della Ricerca
Elementi di etica digitale
Opportunità, impatti e rischi delle tecnologie
a cura di Pietro Jarre e Gianni Garbarini con un’introduzione di Marco Pozzi
Quaderni della Ricerca 78
Elementi di etica digitale
Opportunità, impatti e rischi delle tecnologie a cura di Pietro Jarre e Gianni Garbarini
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Ristampe 6 5 4 3 2 1 N
2030 2029 2028 2027 2026 2025 2024
ISBN 9788820139230
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Prefazione
Il Digital Ethics Forum (DEF) è un evento annuale che si rivolge a docenti e studenti, professionisti, lavoratori, cittadini e mira a promuovere un uso etico del web. Promosso da Sloweb, il DEF è dedicato a temi dell’etica nella produzione, nella distribuzione e nell’uso delle tecnologie digitali e nell’informatica. Il metodo di analisi prende in esame i valori e i modelli sociali generati dalle tecnologie, non privilegia l’analisi di dettaglio, lo studio o la divulgazione delle tecnologie stesse.
Nel campo dell’intelligenza artificiale (IA), per esempio, il DEF si propone di diffondere gli studi sull’impatto sociale del machine learning, sulle conseguenze dell’immissione sregolata sul mercato di massa di prodotti di IA generativa (dopo anni di fertile e accurato impiego dell’IA nella diagnostica in molti settori della scienza e della tecnica), sui modelli sociali ed economici che vengono proposti/riproposti/imposti dalla stessa industria digitale che ne fa un business. Il taglio degli interventi è divulgativo ed educativo; si cerca di limitare il dibattito intellettualistico, favorendo invece la disseminazione di informazione e conoscenza. Ogni DEF si svolge in tre o quattro sessioni di due/tre ore ciascuna. Dal 2020 l’evento è anche online, e dal 2022 in forma ibrida – online e in presenza.
Si riportano in questo volume 39 interventi delle edizioni 2021 e 2022 svolte in collaborazione con il Centro Einaudi e con la rivista online «Mondo Economico». Gli interventi sono disponibili sul canale Sloweb di YouTube, con un altro centinaio degli altri eventi. Le relazioni del DEF 2020 erano state pubblicate nel 2022 con il titolo Manuale di InformEtica, in questa stessa collana, I Quaderni della Ricerca #62.
Sloweb è un’associazione senza fini di lucro fondata nel 2017 per promuovere l’uso responsabile degli strumenti informatici, del web e delle applicazioni internet attraverso attività di informazione, educazione e lotta agli usi impropri – da parte di organizzazioni di ogni natura – per rendere il web più sicuro, libero, equo ed etico per tutti. Sloweb sostiene che il web è uno straordinario mezzo di trasmissione del sapere, della memoria e delle informazioni
di qualità, e riconosce le enormi opportunità e il potenziale delle tecnologie digitali, anche per facilitare l’inclusione delle persone con disabilità.
Al tempo stesso, Sloweb sottolinea che l’uso delle tecnologie informatiche interferisce a fondo con la parte meno razionale e più emotiva e inconscia della natura umana, prestandosi a possibili manipolazioni, raggiri e sfruttamento. In Sloweb consideriamo quindi sia le opportunità sia i rischi, nonché i fenomeni sociali da valutare con attenzione e, in casi specifici, contrastare. Ci impegniamo a proteggere i diritti fondamentali delle persone anche sul terreno particolare della gestione ecologica dei dati digitali: ridurre, proteggere, selezionare, possedere, cancellare e gestire la propria eredità digitale.
Tutti coloro che aderiscono a Sloweb si impegnano a condividere e promuovere i principi e le iniziative dell’associazione in Italia e nel mondo; alcune aziende e organizzazioni – Transiti, Escamotages, Smart flow e Il Nodo Group – sostengono Sloweb. In occasione dei DEF 2021 e 2022 diversi sponsor come Frontiere, Piano D, eMemory, eLegacy, Etica sgr e la Banca Credito Cooperativo di Cherasco hanno sostenuto le spese di organizzazione, mentre tra gli altri UniTo, PoliTo, Città di Torino e Informatici Senza Frontiere hanno concesso il loro patrocinio.
Tra le attività svolte dal 2017 al 2023 dall’associazione – oltre a diversi progetti, illustrati sul sito www.sloweb.org – ricordiamo quelle più vicine alle tematiche trattate in questo volume. Nel maggio 2017, Verso una rete responsabile, convegno di lancio della associazione, i cui atti sono stati pubblicati in Sloweb. Piccolo manuale per l’uso responsabile del web, Golem Edizioni, 2018, a cura di Pietro Jarre e Federico Bottino, con prefazione di Enrico Deaglio. E ancora, il convegno Storia e memoria al tempo del web, nel novembre 2017; nel 2018, il convegno Archivi, selezione, eredità digitale.
Corsi e interventi di educazione civica digitale presso la Biblioteca Civica di Torino, l’Università della Terza Età, scuole e istituti, citiamo: nel 2019-2021 presso l’istituto IPSSEOA “Pietro Piazza” di Palermo, per conto del centro Poveda e l’istituzione Teresiana; nel 2018 con gli studenti del liceo Copernico di Torino, per Biennale Democrazia; nel 2019 e 2020 presso il Politecnico di Torino L’uso ecologico dei dati digitali e Limiti dello sviluppo digitale: tecnologici, etici, comportamentali. Inoltre: Digitale e diritto per Fondazione Croce e Ordine Avvocati Torino. 2020: Sulle tracce del coronavirus. App di tracciamento, strumenti e problematiche per le Biblioteche Civiche Torinesi, in collaborazione con SPI-CGIL, e Algoritmi, bias algoritmici e dati ostili per ISMEL, e altri più recenti, riportati sul sito dell’associazione.
Con questi convegni, corsi di educazione civica digitale, istruzione sull’IA e gli algoritmi, ci siamo all’inizio rivolti ai cittadini-utenti, nelle scuole e negli uffici, quindi sempre più sovente all’industria che produce e usa software e tecnologie digitali: dai diritti dei cittadini per un’innovazione sicura
etica e sostenibile alla responsabilità dell’industria nella produzione e uso di prodotti e tecnologie digitali.
