monografia
Pianificatori senza piani Architetture Rivelate
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Riccardo Bedrone Mario Carducci Giancarlo Faletti Emilia Garda Ivano Pomero DIRETTORE FONDAZIONE OAT
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TAO 14 – INDICE 2 Contributors 4 Redazionale 5 9 13 14 16 18 0 2 22 0 3 2 3 4 3 6 3 9 3 0 4 3 4 6 4
Una nuova competenza, un vecchio problema RICCARDO BEDRONE Ma il pianificatore non può essere giurista o economista GIUSEPPE ROMA Lo strano caso dei docenti di pianificazione ALESSANDRO BALDUCCI Il ruolo del pianificatore per il governo del territorio CARLO ALBERTO BARBIERI Il futuro dei planner FEDERICO OLIVA Gli attori della copianificazione in Piemonte LIVIO DEZZANI Il pianificatore territoriale e la pianificazione di area vasta PAOLO FOIETTA E ILARIO ABATE DAGA La città infinita ULIANO LUCAS A ciascuno il suo (esame di Stato) RICCARDO BEDRONE La formazione dell’urbanista-pianificatore MATELDA REHO Il faticoso cammino del riconoscimento DANIELE RALLO La formazione del pianificatore nel panorama europeo GIANCARLO COTELLA Chiare competenze, aperte al dialogo FRANCESCO PROFUMO Essere un pianificatore territoriale oggi NADIA CARUSO E ELENA PEDE Formare un pianificatore: un obiettivo da salvare SILVIA SACCOMANI Governo del territorio: l’informazione on line ROBERTO ALBANO
CONTRIBUTORS ILARIO ABATE DAGA
Architetto, libero professionista. Si occupa presso la Provincia di Torino di pianificazione territoriale. Segretario della Sezione Piemonte e Valle d’Aosta dell’Istituto Nazionale di Urbanistica è ora impegnato sui temi della limitazione del consumo di suolo.
ROBERTO ALBANO
Laureato nel 2006 presso la Facoltà di Architettura di Torino, consegue il dottorato di ricerca in Pianificazione territoriale e sviluppo locale nel 2011. È docente a contratto di Progettazione urbanistica e svolge attività di ricerca presso la Fondazione Fitzcarraldo. Svolge la libera professione; è appassionato di fotografia e tra i suoi recenti lavori la pubblicazione L’eredità del Moderno, 2013. È consigliere OAT e coordinatore del Focus Group Professione Creativa.
ALESSANDRO BALDUCCI
Architetto, prorettore vicario del Politecnico di Milano; docente di Pianificazione e Politiche Urbane e già coordinatore del dottorato in Spatial Planning and Urban Development. È segretario nazionale della SIU, Società Italiana degli Urbanisti ed è stato direttore del dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, presidente dell’AESOP, Associazione Scuole Europee di Pianificazione, e membro fondatore della European Urban Research Association.
CARLO ALBERTO BARBIERI
Architetto e autore di progetti urbanistici in numerosi Comuni del Piemonte e della Liguria, professore Straordinario di Urbanistica del Politecnico di Torino, è stato vicepresidente nazionale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) dal 1995 al 2003 e dal 2008 al 2011 e coordinatore per Territorio e Infrastrutture del 2° Piano strategico metropolitano di Torino; attualmente è presidente della Commissione nazionale INU Sviluppo operativo del Piano e risorse della città e rappresentante della Città di Torino nell’Osservatorio Tecnico della nuova Linea Torino-Lione.
RICCARDO BEDRONE
Professore associato di Tecnica e pianificazione urbanistica presso la il Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio del Politecnico di Torino. Si occupa di strumenti della pianificazione d’area vasta e di modalità di intervento integrato sul territorio in ambito europeo, oltre che di formazione e aggiornamento professionale degli architetti. È presidente dell’Ordine degli Architetti di Torino. Dal 2005 al 2008 ha ricoperto la carica di Presidente del XXIII UIA World Congress Torino 2008. È il direttore responsabile di TAO.
NADIA CARUSO e ELENA PEDE
Hanno conseguito la laurea magistrale in Pianificazione Territoriale, Urbanistica e Ambientale rispettivamente nel 2007 e nel 2010. Svolgono attività di ricerca presso il Politecnico di Torino, Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio.
GIANCARLO COTELLA
È ricercatore e professore aggregato in Tecnica e Pianificazione urbanistica presso il Politecnico di Torino. Si occupa di analisi comparativa dell’evoluzione dei sistemi nazionali di governo del territorio e in particolare dei processi di europeizzazione che coinvolgono Unione europea e Stati membri nell’ambito del governo del territorio. Autore di oltre cinquanta contributi scientifici, è stato ricercatore e docente in visita presso numerosi istituti di ricerca, fra cui l’Università di Newcastle, l’Università di Kaiserslautern, il Politecnico di Cracovia, il Politecnico di Wroclaw, l’Università di Tartu, l’Accademia delle Scienze Polacca e l’Accademia delle Scienze Ungherese. Dal 2007 è membro del comitato esecutivo di AESOP – Association of European Schools of Planning.
LIVIO DEZZANI
Nato a Torino nel 1949. Laureatosi in Ingegneria ed Architettura presso il Politecnico di Torino, ha poi sviluppato un percorso lavorativo nei campi dell’urbanistica e della realizzazione di interventi a grande scala. Dopo una lunga carriera presso Confindustria Piemonte, dedicata alle materie urbanistiche e territoriali, dal 2010 è Direttore dell’Assessorato all’Urbanistica della Regione Piemonte, struttura che promuove e verifica la pianificazione del territorio per tutti i Comuni piemontesi.
PAOLO FOIETTA
Esperto di pianificazione territoriale, di ambiente e rifiuti (Presidente di ATO-R) e di infrastrutture, è Coordinatore delle Aree Tecniche della Provincia di Torino e Direttore delle aree Territorio e Trasporti e Viabilità. È membro dell’Osservatorio Tecnico Torino-Lione. Ha coordinato la redazione del Piano Territoriale della Provincia di Torino.
ULIANO LUCAS
Nato a Milano nel 1942, è tra i maggiori fotoreporter italiani. Con le sue immagini ha documentato oltre quarant’anni di mutamenti sociali, politici e culturali del nostro Paese. Freelance, ha lavorato a lungo in Africa seguendo la decolonizzazione e le guerre di liberazione; ha documentato la vita degli emigranti in Europa, la contestazione studentesca, ha raccontato il mondo del lavoro e le sue trasformazioni, i cambiamenti nel costume e nel tessuto territoriale e sociale. www.ulianolucas.it
FEDERICO OLIVA
Urbanista, è professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, dove ha diretto dal 2000 al 2011 il corso di laurea in Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale e il corso di laurea magistrale in Politiche Urbane e Pianificazione Territoriale. Dal 2006 è presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Progettista di numerosi piani urbanistici tra i quali quelli di Pavia, Ancona, La Spezia, Reggio Emilia, Piacenza, Cuneo, Padova, Potenza, Roma e consulente per i Piani provinciali di Perugia, Pesaro-Urbino, Forlì-Cesena, Piacenza e Matera, è autore di numerosi testi tra i quali l’ultimo Città senza cultura, intervista sull’urbanistica a Giuseppe Campos Venuti, Laterza, 2010.
FRANCESCO PROFUMO
Ingegnere, ha iniziato la carriera nel 1978 nella Ricerca e Sviluppo in Ansaldo a Genova; nel 1995 diviene Professore Ordinario di Macchine ed azionamenti elettrici presso il Politecnico di Torino. Dal 2003 al 2005 assume la carica di Preside della Prima Facoltà di Ingegneria nello stesso Ateneo e dal 1° ottobre 2005 assume la carica di Rettore. Il 12 aprile 2011 è stato nominato membro del Consiglio di Amministrazione di Telecom Italia e dal 13 agosto 2011 è Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. È stato ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca durante il Governo Monti.
DANIELE RALLO
Urbanista della Scuola di Preganziol dal 1978, esercita la libera professione. Ha al suo attivo circa 200 tra piani regolatori e attuativi, piani di settore e studi di fattibilità. Insegna Urbanistica alla facoltà di Architettura di Udine come professore a contratto. Ha insegnato Urbanistica e Fattibilità economica alla facoltà di Architettura, Roma3. È stato uno dei fondatori della Associazione Nazionale degli Urbanisti, di cui è stato presidente dal 1998 sino al 2010. Ora ricopre la carica di Vice Presidente.
MATELDA REHO
È professore ordinario presso l’Università Iuav di Venezia, dove insegna Economia e Politiche per l’ambiente e Politiche del paesaggio e dello spazio rurale. Coordinatrice del master Europeo in Planning and policies for city, environment and landscape, consorziato tra le università IUAV, Sassari, Autonoma di Barcellona, di Girona, Tecnica di Lisbona, è stata preside nell’ultima fase di attività della facoltà di Pianificazione del territorio dell’Università IUAV di Venezia.
GIUSEPPE ROMA
Laureato in architettura e specializzato in Pianificazione territoriale applicata alle aree metropolitane, ha conseguito un master in Economia regionale. Consulente professionale dal 1975, dal 1981 è ricercatore presso il Censis, di cui è direttore generale dal 1993. Docente di Gestione urbana alla facoltà d’architettura di Roma Tre dal 1998, ha inoltre tenuto corsi per la Columbia University di New York ed è stato visiting fellow presso il Politecnico di Delft (Olanda). È direttore del periodico Censis – Note e commenti.
SILVIA SACCOMANI
Professore Associato di Urbanistica, Dipartimento Interateneo Scienze, Progetto e Politiche del Territorio, Politecnico di Torino. Ha svolto il ruolo di presidente vicario del corso di studi in Pianificazione Territoriale, Urbanistica e Paesaggistico-ambientale fin dalla sua nascita; attualmente è Vice coordinatore del Collegio pianificazione e progettazione a cui il corso di studi fa capo. Insegna nel corso triennale e nel corso magistrale.
REDAZIONALE TAO torna con un numero monografico dedicato alla figura del pianificatore territoriale, una professionalità ancora poco conosciuta e sovente in conflitto con altre di più consolidata formazione. A dieci anni dalla riforma che ha fatto nascere i corsi di laurea in Pianificazione, non c’è ancora una definizione delle competenze tra architetti, pianificatori, paesaggisti. In assenza di cambiamenti dell’attuale legislazione quali sono le prospettive di lavoro per i pianificatori? Ha ancora senso che esista questa specializzazione a fronte dell’impossibilità di far riconoscere le proprie specificità? E i docenti universitari non dovrebbero essere anche professionisti capaci di spiegare (perché la praticano) questa disciplina? I pianificatori, più degli architetti, dovrebbero essere istruiti da docenti che realizzano piani urbanistici, ma questo doppio ruolo apre sovente a polemiche tra i professionisti che lamentano la concorrenza indebita e sleale da parte dei colleghi professori. Docenti universitari, esperti di urbanistica, architetti affermati, dirigenti di pubblica amministrazione e neo pianificatori territoriali raccontano esperienze e prospettive possibili rispetto al loro personale punto di osservazione. Gli argomenti degli articoli pubblicati, di sicuro interesse per architetti, ingegneri, urbanisti e pianificatori, aprono anche alla questione di carattere generale, che coinvolge la formazione universitaria e l’opportunità di creare nuove e più specifiche figure tecniche attraverso un percorso di istruzione professionalizzante. Resta però la necessità di non vanificare l’impegno profuso nella formazione e nell’aggiornamento professionale, consentendo ai laureati un’identità riconoscibile nel mercato del lavoro di questo settore. Arricchisce il numero una galleria di immagini del fotografo Uliano Lucas, alcune delle quali tratte dal suo lavoro “La città infinita”. Un titolo come auspicio ben augurante per i pianificatori di poter elaborare piani da destinare a città meglio organizzate, intelligenti e vivibili.
