle ragioni, ogni scelta sarebbe irrazionale e si ridurrebbe a una decisione arbitraria che agirebbe in un vuoto intellettuale. Grazie alla possibilità di un’argomentazione, che fornisce le ragioni, ma delle ragioni non cogenti, è possibile sfuggire al dilemma: adesione a una verità obiettivamente e universalmente valida, o ricorso alla suggestione e alla violenza per far accettare le proprie opinioni e decisioni. (C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, trad. it. di C. Schick e M. Mayer, Torino, Einaudi, 1966, pp. 58-59, 66, 538)
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Nelle democrazie dei paesi avanzati i politici cercano di conquistare il consenso popolare non solo con argomentazioni articolate, ma anche con altri mezzi: quali? Che cosa pensi dell’efficacia di tali mezzi?
QUESTIONI CHE CONTANO
Ti proponiamo un brano ricavato dal Trattato dell’argomentazione di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca. Questo libro, uscito nel 1958, ha segnato una rinascita della retorica poiché ha saputo rilanciarne un aspetto che per molto tempo era rimasto in secondo piano, cioè lo studio dei tipi di argomenti che utilizziamo nello scritto e nel parlato per convincere chi ci legge o ci ascolta a aderire alle nostre tesi.
Le argomentazioni che utilizziamo per giustificare le nostre opinioni e per convincere gli altri della loro giustezza devono essere ragionevoli. In effetti, molto spesso, quando si discute su una decisione da prendere, su un giudizio da emettere ecc., tutti i partecipanti alla discussione – pur affermando tesi diverse o opposte – forniscono argomenti fondati e ragionevoli. Spesso perciò la decisione di ciascuno è determinata dalla gerarchia nella quale si collocano gli argomenti, dal peso che ciascuno liberamente assegna ai ragionamenti proposti. In ogni caso, discutere e confrontarsi con gli altri è sempre molto utile, perché quasi sempre ci permette di scoprire argomentazioni che non ci erano venute in mente, e ci spinge a esprimere in modo più chiaro e persuasivo i ragionamenti che avevamo già svolto per conto nostro. Ti proponiamo un esercizio.
FILOSOFIA E CITTADINANZA
Diritti politici Lo studio dei sofisti, nel contesto dell’Atene del V secolo, può essere considerato, almeno in parte, un’introduzione alla politica. Anche tu, probabilmente, sei coinvolto a più livelli nella politica. Sicuramente lo sei nelle assemblee di classe e di istituto, e a un livello di responsabilità maggiore se rivesti il ruolo di «rappresentante». Forse, però, stai cominciando a guardare anche oltre la tua scuola: ad esempio se sei impegnato nella consulta giovanile della tua città o della tua provincia, se hai già partecipato a manifestazioni contro disegni di legge da te considerati ingiusti, se sei militante in qualche movimento. In questi casi stai già facendo politica. Gli spunti che troverai qui sono ulteriori stimoli per riflettere sui diritti politici. Del resto, grazie alle tecnologie a tua disposizione, hai nuove opportunità per far sentire la tua voce e per partecipare alla «cosa pubblica».
T16
Sartori: Una democrazia telematica è possibile.
Ma è anche opportuna? La democrazia diretta e assembleare di tipo ateniese sarebbe realizzabile oggi? Se ci si riferisce alla forma di governo nazionale, di sicuro mancherebbe il luogo fisico: quale agorà sarebbe sufficientemente grande da accogliere decine di milioni di cittadini? La democrazia diretta e as-
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Eidos: dalle idee all’immaginario
Socrate e il suo corpo interesse a conoscere le specifiche fattezze fisiche dei leader politici e intellettuali. Un elemento di rottura di questa tradizione fu la vicenda socratica, non solo per il rilevante peso
della sua personale vicenda di vita (e di morte), ma anche per l’aver fatto della sua straordinaria bruttezza un argomento di riflessione filosofica.
FISIOGNOMIA DEL BUON CITTADINO
Busto di Pitagora (Roma, Musei Capitolini). I luoghi pubblici delle città greche erano adornate da numerosissime erme dedicate alla memoria dei cittadini più illustri. Ma sino all’età ellenistica non si trattò mai di ritratti: le fattezze del personaggio erano determinate dal suo ruolo sociale secondo tipologie fisiognomiche: tutti i filosofi, ad esempio, avevano la fronte spaziosa e le sopracciglia corrucciate dallo sforzo del pensiero.
Oltre che dal nome, l’individuazione del personaggio era resa possibile da elementi simbolici accessori: che in questo caso si tratti di Pitagora è suggerito dal turbante e dalla foggia orientale della barba, allusivi dei supposti viaggi in Oriente del filosofo.
I TESTI X M4,
T1, Pericle: La democrazia ateniese Il valore eminente che contraddistingue la società ateniese, e ne fa un esempio per tutta la Grecia, è la politicità dei suoi cittadini. Essa si
234
Le erme erano pilastrini quadrangolari di marmo, non più alti di un metro e mezzo, corredati sempre da tre elementi specifici, giudicati sufficienti a definire simbolicamente la cittadinanza: un volto (prima stereotipato, poi individualizzato), un’iscrizione con il nome, in basso, e nel mezzo i genitali maschili. esprime prima di tutto in un atteggiamento di interesse e di cura verso gli affari pubblici, in un rifiuto del vivere «facendo i fatti propri». X M4, T2, Protagora: Il dono della politica La politica non può e non deve essere un’attività
specialistica praticata da esperti professionisti. Dovendo monitorare il rispetto dei valori di giustizia e di reciproco rispetto, essa è appannaggio di tutti i cittadini, al di là delle differenze economiche e culturali.
X M4, T12, Platone: Socrate
e le leggi Le ragioni che spingono Socrate ad accettare una sentenza ingiusta, scegliendo la morte pur di non rinnegare la coerenza fra pensiero e scelte personali che aveva caratterizzato la sua vita.
