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1.3 Cos’è un gioco: qualche idea

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Introduzione

Introduzione

14 rato lo si debba fare senza riuscire a chiarire in modo non equivoco di cosa si sta scrivendo. In accordo alla considerazione di Wittgenstein, potremmo dunque decidere che domande come “cos’è un gioco?” e “come riconosciamo se una certa attività è un gioco?” non ammettano una risposta sufficientemente condivisibile e utile, e con ciò rinunciare a dare un contesto a quanto segue, da subito cominciando a raccontare la nostra esperienza con il gioco nella scuola: “non l’abbiamo spiegato, tanto meno definito, ma ci capiamo lo stesso”.

In effetti, è plausibile che chi si prefigge di creare un gioco abbia un’idea almeno generica di cosa intende produrre, ma è anche un fatto che i piccoli, della nostra specie e non solo, sanno giocare ancor prima che qualcuno glielo insegni loro. È il segno di un’ambiguità profonda: da una parte, inventiamo giochi; dall’altra, nasciamo sapendo giocare. Questo sembra suggerire l’ipotesi che giocare sia evolutivamente vantaggioso: ma perché l’evoluzione dovrebbe favorire gli individui che sanno giocare? E come la comprensione di questa almeno parziale innatezza del gioco (per altro comunque solo parziale: non si nasce sapendo giocare a scacchi, e si continua a imparare a giocare…) potrebbe aiutarci a progettare percorsi di apprendimento efficaci e in cui il gioco ha un ruolo significativo?

Con queste domande in sottofondo, e senza alcuna pretesa di originalità e consapevoli della complessità dell’argomento, proponiamo qualche ipotesi sulla natura del gioco e sul suo ruolo come strumento educativo: saranno la base per le considerazioni più operative che seguiranno.

1.3 Cos’è un gioco: qualche idea

Nella nostra vita facciamo cose, e le cose che facciamo hanno un contesto, che non controlliamo o controlliamo solo in parte. E il contesto condiziona noi e le cose che facciamo, e le cose che facciamo hanno conseguenze nel contesto. E così, se abbiamo fame dobbiamo mangiare, e se non mangiamo la fame ci rimane, e questa è una situazione che non possiamo evitare: non c’è un modo per creare uno spazio protetto e isolato dal contesto circostante, per cui entrando in questo spazio non sentiremmo la fame. È per questo che avere fame non è un gioco. Quando giochiamo a un gioco che è e riconosciamo come tale, assumiamo invece che le cose che facciamo giocando si svolgano in uno spazio che è delimitato rispetto al contesto. Potrebbe essere che nel gioco il personaggio che abbiamo impersonato sia affamato, e forse alla fine sia perfino morto di fame, ma a gioco concluso la situazione oggettiva è tornata a essere quella precedente: siamo ancora noi stessi, magari con un senso di sfida a cercare di fare meglio la prossima volta.

Quando giochiamo, tracciamo dunque un’ideale linea di demarcazione tra le cose che facciamo giocando e tutto il resto, tra lo spazio del gioco e il contesto esterno al gioco8, e intorno a questa linea si sviluppa il senso del gioco come esperienza, e dunque come possibile esperienza educativa. Infatti, con questa la linea di demarcazione stabiliamo un confine tra ciò che è gioco e ciò che non lo è (se il gioco prevede di poter aver fame, aver fame nel gioco non ha conseguenze sull’avere o non avere fame fuori dal gioco), e nonostante ciò non isoliamo completamente il gioco dal resto della nostra esperienza: rimaniamo noi stessi al di qua e al di là della linea. Se poi il gioco non è individuale, all’interno della linea si trovano tutti i partecipanti, e questo, alla ben nota condizione “che tutti rispettino le regole del gioco”, crea uno spazio di gioco condiviso socialmente.

Grazie a questa linea di demarcazione, sospendiamo dunque temporaneamente le connessioni oggettive tra quello che facciamo giocando e tutto il resto9, sostituendole con la costruzione che il gioco stesso prevede. Svincolato dalle condizioni del contesto esterno, il gioco ci si presenta così come un’entità sufficientemente ben definita, sovente attraverso delle regole che stabiliscono le cose che, nel contesto spazio-temporale demarcato, si possono o si devono fare e quelle che non si possono o non si devono fare.

Il gioco è perciò innanzitutto un’esperienza che nasce da una condizione di soggettività: chi gioca traccia nel suo qui-e-ora una linea con cui decide gli

contesto esterno al gioco

spazio del gioco

linea di demarcazione

8. Poiché non abbiamo la possibilità di dimostrare che la nostra vita non sia parte di una simulazione – si veda al proposito l’ampia e spesso affascinante analisi di David Chalmers (2022) – potrebbe essere che l’intera nostra esperienza sia parte di un gioco che qualcuno o qualcosa sta giocando con noi, a nostra insaputa. Ma il fatto che nella nostra vita non percepiamo alcuna linea di delimitazione, se non quelle che introduciamo noi appunto per creare spazi di gioco, fa sì che, per quanto ne siamo consapevoli, “la vita non è un gioco”. 9. Stiamo facendo riferimento qui al concetto di “cerchio magico” accennato da Johannes Huizinga (1944), e sviluppato da Katie Salen e Eric Zimmerman (2003). Se ne veda un commento critico, da parte dello stesso Zimmerman, in un articolo consultabile all’indirizzo www.gamedeveloper.com/ design/jerked-around-by-the-magic-circle---clearing-the-air-ten-years-later. 15