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Una nuova competenza, un vecchio problema Parlare delle occasioni mancate nel dare vita agli specialisti in pianificazione è l’occasione per compiere una riflessione più generale sulle competenze di tutti gli ‘operatori del progetto’ Riccardo Bedrone
Il pianificatore territoriale, questo sconosciuto. Partiamo da questa constatazione per ragionare sul destino di tanti laureati triennali e magistrali che già da tempo hanno concluso il loro ciclo di studi, ma soprattutto per dare prospettive a coloro che hanno in corso la loro formazione universitaria, tutta all’interno di questo settore. E partiamo dalle origini: il provvedimento con il quale è nata la figura dei pianificatori territoriali. Risale a poco più di 10 anni or sono e si tratta di una legge che cambiò profondamente alcune regole e fece nascere una nuova forma di insegnamento universitario. Con quella legge nacque il duplice percorso triennio più biennio, e ne derivarono, in aggiunta agli specifici corsi di laurea di architettura, corsi paralleli che tratteggiarono il profilo di figure diverse. Differenti, anche se nate come ‘per gemmazione’ da quello che era il ruolo storico dell’architetto, con un proprio percorso formativo, un esame di stato specifico che dava accesso a nuove e particolari sezioni dell’Albo, nonché uno sbocco professionale originale e assolutamente auspicabile, almeno nelle intenzioni. Ora è perfino tardi per fare bilanci: credo anzi che questa riflessione avrebbe dovuto avvenire molti anni prima. Se guardiamo ad esempio al ‘3+2’, almeno per quanto si riferisce alle ex facoltà di Architettura, molte voci autorevoli sostengono che sia servito a poco o niente. Perché non ha dato ciò che in prospettiva doveva, ossia aprire uno sbocco professionale anticipato per coloro che non
intendevano conseguire il titolo di studio a livello più avanzato. Diverso è il ragionamento nel caso dei pianificatori, perché il nuovo ordinamento, dando vita ad una figura prima non prevista, faceva bene, come credo molti abbiano potuto verificare, a suddividerla in due diversi livelli del titolo di studio da raggiungere. Perché diverse si prospettavano le collocazioni possibili, in un ambito prestazionale tutto da scoprire. Resta il fatto, in generale, che il ‘3+2’ in Italia non pare aver avuto quel successo che si sperava. Ma non è questa l’occasione per discuterne, semmai lo è per evidenziare quali sono stati i vizi di origine. Io feci parte nel 2000 di un gruppo di studio che venne costituito presso il Consiglio Nazionale degli Architetti con il compito di proporre al Ministro dell’Università i possibili contenuti della nuova formazione di architetti e ‘derivati’, individuando cioè le competenze specifiche che avrebbero dovuto riguardare le quattro figure che allora si andavano delineando: accanto a quella tradizionale dell’architetto, quelle del conservatore, del paesaggista e del pianificatore. Fin da allora comunque si capì benissimo che le tre aggiuntive avrebbero potuto avere successo, ma a certe condizioni. Autorizzava a ben sperare il fatto che avrebbero offerto competenze che in Italia mancavano o che, quantomeno in passato, si erano potute formare con difficoltà attraverso studi specifici e supplementari (una sorta di aggiornamento professionale post laurea, anticipato rispetto ai nuovi obblighi) solo
per merito di architetti volonterosi disposti a seguirli per proprio conto. Ma analogamente si capì che in ogni caso, al di là dell’interesse iniziale, ciascuna di queste figure professionali avrebbe avuto poi bisogno di un riconoscimento esplicito delle conoscenze acquisite e delle competenze possedute. Cosa che non si è avverata. E quindi il problema si è sempre più spostato, insoluto, nel tempo. A distanza di 12 anni da quel provvedimento di legge, e di 10 anni dall’avvio dell’attività di formazione universitaria esclusiva dei pianificatori, ci troviamo di fronte esattamente a ciò di cui stessi gli architetti soffrono da decenni: la mancanza di chiarezza sulle loro specifiche attribuzioni professionali, che continuano in qualche modo ad essere condivise, spesso a colpi di azioni legali per poterle difendere, con altre figure che non raggiungono, nella loro formazione, lo stesso livello o la stessa peculiarità di conoscenze. Parlo dei geometri, dei periti, degli agronomi, dei geologi, degli ingegneri e così via… Tutta questa confusione, purtroppo, fa parte di una tradizione italiana di disinteresse e di elusione dei problemi. E, dopo tanti anni, anche i pianificatori sono finiti in questo vortice di contraddizioni, di mancanza di chiarezza, di riottosità da parte di ogni Governo a dare finalmente un inquadramento ragionevole a questa proliferazione di figure professionali, per evitare che ciascuno faccia un po’ di tutto, come avviene adesso. Se pensiamo che solo da poco, e quasi miracolosamente, siamo sfuggiti alle
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conseguenze di una ideologia dominante in Europa – è quella “chiunque può fare quello che vuole”, il che sarebbe successo se fosse stata decretata la scomparsa degli Ordini, con la più che probabile successiva abolizione del valore legale del titolo di studio – possiamo ben comprendere qual è la situazione in cui attualmente si trovano ad operare i professionisti. I provvedimenti più recenti, conseguenti alla riforma Gelmini (che ha portato al superamento delle Facoltà e alla costituzione dei Dipartimenti), a mio parere non hanno risolto il problema, o semmai hanno forse razionalizzato certi percorsi formativi, senza però minimamente preoccuparsi dei loro esiti. Ancora una volta si è imposto alle Università di riorganizzarsi senza prevederne le conseguenze e quindi con risultati non sempre soddisfacenti, per non dire paradossali: che dire, per esempio, del fatto che i Dipartimenti, in qualche modo eredi delle Facoltà, ora nella loro titolazione non citano nemmeno più la parola architettura o urbanistica, per cui risulta davvero difficile capire da che cosa si proviene e che cosa si è studiato? E, se devo aggiungere una considerazione personale, non sono felice che nel nostro caso (a Torino) da due Facoltà di Architettura siano nati due Dipartimenti così differenziati da renderli definitivamente non comunicanti. In realtà non c’è stato alcun tentativo di compiere un processo di integrazione. Semmai si è av-
viata una sperimentazione incompleta, la cui conclusione sarà la definitiva divaricazione dei percorsi formativi, che porterà ad un conflitto permanente tra architetti da una parte e pianificatori dall’altra. Alcuni dati però sono importanti, non tanto per continuare a ragionare sugli errori fatti, quanto per tentare di porvi dei rimedi. Intanto i pianificatori sono partiti in sordina – perché non potevano e non possono essere che una sorta di élite di specialisti – ma sono cresciuti di numero. Ogni Ordine ne raccoglie qualcuno, in tutta Italia e, pur nella variabilità della loro rappresentanza dimensionale hanno comunque ormai superato, in alcuni casi, il 2% se non il 3% degli iscritti. Con una probabile analoga proporzione a livello nazionale. Ma certo non cresceranno ancora di molto e continueranno quindi a costituire una componente professionale largamente minoritaria, seppur scientificamente non trascurabile. Certo non tale da costituire un pericolo di erosione di lavoro per tutti coloro che da anni, ben prima della loro comparsa sul mercato, facevano e continueranno a fare gli urbanisti. Hanno i problemi di tutti, ma hanno molte meno occasioni di lavoro, proprio perché il campo di applicazione delle loro conoscenze è molto circoscritto e limitato causa la specificità degli studi compiuti, che non riguardano per nulla le discipline dell’architettura, ma soltanto le scienze del territorio. Eppure, anche in questo caso soffrono della stessa concorrenza che affligge tutte le figure professionali che
competono nel settore delle costruzioni. Ecco perché costituiscono un problema, grosso, che si aggiunge a quello ereditato: sono degli specialisti – ottimi specialisti, a giudizio non solo di coloro che li hanno formati all’interno del corso di laurea in pianificazione, sia triennale che magistrale (e sono felice di essere stato tra questi, fin dalla nascita dei corsi universitari ad essi dedicati) ma anche di chi ne ha potuto sperimentare sul campo la preparazione – che posseggono conoscenze esclusive acquisite spesso con una didattica fortemente innovativa e ‘cosmopolita’, ma devono misurarsi con una pletora di improvvisatori, pur laureati ma sprovvisti di quelle cognizioni e di quelle pratiche che oggi servono alla società per assicurare il ‘buongoverno’ del territorio. Insomma, alle loro sacrosante attese non corrisponde poi, per l’opportunismo politico di chi non vuol inimicarsi altre categorie professionali più diffuse e potenti, un adeguato inserimento nel mondo del lavoro. A questo concorre anche nel nostro Paese, con ogni probabilità, quella caduta di fiducia sull’importanza che hanno i loro studi e le loro applicazioni conseguenti, quel disinteresse accresciuto nel tempo e dalle vicende economiche sulla funzione della pianificazione e della gestione urbanistica, che parte dagli sciagurati anni di esaltazione della deregulation e della funzione salvifica dell’iniziativa privata, restia ad ogni controllo ed a ogni limitazione dei propri poteri di intervento. Lo dimostra, al di là di ragionevoli esi-
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genze di innovazione delle regole e delle pratiche pianificatorie, l’abbandono progressivo del piano regolatore a favore invece di interventi più minuti, improvvisati, di rapida attuazione e soprattutto economicamente redditizi, su cui si esercita una fortissima concorrenza degli architetti: i quali ritengono, a torto o a ragione, di saper e potere progettare senza difficoltà, anche se un po’ dilettantisticamente, se non un piano regolatore, quantomeno uno strumento urbanistico esecutivo. In sostanza noi facciamo oggi riferimento più a programmi complessi che non al governo del territorio, e tutto questo contribuisce a circoscrivere ancora di più le occasioni di lavoro. Tuttavia, non si può né si deve ridurre la critica all’insipienza del legislatore o all’inerzia del politico, a proposito della mancanza di coerenza tra riforma dell’insegnamento universitario (di carattere professionalizzante, beninteso) e ordinamento professionale, a una semplice manifestazione di carattere sindacale: c’è ben altro in discussione che impegnarsi solo per consentire ai pianificatori di poter lavorare di più e meglio. Credo semmai che questa lacuna sia un buon punto di partenza per ragionare su tutti coloro che soffrono degli stessi problemi, a partire da quelle figure nate appunto con il DPR 328/2001 e che oggigiorno stanno addirittura peggio. Se guardiamo ai conservatori, in particolare, per questi non sembra proprio esserci futuro. Fortunatamente, almeno a Torino, fin
dalla prima applicazione della riforma, il buon senso e un poco di lungimiranza fecero capire che quello che poteva diventare un corso di laurea specialistica sulla storia e la conservazione del patrimonio si sarebbe di lì a poco trasformato in una condanna definitiva alla rinuncia all’attività professionale e indusse a cambiarne la classe di appartenenza. Parlare delle occasioni mancate nel dare vita agli specialisti in pianificazione è dunque l’occasione per compiere una riflessione più generale e ricomprendervi in via definitiva l’analisi delle competenze di tutti gli ‘operatori del progetto’, per giungere finalmente ad una loro ridefinizione complessiva. Di questi tempi sono sempre più frequenti i professional day, manifestazioni di piazza (o più spesso di teatro) delle categorie professionali insoddisfatte della precarietà delle loro condizioni di lavoro e della mancanza di sensibilità dei pubblici poteri verso le loro esigenze. Tra i progettisti, i geometri sono forse i più attivi. L’ultima iniziativa, promossa dal Collegio nazionale dei geometri a Roma sul finire dello scorso anno, riempì la città di manifestanti che rivendicavano ancora una volta l’ampliamento delle loro competenze e l’esclusiva su alcune di esse. Una pretesa ingiustificata, non tanto perché non abbiano in qualche modo diritto di svolgere, senza l’assillo di una concorrenza priva delle loro credenziali, una attività per la quale si sono preparati, con lo studio e con l’esercizio professionale,
quanto perché in realtà il loro percorso formativo è breve e offre loro poche e limitate nozioni, che non sono certo paragonabili a quelle dei corsi di laurea. Basta guardare i programmi degli istituti tecnici per capire che, al di là di un paio di insegnamenti attinenti la progettazione (costruzioni e topografia), c’è poco altro. Ecco dunque come una agitazione sindacale, generata dalla mancanza di provvedimenti chiarificatori sulle competenze, si scontra con l’interesse generale, che è di assicurare il livello di conoscenze necessario per offrire alla committenza prestazioni professionali adeguate alle difficoltà da affrontare. In ogni caso, una manifestazione più difensiva che aggressiva, comprensibile da parte di una categoria in disarmo, che ha malamente riscostruito l’Italia nel dopoguerra ma che ormai ha fatto il suo tempo e dovrebbe essere disabilitata all’esercizio professionale. Ma tant’è. Anche questo è un provvedimento che nessuno si sognerà mai di prendere, per non inimicarsi il vasto mondo dei diplomati, eredi di un periodo in cui la laurea era un traguardo precluso a gran parte dei giovani. La crisi, però, potrebbe essere proprio l’occasione per indurre un Governo tecnico, che forse proprio per la sua natura è appena riuscito a varare una riforma – discutibile e riduttiva, peraltro – dell’ordinamento professionale, a occuparsi anche di questo aspetto, tenuto cautelativamente fuori dal suo ambito di applicazione. Qualcuno dovrà pur chiarire
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meglio, ora, anche sinteticamente, quali sono i contenuti essenziali dell’obbligo di aggiornamento che investirà tutti coloro che si occupano di progetto, compresi i pianificatori. Perché la riforma impone a tutti, ripartendo dai contenuti dei loro programmi di studio, di dare continuità alla formazione acquisita. Gli iscritti agli Albi (dai periti agli ingegneri), a partire dal prossimo anno, dovranno accreditarsi seguendo seminari, corsi di insegnamento specifici, partecipando a convegni come uditori se non come relatori, impegnandosi nello scrivere: insomma, con quella varietà di prestazioni intellettuali non routinarie con le quali si acquisiscono o si trasmettono conoscenze aggiuntive. E, triennio per triennio, tutto questo consentirà di ottenere un punteggio individuale: al di sotto del minimo, si potrà essere sospesi o cancellati dall’Albo. Si tratta di un aggravio dei compiti dei professionisti ragionevole ma senza precedenti (fatti salvi i medici) nel nostro Paese, che imporrà anche di sostenere dei costi. Ora, è del tutto evidente che, di fronte a maggiori costi, ci debbano an-
che essere maggiori garanzie di impiegare profittevolmente ciò che si impara. E quindi, guardando anche a ciò che succede in molti altri Paesi europei, occorrerà rimettere in discussione la presunta capacità di coloro che sono architetti a tutti gli effetti (ma solo architetti), di fare anche urbanistica. Perché è chiaro a tutti, anche ai meno attenti agli esiti della riforma Gelmini, che quanti scelgono il percorso di laurea e di laurea magistrale in architettura (comunque denominata) non sono ormai più in grado di capire, prima ancora che praticare, l’urbanistica, almeno da alcuni anni a questa parte. Gli insegnamenti che vengono loro assicurati sono molto pochi: corsi propedeutici spesso insufficienti, che non danno nemmeno le più elementari cognizioni di tecnica urbanistica, un paio di laboratori che, come atelier, sono sempre condivisi con altre e spesso incongrue discipline e che quindi non consentono minimamente di approfondire le tematiche della progettazione urbanistica… Diventa doveroso riflettere sulla opportunità che gli architetti continuino ad occuparsene anche in coabitazione con i pianificatori, piuttosto che
separare definitivamente le rispettive connotazioni professionali. Naturalmente questo ragionamento non può valere per tutti: ci sono architetti che hanno conquistato questo titolo quando la loro preparazione comprendeva anche le discipline urbanistiche e se lo sono riconfermato facendo un ottimo lavoro come urbanisti e come pianificatori. Insomma, sui diritti acquisiti non si discute. Del resto, la grandissima maggioranza dei docenti universitari in pianificazione sono architetti. E sono diventati docenti proprio perché hanno saputo e voluto approfondire e accrescere i loro studi originari. Però un qualche discrimine bisognerà pur metterlo, di qui in avanti. Se la formazione continua diviene un obbligo inderogabile di aggiornamento, deve porsi come strumento che consenta agli architetti ‘pre-riforma’ di continuare a fare urbanistica, se è stata la loro scelta professionale. Se no, si aggiornino sui contenuti più attinenti il progetto di architettura, a tutte le scale, ma rinuncino ad occuparsi di ciò che non è più, nei fatti, un loro dominio professionale: insomma, la pianificazione resti solo ai veri pianificatori.