Busto di Socrate, copia romana da un originale greco del IV sec. a.C. (Roma, Musei Vaticani). Socrate è il primo filosofo di cui rimane un vero ritratto, anche se scolpito una generazione dopo la sua morte, in base alle testimonianze di coloro che lo avevano conosciuto. Non per caso: egli stesso infatti aveva argomentato come il suo aspetto silenico, unito a un’anima nobile, smentisse la convinzione comune che la virtù si accompagnasse sempre alla bellezza. La statua enfatizza i difetti fisici di Socrate: gli occhi sono «bovini»; gli zigomi troppo sporgenti, il naso piatto e schiacciato; la fronte solcata da rughe profonde; le sopracciglia accigliate quasi in segno di arroganza o di dispetto; le labbra eccessivamente carnose; il cranio si mostra per intero a causa della calvizie. La veste mal collocata sulla spalla allude alla celebre trascuratezza del suo aspetto.
Secondo le teorie della Phisiognomica dello Pseudo-Aristotele, l’insieme di questi tratti dovrebbe indicare il tipo sociale del sileno, ossia in termini moderni il «vecchio mal vissuto», dedito al vino e alle attività lascive, solo un poco più decente dei mitici satiri. L’esatto contrario del Socrate reale.
EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO
La mentalità dominante greca non apprezzava l’individualismo, un valore esistenziale prettamente moderno, tanto che sino alla fine dell’età classica non si sviluppò mai alcun
IL SOCRATE SILENICO
DESTINI IN PARALLEL0
Doppio busto di Socrate e Seneca (Berlino, Museo di Pergamo, Antikensammlung). Il concetto di destino fu particolarmente indagato dagli stoici, secondo i quali ogni vicenda di vita si svolge secondo un piano prestabilito già dall’inizio. Ciò suggerì la nascita di un nuovo genere letterario fondato sull’idea delle “vite parallele”, ovvero sulla comparazione di due esperienze di vita contrassegnate da evidenti tratti comuni.
Un tratto che accomuna tutte le immagini dei filosofi è l’insistenza sulla loro anzianità. In un certo senso, per i Greci tutti i sapienti erano anziani, qualunque fosse la loro età anagrafica.
La speculazione sui destini paralleli di celebri personaggi determinò l’invenzione delle doppie erme bifronti. Qui ad esempio il volto di Socrate è accostato a quello di Seneca, formando una coppia accomunata dalla accettazione finale del suicidio in nome della dignità umana.
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Eidos: dalle idee all’immaginario
Socrate e il suo corpo interesse a conoscere le specifiche fattezze fisiche dei leader politici e intellettuali. Un elemento di rottura di questa tradizione fu la vicenda socratica, non solo per il rilevante peso
della sua personale vicenda di vita (e di morte), ma anche per l’aver fatto della sua straordinaria bruttezza un argomento di riflessione filosofica.
FISIOGNOMIA DEL BUON CITTADINO
Busto di Pitagora (Roma, Musei Capitolini). I luoghi pubblici delle città greche erano adornate da numerosissime erme dedicate alla memoria dei cittadini più illustri. Ma sino all’età ellenistica non si trattò mai di ritratti: le fattezze del personaggio erano determinate dal suo ruolo sociale secondo tipologie fisiognomiche: tutti i filosofi, ad esempio, avevano la fronte spaziosa e le sopracciglia corrucciate dallo sforzo del pensiero.
Oltre che dal nome, l’individuazione del personaggio era resa possibile da elementi simbolici accessori: che in questo caso si tratti di Pitagora è suggerito dal turbante e dalla foggia orientale della barba, allusivi dei supposti viaggi in Oriente del filosofo.
I TESTI X M4,
T1, Pericle: La democrazia ateniese Il valore eminente che contraddistingue la società ateniese, e ne fa un esempio per tutta la Grecia, è la politicità dei suoi cittadini. Essa si
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Le erme erano pilastrini quadrangolari di marmo, non più alti di un metro e mezzo, corredati sempre da tre elementi specifici, giudicati sufficienti a definire simbolicamente la cittadinanza: un volto (prima stereotipato, poi individualizzato), un’iscrizione con il nome, in basso, e nel mezzo i genitali maschili. esprime prima di tutto in un atteggiamento di interesse e di cura verso gli affari pubblici, in un rifiuto del vivere «facendo i fatti propri». X M4, T2, Protagora: Il dono della politica La politica non può e non deve essere un’attività
specialistica praticata da esperti professionisti. Dovendo monitorare il rispetto dei valori di giustizia e di reciproco rispetto, essa è appannaggio di tutti i cittadini, al di là delle differenze economiche e culturali.
X M4, T12, Platone: Socrate
e le leggi Le ragioni che spingono Socrate ad accettare una sentenza ingiusta, scegliendo la morte pur di non rinnegare la coerenza fra pensiero e scelte personali che aveva caratterizzato la sua vita.
Busto di Socrate, copia romana da un originale greco del IV sec. a.C. (Roma, Musei Vaticani). Socrate è il primo filosofo di cui rimane un vero ritratto, anche se scolpito una generazione dopo la sua morte, in base alle testimonianze di coloro che lo avevano conosciuto. Non per caso: egli stesso infatti aveva argomentato come il suo aspetto silenico, unito a un’anima nobile, smentisse la convinzione comune che la virtù si accompagnasse sempre alla bellezza. La statua enfatizza i difetti fisici di Socrate: gli occhi sono «bovini»; gli zigomi troppo sporgenti, il naso piatto e schiacciato; la fronte solcata da rughe profonde; le sopracciglia accigliate quasi in segno di arroganza o di dispetto; le labbra eccessivamente carnose; il cranio si mostra per intero a causa della calvizie. La veste mal collocata sulla spalla allude alla celebre trascuratezza del suo aspetto.
Secondo le teorie della Phisiognomica dello Pseudo-Aristotele, l’insieme di questi tratti dovrebbe indicare il tipo sociale del sileno, ossia in termini moderni il «vecchio mal vissuto», dedito al vino e alle attività lascive, solo un poco più decente dei mitici satiri. L’esatto contrario del Socrate reale.
EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO
La mentalità dominante greca non apprezzava l’individualismo, un valore esistenziale prettamente moderno, tanto che sino alla fine dell’età classica non si sviluppò mai alcun
IL SOCRATE SILENICO
DESTINI IN PARALLEL0
Doppio busto di Socrate e Seneca (Berlino, Museo di Pergamo, Antikensammlung). Il concetto di destino fu particolarmente indagato dagli stoici, secondo i quali ogni vicenda di vita si svolge secondo un piano prestabilito già dall’inizio. Ciò suggerì la nascita di un nuovo genere letterario fondato sull’idea delle “vite parallele”, ovvero sulla comparazione di due esperienze di vita contrassegnate da evidenti tratti comuni.