aspetti di sé che può e vuole, appunto, mettere in gioco. È per questo che il gioco non può che essere un’attività volontaria: se ci viene imposto, la linea di demarcazione si apre, e con l’imposizione il contesto esterno irrompe nello spazio del gioco e lo distrugge, o almeno riduce l’essere gioco di quello che rimane all’interno dello spazio. Se si impone di giocare, quello che si ottiene non è più gioco. Ed è per ragioni analoghe che non rispettare le regole, il barare, il cheating, “non vale”: perché spezza dall’interno la linea di demarcazione e fa assomigliare quello che resta del gioco a quello che era rimasto al di fuori della linea.

Ma, fintanto che la linea di demarcazione è integra, colui che gioca si mantiene in uno spazio di cui ha scelto (o ha negoziato la scelta del)la struttura, che gli si manifesta attraverso le regole del gioco. Prima di essere giocato, un gioco coincide con le sue regole, la cui conoscenza è quindi precondizione per poter giocare; quando è giocato, un gioco è un’esperienza: è plausibile che sia intorno a queste due dimensioni complementari – le regole e ciò che genera l’esperienza – che si può sviluppare il progetto di un percorso di apprendimento basato sul gioco, dunque un percorso di game-based learning.

Abbiamo considerato che se non è scelto non è un gioco. Grazie a come le regole del gioco sono formulate, questa scelta può essere modulata, consentendoci di configurare il gioco, e ultimamente di decidere “a che gioco vogliamo giocare”. In funzione del grado di difficoltà che scegliamo per il gioco, per esempio attraverso i “livelli” di certi videogiochi, ci mettiamo alla prova oppure ci rilassiamo; in funzione del grado di interattività facciamo un’espe-

spazio del gioco

spazio del gioco

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QUAD RICER 66 GIOCARE SCUOLA QUESTO VOLUME, SPROVVISTO DI TALLONCINO A FRONTE (O OPPORTUNAMENTE PUNZONATO O ALTRIMENTI CONTRASSEGNATO), È DA CONSIDERARSI COPIA DI SAGGIO - CAMPIONE GRATUITO, FUORI COMMERCIO (VENDITA E ALTRI ATTI DI DISPOSIZIONE VIETATI: ART. 21, L.D.A.). ESCLUSO DA I.V.A. (DPR 26-10-1972, N.633, ART. 2, 3° COMMA, LETT. D.). ESENTE DA DOCUMENTO DI TRASPORTO.

Giocare a scuola

Questo libro si rivolge a persone – docenti di scuola ma non solo – interessate a comprendere se e come a scuola il gioco possa essere un contesto e uno strumento a supporto dell’apprendimento. Nasce non da un’analisi teorica, ma da un’esperienza concreta di progettazione e realizzazione di un serious game sui temi della cittadinanza digitale. L’esperienza ha indotto gli autori a domandarsi con quali finalità e a quali condizioni il gioco possa essere inserito in una progettazione didattica che faciliti l’apprendimento. Non è la stessa cosa, infatti, scegliere di far giocare per generare interesse e motivazione, per attivare dinamiche interpersonali come la collaborazione, l’emulazione, la competizione, per mettere alla prova e valutare la qualità di un apprendimento acquisito altrimenti, o per contribuire direttamente all’apprendimento stesso. Il gioco ha poi una dimensione inerentemente soggettiva, e se lo si impone non è più gioco. Per far sì che nella scuola si possa davvero far giocare, occorre in qualche modo riuscire a sospendere, almeno temporaneamente, la dimensione dell’obbligo scolastico: i docenti lo propongono, ma sono gli studenti a sceglierlo, e quindi, appunto, a mettersi in gioco. La riflessione su questi aspetti costituisce la prima parte – “Il gioco a scuola” – del presente volume. Nella seconda parte – “Un gioco a scuola” – si racconta e analizza l’esperienza del serious game Digitalscape, anche dando la parola ad alcuni docenti che hanno scelto di proporlo a una loro classe. Il gioco online, realizzato non da game designer professionisti ma da docenti e specialisti della formazione, nelle diverse e successive edizioni ha coinvolto varie migliaia di studenti di scuola secondaria su tutto il territorio nazionale.

Luca Mari è professore ordinario presso la Scuola di Ingegneria Industriale dell’Università Cattaneo – LIUC, dove è docente titolare dei corsi di Analisi dei Dati Sperimentali e Statistica, Teoria dei Sistemi / Systems Theory, e Digital Thinking. Maria Rita Manzoni è docente di scuola media superiore e componente dell’Equipe Territoriale Formativa del Ministero dell’Istruzione per la promozione e diffusione della didattica digitale. Andrea Maiello insegna nella scuola secondaria di primo grado e tiene corsi di formazione e laboratori sulla costruzione di ambienti di apprendimento on line, sulla flipped classroom, sul game-based learning e, in generale, sulla didattica assistita dalle tecnologie.

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GIOCARE A SCUOLA

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