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Ma il pianificatore non può essere giurista o economista Per dare un futuro alle città è necessario saper pianificare e poi gestire. Bisogna passare dai disegni di legge ai disegni culturali e tecnici Giuseppe Roma
Sentire pronunciare la parola ‘pianificatore’ fuori dal mondo di coloro che esercitano una tale professione propone una riflessione molto significativa in un Paese come l’Italia dove non si pianifica, quasi niente, e che anzi sembra aver ripudiato – ormai da diversi decenni – l’abitudine a guardare al futuro, a individuare politiche settoriali, il pensiero di medio periodo. Mi sono perciò interrogato su come rafforzare l’identità di un mestiere, quello del pianificatore, che penso possa avere una storia futura soprattutto per quanto attiene alle strategie urbanistiche. E lo dico perché ovunque gli investimenti sul territorio presuppongono politiche programmatiche, che comportano l’insediamento di nuove attività e consentono di realizzare economie competitive. Il valore economico e sociale si realizza nelle città che sanno ‘darsi un futuro’, che sanno pensarsi a medio termine. E per pensarsi a medio termine e per darsi un futuro ci vuole evidentemente qualcuno – un tecnico – capace di immaginare un processo complesso, prefigurare scenari incerti e aver capacità operative. Se dovessi spiegare cos’è un pianificatore,
visto da chi da un po’ di tempo analizza la domanda di città e di territorio, direi che è proprio quella professionalità che sviluppa una visione a medio termine e individua i progetti e gli strumenti per realizzarla. In questo, onestamente, mi distacco forse un po’ dal dibattito nostrano sulla pianificazione territoriale. In un Paese dove, ripeto, non esistono politiche industriali né di sviluppo urbano sembra prevalere l’idea che – aumentando i livelli di competizione fra i soggetti di impresa – siano meno necessari punti di riferimento condivisi. Tanto che da molto tempo non si realizza nulla di concreto per aumentare l’efficienza dei soggetti pubblici. Quando questo succede, evidentemente, viene a scadere anche la funzione di visione e di programmazione del futuro. Ed è una cosa molto strana, perché vedo che il Paese più liberista che abbiamo in Europa, la Gran Bretagna, ogni anno rifà il suo programma di politica industriale e di sviluppo del territorio. Noi invece abbiamo buttato un’esperienza che fino agli anni Settanta è stata molto importante. Abbiamo mantenuto più a lungo che altrove le incrostazioni, i privilegi e i corpo-
rativismi, anche di tipo territoriale, ma nel momento in cui abbiamo cercato di liberalizzare ci siamo dimenticati di tutto il resto. Faccio l’esempio del Piano città, visto che una qualche responsabilità l’abbiamo anche noi poiché si è ispirato ad uno studio del Censis per l’ANCE. Ebbene, è un segnale importante, dopo anni di totale assenza del tema urbano dai propositi governativi. Nella giusta esigenza di sbloccare una situazione stagnante si è partiti dai progetti più che dalle strategie. Una maggiore cultura di programma, nelle istituzioni, avrebbe forse avuto un approccio un po’ diverso: “voglio fare un piano per attrarre nelle città investimenti in ricerca e sviluppo oppure per aumentare le dotazioni infrastrutturali, per diffondere l’abitare sostenibile, per sostenere le reti intelligenti, per riprendere le politiche abitative”. E di conseguenza la selezione dei progetti comportava il raggiungimento di alcune finalità e di alcune possibili convergenze di risorse finanziarie: per la riqualificazione urbana, per le smart cities, per i progetti di R&S, etc. È la dimostrazione di un Paese che ha obiettivamente abbandonato la cultura
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di progetto, persino nelle reti infrastrutturale. Basti pensare alla Legge-obiettivo. Se ci pensiamo bene, il periodo è simile a quello in cui fu lanciato il Progetto 80: ma erano gli anni 1963-64, e gli ultimi piani di infrastrutture forse sono stati proprio quelli, all’avanguardia per l’epoca. Fra il 1959 ed il 1963 in Italia venne costruita la prima centrale nucleare a Borgo Sabotino (Latina) e in quel momento nel mondo c’erano tre Paesi ‘nucleari’: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Italia. Ma in Europa l’Italia aveva la maggiore capacità installata, 420 megawatt. Lo voglio ricordare perché fu opera di uno dei fondatori del Censis, per giunta di formazione torinese, Gino Martinoli, figlio del professor Levi e fratello di Natalia Ginzburg, che salvò l’Olivetti minata dalle truppe naziste. Non nego che può essere stato un bene non aver proseguito, ma lo abbiamo fatto solo sotto una pressione emotiva non attraverso una scelta ponderata. Ricordiamo che all’epoca avevamo già 200 km di alta velocità ferroviaria, e qui sono convinto che i ritardi nella modernizzazione della rete ferroviaria siano un colossale peccato di omissione. Poi questo Paese ha smesso di costruire le infrastrutture, anzi ha smesso di desiderare un progetto sistemico nazionale e, devo dire, questo costituisce l’origine di molti dei nostri guai. Allora i pianificatori erano dei tecnici politici. Ora invece mi sembrano dei tecnici amministrativi. E le due cose sono un po’
diverse. Quindi dobbiamo trovare il coraggio di ridare un’identità ancora più forte al pianificatore, e la possiamo conseguire su più piani. Intanto, adeguando le competenze specifiche. Il pianificatore non è un esperto di diritto amministrativo. Secondo me non è neanche un esperto di sviluppo tecnologico: il pianificatore deve essere piuttosto una persona capace di maneggiare gli strumenti di progettazione del territorio. Ma voi oggi pensate che abbiamo adeguate competenze? A parte il Comune e la Provincia di Torino – ci ho lavorato e so di cosa sto parlando – guardiamo alle grandi aree metropolitane e chiediamoci se abbiano un’elevata capacità di dare soluzioni moderne ed efficienti a numerosi problemi che si pongono quotidianamente. Penso alla città di Roma: ogni volta che si mette mano alla pianificazione dei trasporti, peggiora la fluidità degli spostamenti. Credo che, in sostanza – ed è il secondo punto su cui soffermarsi, un punto essenziale – noi dobbiamo interessarci un po’ meno di disegni di legge e un po’ più di disegni culturali e tecnici. Oggi chi parla delle città? Diciamolo francamente, ne parlano molto di più i sociologi o i geografi. Ne parlano gli economisti, gli antropologi, i geologi. Mentre emerge poco la cultura di chi invece studia il territorio sotto un profilo più integrato, ragionando delle sue risorse naturali, del senso di comunità, delle relazioni funzionali, delle relazioni umane, dell’im-
magine e la qualità estetica o tecnologica che sono i riferimenti del pianificatore. Quindi occorrono più competenze specifiche (non di diritto amministrativo), più protagonismo culturale e, direi anche, più autonomia, e non connivenza. Perché non ci sono soltanto le città del nord. Penso obiettivamente che Torino sia una delle città meglio amministrate dal punto di vista urbanistico e con una grandissima qualità della vita e vivacità culturale. Ma chi dal Nord prende l’aereo per Roma e poi l’autostrada da Fiumicino vede quali quartieri moderni siano stati realizzati proprio in quelle aree. Ecco perché penso che il progettista pianificatore, come l’architetto, devono esercitare la loro professione con più autonomia e meno soggezione a interessi corporativi o speculativi. Molti dei mali derivanti dalla scadente edificazione del nostro Paese non sono attribuibili alle cattive intenzioni progettuali ma all’accettazione di meccanismi poco trasparenti. Il più banale è quello della molteplicità dei soggetti pubblici che interferiscono con il piano e che ‘sfibrano’ tutti i protagonisti, dallo sviluppatore al progettista, tanto che i progetti non sono più riconoscibili: uno chiede la strada che va a destra, un altro che va a sinistra e pur di avere la concessione se ne fanno due, una a destra ed una a sinistra. Ma vorrei entrare nel merito dell’oggetto di cui stiamo parlando, cioè del territorio e della città. Perché – l’abbiamo sempre
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detto, ma ora assistiamo ad un cambio di paradigma straordinario – le nostre città, come del resto tutte le città europee e non soltanto le grandi aree urbane metropolitane quali Parigi e Londra, ma soprattutto le medie metropoli (Torino compresa), sono destinate ad una densificazione e ad un accentramento di popolazione rilevantissimi. Al 2020 tutte le aree metropolitane del centro-nord italiano saranno cresciute. Basti pensare che Verona diventerà una città da quasi un milione di abitanti. Londra negli ultimi 10 anni è cresciuta del 9%, Manchester del 17%. Le otto metropoli periferiche del Regno Unito crescono, in funzione di una logica di recupero e di rinnovo del territorio, sempre più vicino alle aree centrali e semi periferiche. Questo è anche conseguenza della tendenza insediativa, ad esempio, delle grandi strutture commerciali: non più collocate in spazi periferici o di tipo rurale – che quindi hanno provocato quel gigantismo, quella città marmellata che invade tutto il territorio – ma, dentro il tessuto costruito. Quindi è importante annettere alla pianificazione la sensibilità programmaticopolitica, ripeto, di chi è sempre stato un tecnico politico e che ora rischia di diventare un tecnico amministrativo, perdendo di vista il senso delle cose che fa. Il pianificatore deve diventare un system integrator, un urban integrator perché – è l’altro aspetto fondamentale – oggi la pianificazione ha un grande motore, quello
infrastrutturale. La città e le infrastrutture sono ormai la stessa cosa. La città non è segnata da confini fisici dei luoghi che noi generiamo, non si è allargata perché abbiamo costruito un nuovo quartiere. La città oggi è determinata dalla mobilità che produce, quindi dal sistema di reti infrastrutturali o di altra natura che insistono su un territorio. Non è casuale il dibattito politico aperto sulla grande Parigi. Dopo aver spaziato in apertura sulle idee di “come deve essere la Grande Parigi” (così avvenne a Torino per il Lingotto) si è arrivati alla valutazione di fattibilità, scegliendo come motore del futuro sviluppo una grande rete metropolitana periferica con ben 220 nuove stazioni. Il confronto dialettico, anche di tipo politico-istituzionale, fra la Regione dell’Île de France ed il Comune di Parigi, si è spostato su come doveva essere fatta la rete, se doveva essere circolare, o avere un’altra morfologia. Per poi naturalmente passare alla concreta operatività. E qui c’è un secondo motore delle città: la gestione dei processi di trasformazione urbana. Chi ha pensato il velo-lab di Parigi? Un pianificatore giustamente deciso ad aumentare l’accessibilità al sistema di trasporto pubblico, o il Sindaco, per migliorare la sua immagine ecologista? Poco importa. Il risultato comunque è che quella città, nella sua gestione quotidiana, dimostra una capacità pianificatoria – nel senso di erogazione di un’offerta di servizi di livello
elevato – superiore alle altre, proprio perché ben gestita. Ed è intimamente legata al ruolo del pianificatore. Se invece i piani non dicono esattamente di che cosa si parla, cioè sono ‘zone’, quando le destinazioni sono incerte, evidentemente il progetto risulta vago e la sua gestione impossibile. Anzi produce gravi distorsioni. Questa è la ragione per la quale ritengo che la gestione sia forse importante almeno quanto, se non più della pianificazione territoriale stessa. Vorrei fare ancora qualche esempio sul processo decisionale. Non voglio parlare dell’attuazione del piano, penso soltanto alla forza degli eventi. Houston, città dei petrolieri, fino al 2004 non aveva lo zoning e non aveva nemmeno un sistema di trasporto pubblico, perché il petrolio era quasi gratuito ed andavano tutti in auto. Come città candidata alle Olimpiadi ha visto bocciare la sua candidatura per eccesso di inquinamento. Da quel momento è partito un processo incredibile: tre linee di metropolitana, un terzo del consumo energetico basato su energia eolica e tante altre cose, compreso il piano regolatore… Questi texani completamente sregolati e contrari, come mentalità, a qualsiasi forma di pianificazione, una volta che hanno capito di vivere in una città inquinata, quindi poco competitiva, si sono messi all’opera. Quindi il punto essenziale è di saper cambiare il paradigma. Personalmente ho preferenze municipaliste e penso che i Comuni restino l’istitu-
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zione territoriale per eccellenza. Aggiungo però che sono un sostenitore della tesi secondo la quale sulle Province bisogna avere giudizi più ponderati di quelli correnti. Non si possono fare scelte casuali. Sembra che le Province siano solo un’espressione geografica. Ma come si fa a ragionare solo in termini di standard quantitativi? Oltre alla geografia abbiamo la storia: ci sono degli Stati storici che vengono aboliti, come Modena, Parma. Anche Lucca ha una storia secolare. In gran parte le Province italiane sono napoleoniche. In tutte quelle padane, i confini furono tracciati alla distanza di una giornata di cavallo fra una stazione di posta e l’altra. Quanto meno siamo al 1805, perciò hanno duecento anni. E noi pensiamo di rifare la governance istituzionale del territorio italiano, che è una cosa serissima, con un provvedimento derivante da un accordo improvvisato? Non funzionerà mai. Forse sarebbe saggio affermare che: le Regioni hanno poteri troppo staccati dal territorio, scarse capacità di gestione, mentre abbiamo territori fortemente interconnessi. Il livello intermedio provinciale è quello giusto per la pianificazione: i piani
regolatori devono entrare in quel disegno e anche l’approvazione dei piani regolatori va assegnata a quel livello. Come si fa a rifare un assetto istituzionale senza avere in testa il disegno complessivo? Vogliamo avere le Regioni senza le Province? Non c’è Paese europeo che non conti su tre livelli di governo: il Comune che è la base di tutto, l’ente intermedio e la Regione. Ci sono in Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna. Noi invece, vorremmo abolire l’istituzione più debole, senza vitalizi e rimborsi ai gruppi politici. Ma non è un ragionamento serio, mentre è il giusto argomento su cui dovremmo ragionare come pianificatori. Dobbiamo dire quale è la governance del territorio, ridisegnando l’assetto amministrativo complessivo. Anche ricavare le Aree metropolitane assumendo i confini delle rispettive Province non ha senso. Cosa c’entra Civitavecchia con Roma? Faccio il piano dell’area metropolitana di Roma e mi devo occupare di Comuni, che con Roma non hanno nulla a che fare? Oppure, disegno l’area metropolitana di Milano e Monza non ci rientra?
Gli argomenti sarebbero ancora tanti, ma tengo a ribadirne uno: il pianificatore che si forma in una facoltà di Architettura o di Urbanistica deve avere una sua specifica professionalità, che non è né quella del giurista né quella dell’economista. Perché questa è la peggiore deviazione che abbiamo subito, necessitata forse da tante ragioni, ma negativa. Integrando anche altre professionalità, il nostro contributo deve essere volto a dire qual è il modello di insegnamento che vogliamo, qual è il tipo di comunità che dobbiamo servire, quali sono le attività e gli investimenti che devono essere realizzati, qual è la guida che deve avere il pubblico e quale l’ambito di operatività del privato sul territorio. Insomma, il pianificatore ha uno spazio di intervento enorme. Purché si lasci ai docenti di diritto amministrativo il compito di spiegare come si devono fare le gare, quali devono essere i controlli, come si deve attuare la perequazione e si riprenda invece il gusto di dare al Paese una visione del territorio che oggi è troppo debole rispetto alle grandi opportunità e alle grandi sfide che ci propone il nostro futuro.