Un tratto che accomuna tutte le immagini dei filosofi è l’insistenza sulla loro anzianità. In un certo senso, per i Greci tutti i sapienti erano anziani, qualunque fosse la loro età anagrafica.
La speculazione sui destini paralleli di celebri personaggi determinò l’invenzione delle doppie erme bifronti. Qui ad esempio il volto di Socrate è accostato a quello di Seneca, formando una coppia accomunata dalla accettazione finale del suicidio in nome della dignità umana.
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Eidos: dalle idee all’immaginario
IL CORPO E IL CARCERE
Jacques-Louis David, La morte di Socrate, olio su tela, 1798 (New York, Metropolitan Museum of Art). Per tutta la vita Socrate aveva sostenuto che il corpo è come un carcere per l’anima, che desidera liberarsene per realizzarsi come pura spiritualità. È un fatto suggestivo, sottolineato dai pittori di ogni epoca, che proprio mentre era rinchiuso in un carcere il filosofo ebbe finalmente la possibilità di morire.
Socrate tende la mano destra verso la tazza con la cicuta, il veleno paralizzante, mentre con la sinistra indica il cielo, prossima dimora del suo spirito (una citazione della celeberrima Scuola di Atene di Raffaello, in cui lo stesso gesto è attribuito a Platone). Alcuni piangono, nonostante il filosofo li abbia appena esortati a non comportarsi come donnicciuole. Tutti hanno le spalle incurvate da dolore, tranne lui.
Fedone volge le spalle al letto di morte, incapace di osservare la scena che pure in seguito racconterà dettagliatamente a Platone, che ebbe la sfortuna di non assistere a quel momento perché proprio quel giorno era ammalato. In fondo al corridoio si intravvedono la moglie e i figli del pensatore, da lui stessi allontanati dopo una breve visita. LA VERA DISCENDENZA
Antonio Canova, Socrate congeda la propria famiglia, gesso, 1787-90 (Milano, Fondazione della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde). Nel racconto della morte di Socrate svolto da Fedone, un elemento biografico importante sta nel modo brusco con cui il filosofo si congedò dalla propria famiglia, desiderando compiere l’estremo passo attorniato solo dai discepoli, i veri compagni della sua vita. Era anche questo un modo per ribadire la natura eminentemente spirituale del suo essere. Sulla destra si riconoscono i figli di Socrate, il piccolo Menesseno, Lamprocle e il più grande Sofronisco, che riprende il nome del nonno. Santippe, la moglie, era celebre per la sua petulanza. Ma ad Alcibiade, che un giorno gli aveva chiesto perché non se ne liberasse, Socrate rispose che il sopportarla ogni giorno era un allenamento molto utile per sostenere l’analoga petulanza dei suoi concittadini. I legami dello spirito superano e negano quelli del sangue. Per questo Socrate rifiuta d’essere consolato dalla moglie e dai figli, considerando le scoperte del suo pensiero come la sua vera «discendenza». Ma Canova, nel Settecento, addolcisce la radicalità di questo rifiuto. Il suo Socrate sembra un buon padre di famiglia, impegnato lui stesso a consolare.
236
Platone
MODULO
5
PROFILO 1. La ricerca sulla virtù 2. Le idee e il rapporto con le cose 3. Anima e corpo, ragione e passioni 4. Eros e il filosofo 5. La conoscenza 6. Lo Stato e la missione del filosofo 7. La revisione della teoria delle idee e la dialettica 8. Politica ed etica negli ultimi dialoghi 9. La cosmologia 10. Le dottrine non scritte 11. L’eredità di Platone ITINERARI DI LETTURA 1. Il filosofare: i limiti della scrittura e l’importanza del dialogo 2. Il filosofare: i miti e la loro funzione 3. I sensi e le idee 4. Il mito della caverna e la teoria della conoscenza 5. La concezione dell’anima: i miti della biga e dell’aldilà 6. Il mito di Eros: il filosofo e le idee 7. Lo Stato ideale PREPARARSI ALL’INTERROGAZIONE PER L’APPROFONDIMENTO QUESTIONI CHE CONTANO EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO
Eidos: dalle idee all’immaginario
IL CORPO E IL CARCERE
Jacques-Louis David, La morte di Socrate, olio su tela, 1798 (New York, Metropolitan Museum of Art). Per tutta la vita Socrate aveva sostenuto che il corpo è come un carcere per l’anima, che desidera liberarsene per realizzarsi come pura spiritualità. È un fatto suggestivo, sottolineato dai pittori di ogni epoca, che proprio mentre era rinchiuso in un carcere il filosofo ebbe finalmente la possibilità di morire.
Socrate tende la mano destra verso la tazza con la cicuta, il veleno paralizzante, mentre con la sinistra indica il cielo, prossima dimora del suo spirito (una citazione della celeberrima Scuola di Atene di Raffaello, in cui lo stesso gesto è attribuito a Platone). Alcuni piangono, nonostante il filosofo li abbia appena esortati a non comportarsi come donnicciuole. Tutti hanno le spalle incurvate da dolore, tranne lui.
Fedone volge le spalle al letto di morte, incapace di osservare la scena che pure in seguito racconterà dettagliatamente a Platone, che ebbe la sfortuna di non assistere a quel momento perché proprio quel giorno era ammalato. In fondo al corridoio si intravvedono la moglie e i figli del pensatore, da lui stessi allontanati dopo una breve visita. LA VERA DISCENDENZA
Antonio Canova, Socrate congeda la propria famiglia, gesso, 1787-90 (Milano, Fondazione della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde). Nel racconto della morte di Socrate svolto da Fedone, un elemento biografico importante sta nel modo brusco con cui il filosofo si congedò dalla propria famiglia, desiderando compiere l’estremo passo attorniato solo dai discepoli, i veri compagni della sua vita. Era anche questo un modo per ribadire la natura eminentemente spirituale del suo essere. Sulla destra si riconoscono i figli di Socrate, il piccolo Menesseno, Lamprocle e il più grande Sofronisco, che riprende il nome del nonno. Santippe, la moglie, era celebre per la sua petulanza. Ma ad Alcibiade, che un giorno gli aveva chiesto perché non se ne liberasse, Socrate rispose che il sopportarla ogni giorno era un allenamento molto utile per sostenere l’analoga petulanza dei suoi concittadini. I legami dello spirito superano e negano quelli del sangue. Per questo Socrate rifiuta d’essere consolato dalla moglie e dai figli, considerando le scoperte del suo pensiero come la sua vera «discendenza». Ma Canova, nel Settecento, addolcisce la radicalità di questo rifiuto. Il suo Socrate sembra un buon padre di famiglia, impegnato lui stesso a consolare.