Un digitale sostenibile, equo ed etico non può fare a meno di una maggiore consapevolezza da parte dei tecnici sui valori che anche inavvertitamente vengono diffusi con un certo uso delle tecnologie, sui rischi innescati quando si punta soltanto al profitto. Tra i relatori del DEF ci sono educatori e psicologi, filosofi e informatici, perché crediamo che solo competenze complementari in ambiente aperto permettano di individuare le iniziative concrete, utili e positive per un uso responsabile da parte dell’industria, e un uso consapevole da parte dei cittadini. Fondamentale riteniamo sia l’attenzione alla multidisciplinarietà come cardine dell’intervento metodologico.
A Sloweb, agli sponsor dei DEF 2021 e 2022, agli autori e autrici che hanno fatto gli interventi e controllato le trascrizioni (tradotte da noi per Tim Frick, Shalini Kurapati e Rob Price), a Patrizia Guerra che ha rivisto con grande attenzione la redazione e l’editing dei testi, ad Andrea Calderini che ha curato la comunicazione degli eventi, e infine ai moderatori Alfredo Adamo, Nicola Bonotto, Lucia Confalonieri, Maria Letizia Filippi, Franco Marra e Anna Pisterzi vanno i nostri più sinceri ringraziamenti.
Pietro Jarre e Gianni Garbarini
Torino, 10 ottobre 2023
Introduzione Parole al silicio
di Marco PozziIl 22 aprile 1821, nello Zibaldone, Giacomo Leopardi scrive:
La scrittura dev’essere scrittura e non algebra; deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole così rappresentate Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee Che altro è questo se non ritornare l’arte dello scrivere all’infanzia?
Nel 1966 Primo Levi pubblica la raccolta di racconti Storie naturali, firmandosi con lo pseudonimo Damiano Malabaila. Fra i testi si trova Il Versificatore, nel quale un poeta, per accorciare i tempi nelle composizioni, acquista un macchinario che, dopo aver impostato alcuni parametri – argomento, registro, forma metrica, determinazione temporale – genera perfette poesie, ineccepibili nello stile. Del racconto esiste anche un cortometraggio del 1971, con Milena Vukotic e regia di Massimo Scaglione (ritrovabile su YouTube). Leopardi aveva previsto le emoticon e Primo Levi ChatGPT?
Da sempre l’essere umano cerca di prevedere il futuro, dalle viscere alle stelle, dall’oracolo di Delfi sino ai calcoli degli ingegneri, o alla fantascienza. Studiare il presente, coglierne alcuni segni, prefigurarsi cosa sta per accadere e agire nel modo migliore.
Così anche il Digital Ethics Forum (DEF). Organizzato dall’associazione Sloweb, dalla sua prima edizione nel 2019 è arrivato nel 2023 alla sua quinta edizione, ospitando esperti nazionali e internazionali per confrontarsi sui più attuali temi intorno alle tecnologie digitali. Nel 2021 e 2022 gli interventi sono stati nel complesso circa quaranta, divisi in due giorni, presentati dalla sede di «Mondo Economico» – Centro Einaudi Torino – conservando la modalità ibrida (in presenza e online) inaugurata nel 2020. I relatori provengono
da diversi ambiti disciplinari – psicologia, filosofia, informatica, istruzione –così che i problemi possano essere presentati e analizzati da diversi punti di vista, poggiando su metodologie e paradigmi ampi e complementari. In tal modo il Forum si rivolge a docenti e studenti, a professionisti e lavoratori, ma soprattutto diventa un luogo dove ogni cittadino e cittadina può attingere elementi di consapevolezza per un uso più consapevole del web.
Senza viscere né aruspici, il DEF cerca di analizzare il presente e tracciare qualche scenario futuro. Descrive i possibili, immagina i peggiori, lotta per i migliori. Non è fantascienza, ma elementi costruttivi di conoscenza. Anche le edizioni del 2021 e 2022 hanno cercato di interpretare l’attualità per capirci qualcosa di più, per essere in grado di anticipare gli sviluppi, prevedendo i rischi e partecipando alla formazione dei valori che le tecnologie portano, agendo verso uno sviluppo più etico.
Questi atti del DEF sono divisi in sei sezioni: Generali; Tecnologie digitali, dati e impatti; Dimensioni sociali: impatti e opportunità; Strumenti e organizzazioni per un web più sostenibile; Organizzazioni e imprese – esperienze verso la responsabilità digitale; Consumatori – esperienze da utenti a cittadini responsabili.
Che poi ci ritroviamo tutti, consapevoli o inconsapevoli, a doverci confrontare con questi argomenti, perché sono ormai parte integrante della nostra quotidianità. Così è stato presentato il Forum: «L’esigenza di educazione digitale nella nostra società è crescente; la trasformazione digitale imposta dal mercato e favorita dal Recovery Plan richiede consapevolezza di opportunità, limiti e rischi delle tecnologie; del loro impatto su ambiente, economia e società, delle conseguenze sui nostri diritti, le istituzioni giuridiche e le relazioni tra individui e istituzioni». Il libro contribuisce a questa consapevolezza.
I temi sono numerosi e si sviluppano, s’intrecciano, si completano. Alcuni ricorrono, altri irrompono d’improvviso, come qualcosa a cui non si era pensato prima. Di certo la varietà testimonia che il dibattito è più che presente negli ambienti accademici, nelle scuole e nelle aziende, nella Pubblica Amministrazione, e che non c’è più alcun ambito della nostra società immune dall’impatto delle tecnologie digitali. Occasioni come il DEF sono utili per informarsi, fissare idee ancora incerte, ma già nell’aria, in una forma un po’ più definitiva, permettendo di contaminarsi e arricchirsi reciprocamente.
Inizia il filosofo Cosimo Accoto a inquadrare il contesto, guardando dall’alto i cambiamenti che non riguardano soltanto l’informatica, ma l’intera società, nei comportamenti individuali e nelle istituzioni pubbliche, nei valori e nelle leggi collettive; anzi, è proprio il codice dei software che diventa un linguaggio, una nuova scrittura del mondo. E «prima la scrittura che normava il mondo era la legge, ma oggi il codice software sempre più – in forma per
esempio di piattaforma – reclama diritti di sovranità su questo pianeta; si candida a diventare nuova istituzione umana in qualche modo, essendo eseguibile ma non interpretabile». E allora il problema diventa: «che tipo di sostenibilità siamo in grado di garantire al pianeta una volta che il linguaggio che adottiamo e la scrittura che diventa dominante è quella del codice software»?