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Lo strano caso dei docenti di pianificazione Intervista di Liana Pastorin ad Alessandro Balducci
DOMANDA I docenti universitari che esercitano anche attività professionale si sono visti limitare da anni la possibilità di gestire contemporaneamente questo doppio ruolo. Che cosa ne pensa come professore che deve insegnare a progettare piani? RISPOSTA La legge Gelmini (L. 240/2010) ha deciso di escludere la possibilità per i professori a tempo pieno di esercitare attività progettuale, contrariamente a quanto avveniva in passato (L. 382/1980), quando era sufficiente per il docente ottenere un’autorizzazione dalla propria università. Oggi è consentita solo l’attività di consulenza, non più quella di progettazione. D Eppure la legge sulla riforma delle università, in riferimento allo stato giuridico di professori e ricercatori universitari, applica una distinzione tra settori disciplinari, consentendo di fatto l’esercizio della professione per esempio ai medici. Perché gli architetti docenti non hanno potuto godere della stessa attenzione? R L’aspetto fondamentale non è tanto poter fare attività professionale quanto che si chieda ai docenti di insegnare all’università una didattica che non si misura con la realtà. Al Politecnico di Milano è in corso una riflessione per includere nelle attività svolte dai docenti la partecipazione ai concorsi di idee e di progettazione con l’obiettivo di riportare all’interno dell’università una vera e propria attività di progettazione. In caso di aggiudicazione di un concorso di progettazione, che implica quindi la fase di realizzazione dell’opera, è possibile inoltre fissare dei limiti, come, per esempio, l’obbligo per il docente di passare al regime di ‘tempo definito’, o di cedere la titolarità dell’incarico
ad un membro del gruppo di lavoro regolarmente iscritto all’Ordine o già in regime di ‘tempo definito’. Anche al Politecnico di Bari è stata assunta una decisione che tende a consentire ai docenti di partecipare a concorsi. D Ma per un docente di urbanistica o pianificazione, ci sono effettivamente occasioni di partecipare a concorsi quando la gran parte di essi riguardano invece progetti di architettura? Non sarebbe meglio che alle università tecniche venisse consentito di partecipare legittimamente a bandi di gara per l’affidamento di incarichi urbanistici, potendo coinvolgere in tal modo docenti, ricercatori e gli stessi studenti? R Dal punto di vista concettuale la situazione non è diversa rispetto a quella dei concorsi di idee o di progettazione. Fatto salvo il rispetto della legge si potrebbe operare con gli stessi criteri. D Tra le varie accuse mosse dai professionisti ai docenti universitari che esercitano, la principale riguarda la concorrenza sleale. Sbagliano? R Sarebbe auspicabile riuscire a modificare i termini di questo rapporto, e parlare non di concorrenza ma di comune interesse tra Ordini e Università. Non possiamo nasconderci che molti Ordini, e lo stesso Consiglio Nazionale degli Architetti, credono che i docenti possano usare gratuitamente una forza lavoro manuale e intellettuale, pescando dal bacino degli studenti. A prescindere dal fatto che non si tratta di sfruttamento di studenti, quanto semmai di opportunità offerta a dottorandi e assegnisti di ricerca di misurarsi con i problemi della pratica urbanistica, la discriminante dovrebbe essere
la natura del lavoro: ha senso che l’università entri in campo quando si tratta di sperimentare nuovi strumenti; ha meno senso quando si tratta di operazioni di routine. Ci potrebbe quindi essere un vantaggio anche per gli Ordini. D A quale titolo lei ha potuto partecipare all’elaborazione del piano strategico della Provincia di Milano o fare il consulente per progetti a Shangai e Dubai? R Appunto il Piano Strategico per la Provincia era allora, uno strumento innovativo non codificato, sul quale era necessario avviare una sperimentazione che fosse ben fondata nella riflessione disciplinare più avanzata. Per questo la Provincia ha deciso di coinvolgere l’Università. Per il progetto urbanistico di Shanghai siamo stati coinvolti in una attività di supporto alla azione della Triennale di Milano in un progetto di sviluppo urbano. A Dubai abbiamo partecipato ad un concorso di idee per il Piano da cui è scaturita una attività di peer review. D Che cosa avviene nelle università straniere per consentire ai docenti (soprattutto quelli di pianificazione) di insegnare il mestiere ai loro studenti? R La partecipazione ai concorsi condizionata come ho cercato di dire può essere un modo per garantire rispetto delle prerogative dei professionisti ed allo stesso tempo un contatto diretto dei docenti con il mondo delle pratiche, come avviene nelle università degli Stati Uniti o in Inghilterra e come è chiesto dalla legislazione europea. È necessario (e urgente) un reciproco riconoscimento, come prioritaria condizione per accettare una gara fra idee dalla quale tutti possono imparare e per alzare l’asticella della qualità dei progetti.
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Il ruolo del pianificatore per il governo del territorio Da una visione multidisciplinare ad una visione olistica, che prevede l’interazione ed il confronto fra le diverse discipline che interessano il territorio Carlo Alberto Barbieri
Nell’ambito dell’insieme delle molteplici funzioni, transcalari e multidisciplinari che costituiscono il governo del territorio (così come è statuito dal 2001, a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione) riflettere sul ruolo culturale, tecnico e professionale del planner, riveste importanza e attualità innanzitutto per le istituzioni pubbliche che del governo del territorio hanno le competenze e le responsabilità ad esse attribuite dall’ordinamento (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e lo stesso Stato). In ciò va affermata l’utilità civile ed il necessario impegno in primo luogo dell’Università, nel preparare le giovani generazioni alle attività pubbliche del governo della città, del territorio, del paesaggio e dell’ambiente (così trascurato nel nostro Paese), formando una figura cui deve essere richiesta una competenza capace di interpretare la complessità di tale insieme di funzioni ed in grado di collaborare a tutte le attività connesse alla pianificazione alle diverse scale, alla valutazione ambientale strategica ed alla gestione di piani, programmi e progetti urbani in ambito pubblico e privato (anche nell’ambito del Piano Nazionale per le Città, introdotto da agosto 2012 e dell’istituzione del Comitato interministeriale per le politiche urbane-CIPU). Dunque un pianificatore caratterizzato da una formazione multidisciplinare che gli consenta di cooperare con specialisti di-
versi, assieme ad una attitudine al ‘saper fare’ e ad applicare le conoscenze acquisite in attività di analisi, progettazione e valutazione; un soggetto in grado di assumere il ruolo non solo di coordinatore di competenze settoriali e specialistiche ma anche di mediatore e interlocutore tecnico-culturale nei processi decisionali e partecipativi. Guardando alle istituzioni del governo del territorio, l’innovazione non solo delle dimensioni ma soprattutto (deve essere così!) dell’assetto istituzional-territoriale con le Unioni di Comuni, con le Province fortemente ridotte di numero e significativamente riordinate, con le costituende Città metropolitane e soprattutto con le nuove forme di governance che potrebbero svilupparsi (con il ricorso al sistema elettivo-rappresentativo di secondo grado per le Province e le Città metropolitane), evidenzia l’utilità transcalare di un nuovo modo di pianificare il territorio e le città con piani formati mediante la ‘copianificazione’ in cooperazione con gli Enti che governano l’area vasta. Ciò a condizione di saper cogliere fino in fondo la portata innovativa e sostanziale sia della articolazione e distinzione fra componenti strutturali, operative e regolative della pianificazione, sia della ‘perequazione e compensazione territoriale’, intese come metodi ed azioni per facilitare scelte concordate tra comuni (nelle Unioni e fra Unioni di Comuni) in tema di rispar-
mio di suolo e riduzione delle esternalità negative sull’ambiente ed il paesaggio, attivando forme di ‘intercomunalità solidale’ e cioè giochi a somma positiva nello sviluppo locale, strumenti redistributivi che bilanciano costi e benefici tra Comuni. Si tratta peraltro della sostanza di proposte sostenute e promosse nella loro sperimentazione (in particolare dall’INU) ormai da più di quindici anni che, oltre a risultare ancora lontane dall’essere realmente e sufficientemente conseguite nel loro significato ed efficacia, richiedono tuttavia una riflessione ed un aggiornamento, sia nello scenario di crisi economico-sociale e politica, sia con riferimento alle numerose nuove leggi regionali della pianificazione e soprattutto alla ancora clamorosamente assente legge nazionale di principi fondamentali del governo del territorio. La città e il territorio rappresentano un laboratorio per cogliere e sostenere il futuro in corso ed i cambiamenti (in alcuni casi delle metamorfosi) dell’abitare, del lavorare, del relazionarsi e del comunicare. Ma non si tratta solo di perseguire obiettivi di sostenibilità ambientale, di crescita economica quantitativa o di rispondere ai nuovi bisogni sociali, si tratta di rivedere il modello di sviluppo ed insieme ad esso ripensare il modello urbanistico, abbandonando quello del Novecento (basato sostanzialmente su Risorse pubbliche, Rendita e Regolazione) per guardare ad un modello urbanistico alimentato da altre
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nuove “R”: Rigenerazione e Riciclo, Resilienza e Riattivazione dei capitali urbani. Nel focalizzare l’attenzione a considerare lo scenario di crisi nel quale si collocano il territorio e la città contemporanei ed il loro essere, trasformarsi e svilupparsi secondo un’innovazione di paradigmi che devono anticipare un futuro complicato e certamente alquanto diverso, è importante ritenere che la prospettiva istituzionale prima richiamata possa costituire un’opportunità ed uno scenario in divenire più favorevole: a) per le Regioni chiamate a saper cercare e ritrovare il senso e l’importanza del loro ruolo di governo non centralistico e di soggetto legislativo più vicino e consapevole ai territori ed alla società (anche nell’ambito di un meditato ma necessario ridimensionamento del federalismo delle competenze e dei poteri delle Regioni, che nell’ultimo decennio, con discutibile enfasi retorica e molte contraddizioni, è stato perseguito; un ridimensionamento che tuttavia necessita anch’esso di una riflessione più complessa, nei riguardi di un neocentralismo presentato come ‘di necessità’ che ha caratterizzato l’azione del Governo Monti e parte dello stesso dibattito pre e post elettorale); b) per Province meno numerose ma che siano un più utile ‘ente intermedio’ di quanto non lo siano forse mai state; c) per Unioni di Comuni e Città metropolitane che sappiano esprimere politiche
e progettualità integrate volte al contenimento del consumo di suolo, alla rigenerazione urbana, al risparmio energetico, all’efficienza ed efficacia del sistema della mobilità, all’equilibrio ecologico ed ambientale, all’attribuzione di valori condivisi alle qualità della città e dei territori, ad una sostenibile e mirata fiscalità urbana; d) per l’attivazione di progettualità dai territori locali in vista di auspicabili nuove politiche europee di crescita, coesione e sostenibilità energetico-ambientale, catturando opportunità e finanziamenti della Programmazione 2014-2020 (che saranno assegnati quasi esclusivamente a progetti secondo l’approccio Community Led Local Development-CLLD). La pianificazione dello sviluppo dei territori, l’attenzione nei confronti del paesaggio, dell’ambiente e delle esigenze ed emergenze sociali, la progettazione urbanistica delle città, rappresentano però sfide da affrontare in una logica sistemica e richiedono la presenza di una figura tecnica e professionale, quale può e deve essere quella del planner, portatrice di un approccio culturale ampio, capace di superare le separatezze disciplinari sostenute da specialismi (tali o presunti tali) e corporativismi che tendono a difendere i propri ‘recinti disciplinari’ da intromissioni esterne. A tal fine va definitivamente presa coscienza della necessità di un passaggio cruciale che deve consentire di spostarsi da una visione multidisciplinare, nata dalla
sommatoria delle diverse discipline che interessano il territorio, ad una visione più olistica, capace di affermarsi grazie all’interazione ed al confronto dialettico fra le diverse discipline stesse. Ma al contempo non può essere dimenticato che tuttavia la competenza del pianificatore (esito della riforma dell’Università e delle relative Classi di laurea triennale e magistrale e pur con uno specifico inserimento in un Ordine professionale), necessita ancora di un più effettivo ed efficace riconoscimento (una competenza nell’esercizio della professione o nell’inserimento nella Pubblica amministrazione, se non esclusiva, almeno riservata). A questo proposito, deve essere favorevolmente sottolineata la disciplina che la consistente revisione della legge urbanistica del Piemonte (Ddl 153/2011 di modifica della Lur 56/1977) prevede per la attribuzione da parte dell’Amministrazione pubblica di incarichi e compiti di pianificazione della città e del territorio. Una norma in cui la competenza del laureato magistrale in pianificazione viene considerata quella appropriata, insieme a quelle dei laureati quinquennali o magistrali in Architettura ed Ingegneria se “dotati di specifica competenza urbanistica”, offrendo così un opportuno orientamento agli Enti sia per la valutazione nell’affidamento di incarichi di pianificazione, sia nella valutazione di assunzioni mediante concorso pubblico.