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Platone
MODULO
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PROFILO 1. La ricerca sulla virtù 2. Le idee e il rapporto con le cose 3. Anima e corpo, ragione e passioni 4. Eros e il filosofo 5. La conoscenza 6. Lo Stato e la missione del filosofo 7. La revisione della teoria delle idee e la dialettica 8. Politica ed etica negli ultimi dialoghi 9. La cosmologia 10. Le dottrine non scritte 11. L’eredità di Platone ITINERARI DI LETTURA 1. Il filosofare: i limiti della scrittura e l’importanza del dialogo 2. Il filosofare: i miti e la loro funzione 3. I sensi e le idee 4. Il mito della caverna e la teoria della conoscenza 5. La concezione dell’anima: i miti della biga e dell’aldilà 6. Il mito di Eros: il filosofo e le idee 7. Lo Stato ideale PREPARARSI ALL’INTERROGAZIONE PER L’APPROFONDIMENTO QUESTIONI CHE CONTANO EIDOS: DALLE IDEE ALL’IMMAGINARIO
Il cammino delle idee
1
Il linguaggio scritto e la nascita del pensiero filosofico (VII-VI secolo a. C.)
IL CAMMINO DELLE IDEE
Questa sezione è dedicata alla visualizzazione dei principali movimenti delle idee che hanno caratterizzato la storia della filosofia. La convinzione che spinge alla creazione di carte di questo tipo è che le idee non siano qualcosa di statico, ma che evolvano e mutino continuamente, anche e soprattutto in relazione ai diversi contesti geografico-culturali e che alcune trasformazioni concettuali siano legate a effettive dislocazioni. Non si tratta quindi solo di ripercorrere i movimenti delle idee, ma di iniziare un percorso concettuale che mostri come le idee siano soggette a mutamenti e trasformazioni, fusioni e separazioni, fratture e continuità. Che siano, in definitiva, qualcosa di vivo. Si vorrebbe quindi offrire non solo uno sguardo dall’alto che riassuma il cammino delle idee, ma anche la possibilità di mettersi in cammino con le idee.
La nascita della riflessione filosofica 1 Queste primo gruppo di carte mostra quali aree siano state interessate per prime da riflessioni filosofiche. La carta 1 illustra il nesso che lega la riflessione, in particolare filosofica, con il linguaggio scritto e individua tre aree in cui si è avuto, tra il vii e il v secolo a. C., un pensiero dal carattere esplicitamente filosofico. Si tratta delle colonie greche nel Mediterraneo, della valle del Gange in India e di quella del Fiume Giallo in Cina. 2-3 Alla prima di queste aree sono dedicate due carte (2 e 3), in cui si mostra come nel giro di due secoli Atene divenga la capitale della filosofia greca: dopo una prima fioritura nelle colonie ioniche e in quelle sud-italiche, Atene diviene il centro, non solo geografico, di un ambiente culturale sempre più unitario e coeso. Nel iv secolo a. C., periodo
482
del suo massimo splendore, non ci sarà nessuno dei grandi filosofi greci che non sia attivo ad Atene, dove sorgeranno tutte le principali scuole filosofiche. 4-5 Alle complesse vicende della tradizione e della filosofia in India e in Cina sono dedicate le due carte restanti (4 e 5). L’induismo e la sua diffusione, la nascita del buddhismo e i suoi sviluppi lontano dai luoghi d’origine, l’influsso delle scuole cinesi e del confucianesimo, il successivo arrivo in Corea e Giappone sono testimonianza di un’irriducibile vitalità culturale. Lo sviluppo cronologico di queste carte copre un periodo di tempo amplissimo, che va oltre i limiti cronologici presi in esame nel manuale: in queste carte si offre quindi un panorama sintetico ma complessivo delle principali tappe del cammino delle idee in quei contesti.
na delle condizioni necessarie per lo sviluppo del pensiero, in particolare del pensiero astratto, sembra essere la creazione di un linguaggio scritto. La prima forma di lingua scritta di cui abbiamo testimonianza risale al IV millennio a. C. e si sviluppa nella mezzaluna fertile, la zona compresa tra il corso del Tigri e dell’Eufrate. Nel III-II millennio a. C. si sviluppano altre forme di scrittura: in particolare in Cina lungo il corso dello Huang He (Fiume giallo), nella valle dell’Indo e lungo il corso del Nilo (queste ultime con influenze più o meno evidenti della lingua mesopotanica). Si tratta in tutti i casi di lingue cosiddette «logografiche», nelle quali i segni scritti significano una parola o un concetto. Successivamente (VIII-VII secolo a. C.) si sviluppò, sempre nella regione mesopotamica, un linguaggio alfabetico (in cui i segni rappresentano dei suoni): questo linguaggio si diffuse ed ebbe un’influenza
U
rilevante sulla lingua greca e, successivamente, su quella brahmi, attestata nel bacino del Gange a partire dal III secolo a. C., ma forse più antica. Le aree di nascita e sviluppo di riflessioni filosofiche sono sostanzialmente quelle in cui sorsero le principali forme di scrittura. Abbiamo innanzitutto i primi testi sacri indiani (i Veda) risalenti al II millennio a. C., che sono alla base dell’induismo e, nel VII-VI secolo a. C., la fioritura in tre aree distinte e indipendenti di riflessioni filosofiche alternative. Si tratta della valle del Gange, in cui vengono composti i trattati dell’induismo brahmanico e in cui nasce il buddhismo, della valle dello Huang He, in cui è attivo Confucio, e del territorio greco nel mediterraneo, in particolare le colonie ioniche in Asia minore (Mileto, Efeso), in cui sono attestate le prime riflessioni filosofiche capaci di prendere le distanze dalle tradizionali spiegazioni mitico-religiose.
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Il cammino delle idee
1
Il linguaggio scritto e la nascita del pensiero filosofico (VII-VI secolo a. C.)