In tale dimensione cambiano le leggi, che secondo il giurista Oreste Pollicino non possono mirare a «nuove regole e nuove Carte dei diritti in considerazione del nuovo fattore tecnologico emergente», ma devono rivitalizzare i principi generali del diritto, adattandoli, senza stravolgerli, alle novità digitali. Inevitabili ovviamente le diversità, quindi i possibili contrasti fra ordinamenti nazionali, o addirittura sovrannazionali: per esempio fra Stati Uniti e Unione Europea, che deve comunque misurarsi col fatto di dover regolamentare l’azione di industrie che operano sui dati risiedendo in un altro continente.
I dati sono onnipresenti oggi, al pari dell’acqua corrente, come dice il ricercatore Giacomo Pezzano, una fonte di ricchezza, il nuovo petrolio, dopo l’oro, dopo l’oro nero: l’oro digitale «circola nell’atmosfera quasi come l’aria che respiriamo», ma «nessuno può rivendicarne il possesso esclusivo». Proprio per questa loro natura «i dati ci pongono strutturalmente di fronte a un enigma etico fondamentale: di chi diamine sono? Sono della fonte che li emette? Sono di chi li estrae? Sono di chi li conserva? Sono di chi li processa? Sono di tutti? Ma poi tutti chi: tutti proprio tutti indiscriminatamente? O – a conti fatti – di tutti coloro che sanno manipolarli e leggerli»?
Diva Tommei propone un accordo collettivo sui dati, una specie di contratto sociale intorno a due problemi centrali: «la questione della partecipazione e dell’accesso da un lato; dall’altro un problema con il modo in cui i dati delle persone che partecipano e sono in grado di partecipare vengono utilizzati». Se l’accesso alla banda larga è quasi «vitale per un’equa possibilità di vita nel XXI secolo, come probabilmente potevamo considerare l’elettricità per il XX secolo», il passaggio successivo è come gestire i dati che ciascuno genera con tale accesso. Contro il modello dei grandi data center delle multinazionali, che diventano Piattaforme di Sorveglianza, Tim Berners-Lee suggerisce invece archivi di dati online personali: i pods ( personal online data pods), dove ogni persona potrà controllare i propri dati. Inizialmente saranno forniti dai siti commerciali e «poi, una volta che il concetto decollerà, inizieranno a emergere servizi di dati personali a basso costo e gratuiti come l’email di oggi».
Sulla protezione dei dati parla il ricercatore Giacomo Conti, il quale identifica il rischio che vengano rubati oppure distorti per ledere qualcuno nella sua presenza online. Si profilano due «modelli alternativi: un modello in cui
l’utente è tutelato fino a che non decide di non esserlo, e un modello in cui l’utente non è tutelato fino a che decide di esserlo. In Europa noi abbiamo il primo di questi due modelli; qui noi tendiamo a tutelare l’utente che lui lo voglia oppure no […] Dall’altro abbiamo la visione americana».
L’Europa è un soggetto ricorrente nelle discussioni. Stefano Leucci racconta il lavoro del Garante Privacy europeo, «un’istituzione che ha il compito di supervisionare come le altre istituzioni – gli uffici, gli organi e le agenzie dell’Unione Europea – rispettino le normative in ambito protezione dei dati. […] L’obiettivo è quello di trovare una sorta di fronte comune contro i grandi del digitale, in modo da riuscire ad avere un bilanciamento adeguato in Europa, impossibile con le sole forze dei singoli Stati membri».
L’avvocato Carlo Blengino, a partire dal discorso del presidente Mattarella a Malaga nel 2021 («la sovranità, la sovranità europea, una “nostra” sovranità, in campo tecnologico e digitale, è, a questo riguardo, determinante»), riflette sulla sovranità digitale nazionale ed europea portando i casi del progetto GAIA-X per il cloud europeo, dell’impegno dell’ex ministro Vittorio Colao verso il cloud nazionale per la Pubblica Amministrazione italiana, dell’integrazione fra i servizi d’intelligence.
Oltre il ruolo delle istituzioni Maurizio Bulgarini avverte che Guardia di Finanza, Garante della privacy, Polizia Postale non saranno mai abbastanza efficaci se ciascuno non si impegnerà personalmente a difendere i propri diritti, e ricorda: «Dobbiamo fare i conti con un principio: code is law, la legge la fa il codice. Oggi l’innovazione digitale costruisce delle situazioni in cui il diritto non è mai entrato, e quindi non riesce a essere immediatamente efficace. È normale peraltro che la legge segua la tecnologia: per questo la legge in questo campo non deve dare precetti puntuali, che invecchiano subito, ma principi ispiratori. È quindi all’interno dei principi ispiratori che ho cercato gli spunti circa le opportunità del GDPR».
I dati ormai concorrono a formare l’identità di ciascuno, tanto che, accanto a quella biologica, si parla di identità digitale, o meglio, secondo Edwin Colella, di «moltitudini di identità digitali, […] rappresentate da ogni singolo accesso effettuato quotidianamente tramite diversi mezzi (dall’accesso al conto corrente online alla prenotazione di biglietti teatrali, dall’acquisto di un viaggio o di prodotti su piattaforme come Amazon, fino alla pubblicazione e alla lettura di contenuti sui nostri social media). Anche la sola navigazione, in maniera indiretta, con gli strumenti che tutti conoscono, come cookies e altri strumenti di tracciamento, lascia comunque tracce della nostra identità e dei nostri comportamenti». Perciò è più che mai necessario, ormai indispensabile, un uso consapevole dei nostri accessi, quali credenziali e password, per evitare furti ed hackeraggi, quanto sfruttamenti, benché legali, forse pericolosi.
Un utile servizio per gestire la propria identità è il Digital Trust, raccontato da Danilo Cattaneo, inteso come «la fiducia che il cliente (soprattutto il pubblico cittadino) ripone nelle capacità di un’organizzazione (sia privata che pubblica) di gestire i propri dati, garantendo sicurezza e legalità». Stabilendo un’identità digitale unica è possibile accedere a tutti i servizi in maniera riconoscibile, superando il moltiplicarsi delle autenticazioni dentro i singoli sistemi, come offre SPID.