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Il futuro dei planner Riforma urbanistica, riforma del piano e diverso comportamento etico dei planner sono le parole chiave per superare la crisi dell’urbanistica Federico Oliva
Nel lungo periodo nel quale ho diretto il corso di laurea di Pianificazione del Politecnico di Milano, per oltre undici anni fino alla fine del 2011, mi sono sempre domandato dove stavamo sbagliando io e gli altri colleghi che avevano responsabilità nella gestione del corso. Ogni anno, infatti, registravamo regolarmente una diminuzione delle iscrizioni, soprattutto in ingresso, superiore alle normali percentuali di abbandono, diminuzione che si è accentuata con l’introduzione della laurea triennale in Urbanistica e di quella magistrale in Politiche urbane e Pianificazione territoriale e che negli ultimi anni siamo riusciti a contenere solo grazie al programma di internazionalizzazione sviluppato dall’Ateneo: sono infatti arrivati numerosi studenti stranieri, la maggior parte già laureati in Architettura o Ingegneria, che consideravano la nostra laurea magistrale come un master. Eppure, sin dalla sua fondazione nel 1996, il corso di laurea in Pianificazione aveva raccolto i migliori docenti di Urbanistica e di Pianificazione Territoriale presenti nella Facoltà di Architettura e Società alla quale faceva riferimento il corso, quasi tutti de-
dicati esclusivamente allo stesso, mentre altrettanto prestigiosi erano i docenti delle altre materie fondamentali, dalle scienze sociali a quelle economiche. Al punto che, comparandolo con gli altri corsi di laurea presenti nella Facoltà e anche nell’Ateneo all’interno dello stesso campo disciplinare, non si poteva non attribuire al corso di laurea in Pianificazione una qualificazione di eccellenza; l’attenzione puntuale alla quale veniva sottoposto il percorso formativo ha fatto sì che sia stato più volte riformato per migliorarlo, a volte anche troppo, per le conseguenze che le modifiche ripetute potevano avere sulle carriera degli studenti. Nei primi anni, come tutti, ero convinto che questa difficoltà di fondo del corso di laurea, non imputabile né alla qualità dei docenti, né all’organizzazione del percorso formativo, fosse dovuta alla mancanza dell’esplicito riconoscimento professionale di legge che caratterizzava i laureati in Pianificazione, un’anomalia che ha pesato sugli stessi, a partire da quelli iscritti al primo corso di laurea istituito da Astengo a Venezia nel 1970 (anch’esso guidato da un formidabile corpo do-
cente). Ma quando, nel 2006, è stato istituito l’Albo professionale dei pianificatori (seppure nella forma poco felice di essere quasi un’appendice dell’Albo degli architetti) e le cose non sono cambiate, è parso evidente che quella non era la ragione, o meglio, non era la ragione principale. Ragione principale che riguardava, invece, ancora il non esplicito riconoscimento professionale, non perché non garantito dalla presenza di un Albo, come quello ormai conquistato, ma perché messo in discussione dalle possibilità professionali che la legge attribuisce ad architetti ed ingegneri nel campo dell’urbanistica e della pianificazione territoriale, a fronte di un limitatissimo specifico percorso di studio e senza dover sostenere l’esame di abilitazione previsto per esercitare la professione di pianificatore. Insomma, perché studiare cinque anni in un percorso formativo impegnativo, quando le stesse possibilità ti venivano offerte conseguendo le due lauree in Ingegneria e Architettura, insieme ad uno spettro assai più ampio di altre possibilità professionali? La soluzione più logica per superare la
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crisi dei corsi di pianificazione, sembra quindi quella di limitare l’esercizio della professione di planner (uso questa definizione sintetica e comprensiva) ai soli laureati in Pianificazione che hanno superato l’esame di abilitazione. Ma poiché ciò non è possibile, perché escluderebbe ingegneri e architetti che hanno legittimamente conseguito tali competenze prima dell’istituzione dell’Albo dei pianificatori, si dovrebbe allora partire dalla data d’istituzione dell’Albo professionale dei pianificatori, imponendo anche ai laureati in Ingegneria civile o edile e in Architettura dopo tale data di sostenere l’esame di abilitazione in Pianificazione per poter svolgere la professione del planner. Una soluzione chiara, che non lede i diritti pregressi di ingegneri e architetti e che potrebbe essere ragionevolmente accettata dai rispettivi Ordini professionali e che offre chances competitive ai laureati in Pianificazione, forti di una preparazione in materia assai più completa e approfondita, di quanto non possano garantire il paio d’esami oggi previsti nei percorsi formativi di ingegneri e architetti. Tutto ciò però non è sufficiente per garantire un rilancio pieno dei corsi di laurea in Pianificazione, ormai sofferenti in tutta Italia, specialmente per quanto riguarda la laurea triennale. Va anche superata la crisi dell’urbanistica ormai unanimemente conclamata, una crisi che ha visto progressivamente marginalizzata questa disciplina, che l’ha portata ad essere non considerata utile dalla società, quando non controproducente: ciò, nonostante la totale copertura della pianificazione sul territorio, per il pessimo stato in cui versano le nostre città, prive delle indispensabili capacità competitive necessarie per lo sviluppo e dello stato ancora peggiore in cui versa il nostro territorio, devastato dall’incuria, dall’abbandono e dall’abusivismo che ne compromettono il paesaggio, una delle maggiori risorse di cui disponiamo e gravato da un pesante rischio idrogeologico che ne mette in discussione la sicurezza. Certo, le responsabilità di questa crisi nazionale non sono solo dei planner, anche se ad essi ne va imputata una buona
parte, in primo luogo per l’incapacità che gli stessi hanno dimostrato di riformare uno statuto disciplinare che si fondava (e si fonda tuttora) su regole e norme obsolete e inefficaci e, in secondo luogo, per non aver saputo gestire la propria professione con la necessaria indipendenza dal proprio committente principale, la Pubblica Amministrazione, e con la conseguente indispensabile autorevolezza. Insomma, un deficit legato alla mancata riforma e, insieme, ad un comportamento professionale eticamente discutibile. Non si può spiegare in modo diverso perché una disciplina e una professione che in Europa (per limitarci a questo continente) sono tenute nella più alta considerazione politica e sociale e ritenute indispensabili, mentre in Italia sono invece pratiche poco considerate e mal sopportate, marginali nell’agenda pubblica del Paese, come marginali sono ormai nell’ambito degli studi universitari. Una situazione che può essere superata solo affrontando i tre aspetti fondamentali che caratterizzano l’attuale condizione di crisi: la riforma urbanistica, la riforma del piano e l’etica professionale dei planner. Per quanto riguarda la riforma urbanistica essa coincide con la legge sui principi fondamentali del governo del territorio che nel nostro Paese è obbligatoria dal 2001, ma che da allora ogni legislatura ha messo in disparte. Una legge che deve essere semplice ed essenziale, ma che deve anche essere efficace ed autorevole per sostituire l’intero vecchio ordinamento. Una legge che deve mettere ordine nel confuso e farraginoso ‘federalismo urbanistico’ che si è configurato con le leggi regionali approvate dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, indicando un nuovo modello di piano e un nuovo modello attuativo adeguato agli attuali scenari urbani e territoriali. Una legge che deve contenere in modo esplicito le future scelte fondamentali: il contenimento del consumo di suolo, la rigenerazione/riqualificazione urbana come pratica costante e ordinaria, la mobilità sostenibile come condizione per ogni trasformazione, il sostegno alla capacità naturale di rigenerazione delle principali risorse ambientali, la
messa in sicurezza dell’intero territorio dal rischio sismico e da quello idrogeologico. Una riforma urbanistica che deve essere integrata da una radicale revisione della fiscalità locale i cui proventi devono essere completamente indirizzati verso la ‘città pubblica’ (social housing compreso) e il territorio e dalla ridistribuzione sociale della rendita fondiaria urbana attraverso una ulteriore misura fiscale, come misura indispensabile per garantire le necessarie risorse per il governo del territorio. Altrettanto indispensabile è la riforma del piano. La proposta avviata nel 1995 con lo sdoppiamento del vecchio piano regolatore in un piano strutturale e in un piano operativo è ancora valida. La sua attuazione, tuttavia, non è stata soddisfacente, perché non tutte le Regioni l’hanno adottata e quelle che lo hanno fatto hanno prodotto, quasi sempre, modelli ancora in bilico tra le vecchia forma regolativa e quella strutturale. Ciò di cui c’è bisogno è, quindi, un piano veramente strutturale, cioè non conformativo dei diritti edificatori e solo programmatico (o, se si vuole, strategico), fondato su invarianti di lungo periodo relative al sistema ambientale e a quello infrastrutturale, frutto dell’elaborazione tecnico-scientifica dei planner e degli specialisti che con loro collaborano, non negoziabili dalla politica. Un piano che rappresenta il telaio per piani, programmi, progetti e politiche che ne rappresentano il momento operativo e, quando necessario, la dimensione conformativa, senza dover prevedere tutte le trasformazioni possibili, come nel vecchio modello regolativo dominato dallo zoning, ma solo quelle mature, condivise, fattibili e utili per la collettività. Da ultimo, ma solo nell’ordine del presente ragionamento, emerge la necessità di un diverso comportamento etico dei planner nella loro pratica professionale. Un comportamento che deve essere conforme all’importanza dei contenuti che tratta e quindi responsabile e autorevole, senza sottostare, come troppo spesso è avvenuto nel passato, alle richieste della politica, che spesso hanno poco a che fare con la qualità del progetto e con le reali necessità della città e del territorio.
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Gli attori della copianificazione in Piemonte Elementi innovativi e di continuità nella Legge regionale. Le caratteristiche essenziali e le doti che deve avere il pianificatore territoriale Livio Dezzani
Nel variegato panorama delle scelte legislative delle Regioni italiane in materia di urbanistica, il Piemonte – tramite la recente LR n. 3 del 25 marzo 2013 – ha compiuto una scelta, che accomuna caratteri di innovazione con forti elementi di continuità. È infatti innovativa la scelta di adottare, per tutti i casi in cui interviene l’approvazione dello strumento urbanistico da parte della Regione, la formula della ‘copianificazione’, intesa come processo di dialogo – ritmato appunto dalle ‘conferenze di copianificazione e valutazione’ – in cui vengono esaminati e discussi, tra Regione, Provincia e Comune proponente, tutti gli aspetti dello strumento urbanistico, riportando così ad unitarietà le analisi propriamente urbanistiche, insieme a quelle di tipo idrogeologico e sismico, nonché gli aspetti connessi alla valutazione ambientale strategica. È invece una scelta di continuità l’aver mantenuto al centro del governo del territorio lo storico strumento del Piano Regolatore Generale: scelta connessa alla volontà di non turbare radicati percorsi professionali ed amministrativi, che – da ormai 35 anni – hanno appunto nel PRG il loro punto focale, al contempo tecnico e politico. Ma anche questa scelta non è priva di una componente di innovazione: la nuova legge urbanistica regionale prevede infatti (al suo articolo 14 bis) la possibilità che il ‘tradizionale’ PRG si declini nelle due componenti, strategica ed operativa, potendo quindi porsi nel solco di una tradi-
zione disciplinare (peraltro ancora non del tutto comprovata e convincente) che ha riguardato molte Regioni italiane. Diventa pertanto centrale, in questo sistema di copianificazione che (dopo un periodo di prova iniziato nel 2007 su strumenti di maggior semplicità) prende ora l’avvio, individuare con attenzione la figura del pianificatore territoriale, che nelle sue molteplici vesti – libero professionista, funzionario degli Enti Locali, funzionario della Provincia e della Regione – ne sarà certamente il protagonista centrale. Affrontare il tema del ruolo del pianificatore territoriale implica, inevitabilmente, la necessità di giudicare, seppur sommariamente, lo stato dell’arte di questo difficile ed appassionante mestiere, oggi diviso tra una pluralità di percorsi disciplinari ed accademici, pochi dei quali direttamente riconducibili a corsi di laurea specificatamente a ciò dedicati. Guardando quindi dal privilegiato osservatorio della Direzione Regionale all’Urbanistica (il punto nodale su cui convergono tutti i processi approvativi dei Piani di livello non solo locale), si può parlare di uno stato di salute sufficientemente buono, con riferimento appunto al mondo della pianificazione territoriale, pubblica e privata. Una stima forzatamente approssimata ha portato a definire in circa 10.000 tecnici l’insieme di coloro che, sui due versanti del pubblico e del privato e con una frequenza di lavoro più o meno ampia, si dedicano professionalmente alla pianificazione territoriale: un insieme molto vasto, che ospita inevitabilmente diversi
livelli di eccellenza e di specializzazione, per il quale può non essere facile parlare di ‘livello medio’. Fatta questa doverosa premessa, si può peraltro concludere che il livello medio della pianificazione territoriale, in Piemonte, sia sufficientemente alto ed uniformemente diffuso: nei grandi come nei piccoli Comuni, è ormai normale trovare tecnici che non solo conoscono la norma, ma che sono anche in grado di connettere efficacemente il loro lavoro alle esigenze della collettività locale, per la quale lavorano e nella quale operano. Il problema non è quindi tanto ‘l’oggi’, quanto piuttosto ‘il domani’. A fronte di un processo di rinnovo tecnico e legislativo – mosso dalle grandi normative europee e che trova nella nuova LR 3/2013 il suo motore piemontese – il mestiere del pianificatore territoriale deve infatti avventurarsi su strade nuove, ed in parte ancora poco frequentate. Un’immagine, utilizzata per illustrare i principi su cui si è basata la nuova LR 3/2013, ha descritto l’urbanistica come “un triangolo” che deve avere la capacità di portare a sintesi efficace almeno tre componenti: la classica urbanistica tecnica, l’insieme delle valutazioni ambientali, il rispetto di precise regole di tipo idrogeologico e sismico. È ben vero che per ognuna di tali materie operano tecnici specialisti: ma è proprio la ‘frammentazione del sapere’ a creare i rischi maggiori, ed a rilanciare con forza ruolo e figura del pianificatore territoriale. È infatti forte il rischio che il sommarsi
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non organizzato delle diverse componenti tecniche ‘di settore’ porti a strumenti urbanistici poco omogenei ed, in ultima analisi, poco operativi: peraltro, vedendo lo stesso fenomeno della frammentarietà dei saperi dal punto di vista del funzionario ‘valutatore’, è altrettanto forte il rischio che la valutazione, e quindi l’approvazione dei Piani, avvenga per aspetti settoriali, tra di loro distinti, e non tramite una necessaria valutazione complessiva e di sintesi. Possiamo quindi trarre una prima, seppur provvisoria, conclusione: il pianificatore territoriale deve saper sviluppare – nel suo percorso di studio e poi di esperienza – essenzialmente doti di sintesi: largo quindi agli approfondimenti disciplinari, ma largo soprattutto a quella capacità di unire il momento amministrativo a quello tecnico, che deve essere – a mio avviso – la vera discriminante per comprendere chi veramente è vocato a questa professione. Continuando nell’analisi di quelle che sono le necessarie caratteristiche di chi opera oggi nella pianificazione del territorio, emerge immediatamente un altro punto focale: la necessità che la professionalità di tipo generale si unisca all’approfondita coscienza di regole e strumenti dell’informatica, intesa sia come capacità di disegno e progetto, sia come capacità di accedere efficacemente alle molteplici risorse, che sono presenti (e più o meno facilmente accessibili) nel variegato ed infinito mondo della rete. Troppo spesso, infatti, vediamo e misuriamo la difficoltà, da parte di molti tec-
nici, nell’accedere a risorse conoscitive, che pure la rete offre da tempo e con sicurezza: accade ancor oggi di incontrare tecnici che non padroneggiano strumenti basilari, come la banca dati delle leggi regionali, o che si perdono in lunghe ricerche ‘autonome’ di dati, che la rete invece offre con semplicità ed immediatezza. A ciò si sommano anche latenti carenze nella creazione degli elaborati grafici dei Piani: deve essere ormai chiaro a tutti i tecnici che il Piano di oggi non è ‘un disegno’, ma la parte vivente di un sistema georeferenziato, che dialoga con altri piani ed altri strumenti, per un efficace scambio di informazioni e per una effettiva sintesi operativa. Il pianificatore territoriale, per trarre soddisfazione dal suo lavoro e per essere veramente utile alla tutela ed alla promozione del territorio piemontese, deve pertanto essere essenzialmente ‘uomo di sintesi’, capace di condurre in porto una complessa macchina interdisciplinare, il cui prodotto ultimo è il Piano, o meglio ‘l’azione pianificatoria’. La differenza tra i due concetti – piano ed azione pianificatoria – esiste ed è apprezzabile: sempre più spesso, infatti, al pianificatore non viene chiesto tanto un ‘progetto’, ma ‘un’azione’, composta da diverse fasi (tecniche, amministrative, legali ed economiche), il cui risultato ultimo è un intervento, a volte anche molto complesso, sulla realtà del territorio. Risulta chiaro che dominare queste realtà complesse ed interdisciplinari richiede capacità e competenze ancor maggiori, an-
che rispetto alla capacità di sintesi di cui sopra parlammo, con riferimento alla stesura dei Piani: in queste realtà complesse, la stesura del Piano può anzi apparire quasi secondaria, rispetto alla necessità – ed alla conseguente necessaria abilità – di condurre il complesso concerto di tutti coloro che devono concorrere al risultato finale. Cresce dunque – anche per la necessità di dare valide risposte alla crisi economica – la necessità che la scuola, ai vari livelli, aumenti le doti formative, nei vitali campi della capacità di sintesi e della conoscenza interdisciplinare: compito che inevitabilmente si ribalta anche sugli Ordini professionali, nel contesto di una ormai ineludibile formazione continua. Da parte sua, la Regione Piemonte ha fatto un suo atto di fede, convinto ed operativo, nel ruolo futuro del pianificatore territoriale: l’articolo 79 del nuovo testo legislativo (“Progettazione degli Strumenti Urbanistici”) pone infatti al primo posto, tra quanti sono appunto chiamati agli incarichi esterni per la redazione degli strumenti urbanistici, gli “esperti con laurea magistrale in pianificazione territoriale urbanistica e paesaggistico-ambientale”. Un convinto atto di fede nel futuro di una professione recente ma già consolidata, alla quale è affidato il difficile compito di governare il territorio, la principale tra le risorse non rinnovabili dalle quali dipenderà il nostro futuro. Un richiamo, altrettanto forte e convinto, affinché i percorsi formativi – prima e dopo la laurea – convergano sull’obiettivo dell’eccellenza.