IL CAMMINO DELLE IDEE
Questa sezione è dedicata alla visualizzazione dei principali movimenti delle idee che hanno caratterizzato la storia della filosofia. La convinzione che spinge alla creazione di carte di questo tipo è che le idee non siano qualcosa di statico, ma che evolvano e mutino continuamente, anche e soprattutto in relazione ai diversi contesti geografico-culturali e che alcune trasformazioni concettuali siano legate a effettive dislocazioni. Non si tratta quindi solo di ripercorrere i movimenti delle idee, ma di iniziare un percorso concettuale che mostri come le idee siano soggette a mutamenti e trasformazioni, fusioni e separazioni, fratture e continuità. Che siano, in definitiva, qualcosa di vivo. Si vorrebbe quindi offrire non solo uno sguardo dall’alto che riassuma il cammino delle idee, ma anche la possibilità di mettersi in cammino con le idee.
La nascita della riflessione filosofica 1 Queste primo gruppo di carte mostra quali aree siano state interessate per prime da riflessioni filosofiche. La carta 1 illustra il nesso che lega la riflessione, in particolare filosofica, con il linguaggio scritto e individua tre aree in cui si è avuto, tra il vii e il v secolo a. C., un pensiero dal carattere esplicitamente filosofico. Si tratta delle colonie greche nel Mediterraneo, della valle del Gange in India e di quella del Fiume Giallo in Cina. 2-3 Alla prima di queste aree sono dedicate due carte (2 e 3), in cui si mostra come nel giro di due secoli Atene divenga la capitale della filosofia greca: dopo una prima fioritura nelle colonie ioniche e in quelle sud-italiche, Atene diviene il centro, non solo geografico, di un ambiente culturale sempre più unitario e coeso. Nel iv secolo a. C., periodo
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del suo massimo splendore, non ci sarà nessuno dei grandi filosofi greci che non sia attivo ad Atene, dove sorgeranno tutte le principali scuole filosofiche. 4-5 Alle complesse vicende della tradizione e della filosofia in India e in Cina sono dedicate le due carte restanti (4 e 5). L’induismo e la sua diffusione, la nascita del buddhismo e i suoi sviluppi lontano dai luoghi d’origine, l’influsso delle scuole cinesi e del confucianesimo, il successivo arrivo in Corea e Giappone sono testimonianza di un’irriducibile vitalità culturale. Lo sviluppo cronologico di queste carte copre un periodo di tempo amplissimo, che va oltre i limiti cronologici presi in esame nel manuale: in queste carte si offre quindi un panorama sintetico ma complessivo delle principali tappe del cammino delle idee in quei contesti.
na delle condizioni necessarie per lo sviluppo del pensiero, in particolare del pensiero astratto, sembra essere la creazione di un linguaggio scritto. La prima forma di lingua scritta di cui abbiamo testimonianza risale al IV millennio a. C. e si sviluppa nella mezzaluna fertile, la zona compresa tra il corso del Tigri e dell’Eufrate. Nel III-II millennio a. C. si sviluppano altre forme di scrittura: in particolare in Cina lungo il corso dello Huang He (Fiume giallo), nella valle dell’Indo e lungo il corso del Nilo (queste ultime con influenze più o meno evidenti della lingua mesopotanica). Si tratta in tutti i casi di lingue cosiddette «logografiche», nelle quali i segni scritti significano una parola o un concetto. Successivamente (VIII-VII secolo a. C.) si sviluppò, sempre nella regione mesopotamica, un linguaggio alfabetico (in cui i segni rappresentano dei suoni): questo linguaggio si diffuse ed ebbe un’influenza
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rilevante sulla lingua greca e, successivamente, su quella brahmi, attestata nel bacino del Gange a partire dal III secolo a. C., ma forse più antica. Le aree di nascita e sviluppo di riflessioni filosofiche sono sostanzialmente quelle in cui sorsero le principali forme di scrittura. Abbiamo innanzitutto i primi testi sacri indiani (i Veda) risalenti al II millennio a. C., che sono alla base dell’induismo e, nel VII-VI secolo a. C., la fioritura in tre aree distinte e indipendenti di riflessioni filosofiche alternative. Si tratta della valle del Gange, in cui vengono composti i trattati dell’induismo brahmanico e in cui nasce il buddhismo, della valle dello Huang He, in cui è attivo Confucio, e del territorio greco nel mediterraneo, in particolare le colonie ioniche in Asia minore (Mileto, Efeso), in cui sono attestate le prime riflessioni filosofiche capaci di prendere le distanze dalle tradizionali spiegazioni mitico-religiose.
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La nascita della filosofia occidentale (VI secolo a. C.)
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La centralità di Atene (IV secolo a. C.)
IL CAMMINO DELLE IDEE
a filosofia occidentale nasce in Grecia nel VI secolo a. C. Due sono le zone di maggior rilevanza: quella ionica (Mileto, Efeso, Cos, Clazomene) e quella delle colonie in Italia meridionale (Elea, Agrigento, Crotone). In queste regioni nascono molti dei filosofi più importanti di questo periodo e spesso vi fondano delle scuole. Anche dal punto di vista non strettamente filosofico, ma culturale in senso lato, queste due regioni si distinguono per la loro vitalità: in entrambe si sviluppano scuole mediche (la cosiddetta medicina italica in particolare a Crotone e la scuola che si rifà alle teorie di Ippocrate a Cos). Esemplare il caso di Pitagora, attivo in entrambe queste aree: prima nella Ionia, e poi, con maggior fortuna, in Italia meridionale.
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Nel secolo successivo, Atene si afferma come la città più importante del panorama culturale greco: divengono sempre più frequenti gli spostamenti degli intellettuali tra questa città e le zone di cui abbiamo parlato (Anassagora e Ippocrate, nati entrambi in Asia Minore, studiano e insegnano per molto tempo ad Atene). Una centro di grande importanza è anche Abdera: città natale di Democrito e Protagora, non ha però la forza di attrazione culturale che caratterizza Atene, la cui egemonia intellettuale (oltre che politica ed economica) si realizza nella seconda metà del V secolo a. C., periodo in cui sono attivi tra gli altri Protagora, Socrate e il giovane Platone.
latone e Aristotele sono i due autori che maggiormente hanno caratterizzato la filosofia greca e che hanno avuto un peso determinante nell’orientare la speculazione dei filosofi posteriori. Atene ha un ruolo centrale nella vita di entrambi: è in questa città che Platone fonda l’Accademia, in cui Aristotele sarà studente prima di aprire, sempre ad Atene, la propria scuola (il Liceo o Peripato). Altri luoghi centrali della vita di Platone sono Taranto e soprattutto Siracusa, città nella quale il filosofo si recherà diverse volte cercando, senza successo, di realizzare il proprio progetto politico. Tra il periodo in cui è allievo dell’Accademia e quello in cui fonda il Liceo, Aristotele è invece chiamato dal re macedone Filippo II a Pella, per essere il precettore del giovane figlio Alessandro.