Shalini Kurapati, amministratrice delegata di Clearbox AI, ci racconta come la sua azienda produca dati sintetici, cioè dati fittizi solitamente generati da algoritmi che servono per conservare le proprietà statistiche del campione originale ma tutelando la privacy dei soggetti; i nuovi dati fittizi possono servire per addestrare altri software e far funzionare in maniera più verosimile algoritmi in ambito bancario, medico, giuridico.
Non solo le aziende informatiche sono coinvolte nelle trasformazioni, bensì quelle d’ogni settore. Rob Price da Londra introduce il Manifesto della Corporate Digital Responsibility, fondato su sette principi, che riuniscono in un unico quadro aziendale problemi in precedenza gestiti singolarmente.
Pietro Terna e Daniele Ravasi si chiedono se gli oligopolisti, cioè i grandi operatori che dominano un mercato, non stiano diventando i veri attori di una pianificazione del mercato, oltre il ruolo storico di Stati e movimenti politici, senza che i cittadini possano più influenzare le decisioni. Caso emblematico è Amazon, che nei suoi primi anni fino al 2003-2004 ha avuto bilanci in passivo, esplodendo una volta raggiunta una massa critica, sempre con prezzi bassi e aumentando la connessione fra domanda e offerta (sono temi attuali che Pietro Terna rielabora costantemente in una rubrica online che suggeriamo di seguire, Punture di spillo, sulla rivista «La porta di vetro»).
Altra esperienza aziendale è quella di Enel, portata da Carlo Bozzoli, il quale, constatando che nelle aziende il 70% del codice nei software svolge le medesime funzioni – gestisce interfacce, login o messaggistica, risponde a certi criteri di sicurezza, ingloba API (Application Programming Interface) per estrarre dati – mentre solo il 30-40% del codice svolge un compito specifico del software di cui fa parte, si chiede se non sia possibile stabilire «una norma che definisca delle metriche sull’infrastruttura, sulle architetture applicative, sulle fasi del ciclo di vita di un progetto informatico, affinché si ritorni a sviluppare codice in modo sostenibile, perché il software e l’uso del software, la nostra vita nel mondo futuro avranno un grande bisogno di questo tipo di oggetti, e se ne farà gran consumo».
Annalisa Lantermo approfondisce gli effetti sulla salute in rapporto al lavoro, che durante la recente pandemia ha rivelato le possibilità del telelavoro insieme ai rischi per la salute che ne derivano, come ha rivelato uno studio presentato il 30 settembre 2021 dalla CGIL di Torino e dal Centro Ri-
cerche Themis. Su 3.378 lavoratori, sono emersi per il 35% disturbi muscoloscheletrici, per 35% affaticamento mentale, insieme a disturbi della vista (31%), stress (26%), ansia (21%), umore depresso (20%), instabilità emotiva (18%) e disturbi del sonno (14%).
Allora il problema diventa il contaminarsi del tempo del lavoro e del tempo fuori dal lavoro, con un’evoluzione del concetto di benessere, chiamato da Paola Parente «il nostro rapporto con la felicità», che va costruito sin dalla prima formazione, prima di entrare in azienda, senza abbandonare il desiderio di conoscere noi stessi e al tempo stesso di conoscere il mondo, per afferrarne la complessità e riuscire a viverci in un modo migliore – più felice, appunto.
Marco Bobbio in particolare si sofferma sul mestiere del medico di oggi, vedendolo come alla fine di un percorso secolare che lo ha portato ad allontanarsi dal paziente, da quando si auscultava poggiando l’orecchio direttamente sulla pelle del paziente sino all’attuale video-consulto. E non è solo una questione di hardware – dallo stetoscopio al monitor – ma di software, di Fascicoli Elettronici che accumulano dati e dati spesso ricavati da diagnostica non necessaria, nell’illusione che «più informazioni abbiamo a disposizione più si incrementi la possibilità di capire, di intervenire, di prevenire». Un uso invece equilibrato e ottimizzato, argomenta il professor Ugo Pagallo, potrebbe portare a migliorare l’organizzazione del sistema sanitario, riducendo sottoutilizzi e promuovendo una gestione razionale che possa almeno accorciare i tempi d’attesa per una visita specialistica.
Oltre le aziende, infatti, anche la Pubblica Amministrazione è parte della discussione. Non a caso nella ripresa post-pandemia la digitalizzazione siede in prima fila nel PNRR, illustrata da Enrico Capirone sotto due punti di vista: «il primo riguarda l’infrastruttura digitale e la connettività a banda ultra-larga, il secondo asse si concentra sugli interventi volti a trasformare la Pubblica Amministrazione in chiave digitale». Si tratta per ognuno di 7 miliardi di euro da investire in Italia nella Pubblica Amministrazione e nei Comuni, per portare a erogare i servizi online con un potenziale effetto soprattutto nei piccoli Comuni sotto i 5.000 abitanti, che rappresentano il 70% dei circa 8.000 Comuni italiani.
Se davvero si vogliono raggiungere obiettivi tanto ambiziosi non si può prescindere dalla progettazione, fin dall’inizio del processo. Mauro Filippi annota che «Siamo passati dalla fase di digitalizzazione dei decenni scorsi, a quella che oggi definiamo di transizione digitale. La prima aveva molto più a che fare con il passaggio tecnologico dal cartaceo al digitale. Oggi invece parliamo di digitale non più come un aspetto tecnologico, ma come nuovo paradigma ontologico». L’esperienza di Designers Italia e Developers Italia permette
di fornire nuovi strumenti di progettazione per la Pubblica Amministrazione, con l’obiettivo di realizzare servizi digitali equi, usabili e sostenibili.
Tali servizi, comunque, non possono funzionare senza il contributo dei dipendenti pubblici, il cui ruolo è evidenziato da Franco Carcillo, sin dal tipo di linguaggio che viene usato negli uffici pubblici, soprattutto in certi momenti urgenti, magari cruciali per la vita del cittadino.