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Il pianificatore territoriale e la pianificazione di area vasta L’autonomia e le funzioni attribuite alle future aree metropolitane sono fattori cruciali per consentire l’integrazione dei diversi piani comunali Paolo Foietta e Ilario Abate Daga
L’assetto degli attuali livelli di pianificazione, soprattutto per quanto riguarda l’area vasta, è indubbiamente in una fase storica delicata. L’ente Provincia, prima in disuso poi in riuso, prima rottamato poi ricostruito, prima soppresso poi rilanciato, opera in una fase di enorme confusione e, se consentito, di delegittimazione. Ciò che riserverà il futuro per l’area vasta, cosa emergerà dal riassetto istituzionale è prima di tutto un compito della politica; la riforma degli enti locali dovrà definire i ruoli, le funzioni, le competenze in cui operare. Alcuni temi che riguardano il riassetto delle Province vanno però trattati preliminarmente, poiché avranno dirette ripercussioni sul ruolo dei pianificatori nella pianificazione di area vasta. La prima domanda da porsi riguarda il modo di elezione: le Province-Città metropolitane saranno un ente a elezione diretta o un ente di secondo grado? Questo è un punto centrale poiché permette di superare un nodo cruciale: il compito di area vasta è una mediazione interna degli interessi locali oppure esiste un ruolo di pianificazione necessariamente autonomo? Ovvero, assisteremo a un Comune-guida che regola la gestione del nuovo ente nell’interesse mediato dei singoli rapporti di forza, oppure si potrà pensare a una mediazione di carattere diverso? Le risposte a queste domande saranno sicuramente in funzione del sistema di elezione e/o nomina scelto. Non si può tuttavia nascondere che in Italia gli enti di secondo grado hanno sempre fallito; ne
è un esempio la recente chiusura delle Comunità Montane che pur hanno rappresentato, in particolare su alcuni temi, un’esperienza importante. Creare e immaginare delle Province che ricalcano delle grandi Comunità Montane probabilmente sarebbe un errore, poiché una somma delle diverse esigenze è difficilmente gestibile. L’autonomia di un ente di area vasta è pertanto essenziale. Altro nodo cruciale riguarda le funzioni del nuovo ente. Fino a questo momento non è stata posta in discussione tra le funzioni proprie la pianificazione di area vasta, legata ad altri due aspetti specifici: la pianificazione delle infrastrutture e la pianificazione/autorizzazione ambientale. Il riassetto su cui si sta misurando il dibattito politico vede con forza questa triade di funzioni, decretando così il definitivo superamento delle pianificazioni separate che hanno creato nella nostra esperienza molti danni; un esempio su tutti è l’attuale difficile dialogo tra VAS e pianificazione territoriale. Pianificazione territoriale, pianificazione infrastrutturale, pianificazione ambientale delimiteranno la cornice entro cui si collocherà il laureato in Pianificazione territoriale che si occuperà di area vasta. L’esperienza della Provincia di Torino è stata su questo tema precursiva: attraverso il Piano Territoriale di Coordinamento (PTC) ha sovraordinato in modo sostanziale e non solo formale le pianificazioni settoriali. Il PTC è inoltre un piano di gestione delle risorse primarie del nostro territorio. In
particolar modo riguardo al tema del contenimento del consumo di suolo è stata condotta una politica attiva che solo adesso trova grande interesse anche a livello nazionale; a riguardo si segnala il primo DDL presentato direttamente dal Presidente Monti sul contenimento del consumo di suolo agricolo. Definito come priorità, già richiamata anche in sede di Unione Europea, la tutela del suolo dovrà occupare un ruolo rilevante tra le azioni di governo di carattere nazionale. La pianificazione di area vasta, così come declinata nel PTC, non termina certo con la realizzazione e l’approvazione del piano, ma prosegue con la gestione dei problemi successivi che si stanno affrontando in questo momento; il piano è operativo e sono ormai molte decine i piani comunali elaborati in coerenza con il livello superiore. Tale attività richiede quindi un grande lavoro di copianificazione, di costruzione comune. La Provincia di Torino ha in questo momento attivi molti tavoli di concertazione al fine della definizione concorde di quella che è la base di tutto il modello urbanistico del piano: la definizione delle aree dense, libere e di transizione. Tale suddivisione del territorio comunale, regolata nel sistema normativo del PTC, ha come assunto la norma che le aree libere sono inedificabili. Tale assunzione è forte e deve necessariamente trovare nella copianificazione la sua declinazione operativa. La costruzione di un disegno coerente di sviluppo territoriale in un tavolo di lavoro che
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vede il Comune, la Provincia e la Regione è una modificazione strutturale del modo di pianificare ad area vasta, è l’indispensabile evoluzione della pianificazione territoriale intesa fino ad ora; tutto ciò richiede necessariamente teste e idee nuove, un alto livello d’informatizzazione, prerogativa spesso delle nuove generazioni. Non è più concepibile avere piani regolatori disegnati con i retini, impossibili da sovrapporre con altri livelli d’informazione e di pianificazione, così come non è possibile che il modello di comunicazione del piano non sia costruito in modo chiaro attraverso un linguaggio univoco di quelle che sono le scelte e le classificazioni delle aree. Se si condivide la necessità della copianificazione, è fondamentale poter comunicare, senza togliere creatività a nessuno. Per potersi confrontare deve essere inoltre chiaro il significato delle destinazioni d’uso utilizzate, si deve capire in modo inequivocabile che cosa si vuole fare e come lo si vuole fare, superando alcune malattie endemiche del piano, la cultura delle aree miste, in cui la scelta è indeterminata, non è chiaro cosa e come si farà, e in cui tutto è compatibile. Una nuova legge urbanistica sicuramente andrebbe nella giusta direzione, ma anche il semplice scambio informativo dovrebbe essere quanto più possibile uniformato, pena l’incapacità di sviluppare la copianificazione. Ciò significa creare strumenti nuovi, sui quali spesso l’attuale cultura dei tecnici non è pronta. La pianificazione è spesso redatta da una struttura profes-
sionale consolidata: non sono più di 2530 professionisti nella Provincia di Torino ad occuparsi dei piani comunali per un totale di 315 Comuni; sarà perciò sempre più necessaria una nuova struttura professionale. È auspicabile una nuova fase culturale che liberi risorse e apra possibilità di lavoro, una fase innovativa, perché il Paese ha bisogno d’innovazione, anche nel governo del territorio. L’attuale assetto di 315 Comuni porrà inoltre il tema delle unioni dei Comuni nelle quali la pianificazione extra-comunale dovrà essere riorganizzata. Emerge innanzitutto la necessità di superare l’eccessiva frammentazione degli attuali Piani Regolatori Generali Comunali (PRGC) che hanno il rischio di essere incoerenti nelle aree di confine e nei margini, delegando alla pianificazione di livello superiore la gestione di incongruenze e incompatibilità. L’obiettivo dovrà essere quello di semplificare i 315 Comuni in un certo numero di ambiti più limitato, al fine di aprire a una serie di possibilità nuove d’integrazione tra piani comunali. Oggi chi si occupa di urbanistica comunale vede che esistono zone centrali gestite ottimamente e con interesse, ma esistono anche ‘terre di nessuno’ in cui vige il disinteresse, nel quale sono espulse le funzioni problematiche ed impattanti. Sono un esempio tipico le localizzazioni a confine tra più Comuni dove si assiste da un lato a sistemi industriali e dall’altro a sistemi residenziali, attraverso processi consolidati nel tempo, il cui governo dovrà essere or-
mai affrontato e risolto in modo unitario. La direzione prevalente nel dibattito attuale, nel quadro di area vasta, è quella della nascita della Città Metropolitana, che secondo le indicazioni della legge sarà l’intero territorio della Provincia di Torino. La Provincia di Torino a differenza delle altre otto aree metropolitane individuate dovrebbe però chiamarsi Provincia Metropolitana. Pensare oggi che possa esistere un’uniformità di politiche territoriali tra Ceresole Reale e Torino è sicuramente azzardato; si dovrà pertanto pensare a una definizione di ambiti territoriali omogenei già nella redazione dello Statuto (necessario e previsto dalla legge). Attraverso lo Statuto si dovrà inoltre predisporre il funzionamento della Provincia Metropolitana che da un lato vede un coordinamento delle politiche territoriali centralizzato, delegando agli ambiti e ad una loro rappresentanza alcune funzioni specifiche. Per concludere, il riassetto delle Autonomie Locali costituisce il punto essenziale attraverso il quale la nuova Provincia Metropolitana dovrà definire la propria funzione di area vasta. Sarà per questo necessario aprire un ampio dibattito, che non può prescindere dalla definizione dei nuovi assetti istituzionali delle Autonomie Locali. Sicuramente il riassetto delle autonomie locali sarà un punto importante, nel quale la Provincia Metropolitana avrà un ruolo cruciale nella pianificazione di area vasta. Sarà necessario aprire un dibattito, ma il ruolo del pianificatore territoriale non può che passare anche tra questi nuovi assetti istituzionali.
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La cittĂ infinita Uliano Lucas
Lorem ipsum dolor sit amet consectetur adipiscing elit, 1960
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Pagina precedente: Statua di Padre Pio nel quartiere Enziteto, Bari, 2011. © Uliano Lucas Quartiere Libertà, Bari, 2007. © Uliano Lucas
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Quartiere Paolo VI, Taranto, 1995. © Uliano Lucas
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Nel centro storico di Bologna, 2006. Š Uliano Lucas
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Galleria Vittorio Emanuele, Milano, 1991. Š Uliano Lucas
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Isola tiberina, Roma, 1993. © Uliano Lucas
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Passante ferroviario di piazza Repubblica, Milano, 2008. Š Uliano Lucas
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A ciascuno il suo (esame di Stato) Sono rari i casi in cui le commissioni di valutazione degli esami di Stato hanno competenze anche in materia di pianificazione: ne pagano il prezzo i laureati dei nuovi corsi di studio Riccardo Bedrone
Come forse non molti docenti sanno, le prove degli esami di Stato per gli architetti (e affini) sono ancora regolate dal DM 9 settembre 1957 (integrato e modificato dal DM 26 ottobre 1996 n. 654) e, per le lauree disciplinate dal DM 509/1999, dal nuovo ordinamento introdotto dal DPR 328/2001 (Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti). In pratica, quanto meno per la composizione quantitativa e qualitativa delle Commissioni di esame, si deve ancora fare riferimento al “Regolamento sugli esami di Stato di abilitazione all’esercizio delle professioni” del 1957. Questo prevede che : 1) gli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni abbiano luogo ogni anno in due sessioni; 2) le due sessioni siano indette per ciascun anno con ordinanza del Ministro per la Pubblica istruzione (oggi dell’Università), da pubblicarsi nella Gazzetta Uffi-
ciale della Repubblica; 3) si svolgano nei capoluoghi di Provincia e nelle città sedi di Università o Istituti superiori, che siano altresì sedi di Ordini o Collegi professionali; 4) le Commissioni esaminatrici siano costituite con decreto del Ministro competente, il quale nomina il presidente fra i professori universitari di ruolo o fuori ruolo od a riposo e presceglie i membri da terne designate dai competenti Ordini o Collegi professionali; 5) la designazione da parte degli Ordini o Collegi professionali sia fatta tra gli appartenenti ad una o più delle categorie indicate per ciascun tipo di esame di Stato; 6) il numero delle terne sia uguale al numero dei componenti le singole Commissioni; 7) la scelta da parte del Ministro venga fatta in modo che in ciascuna Commissione siano compresi gli esperti nei principali indirizzi di attività cui si riferisce l’esame; 8) qualora fra i componenti la Commissione manchino esperti in una o più discipline in cui debbono svolgersi le prove
di esame, il presidente di ciascuna Commissione abbia facoltà di aggregare in soprannumero alla Commissione stessa e per gli esami nelle discipline predette esperti preferibilmente docenti della sede ove si svolgono gli esami od, in mancanza, della sede universitaria viciniore; 9) per gli esami di abilitazione all’esercizio della professione di architetto ogni Commissione sia composta dal presidente e da quattro membri appartenenti alle categorie: a) professori universitari di ruolo, fuori ruolo o a riposo e professori incaricati; b) liberi docenti (oggi componenti di tutte le categorie); c) funzionari tecnici con mansioni direttive in enti pubblici o Amministrazioni statali; d) professionisti iscritti all’Albo con non meno di quindici anni di lodevole esercizio professionale. È del tutto evidente, quindi, che i laureati che andranno a costituire le nuove figure professionali scaturite dalla riforma degli ordinamenti professionali di cui al citato DPR 328/2001 hanno tutti i diritti di sostenere prove dell’esame di Stato congruenti con i loro studi e di essere esaminati da
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Sede
Funzionamento
Alghero
Di norma, della Commissione unica fa parte un esperto di urbanistica o, a volte, un paesaggista. I temi d’esame sono diversi per i diversi Albi cui afferiranno i candidati, in relazione anche al diverso numero di prove da sostenere.
Genova
Una Commissione unica per tutti i Corsi di laurea, che si può avvalere di consulenti esperti in pianificazione ed in paesaggio, ma non sempre accade.
Milano
Opera una Commissione apposita per architetti iunior e pianificatori (per la laurea triennale in Urbanistica e per la laurea magistrale in Pianificazione). Si richiede la presenza di un membro esperto in pianificazione (solitamente un urbanista), ma non necessariamente deve esserlo il presidente.
Napoli
A volte fra i quattro membri dell’unica Commissione (che vale per Architettura e Pianificazione, sia per gli iunior che per i senior) c’è un urbanista, altre volte no. È raro che, per i pianificatori, la Commissione si avvalga di un esperto esterno, se manca la competenza tra i commissari.
Palermo
La Commissione è la stessa per Architettura e Pianificazione, ma viene richiesta la presenza di un ‘membro aggregato’: pianificatore o esperto in pianificazione.
Roma
La Commissione è unica, ma vengono proposti temi distinti e l’esame orale verte anche su argomenti di urbanistica, ma dipende dalla buona volontà dei componenti la Commissione.
Torino
Vengono composte due Commissioni, ma solo casualmente una delle due è presieduta o arricchita da un esperto in urbanistica. Anche i temi di esame raramente sono rivolti specificamente ai laureati in Pianificazione. Talvolta, in passato, si è ricorso ad un esperto esterno per proporne almeno uno.
Venezia
Ci sono due Commissioni per entrambe le sezioni. Una delle due è presieduta da un docente di Pianificazione, pur esaminando anche laureati in Architettura, mentre gli altri membri sono nominati senza vincoli sulle competenze.
commissari competenti o versati nelle discipline nelle quali sono stati formati. Eppure, spesso ciò non avviene. Capita che laureati magistrali piuttosto che triennali in Pianificazione non riescano a superarlo, anche dopo successivi tentativi. E spesso non sono solo studenti che nulla sanno della pratica professionale, ma tecnici comunali, che magari ricoprono ruoli importanti nella Pubblica Amministrazione o svolgono funzioni delicate. Diplomati, il più delle volte necessitano della laurea per poter partecipare ai concorsi che consentono un avanzamento di carriera. Oppure, fanno parte di quella folta e crescente schiera di precari, che lavorano nell’incertezza, temporaneamente occupati con un contratto a progetto o con partita IVA, da rinnovare periodicamente. E se il datore di lavoro è unico, dopo i recenti provvedimenti legislativi, devono essere iscritti all’Albo professionale. Se no, niente rinnovo del contratto. Ovviamente è possibilissimo che la loro prova sia insufficiente. Tuttavia, non pare corretto che le Commissioni non diano
spiegazioni del giudizio negativo (forse perché non lo sanno motivare, soprattutto se non sono in grado di valutare la preparazione di specialisti non architetti) e, ancor più, che i temi proposti debbano valere per tutti (ovvero siano adatti solo agli esaminandi architetti, che costituiscono e costituiranno sempre la stragrande maggioranza degli iscritti agli esami di Stato). Ad una prima e sommaria verifica pare che non si tratti di casi isolati di sottovalutazione delle loro esigenze, ma di comportamenti diffusi in molte delle sedi degli esami di Stato. La richiesta più ovvia, costituire delle Commissioni ad hoc, solo per i pianificatori, non sembra praticabile. Ne va fatta richiesta motivata al Ministero dell’Università dagli Atenei, ma considerando l’esiguo numero di abilitandi in Pianificazione, in tutta Italia, è difficile che venga accolta anche solo occasionalmente. Più ragionevole, non solo laddove le Commissioni sono più di una, chiedere che diventi sistematica la presenza di un commissario – o, meglio ancora, di un
presidente – urbanista almeno in quella che esaminerà i laureati in Pianificazione. Così si fa già a Milano e a Venezia, secondo quanto emerge dalle risposte fornite dalle varie sedi universitarie. Una buona abitudine che forse può contare sulla disponibilità dei docenti di queste sedi a sobbarcarsi un compito considerato faticoso e pertanto non desiderabile. Insomma, il primo ostacolo pare proprio la pigrizia dei candidati commissari. La motivazione: perché assoggettarsi ad un compito molto prolungato nel tempo, dovendo esaminare non solo i pochi pianificatori ma anche i tanti, tantissimi architetti? Continuando a ragionare così, però, non si renderà un buon servizio a quegli studenti che hanno scelto di frequentare un corso di studi innovativo (e certo non coincidente con la preparazione di un architetto) e chiedono di non essere ingiustamente ostacolati prima ancora di potersi presentare sul mercato del lavoro. Il Coordinamento nazionale dei Corsi in Pianificazione non ritiene di poter fare qualcosa al riguardo?