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Atene conosce quindi una fase di declino politico, entrando nell’orbita dell’impero macedone, ma dal punto di vista culturale, in particolare filosofico, la città rimane attivissima e, ancora per molto tempo, il suo primato sarà indiscusso. Le conquiste di Alessandro Magno e la creazione di un grande impero (sebbene diviso, dopo la sua morte, in regioni indipendenti) offrono alla scena culturale ateniese nuove opportunità di sviluppo e, soprattutto, danno una spinta decisiva al riconoscimento di una comune identità culturale greca: il confronto tra questa carta e la precedente mostra come l’integrazione di quelle che prima erano due zone distinte sia ormai compiutamente realizzata. Atene è il centro di gravità di questa realizzazione e la città simbolo di quell’identità culturale ormai condivisa.
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La nascita della filosofia occidentale (VI secolo a. C.)
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La centralità di Atene (IV secolo a. C.)
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a filosofia occidentale nasce in Grecia nel VI secolo a. C. Due sono le zone di maggior rilevanza: quella ionica (Mileto, Efeso, Cos, Clazomene) e quella delle colonie in Italia meridionale (Elea, Agrigento, Crotone). In queste regioni nascono molti dei filosofi più importanti di questo periodo e spesso vi fondano delle scuole. Anche dal punto di vista non strettamente filosofico, ma culturale in senso lato, queste due regioni si distinguono per la loro vitalità: in entrambe si sviluppano scuole mediche (la cosiddetta medicina italica in particolare a Crotone e la scuola che si rifà alle teorie di Ippocrate a Cos). Esemplare il caso di Pitagora, attivo in entrambe queste aree: prima nella Ionia, e poi, con maggior fortuna, in Italia meridionale.
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Nel secolo successivo, Atene si afferma come la città più importante del panorama culturale greco: divengono sempre più frequenti gli spostamenti degli intellettuali tra questa città e le zone di cui abbiamo parlato (Anassagora e Ippocrate, nati entrambi in Asia Minore, studiano e insegnano per molto tempo ad Atene). Una centro di grande importanza è anche Abdera: città natale di Democrito e Protagora, non ha però la forza di attrazione culturale che caratterizza Atene, la cui egemonia intellettuale (oltre che politica ed economica) si realizza nella seconda metà del V secolo a. C., periodo in cui sono attivi tra gli altri Protagora, Socrate e il giovane Platone.
latone e Aristotele sono i due autori che maggiormente hanno caratterizzato la filosofia greca e che hanno avuto un peso determinante nell’orientare la speculazione dei filosofi posteriori. Atene ha un ruolo centrale nella vita di entrambi: è in questa città che Platone fonda l’Accademia, in cui Aristotele sarà studente prima di aprire, sempre ad Atene, la propria scuola (il Liceo o Peripato). Altri luoghi centrali della vita di Platone sono Taranto e soprattutto Siracusa, città nella quale il filosofo si recherà diverse volte cercando, senza successo, di realizzare il proprio progetto politico. Tra il periodo in cui è allievo dell’Accademia e quello in cui fonda il Liceo, Aristotele è invece chiamato dal re macedone Filippo II a Pella, per essere il precettore del giovane figlio Alessandro.
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Atene conosce quindi una fase di declino politico, entrando nell’orbita dell’impero macedone, ma dal punto di vista culturale, in particolare filosofico, la città rimane attivissima e, ancora per molto tempo, il suo primato sarà indiscusso. Le conquiste di Alessandro Magno e la creazione di un grande impero (sebbene diviso, dopo la sua morte, in regioni indipendenti) offrono alla scena culturale ateniese nuove opportunità di sviluppo e, soprattutto, danno una spinta decisiva al riconoscimento di una comune identità culturale greca: il confronto tra questa carta e la precedente mostra come l’integrazione di quelle che prima erano due zone distinte sia ormai compiutamente realizzata. Atene è il centro di gravità di questa realizzazione e la città simbolo di quell’identità culturale ormai condivisa.
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La filosofia indiana e il buddhismo (VI secolo a. C. - VII secolo d. C.)
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Confucianesimo e buddhismo in oriente (VII secolo a. C. - XIV secolo d. C.)
IL CAMMINO DELLE IDEE
n India si era diffusa, a partire dal II millennio a. C., una religione composita che prende il nome di induismo. I luoghi in cui l’induismo è nato e dai quali si è poi diffuso sono nel nord dell’India, lungo il corso del fiume Gange. Tra il X e il VII secolo a. C. l’induismo conosce uno sviluppo in direzione di un ritualismo sempre più accentuato e di una crescente strutturazione (fase brahmanica). Nel VI secolo a. C. nasce, al confine tra Nepal e India, Siddharta Gautama, che, dopo essersi unito a una scuola brahmanica, se ne allontana quasi subito e darà vita al buddhismo (Buddha significa il risvegliato). L’induismo e il buddhismo convivranno in India per un lungo periodo, fino a quando (nel VII
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secolo d. C.) il buddhismo non sarà bandito dal paese. Gli ulteriori sviluppi dell’induismo, che rimarrà sempre diffuso capillarmente nel territorio indiano, sono legati alle città in cui sorgevano le principali scuole (Dvārakā, Sringeri, Puri e, nel periodo moderno, Nāvadvı̄pa e Calcutta). Il buddhismo, bandito dall’India, si diffonderà in tutta l’Asia (raggiungendo successivamente Afghanistan, Tibet, Cina, Corea, Giappone, Birmania, Indonesia). Di particolare importanza è per la storia e la diffusione del buddhismo l’isola di Sri Lanka dove, nel I secolo a. C., furono raccolti e messi per iscritto i testi della tradizione buddhista.
ella Cina del VI secolo a. C., epoca in cui fu attivo Confucio, l’indirizzo culturale dominante era quello del taoismo. Confucio, riprendendo e rinnovando le antiche dottrine tradizionali, diede vita ad una filosofia che si diffuse in tutto il paese, in particolare nella parte orientale, quella più urbanizzata e culturalmente più attiva. Il primo e più importante centro di sistematizzazione e diffusione del confucianesimo fu Qufu, nei pressi della quale Confucio era nato. Centri di studio e diffusione del confucianesimo sorsero in particolare a Chang’an, Luoyang, ma anche nei pressi di Nanjing e a Jingzhou, più a sud. Solo successivamente anche il nord del paese, Beijing in particolare, dimostra una certa vivacità filosofica.