La giustizia è senz’altro uno di quei sistemi pubblici in cui le vite dei cittadini passano, e il magistrato Valentina Sellaroli sottolinea quale ruolo deve iniziare a giocare la tecnologia, fin dal wi-fi mancante nei tribunali: «nello stato attuale della digitalizzazione della giustizia – in Italia e in generale in Europa e nel resto del mondo – dobbiamo distinguere tra vera e propria digitalizzazione e semplice digitalizzazione. Un discorso è cambiare radicalmente approccio alla gestione dei flussi del lavoro della giustizia, cioè immaginare un vero flusso digitale del processo, ed è questa la vera e propria digitalizzazione; altro discorso è banalmente affiancare il digitale al fascicolo cartaceo e al flusso tradizionale di lavoro nell’ambito del processo». E Sellaroli porta la testimonianza della sperimentazione e-CODEX, «uno strumento principale per garantire una rete di comunicazione decentralizzata fra sistemi informatici nazionali per procedimenti sia civili che penali transfrontalieri».
Fra Pubblica Amministrazione e aziende private Antonio Baldassarra, CEO di Seeweb, cerca una strada in cui etica e sostenibilità non siano in disaccordo con l’economia, focalizzandosi sulle grandi concentrazioni di infrastrutture e di potere. Per quanto riguarda le infrastrutture, cita il fatto che la quasi totalità dell’energia elettrica necessaria per alimentare l’infrastruttura dell’ICT se ne vada dispersa in calore. Per quanto riguarda il potere, concorrono elementi strategici meno evidenti, come il fatto che «gli Stati Uniti comprendono che andrebbe fatta a pezzi Alphabet, andrebbe fatta a pezzi Meta, e così via, perché generano una concentrazione pericolosa, però comprendono anche che per loro quelle aziende rappresentano una forza geopolitica non indifferente».
Giovanna Sissa specifica che la transizione digitale non è sinonimo di transizione ecologica, poiché il digitale può aiutare a ottimizzare alcuni processi, ma ha una sua materialità, con un impatto sull’ambiente: i data center, la trasmissione dati, i device (dagli smartphone ai computer) per essere realizzati con prestazioni sempre migliori richiedono estrazione ed elaborazione di molte materie prime in processi di fabbricazione energivori. Richiedono enormi quantità di energia elettrica per funzionare e dunque causano emissioni di carbonio, ma tali consumi elettrici avvengono nel cloud computing, al di fuori del nostro perimetro di controllo. Alcune stime, peraltro difficili e controverse: «guardare dieci minuti di streaming richiede quasi la stessa elettricità di un asciugacapelli per tre minuti; quattro ore alla settimana di
streaming video in alta definizione richiedono l’elettricità di un frigorifero. Poiché non vediamo e non paghiamo direttamente tali consumi pensiamo che non esistano».
Tim Frick elenca alcuni progetti volti al monitoraggio dei consumi energetici dei siti web: CO2 stats, una sorta di Google Analytics che installato su un sito ne calcola le corrispondenti emissioni in atmosfera; Eco Grader che esegue la scansione di un URL suggerendo la strategia per farlo diventare più efficiente; il Sustainable Web Manifesto, già firmato da oltre 2.500 persone.
E la sostenibilità ricade in una prospettiva più ampia e filosofica. Peppino Ortoleva ricorda che l’etica è parte dell’esistenza degli esseri umani, nella scelta fra bene e male, in un continuo confronto coi propri simili. Perciò anche il digitale ci si deve confrontare, oltre «le norme più o meno tascabili che si rivelano spesso ovvie» nelle deontologie: «parlare di etica dovrebbe voler dire quindi confrontarsi, a partire da quello che ci divide e da quello che ci accomuna, come singoli, come gruppi, come portatori di saperi, come portatori di ignoranze».
Marco Roberti, per ricordarci che la tecnologia non è neutra – non lo è la lavastoviglie, o il frigo, tanto meno la tecnologia digitale – ci racconta un semplice test: apriamo Google Translate e scriviamo: «I need a doctor», cioè «Ho bisogno di un dottore». La traduzione che ci viene proposta è proprio questa: semplice, lineare. Poi facciamo un esperimento, cambiando doctor con nurse: «ho bisogno di un’infermierA» traduce Google Translate. Assegnare il sesso femminile è un pregiudizio di genere, causato dal modo in cui è stato addestrato il software, che è stato appunto addestrato da esseri umani, perciò l’affermazione «l’intelligenza artificiale non ha pregiudizi, proprio come noi» significa in realtà «l’intelligenza artificiale ha gli stessi pregiudizi che abbiamo noi».
Pregiudizi di genere sottolineati anche da Mariella Berra, per cui è bene lavorare affinché l’interazione fra le discipline giochi «un ruolo importante nell’orientare le scelte formative in modo paritario» e promuova «quel processo di crescita delle competenze trasversali necessarie al mondo del lavoro e alla società nel suo complesso».
Ampliando il raggio intorno al digital gender gap, il tema dei diritti è più generale. Riccardo Maggiolo sviluppa un ragionamento sui divide nel digitale in relazione ai due concetti di uguaglianza ed equità nel mercato del lavoro e non solo, esplicitandoli attraverso un’immagine efficace: «vediamo […] una vignetta in cui ci sono tre personaggi: uno alto, uno medio e uno basso, che cercano di vedere oltre una staccionata. L’uguaglianza sarebbe dare a tutti e tre una cassetta di frutta su cui mettersi in piedi. Il risultato è che la persona alta che vedrebbe anche senza cassetta di frutta vede oltre lo steccato, la persona media ci riesce così così e la piccola comunque continua a non vedere;
l’equità sarebbe invece il dare due cassette di frutta al piccolino, una al medio e niente al grande in modo che tutti e tre possano vedere oltre lo steccato».
Per questo anche le migliori intenzioni devono essere calibrate con attenzione, fin nelle piccole scelte, negli ambienti quotidiani. E «che cos’è che rende etico un ambiente? Un ambiente può considerarsi etico se offre delle opportunità di umanizzazione, se l’umano può in qualche modo realizzarsi, esprimersi, completarsi, crescere, affrontare e sviluppare frontiere nuove». Così argomenta don Moreno Filipetto, testimoniando l’esperienza dell’Ufficio Stampa Salesiano, dove si cerca di fornire i mezzi per combattere l’analfabetismo funzionale, per riconquistare l’abc relazionale, per gestire la responsabilità, specialmente verso i più giovani, in particolar modo verso quei NEET (Not engaged in Education, Employment or Training) che non studiano, non lavorano, non si formano: gli inattivi.