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La formazione dell’urbanista-pianificatore L’evoluzione normativa che ha portato alla definizione di un percorso di studi autonomo e distinto da quello dell’architetto Matelda Reho
La costruzione dell’urbanistica come disciplina, in Italia e in Europa, viene generalmente fatta risalire agli ultimi decenni dell’Ottocento e ai primi del Novecento. L’insegnamento dell’urbanistica e in particolar modo la definizione di percorsi formativi specifici per urbanisti e pianificatori territoriali sono invece riconducibili ad anni più recenti; è del 1970 il decreto del Presidente della Repubblica (Decreto n. 1009 del 14 ottobre 1970), che istituisce a Venezia il primo corso di studi universitario italiano in Urbanistica. Si tratta di un atto molto importante, che sancisce la differenza tra corsi di studio in cui è presente l’insegnamento dell’urbanistica e il nuovo corso di laurea, che ha come obiettivo specifico la formazione dell’urbanista. É l’esito della battaglia condotta da Giovanni Astengo, dentro e fuori l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, per dar vita ad una nuova figura professionale, con una legittimazione all’azione, data, appunto dalle conoscenze e competenze acquisite, non attraverso “pochi insegnamenti di urbanistica aggiunti ad un curriculum già piuttosto composito”, quale quello di Architettura e di Ingegne-
ria, bensì attraverso cinque anni di formazione completamente dedicata. A partire dalla nascita del primo corso di laurea in Urbanistica, a Venezia, quaranta anni fa, possiamo distinguere diverse fasi, che si connotano non solo per la graduale acquisizione del progetto formativo in molti atenei italiani, ma anche per cambiamenti importanti nel campo di interesse e nelle competenze dei laureati, nel rapporto spesso conflittuale con i percorsi di studio in architettura. Fino alla riforma dell’università del 1999 (DM 509/1999), l’esperimento veneziano rimane abbastanza isolato e con forti problemi di legittimazione all’esterno; da una parte è difficile trasmettere ai giovani che escono dalle scuole medie superiori quelle ‘tensioni’, che dovranno poi essere alla base della figura professionale dell’urbanista-pianificatore (l’interesse pubblico, la buona amministrazione, il miglioramento delle condizioni di vita nella città e nel territorio, ecc); dall’altra, non si sopisce il tentativo dei corsi di studio di Architettura di ricondurre al loro interno la formazione dell’Urbanista. Non c’è, per molti anni, un Albo profes-
sionale specifico che garantisca i nuovi laureati, producendo progressivamente un ridimensionamento degli immatricolati, rispetto alle performance iniziali. Ciò nonostante, nel 1976 viene istituito un corso di laurea in Urbanistica a Reggio Calabria, che ricalca l’impianto veneziano; nel 1989 il Politecnico di Bari istituisce un corso di laurea in Pianificazione territoriale e Urbanistica, che però non sarà mai attivato; andrà in porto il progetto del Politecnico di Milano del 1995. Nel frattempo si affrontano, in alcuni casi ci si scontra, con due riforme: quella del 1983, che riguarda la laurea in Architettura, ma che si estende al corso di laurea in Urbanistica, poiché della Facoltà di Architettura continua a far parte; quella del 1993, che porta ad una maggiore articolazione dell’offerta formativa universitaria. Con la riforma del 1983, materie tipiche della formazione dell’architetto vengono introdotte come obbligatorie nel corso di laurea in Urbanistica, mentre nel corso di laurea in Architettura, anche laddove la facoltà offre già un corso di laurea in Urbanistica, viene istituito un ‘indirizzo urbanistico’. Gli anni Novanta sono anni di ripensa-
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mento sostanziale nella costruzione del percorso di formazione dell’urbanista-pianificatore; è in questo periodo che emerge con maggiore chiarezza il filone del policy approach per gli studi di pianificazione territoriale; il ‘governo del territorio’ tende ad essere la cornice più ampia in cui muoversi e a cui ricondurre anche l’urban design; l’ambiente non è più considerato solo come vincolo, bensì quale sistema di cui governare le trasformazioni. Si comincia di conseguenza a pensare alla possibilità di dare spazio a profili diversi, pur all’interno dello stesso ambito di laurea. La riforma dell’università consente d’altra parte di ragionare su formati didattici nuovi rispetto al passato; compaiono i cosiddetti corsi triennali di diploma, i corsi di specializzazione e per l’ateneo veneziano è l’occasione per dar vita al primo corso triennale in Sistemi informativi territoriali: la prima attivazione risale all’anno accademico 1993-1994. Il quadro appena consolidato si evolve con estrema rapidità alle soglie del 2000; c’è la possibilità di cogliere alcune opportunità offerte da una nuova riforma, che conferisce alle università un maggiore grado di autonomia; dopo una battaglia durata ormai decenni, si istituisce un Albo professionale anche per gli urbanisti-pianificatori (riconoscimento del titolo di studio con il DPR 328 del 2001), come sezione specifica dell’Albo ridenominato “degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori”. In questa fase si assiste ad un doppio fenomeno: da una parte si verifica l’espansione della ‘classe di laurea’ in Scienze della pianificazione territoriale, urbanistica, paesaggistica e ambientale su buona parte del territorio nazionale; dall’altra, la nascita di progetti formativi in contesti accademici diversi porta inevitabilmente a delle caratterizzazioni locali dei percorsi. Nel periodo di massima espansione dei corsi di studio nelle classi di pianificazione, per l’anno accademico 2005-2006, il MIUR registrava ben 25 corsi triennali (di cui almeno 5 fortemente incentrati sui si-
stemi informativi territoriali) e 11 corsi di laurea specialistica. A differenza di quanto era accaduto nei decenni precedenti, non tutti i corsi di studio riferiti alle classi di pianificazione hanno origine all’interno di facoltà di Architettura; sono infatti presenti progetti presso le facoltà di Ingegneria e di Agraria, esperimenti interfacoltà tra Architettura ed Economia, Architettura e Scienze naturali, Architettura ed Agraria, Giurisprudenza e Scienze Ambientali, che attribuiscono pesi, talvolta molto diversi ai settori scientifico-disciplinari pur rispettando i vincoli imposti dai decreti istitutivi delle classi di laurea. Le sedi dei corsi triennali: Bologna, Camerino, Catania, Chieti-Pescara, Cosenza, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Padova, Palermo (2 corsi), Reggio Calabria, Roma (3 corsi), Sassari, Torino, Trieste, Urbino, Venezia (2 corsi), Viterbo ( 2 corsi), Università telematica Marconi. Le sedi dei corsi specialistici: Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma (2 corsi), Sassari, Torino, Venezia (2 corsi). I titoli attribuiti ai corsi, triennali e specialistici, sono in qualche modo lo specchio della diversificazione dei profili che si va delineando: Tecnico del territorio, Scienze geo-topo-cartografiche, territoriali, estimative ed edilizie, Pianificazione del territorio e dell’ambiente, Tecnologie e pianificazione per il territorio e l’ambiente, Tecniche dell’ambiente e del territorio, Tutela e riassetto del territorio, Progettazione e gestione dell’ambiente, Politica del territorio, Scienze della pianificazione rurale ed ambientale, accanto ai più tradizionali Urbanistica e Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale. Molti di questi corsi hanno avuto vita breve. I vincoli progressivamente imposti all’attivazione di progetti formativi in termini di disponibilità di docenti strutturati, insieme al taglio operato sul turnover, che ha limitato la possibilità di sostituire i docenti che andavano in pensione, ha reso più vulnerabili, esposti a rischio di chiu-
sura, quei percorsi che non potevano vantare un elevato numero di studenti: gli immatricolati alle lauree triennali rientrano mediamente in un intervallo tra 50 e 100; più ampio l’intervallo di variazione per gli immatricolati alle magistrali e maggiori le differenze fra i corsi di studio attivati nei diversi atenei (fra un minimo di 16 ad un massimo di 80-100). Per l’anno accademico 2012-2013 la banca dati del MIUR dà conto di una riduzione piuttosto drastica per quel che concerne le lauree triennali; sono soltanto 10, mentre ‘tengono’, per il momento, le lauree magistrali. Il ridimensionamento è stato più pesante laddove i corsi avevano una configurazione interfacoltà. Quello del contenimento dei corsi attivati non è peraltro l’unico aspetto rilevante della fase che stiamo attraversando. C’è da una parte un impoverimento nella composizione dei settori scientifico-disciplinari, che concorrono ai piani di studio; il fenomeno è conseguenza dei provvedimenti di riforma dell’università, che prevedono l’irrigidimento del formato dell’insegnamento in 6 crediti e l’imposizione di vincoli sul numero degli esami che possono essere previsti. Su di un altro versante, opposto a quello precedente, c’è l’affermarsi di una tendenza all’ibridazione di profili, connessa con l’attrazione di studenti, alle magistrali, provenienti da altre classi di laurea; processo che senza dubbio arricchisce il bagaglio del futuro urbanista-pianificatore, ma evidenzia anche la necessità di seguire con strumenti più efficaci di tutoraggio le diverse tipologie di iscritti, lungo il percorso degli studi. Il ‘linguaggio’ dei nuovi laureati tende dunque ad evolversi al di fuori di una gabbia specialistica troppo stretta; è probabilmente più adatto ad intercettare nuove e diverse committenze, occasioni di lavoro in cui non è necessaria soltanto la competenza su alcune tecniche consolidate, bensì si richiede di concorrere alla produzione di innovazioni, in un mondo che sta rapidamente cambiando.
