Quaderno della ricerca #65

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Giocare a scuola

rato lo si debba fare senza riuscire a chiarire in modo non equivoco di cosa si sta scrivendo. In accordo alla considerazione di Wittgenstein, potremmo dunque decidere che domande come “cos’è un gioco?” e “come riconosciamo se una certa attività è un gioco?” non ammettano una risposta sufficientemente condivisibile e utile, e con ciò rinunciare a dare un contesto a quanto segue, da subito cominciando a raccontare la nostra esperienza con il gioco nella scuola: “non l’abbiamo spiegato, tanto meno definito, ma ci capiamo lo stesso”. In effetti, è plausibile che chi si prefigge di creare un gioco abbia un’idea almeno generica di cosa intende produrre, ma è anche un fatto che i piccoli, della nostra specie e non solo, sanno giocare ancor prima che qualcuno glielo insegni loro. È il segno di un’ambiguità profonda: da una parte, inventiamo giochi; dall’altra, nasciamo sapendo giocare. Questo sembra suggerire l’ipotesi che giocare sia evolutivamente vantaggioso: ma perché l’evoluzione dovrebbe favorire gli individui che sanno giocare? E come la comprensione di questa almeno parziale innatezza del gioco (per altro comunque solo parziale: non si nasce sapendo giocare a scacchi, e si continua a imparare a giocare…) potrebbe aiutarci a progettare percorsi di apprendimento efficaci e in cui il gioco ha un ruolo significativo? Con queste domande in sottofondo, e senza alcuna pretesa di originalità e consapevoli della complessità dell’argomento, proponiamo qualche ipotesi sulla natura del gioco e sul suo ruolo come strumento educativo: saranno la base per le considerazioni più operative che seguiranno.

1.3 Cos’è un gioco: qualche idea

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Nella nostra vita facciamo cose, e le cose che facciamo hanno un contesto, che non controlliamo o controlliamo solo in parte. E il contesto condiziona noi e le cose che facciamo, e le cose che facciamo hanno conseguenze nel contesto. E così, se abbiamo fame dobbiamo mangiare, e se non mangiamo la fame ci rimane, e questa è una situazione che non possiamo evitare: non c’è un modo per creare uno spazio protetto e isolato dal contesto circostante, per cui entrando in questo spazio non sentiremmo la fame. È per questo che avere fame non è un gioco. Quando giochiamo a un gioco che è e riconosciamo come tale, assumiamo invece che le cose che facciamo giocando si svolgano in uno spazio che è delimitato rispetto al contesto. Potrebbe essere che nel gioco il personaggio che abbiamo impersonato sia affamato, e forse alla fine sia perfino morto di fame, ma a gioco concluso la situazione oggettiva è tornata a essere quella precedente: siamo ancora noi stessi, magari con un senso di sfida a cercare di fare meglio la prossima volta.


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