Attivo è invece il servizio per l’Apostolato digitale, sollecitato da papa Francesco durante il Sinodo del 2019, e realizzato a Torino sotto la direzione di don Luca Peyron, che identifica due obiettivi: «riflettere su cosa significhi per il credente – cosa significhi per l’annuncio del Vangelo – la trasformazione digitale e i cambiamenti che il digitale determina nella vita delle persone»; «offrire al mondo, nel suo dialogo con la Chiesa, una riflessione globale su questi temi, portando l’esperienza di duemila anni di storia rispetto alle trasformazioni globali, all’antropologia, la filosofia e da ultimo la dottrina sociale della Chiesa».
Dentro tale complessità, verso una maggiore conoscenza collettiva, l’esperienza di Wikipedia raccontata da Miriam Redi è senz’altro emblematica del ruolo del digitale esploso negli ultimi due decenni tanto che oggi circa l’80% delle richieste a Google rimanda a Wikipedia, che fonda la sua credibilità su una comunità di volontari, i wikipediani, e su un modello di business no-profit, oltre che su regole che assicurano l’affidabilità dei contenuti nell’Enciclopedia.
Anna Vaccarelli racconta alcuni progetti d’istruzione nelle scuole, che hanno coinvolto più di 17.000 ragazzi negli ultimi anni. Infatti, passare molto tempo sul web ed essere nativo digitale non implica automaticamente che si conoscano le meccaniche di quel mondo; ogni età scopre in maniera differente, perciò sono stati realizzati app, giochi e videogiochi per fornire le informazioni di base e di approfondimento, secondo il concetto a ciascuno in base alla sua età .
Federica Giaquinta racconta l’esperienza di Internet Society, «uno spazio divulgativo aperto» che promuove l’etica dell’innovazione a partecipazione, la divulgazione, con iniziative nelle scuole e convegni, organizzati anche alla Camera dei deputati per favorire il dialogo fra classe politica e società civile. L’informatico Antonio Alessio Di Pinto esplora il tema del riuso, attraverso
la collaborazione col movimento Restarter, fondato a Londra da Ugo Vallauri. A Torino un gran numero di iniziative si sono svolte: Refurbisher, per rigenerare telefoni e pc, per vendere brand di telefonia sostenibili; il gruppo degli Artigiani Digitali; Soluzioni Informetiche, che ha l’obiettivo che ogni informatico – ogni informetico – possa condividere la sua esperienza; Restart parties (l’ultimo, nella primavera del 2023, si è tenuto al Politecnico durante il corso Greenblue1, ideato da Sloweb), per riparare gratuitamente la tecnologia nei luoghi cittadini di maggior passaggio; il Fix Festival e i Repaircafé; la sensibilizzazione al Right to Repair, per progettare elettronica più sostenibile e riparabile, e tanti altri progetti.
Nell’area del “movimento di base” che Sloweb esplora e sostiene si posiziona anche MigliorAttivamente, un’associazione che opera per colmare il divario digital-sociale fra i cui fondatori è Giuseppe Giorgio Pacelli, che ne racconta l’intento fondativo: mettere al centro l’utente, il consumatore, il cittadino, e difendere e valorizzare i suoi diritti. Il progetto Spid in ogni dove «con l’acquisto di una postazione che è andata in giro in Italia», rilasciando gratuitamente circa 1.500 SPID, si sono raggiunte persone impossibilitate a muoversi o non in grado di operare in autonomia.
Indira Pastoris racconta Dianova, un’associazione che da anni si occupa di persone con dipendenza da sostanze, droghe e alcol, e ultimamente anche da web: perché non esistono tanto le dipendenze, quanto le personalità dipendenti che intercettano diversi tipi di dipendenze, e che oggi intercettano il web.
A tutto ciò si collega l’associazione Movimento Consumatori, rappresentata dall’avvocato Alessandro Mostaccio, che presenta il progetto di un Osservatorio sul consumo digitale responsabile e sostenibile per informare, educare e tutelare, in maniera integrale, con la partecipazione multidisciplinare per affrontare insieme lo stesso problema da punti di vista diversi.
Insomma, molte iniziative si stanno formando autonomamente, nella società, seguendo esigenze comuni e un desiderio collettivo: cambiare, migliorare, usare meglio le opportunità digitali.
Tutto questo ci fa tornare in mente la scena di 2001 Odissea nello spazio –«Open the doors, Hal [ridammi il controllo]», «I’m sorry Dave, I can’t do that» – a monito di come l’azione umana non possa restare in secondo piano dentro la crescita dell’automazione. Del film parla il professor Norberto Patrignani che pone l’attenzione specialmente sui lavoratori nel settore dell’informatica, intorno a una domanda centrale: «Come possiamo migliorare la responsabilità sociale dei computer professional?».
1. Si veda
https://www.diati.polito.it/focus/green_blue.
Norberto Patrignani continua sostenendo che le risposte potrebbero seguire tre filoni: «far conoscere le persone che potrebbero ispirare le future generazioni di computer professionals; lavorare su percorsi di formazione nelle università, nelle organizzazioni, nelle imprese; portare avanti questo dibattito». Ricorda poi un episodio storico che può lasciar intuire la portata del discorso: «Forse il primo ethical hacker è René Carmille, che nel 1944 lavorava ai servizi della demografia francese. A quel tempo i censimenti erano basati sulle schede perforate, sulle schede meccanografiche; i nazisti le usavano per selezionare chi mandare – sulla base della religione – ai campi di concentramento. René Carmille manipolò le macchine in modo da non stampare la colonna 11 che indicava la religione, quindi con questo hack su una macchina, da esperto, riuscì a salvare molti ebrei. Purtroppo morì egli stesso in un campo di concentramento perché venne arrestato. René Carmille usò la sua competenza per salvare vite umane».
Qual è la nostra colonna 11 ?
Un pomeriggio, insieme a Pietro Jarre, co-fondatore di Sloweb, attendevamo in strada dei colleghi prima di un appuntamento, e lui mi mostrava la chat d’un qualche gruppo dove si discuteva di intelligenza artificiale; le persone raccontavano di aver consultato ChatGPT su alcune questioni e si condividevano le risposte ottenute. Nella discussione Pietro criticava alcune espressioni usate: «ho chiesto a ChatGPT», «ChatGPT mi ha risposto». Queste espressioni sono quelle tipiche del lessico usato verso e tra esseri umani, eppure non diremmo mai: «ho chiesto alla calcolatrice il risultato di una tale operazione», oppure «la calcolatrice mi ha risposto il tal risultato».