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Tra il I e il V secolo d. C., si diffonde in Cina il buddhismo, introdotto da alcuni missionari; a partire dal VI secolo d. C. si assiste all’integrazione del buddhismo classico con elementi tratti dal confucianesimo, con la conseguente nascita di nuovi orientamenti dottrinali che fioriscono grazie alla creazione di monasteri buddhisti in particolare a Lu Shan e Tiantai Shan, nel sud del paese. È in questo contesto che nasce tra gli altri orientamenti il buddismo Ch’an, che è storicamente alla base della nascita e dello sviluppo del buddhismo Zen, diffuso in Corea e Giappone a partire dal XII secolo. Fu in particolare in età moderna (XII-XIV secolo d. C.) che il confronto tra buddhismo Zen e neoconfucianesimo divenne più intenso.
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La filosofia indiana e il buddhismo (VI secolo a. C. - VII secolo d. C.)
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Confucianesimo e buddhismo in oriente (VII secolo a. C. - XIV secolo d. C.)
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n India si era diffusa, a partire dal II millennio a. C., una religione composita che prende il nome di induismo. I luoghi in cui l’induismo è nato e dai quali si è poi diffuso sono nel nord dell’India, lungo il corso del fiume Gange. Tra il X e il VII secolo a. C. l’induismo conosce uno sviluppo in direzione di un ritualismo sempre più accentuato e di una crescente strutturazione (fase brahmanica). Nel VI secolo a. C. nasce, al confine tra Nepal e India, Siddharta Gautama, che, dopo essersi unito a una scuola brahmanica, se ne allontana quasi subito e darà vita al buddhismo (Buddha significa il risvegliato). L’induismo e il buddhismo convivranno in India per un lungo periodo, fino a quando (nel VII
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secolo d. C.) il buddhismo non sarà bandito dal paese. Gli ulteriori sviluppi dell’induismo, che rimarrà sempre diffuso capillarmente nel territorio indiano, sono legati alle città in cui sorgevano le principali scuole (Dvārakā, Sringeri, Puri e, nel periodo moderno, Nāvadvı̄pa e Calcutta). Il buddhismo, bandito dall’India, si diffonderà in tutta l’Asia (raggiungendo successivamente Afghanistan, Tibet, Cina, Corea, Giappone, Birmania, Indonesia). Di particolare importanza è per la storia e la diffusione del buddhismo l’isola di Sri Lanka dove, nel I secolo a. C., furono raccolti e messi per iscritto i testi della tradizione buddhista.
ella Cina del VI secolo a. C., epoca in cui fu attivo Confucio, l’indirizzo culturale dominante era quello del taoismo. Confucio, riprendendo e rinnovando le antiche dottrine tradizionali, diede vita ad una filosofia che si diffuse in tutto il paese, in particolare nella parte orientale, quella più urbanizzata e culturalmente più attiva. Il primo e più importante centro di sistematizzazione e diffusione del confucianesimo fu Qufu, nei pressi della quale Confucio era nato. Centri di studio e diffusione del confucianesimo sorsero in particolare a Chang’an, Luoyang, ma anche nei pressi di Nanjing e a Jingzhou, più a sud. Solo successivamente anche il nord del paese, Beijing in particolare, dimostra una certa vivacità filosofica.
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Tra il I e il V secolo d. C., si diffonde in Cina il buddhismo, introdotto da alcuni missionari; a partire dal VI secolo d. C. si assiste all’integrazione del buddhismo classico con elementi tratti dal confucianesimo, con la conseguente nascita di nuovi orientamenti dottrinali che fioriscono grazie alla creazione di monasteri buddhisti in particolare a Lu Shan e Tiantai Shan, nel sud del paese. È in questo contesto che nasce tra gli altri orientamenti il buddismo Ch’an, che è storicamente alla base della nascita e dello sviluppo del buddhismo Zen, diffuso in Corea e Giappone a partire dal XII secolo. Fu in particolare in età moderna (XII-XIV secolo d. C.) che il confronto tra buddhismo Zen e neoconfucianesimo divenne più intenso.
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La sistematizzazione del cristianesimo (IV-V secolo d.C.)
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La filosofia nel Medioevo (X-XIII secolo d.C.)