Chiedersi se le macchine saranno mai come gli esseri umani e rivolgersi a loro come se fossero esseri umani significa assegnare loro identità da essere umani. Lo testimonia anche il fatto che ChatGPT venga scritto spesso con la maiuscola iniziale, come un nome proprio di persona, o la sigla di un’istituzione dotata di una qualche autorità. Macchina che si umanizza, essere umano che si macchinizza.
Ma! Chi esiste? Chi funziona?
Nel suo intervento Algoretica al Festival 2020 di filosofia a Modena/Carpi/ Sassuolo (si trova su YouTube), il francescano e ingegnere Paolo Benanti ricostruisce il flusso: inserisco dentro una macchina il maggior numero di dati estratti dalla realtà in modi, tempi, luoghi diversi, e la macchina cerca di trovarne schemi, ricorrenze, pattern. Cita un esempio: la curva che rappresenta sul grafico la spesa degli Stati Uniti in scienza, spazio e tecnologia, e la curva che rappresenta il numero di suicidi negli Stati Uniti per impiccagione, soffo-
camento, strangolamento, sono pressoché uguali nelle rispettive scale: i dati sono perfettamente correlati. Se ne potrebbe dedurre che quanto più gli Stati Uniti investono in tecnologia spaziale, tante più persone la fanno finita con sé stesse, oppure, ancora più incredibile: quante più persone la fanno finita, tanto più il governo investe in space shuttle ?
Dalle correlazioni si possono far partire i ragionamenti, che portano infine alle scelte, e alle azioni. Ma quale conoscenza si genera dalle correlazioni? La statistica può diventare epistemologia?
L’aumento della potenza di calcolo, l’aumento di archiviazione dei dati, di elaborazione ed estrazione di modelli predittivi, hanno portato a quella che oggi chiamiamo intelligenza artificiale, che non agisce stabilmente nel medesimo schema, pur con diverse variabili, ma segue uno schema logico con lo scopo di ottimizzare scelte, adattandolo a seconda dei dati che analizza. Si allena su certi set di dati iniziali per affrontare set nuovi, verso i quali applicherà lo stesso modello di analisi, perpetuando le medesime correlazioni e le medesime credenze.
Simili calcoli porteranno mai a decidere di non stampare la colonna 11, avendolo sempre fatto? (Silenzio, di fronte alla domanda.) O cosa impedirà loro, alla domanda «come possiamo eliminare il cancro?», di rispondere logicamente «eliminiamo tutti gli esseri umani»? (Silenzio, di fronte alla domanda.)
Tornando alle parole: possiamo definire ciò «intelligenza»? Oramai sembra che intelligenza artificiale sia diventato sinonimo di computer. Tutto è intelligenza artificiale, anche ciò che pochi anni fa si chiamava «programma», o «software», o «applicativo».
In un gustoso video sul web, L’intelligenza artificiale è una ca**ta pazzesca, si ricorda come IA sia «il sistema informatico in grado di compiere azioni senza essere stato specificamente programmato per farlo». Non tutto il software è intelligenza artificiale; non lo è un chatbot che si appoggia a un set di risposte standard, o altri programmi che hanno regole precostituite. Google l’abbiamo sempre chiamato «motore di ricerca», non IA. Ho sentito una volta definire intelligenza artificiale il Bimby, perché ci si possono scaricare le ricette.
Come nella fiaba dei vestiti nuovi dell’imperatore, un bambino dovrà gridare: «l’intelligenza artificiale è nuda!», poiché nell’entusiasmo collettivo verso il miracolo qualche anticorpo collettivo bisognerà pur produrlo.
Forse servono bambini per nuove parole. Nuove parole per dare il nome a cose nuove. D’altronde, di fronte a un mondo appena generato, è uno dei primi atti della nostra specie dare il nome: «Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo
e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile» (Genesi 2, 19-20); il versetto precedente dice: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Ormai sembra che l’essere umano si sia davvero convinto. Dio è morto, ma l’IA sta benissimo. Ecco l’aiuto, che dev’essere il più simile possibile all’essere umano: parlare come lui.
Nella puntata Intelligenza artificiale, la nuova corsa all’oro del podcast Black Box, Guido Maria Brera nota un’evoluzione della nostra specie attraverso il tatto. Nei racconti di fantascienza del dopoguerra c’erano tasti, manopole, pulsanti; la società industriale trasmetteva materialità, col tocco delle dita, come le dita che nelle catene di montaggio sfornavano i prodotti del miracolo economico. Ma i tempi cambiano: ora la società è postindustriale, l’immateriale sostituisce il materiale, la finanza sostituisce l’economia: non c’è contatto, c’è linguaggio fra essere umano e macchina: si parla, s’interroga. Non è necessario allora l’antropomorfismo della forma, basta l’illusione d’esserlo; l’essenza, l’illusione dell’Altro-che-completa; o, secondo ciò che direbbero filosofi o romanzieri del secolo scorso, l’Altro-a-cui-sottomettersi.
L’immaginario che abbiamo, soprattutto cinematografico, è fuorviante: ci immaginiamo uno scontro coi robot alla Terminator o battaglie dopo invasioni aliene. In realtà stiamo demandando alle macchine in una versione virtuale, non fisica, tipicamente moderna. Stiamo demandando ai PC, alla rete, al cloud, ai server nelle sale macchine, ai data storage, a fascicoli sanitari, anagrafi, catasti; cellulari che ci localizzano ovunque e tracciano ogni nostra comunicazione; telecamere di controllo che ci filmano; autovelox che ci regolano il traffico; i controlli incrociati automatici per impedire l’evasione; il data-mining commerciale per influenzare preferenze e scelte; la domotica per il controllo a distanza degli oggetti; circuiti bancari che muovono tutto il denaro e transazioni finanziarie generate automaticamente dai PC (soldi virtuali, mandrie di bit, ma che hanno un terribile impatto sulla realtà, a causa della fede condivisa che ci riponiamo): è un enorme potere che si sta accumulando nelle macchine, siccome ovunque sono filtro alla nostra volontà e possibilità d’azione.
(In un attimo siamo passati dalla Genesi all’Apocalisse.)
Questo potere si accumula oggi senza che ce ne accorgiamo, perché lo diamo per scontato; anzi, lo fomentiamo nella nostra attività lavorativa quotidiana mirata all’informatizzazione e all’efficienza. È infatti ritenuta senza dubbio cosa buona e giusta – poiché efficiente – centralizzare e standardizzare i dati, sempre di più, perché siano facilmente recuperabili, analizzabili, archiviabili a costo minore, replicabili in caso di evento nefasto, dal guasto al furto.
Nonostante l’evidenza, non ce ne rendiamo conto. Perciò Terminator ci sembra tanto assurdo e lontano, mentre invece noi tutti siamo già impegnati
a far sì che forse, presto o tardi, una sua versione più immateriale e meno riconoscibile si realizzi nella storia.
Senza parole per chiamarlo – «Ehi, tu, coso!» – la nostra voce resterà vuota, e il senza-ancora-nome potrà sgattaiolarci alle spalle, perfino di fronte, sghignazzando, per pararcisi di fronte; e, con l’indice sul totale, chiederci il conto.
Come Leopardi e Primo Levi in anticipo su emoticon e ChatGPT, il bambino dell’intelligenza- artificiale-è-nuda ci avrebbe provato, come in una fantasia di Gianni Rodari. In una favola al telef… ops, una favola allo smartphone, qualcuno avrebbe magari inventato, che so, calcospondere, unendo calcolare e rispondere: «ChatGPT mi ha calcosposto un bel riassunto su questo e quello» (magari anche chatGPT, con la iniziale minuscola). Oppure: calcodire, da calcolare e dire. Oppure ancora potrebbe definire statiparole le parole usate da ChatGPT, poiché assemblate con calcoli probabilistici, e parolistica la linguistica statistica, o glottòtica . Mentre un Gianni Rodari inglese – in questo campo tutto va messo in inglese, affinché se ne parli in giro – avrebbe battezzato un compuanswer, da computing e answer, o un compuspeaking, o un digilinguistics o chissà quanti altri.
Non saranno un granché, d’accordo, non all’altezza del recente petaloso. Eppure qualcosa bisogna azzardare; bisognerebbe organizzare un concorso aperto in un’iniziativa di conoscenza e autocoscienza collettiva per decidere insieme come chiamare le nuove cose (facciamolo!).
Nelle tante parole che formano questi atti del Digital Ethics Forum, cercando la propria colonna 11, ognuno potrà trovare qualche idea.
Torino 10 ottobre 2023
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QUESTO VOLUME, SPROVVISTO DI TALLONCINO A FRONTE (O OPPORTUNAMENTE PUNZONATO O ALTRIMENTI CONTRASSEGNATO), È DA CONSIDERARSI COPIA DI SAGGIO - CAMPIONE GRATUITO, FUORI COMMERCIO (VENDITA E ALTRI ATTI DI DISPOSIZIONE VIETATI: ART. 21, L.D.A.). ESCLUSO DA I.V.A. (DPR 26-10-1972, N.633, ART. 2, 3° COMMA, LETT. D.). ESENTE DA DOCUMENTO DI TRASPORTO.
Elementi di etica digitale
Di fronte al diffondersi delle tecnologie digitali in ciascuno di noi alberga una contraddizione: da un lato siamo conquistati, intrigati e sedotti dalle nuove possibilità di comunicazione e di interazione con il mondo sia materiale sia immaginario, dall’altro spesso ci sentiamo spaesati, dominati e forse anche sfruttati da quello che ci appare come un sistema del quale non conosciamo davvero né il funzionamento né gli artefici. Il Quaderno Elementi di etica digitale suggerisce risposte e offre soluzioni, anche pratiche, per orientarci in molti territori da esplorare: quale impatto ha la tecnologia digitale sull’ambiente e sulla società? Siamo sottoposti a un regime di sorveglianza assoluta o abbiamo dei margini per difenderci? Possiamo immaginare imprese che producano e offrano servizi fondandosi sul rispetto delle cittadine e dei cittadini e sulla responsabilità ambientale, economica e sociale? Come sono già mutati i mestieri e le professioni, dall’ambito della sanità a quello dell’istruzione, dalla giustizia all’amministrazione pubblica? Siamo irrimediabilmente costretti dalla logica consumistica a cambiare frequentemente i nostri strumenti elettronici, con grave pregiudizio per l’ecosistema, o possiamo resistere tramite il riuso, la sostituzione dei componenti e in generale attraverso la sobrietà nel loro utilizzo? Siamo in grado di preservare il tempo della nostra vita o siamo destinati a sprecarlo dedicandolo totalmente agli schermi elettronici?
Il Quaderno, composto dagli interventi al Digital Ethics Forum, evento annuale organizzato da Sloweb, dà voce a molti soggetti, di varia estrazione e competenza, che sono coinvolti nel dibattito sul ruolo e sull’impatto della tecnologia digitale, ed è uno strumento utile per la didattica nelle scuole e nelle università, come per la predisposizione responsabile del lavoro nelle imprese e nelle amministrazioni e, in generale, per la discussione nella società civile, o magari per la definizione di regole e politiche pubbliche adeguate. Soprattutto, invita ciascuno di noi a un impegno critico per abitare in modo consapevole il nuovo mondo in cui ci è dato di vivere.
Pietro Jarre, laureato in geoingegneria ambientale, è stato un dirigente di società professionali mondiali specializzate in impatto della grande industria. Con Sloweb e con il Politecnico di Torino studia l’impatto ambientale, sociale e economico delle tecnologie digitali. È autore e curatore di diversi testi, tra cui il Quaderno della Ricerca #62, Manuale di InformEtica, insieme a Giulia Balbo.
Gianni Garbarini, storico di formazione, è stato docente di filosofia e storia al liceo e collaboratore di staff presso il Comune di Torino; insegna aikido e kinomichi. È studioso di analisi dei dati elettorali, socio di Sloweb, componente del Forum Democrazia Etica Digitale.
È autore di contributi in Storia di Torino, vol. IX, Gli anni della Repubblica, Einaudi, e Italia al voto. Le elezioni politiche della Repubblica, UTET.
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