IL CAMMINO DELLE IDEE
a filosofia medievale conosce diverse fasi di sviluppo e diversi autori di grande importanza. La filosofia viene praticata prima nei monasteri (Bec, Clairvaux), poi anche nelle città in cui sorgono alcune scuole urbane (Chartres, Canterbury) e le prime università (Bologna, Oxford, Cambridge, Parigi). Il centro culturale più importante d’Europa è, nel Basso Medioevo, la città di Parigi, dove fioriscono gli studi filosofici e religiosi e dove molti intellettuali si recano a studiare e/o a insegnare. Significativo in particolare il costante movimento di uomini e idee che si riscontra tra Parigi e Oxford, che si avvia a diventare uno dei poli culturali più importanti d’Europa: molti studiosi si trasferiscono prima in una poi nell’altra città, seguendo i movimenti dei principali intellettuali del periodo bassomedievale. Se la cultura occidentale cristiana ha nel Medioevo il suo culmine lungo l’asse Oxford-Parigi, la filosofia araba conosce a sua volta, in anticipo rispetto a quanto accade in Europa, sviluppi significativi. È in partico-
L n poco meno di quattro secoli il cristianesimo diverrà, da culto malvisto e perseguitato, unica religione dell’Impero romano. Questa diffusione è stata resa possibile da un incessante lavoro di strutturazione concettuale e di stabilizzazione dottrinale, capace di rendere il cristianesimo una religione il più possibile organica: ne sono testimonianza le opere dei tre padri di Cappadocia (Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo e Basilio di Cesarea) e i concili ecumenici di Nicea (325, in cui si giunse alla prima formulazione del Credo, la professione di fede cristiana), Costantinopoli (381), Efeso (431) e Calcedonia (451). Intanto il cristianesimo, ormai ben radicato in Asia minore e nella Grecia continentale, si andava diffondendo tanto nel Nord dell’Africa quanto in
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Europa, in particolare in alcune città: significativi a questo proposito i viaggi di Agostino, che trasferitosi in Italia da Tagaste si converte anche grazie alla conoscenza di Ambrogio, arcivescovo di Milano, e poi torna in Nordafrica e diviene vescovo di Ippona. In alcuni centri rimangono attive scuole filosofiche di primaria importanza: in questo periodo vanno segnalate in particolare le scuole neoplatoniche di Alessandria, Atene, Pergamo e Roma. La presenza nei medesimi centri di scuole neoplatoniche e di importanti istituzioni cristiane ha sicuramente facilitato la mediazione culturale tra queste due tradizioni e ha comportato un primo avvicinamento della religione cristiana alla filosofia platonica e neoplatonica e ai suoi concetti fondamentali.
lare in alcuni centri come Baghdad, Gerusalemme e Damasco che la filosofia araba ha le sue scuole più importanti. Centro di primaria importanza è anche Cordoba, dove nel XII secolo sarà attivo Ibn-Rushd (Averroè), il più importante commentatore di Aristotele. La filosofia araba è infatti il tramite grazie a cui l’occidente cristiano conosce alcune tra le più importanti opere del grande filosofo greco, opere che in occidente non erano giunte e che invece gli Arabi possedevano. Lo stesso san Tommaso si servirà di opere aristoteliche tradotte dall’arabo e alcuni concetti fondamentali della sua filosofia sono chiaramente influenzati dall’aristotelismo arabo. Possiamo così tracciare il percorso che le opere di Aristotele hanno idealmente compiuto nel corso di 1500 anni: da Atene, dove il filosofo fu attivo, ad Alessandria, dove le sue opere vennero raccolte, per poi essere diffuse in tutto il mondo arabo da Bukhara a Cordoba, dove la mediazione con il mondo cristiano le portò a Parigi e da lì ad Oxford.
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La sistematizzazione del cristianesimo (IV-V secolo d.C.)
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La filosofia nel Medioevo (X-XIII secolo d.C.)
IL CAMMINO DELLE IDEE
a filosofia medievale conosce diverse fasi di sviluppo e diversi autori di grande importanza. La filosofia viene praticata prima nei monasteri (Bec, Clairvaux), poi anche nelle città in cui sorgono alcune scuole urbane (Chartres, Canterbury) e le prime università (Bologna, Oxford, Cambridge, Parigi). Il centro culturale più importante d’Europa è, nel Basso Medioevo, la città di Parigi, dove fioriscono gli studi filosofici e religiosi e dove molti intellettuali si recano a studiare e/o a insegnare. Significativo in particolare il costante movimento di uomini e idee che si riscontra tra Parigi e Oxford, che si avvia a diventare uno dei poli culturali più importanti d’Europa: molti studiosi si trasferiscono prima in una poi nell’altra città, seguendo i movimenti dei principali intellettuali del periodo bassomedievale. Se la cultura occidentale cristiana ha nel Medioevo il suo culmine lungo l’asse Oxford-Parigi, la filosofia araba conosce a sua volta, in anticipo rispetto a quanto accade in Europa, sviluppi significativi. È in partico-
L n poco meno di quattro secoli il cristianesimo diverrà, da culto malvisto e perseguitato, unica religione dell’Impero romano. Questa diffusione è stata resa possibile da un incessante lavoro di strutturazione concettuale e di stabilizzazione dottrinale, capace di rendere il cristianesimo una religione il più possibile organica: ne sono testimonianza le opere dei tre padri di Cappadocia (Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo e Basilio di Cesarea) e i concili ecumenici di Nicea (325, in cui si giunse alla prima formulazione del Credo, la professione di fede cristiana), Costantinopoli (381), Efeso (431) e Calcedonia (451). Intanto il cristianesimo, ormai ben radicato in Asia minore e nella Grecia continentale, si andava diffondendo tanto nel Nord dell’Africa quanto in
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Europa, in particolare in alcune città: significativi a questo proposito i viaggi di Agostino, che trasferitosi in Italia da Tagaste si converte anche grazie alla conoscenza di Ambrogio, arcivescovo di Milano, e poi torna in Nordafrica e diviene vescovo di Ippona. In alcuni centri rimangono attive scuole filosofiche di primaria importanza: in questo periodo vanno segnalate in particolare le scuole neoplatoniche di Alessandria, Atene, Pergamo e Roma. La presenza nei medesimi centri di scuole neoplatoniche e di importanti istituzioni cristiane ha sicuramente facilitato la mediazione culturale tra queste due tradizioni e ha comportato un primo avvicinamento della religione cristiana alla filosofia platonica e neoplatonica e ai suoi concetti fondamentali.
lare in alcuni centri come Baghdad, Gerusalemme e Damasco che la filosofia araba ha le sue scuole più importanti. Centro di primaria importanza è anche Cordoba, dove nel XII secolo sarà attivo Ibn-Rushd (Averroè), il più importante commentatore di Aristotele. La filosofia araba è infatti il tramite grazie a cui l’occidente cristiano conosce alcune tra le più importanti opere del grande filosofo greco, opere che in occidente non erano giunte e che invece gli Arabi possedevano. Lo stesso san Tommaso si servirà di opere aristoteliche tradotte dall’arabo e alcuni concetti fondamentali della sua filosofia sono chiaramente influenzati dall’aristotelismo arabo. Possiamo così tracciare il percorso che le opere di Aristotele hanno idealmente compiuto nel corso di 1500 anni: da Atene, dove il filosofo fu attivo, ad Alessandria, dove le sue opere vennero raccolte, per poi essere diffuse in tutto il mondo arabo da Bukhara a Cordoba, dove la mediazione con il mondo cristiano le portò a Parigi e da lì ad Oxford.
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