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Il faticoso cammino del riconoscimento Breve cronistoria della figura del pianificatore: dalle prime battaglie legali ai recenti cambiamenti e alle prospettive future Daniele Rallo
Il corso di laurea in Urbanistica ha rappresentato sin dal suo inizio negli anni ’70, una scuola di alta specializzazione. Il progetto originario del prof. Giovanni Astengo è stato quello di ‘pensare alla grande’, il suo disegno (è stato) una grande operazione culturale e politica: non tanto (e non solo) costituire un nuovo corso di laurea, quanto fondare una forza d’urto per dare fondamento scientifico alla disciplina e così aggredire, lungo una linea riformatrice, le gravi questioni territoriali che il Paese si trovava di fronte attraverso la preparazione di tecnici esperti. I corsi di laurea succedutisi dopo la riforma del ‘3+2’ hanno sicuramente un debito di riconoscenza verso quel progetto originario. La figura dell’esperto urbanista si presenta nel mercato dalla seconda metà degli anni ’70. Essendo una figura specialistica viene immediatamente apprezzata e i neo laureati trovano facile accesso nel mondo del lavoro, sia presso pubbliche amministrazioni, sia nella libera professione, andando ad invadere un terreno che era stato sino ad allora appannaggio di architetti ed ingegneri. Gli Ordini pro-
fessionali, intuendo immediatamente la potenzialità di questa nuova figura aprono il contenzioso con ricorsi a vari Tribunali Amministrativi contro quei laureati che ‘osano’ firmare un piano urbanistico, tentando anche la strada penale per ‘abuso della professione’. Naturalmente le sentenze sono tutte a favore dei laureati in Urbanistica, eccetto una del TAR Veneto che esprime un parere favorevole all’Ordine degli ingegneri. Le motivazioni adottate (deboli e indifendibili) sono da ricercare nel fatto che per i laureati in urbanistica non è previsto il superamento di un esame di Stato e quindi tale professione debba essere riservata ai laureati in Architettura o Ingegneria. É facile per l’avvocato dell’Associazione controbattere. La memoria dell’emerito prof. Massimo Severo Giannini consta di sole quattro pagine ed è basata su un semplice ragionamento. È assurdo “dire ad un malato che ha bisogno di un ortopedico che deve rivolgersi ad un cardiologo”. Analogamente è assurdo far firmare un piano urbanistico ad un ingegnere aerospaziale, solamente perché è iscritto ad un Ordine ed ha superato un esame di stato che nulla
ha a che vedere con la materia urbanistica. La sentenza del Consiglio di Stato (n. 1087/12 marzo 1996) è altrettanto lapalissiana e dirompente. Ritenuti infondati i motivi proposti dal ricorso, specifica che la scelta del professionista è “esclusiva della discrezionalità amministrativa ai fini del miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico demandato alla cura degli enti preposti alla pianificazione.” La stessa prosegue affermando che “con la creazione del corso di laurea in urbanistica, si sono create professionalità tecniche le quali, anche se non ancora consacrate in un albo, dimostrano il possesso di cognizioni acquisite durante un corso di studi quinquennale idonee a svolgere la attività di pianificazione urbanistica … se poi si esaminano i corsi di laurea ci si avvede come trattasi di un corso di laurea particolarmente specialistico ed approfondito. Appare quindi evidente come ai laureati in urbanistica venga fornito un solido bagaglio culturale precipuamente specialistico.” La conseguenza logica: non può che essere “del tutto coerente, ed in linea con i canoni di buona amministrazione, affidare l’incarico di pianificazione a sog-
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getti parimenti in possesso di un livello di istruzione universitario, acquisito presso istituti statali, e per di più dopo aver superato un corso di studi specialistici.” A seguito della riforma universitaria del ‘3+2’ (Decreto 509/99) per rendere coerenti i nuovi corsi con l’espletamento dell’esame di stato e con le rispettive professionalità, viene approvato nel giugno 2001 il DPR n. 328. Il provvedimento statale diventa il punto base per la completa ristrutturazione degli Ordini e per fissare le competenze delle varie figure tecniche che facevano ancora riferimento ai provvedimenti degli anni ’20. Vengono istituite le Sezioni ed i Settori e la nuova denominazione diventa “Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori” accogliendo anche i laureati in Urbanistica nel settore dei pianificatori territoriali. Il Decreto non introduce nuove figure professionali, ma regolamenta un’anomalia in quanto per queste figure non era stato previsto l’esame di Stato. Del resto negli anni ’70 era ferma la convinzione che l’entrata nel mercato comune europeo avrebbe decimato gli Ordini professionali, retaggio del periodo fascista. Il Decreto entra nel merito delle competenze. Ai pianificatori quinquennali sono riservate: a) la pianificazione del territorio, del paesaggio, dell’ambiente e della città; b) lo svolgimento e il coordinamento di analisi complesse e specialistiche delle strutture urbane, territoriali, paesaggistiche e ambientali, il coordinamento e la gestione di attività di valutazione ambientale e di fattibilità dei piani e dei progetti urbani e territoriali; c) strategie, politiche e progetti di trasformazione urbana e territoriale. Il Decreto è chiarificatore di quanto già evidenziato dalla sentenza del Consiglio di Stato. All’architetto spetta il compito di controllare il progetto edilizio, all’urbanista spetta il compito di governare il processo ed il progetto della città, del territorio e dell’ambiente. Ma il DPR fissa anche i limiti della singole professioni in quanto “il professionista iscritto in un settore non può esercitare le competenze di natura riservata attribuite agli iscritti” di altri settori
(art. 3). Il Decreto introduce delle nuove esclusive che dovranno forse essere confermate da sentenze della giurisprudenza. Solamente per i pianificatori quinquennali ha incluso l’attività di valutazione ambientale (VAS e Vinca) e di fattibilità dei piani e dei progetti. Solamente per i pianificatori triennali ha introdotto l’attività di costruzione e gestione di sistemi informativi territoriali (SIT). Da diversi decenni si cerca di dare nuovo vigore agli Ordini professionali che non incontrano la simpatia della maggior parte degli iscritti. I consigli provinciali degli Ordini sono infatti eletti solamente al terzo scrutinio utile, dopo cioè che non viene raggiunta la maggioranza assoluta del 51% né quella relativa dei 2/3. In sostanza si reca a votare solo una quota di iscritti compresa tra il 10% ed il 15%. Ciò è indice di profondo disagio espresso dalla categoria che non recepisce l’Ordine come garante della professione né difensore dei professionisti. Il distacco è maggiormente aumentato dopo la liberalizzazione delle tariffe minime e l’inutilità della commissione parcelle. La stessa quota di iscrizione annuale è vissuta alla stregua di una tassa obbligatoria. I tentativi di riforma si dimostrano asfittici e assai poco innovatori. L’ultimo provvedimento emanato (DPR n. 137 del 7 agosto 2012) ne è un’ennesima riprova. Il Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali entra nel merito di pochi ed insignificanti punti: a) definisce la professione regolamentata; b) stabilisce l’accesso e l’esercizio dell’attività professionale; c) disciplina la pubblicità informativa dell’attività professionale; d) obbliga a stipulare idonea assicurazione professionale; e) obbliga il professionista alla formazione continua permanente. Per professione regolamentata si intende “l’attività riservata per espressa disposizione di legge il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizioni in Ordini o Collegi” (art. 1). L’accesso e l’esercizio alle professioni “è libero (sic) ferma restando la disciplina dell’esame di Stato”. Non vi è alcuna innovazione in merito. Viene consentita la libera concorrenza attraverso la
“pubblicità informativa” che non deve essere “equivoca, ingannevole o denigratoria” (art. 4). Senza attendere la legge la maggior parte dei professionisti si è però già dotata di un sito web dove fa autopubblicità. L’art. 5 fissa l’obbligatorietà di una assicurazione professionale. Non è chiaro se la prescrizione è per tutti gli iscritti o solo per quelli che firmano un progetto edilizio in cui hanno la responsabilità civile e penale. L’art. 7 introduce la formazione continua specificando che “la violazione dell’obbligo costituisce illecito disciplinare”. Fermo restando che ogni buon professionista si aggiorna per rimanere nel libero mercato non si ravvede la necessità che ciò debba essere trasformato in un obbligo burocratico. Non sembra cioè che la norma sia attuata “nel miglior interesse dell’utente e della collettività”. È il mercato che seleziona. Sono le gare pubbliche che permettono di assumere il miglior professionista. Di tutta questa riforma rimane solo un unico vero compito riservato agli Ordini: tenere aggiornato “l’albo unico degli iscritti” (art. 3). Tale obbligo potrebbe comunque essere delegato ad un altro ente istituzionale (per esempio la Camera di commercio o un apposito ufficio ministeriale) senza alcun onere per il professionista. La vera riforma degli Ordini passerà solamente attraverso la liberalizzazione degli stessi. L’iscrizione all’Ordine deve essere resa libera e non obbligatoria. L’Ordine al pari delle libere associazioni (o come per il sindacato) deve essere paragonato ad una onlus fondata sul volontariato. Nel libero mercato deve conquistarsi uno spazio autonomo per quello che riesce a proporre e che riesce a garantire. Ne è un esempio l’Istituto Nazionale di Urbanistica o, con le debite proporzioni, l’Associazione nazionale degli urbanisti. Analogamente dovrebbe essere per la questione pensionistica. L’iscrizione alla Cassa di previdenza per ingegneri e architetti (Inarcassa) deve essere lasciata alla libera scelta del lavoratore che potrebbe optare, in alternativa, per l’iscrizione alla Cassa di previdenza nazionale (Inps).
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La formazione del pianificatore nel panorama europeo I diversi contesti storici e culturali hanno dato vita a figure eterogenee con competenze e professionalità distinte che si rispecchiano nei programmi formativi Giancarlo Cotella
Essendo la pianificazione territoriale un’attività configuratasi in maniera incrementale in forte relazione con le specifiche caratteristiche storiche e geografiche di ogni Paese, anche le figure professionali che in ogni realtà sono andate via via ad occuparsi di tale attività appartengono ad un insieme fortemente eterogeneo. Se in alcuni Paesi la figura del pianificatore si è evoluta come professione indipendente, in altri è rimasta legata ad altre discipline storicamente consolidate quali l’architettura, la geografia, l’economia regionale, a seconda delle specifiche competenze che a tale figura sono state richieste di volta in volta all’interno del sistema di pianificazione proprio di ogni nazione. É facile intuire come questa situazione generi diverse problematiche in relazione all’istituzione di un modello pedagogico unitario deputato alla formazione del pianificatore, professionista che, nonostante le crescenti influenze uniformanti dell’Unione europea, continua a necessitare di competenze diverse a seconda del contesto legislativo e culturale all’interno del quale opera. Partendo da tali considerazioni, è inte-
ressante cercare di far luce, seppur in maniera approssimativa, sullo stato attuale della formazione del pianificatore per come questa è concepita ed erogata all’interno dei diversi Stati membri dell’Unione europea. Un utile cartina di tornasole in tal senso è costituita dal database delle scuole afferenti all’Association of European Schools of Planning (AESOP, www.aesop-planning.eu), unica associazione europea a riunire e rappresentare le scuole di pianificazione in Europa. Il numero di università di una nazione che partecipano all’associazione, opportunamente filtrato in base al numero di abitanti, può essere assunto come indicatore rilevante dell’importanza e dell’indipendenza che l’offerta formativa nell’ambito della pianificazione territoriale assume all’interno della nazione stessa. Allo stesso modo, il sistema di membership diversificato adottato da AESOP, che definisce “Full members” soltanto quelle università che offrono un curriculum focalizzato interamente sulla pianificazione territoriale (modello quinquennale, laurea triennale o laurea magistrale), contribuisce ad escludere dal conteggio tutti quegli istituti che
forniscono fondamenti di pianificazione territoriale all’interno di corsi di laurea afferenti ad altre discipline principali. Come è possibile evincere dalla tabella, le nazioni all’interno delle quali gli studenti interessati al tema della pianificazione territoriale beneficiano di un’offerta più ampia e diversificata sono anche quelle in cui, storicamente, la disciplina della pianificazione è caratterizzata da una dignità consolidata e da un’indipendenza maggiore vis-à-vis le discipline concorrenti. É questo il caso del Regno Unito, dove il Royal Town Planning Institute (RTPI, www.rtpi. org.uk) è attivo dal 1914 quale Ordine garante dei professionisti impegnati nell’attività di town and country planning e fornisce criteri di accreditamento alle università deputate alla formazione dei futuri membri dell’Ordine stesso. Un’analoga situazione caratterizza il contesto francese, il cui tradizionale modello di Aménagement du territoire ha favorito il consolidarsi di una serie di corsi di laurea dedicati specificatamente alla formazione dei pianificatori quali figure virtualmente autonome da altre figure professionali, e alla confederazione degli istituti universi-
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Full members
Associate members
Austria
1
2
Belgio
4
–
Bulgaria
1
–
Cipro
–
–
Danimarca
2
–
Estonia
–
2
Finlandia
1
2
Francia
14
–
Germania
8
3
Grecia
2
1
Irlanda
3
–
Italia
10
1
Lettonia
–
1
Lituania
–
–
Lussemburgo
–
–
Malta
–
1
Olanda
7
3
Polonia
7
–
Portogallo
7
2
Romania
1
1
Slovacchia
1
–
Slovenia
1
–
Spagna
3
2
Svezia
6
–
Regno Unito
18
2
Repubblica Ceca
2
–
Ungheria
–
–
Nazione
Numero di membri AESOP (UE 27) / Fonte: elaborazione dell’autore su www.aesop-planning.eu
tari responsabili di tali corsi di laurea in un’associazione che si occupi di rappresentarle e difenderne il ruolo (APERAU, Association pour la promotion de l’enseignement et de la recherche en aménagement et urbanisme, www.aperau.org). Anche nelle nazioni mitteleuropee di Germania, Olanda e Danimarca (ma in parte anche in Belgio, forse più vicino al modello francese) la pianificazione territoriale si è costituita nel tempo quale disciplina autonoma. Questo, insieme al riconoscimento del ruolo del pianificatore quale figura professionale indipendente, ha portato al consolidamento di una serie di corsi di laurea specificatamente dedicati a tale disciplina. In Olanda, tale situazione è figlia in primo luogo dell’importanza attribuita alla limitazione del consumo dello scarso suolo nazionale e all’oculata gestione dello stesso mentre, in Germania, deriva direttamente dal peculiare modello di pianificazione comprensivo-integrato, basato sulla complessa suddivisione di poteri e competenze fra Stato federale, Lander e municipalità propria dello Stato tedesco. In Danimarca infine, ma lo stesso discorso vale in parte anche per la Svezia, è il tradizionale ruolo di controllo e riequilibrio sociale attribuito alla pianificazione territoriale dai governi socialdemocratici che si sono susseguiti nella seconda metà del secolo scorso ad aver progressivamente contribuito all’emancipazione della figura del pianificatore. La situazione appare invece molto diversa quando si vanno a prendere in considerazione gli Stati del sud Europa. Se si esclude il contesto portoghese, il cui sistema di pianificazione è per tradizione in parte assimilabile, almeno dal punto di vista istituzionale, a quello francese, tali nazioni si caratterizzano storicamente per la forte integrazione dell’area disciplinare urbanistica all’interno dell’area dell’architettura e del disegno urbano. In Spagna, in Grecia e anche in Italia, la formazione delle figure responsabili della pianificazione territoriale – o per dirla con un termine storicamente più consono a tali contesti, dell’urbanistica – è stata tradizionalmente delegata ai corsi di laurea in architettura e, più nello specifico, all’arricchimento della formazione degli architetti
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tramite l’erogazione di moduli specifici. Se tale quadro è progressivamente evoluto, soprattutto in Italia, con la nascita di diversi corsi di laurea triennale e magistrale specificatamente dedicati alla pianificazione territoriale, la perdurante confusione nell’attribuzione di competenze e responsabilità fra architetti e pianificatori e il mancato consolidamento di tale evoluzione nell’istituzione di un Ordine professionale veramente autonomo continua in qualche modo a minare la partecipazione a tali percorsi formativi. Infine, un discorso a parte va fatto per i Paesi dell’Europa centro orientale che sono entrati a far parte dell’Unione europea da poco meno di un decennio. A causa del ruolo fortemente politico attribuito ad essa durante il quarantennio di influenza sovietica, la disciplina della pianificazione è stata connotata in maniera fortemente negativa durante la maggior parte degli anni ’90, per poi riguadagnare lentamente un ruolo a partire dal nuovo millennio, soprattutto in seguito alla necessità di porre un freno ai crescenti squilibri regionali e urbani portati dall’introduzione del nuovo modello economico di mercato. La pianificazione territoriale si è progressivamente ritagliata spazio all’interno di quelle discipline alle quali era rimasta tradizionalmente legata durante il precedente periodo storico: l’architet-
tura, da un lato e l’economia regionale, dall’altro. Per quel che riguarda l’offerta formativa in pianificazione, ogni nazione presenta dunque una configurazione peculiare, con elementi di formazione in planning offerti dai corsi di laurea più disparati: architettura, economia, geografia, geoetica, gestione delle proprietà immobiliari, management, ecc. L’unica eccezione è la Polonia, tradizionalmente all’avanguardia in tal senso fra le nazioni est-europee fino dagli anni Venti, dove a partire dalla fine degli anni Novanta hanno iniziato a svilupparsi i primi corsi di laurea in Pianificazione territoriale e urbana. Tale evoluzione, favorita da una serie di riforme legislative e istituzionali che hanno dotato il Paese di un sistema di pianificazione ispirato al modello tedesco e di un Ordine professionale autonomo, ha restituito progressivamente a tale disciplina autonomia e dignità. L’analisi presentata descrive un quadro fortemente eterogeneo, dal quale è possibile intuire come lo stato dell’offerta formativa in pianificazione territoriale nei singoli Paesi europei sia legata a doppio filo al ruolo e all’autonomia della disciplina stessa all’interno di ogni contesto nazionale, che a sua volta deriva in maniera path-dependent dall’evoluzione storica e dalle peculiari caratteristiche istituzionali
e operative del sistema di pianificazione caratteristico del contesto stesso. Tale situazione appare in parziale contrasto con il principio della libera circolazione di servizi promosso dall’Unione europea, che dovrebbe garantire la possibilità ai professionisti formatisi all’interno dell’Unione di esercitare la propria professione all’interno di ognuno degli Stati membri. Anche per questa ragione, una serie di associazioni professionali e non (AESOP appunto, ma anche l’International federation for housing and planning - IFHP, lo European council of spatial planners ECTP e l’International society of city and regional planners - ISOCARP) stanno da alcuni anni ragionando congiuntamente su una serie di criteri e requisiti comuni per la formazione del pianificatore, indipendentemente dal contesto nazionale all’interno del quale questa viene erogata. Sia come sia, quanto detto in precedenza suggerisce come ogni tentativo di riforma di tale offerta formativa non possa essere pensata in isolamento, ma ponderata in relazione all’evoluzione del mercato del lavoro sul quale i giovani neo-laureati saranno chiamati a collocare le proprie competenze e, di conseguenza, inserita all’interno di un più ampio e organico ripensamento del ruolo del pianificatore all’interno dei diversi contesti nazionali.
Pianificatori senza piani — 39
Chiare competenze, aperte al dialogo Intervista di Liana Pastorin al Ministro Francesco Profumo
Il ministro all’Istruzione, all’Università e alla Ricerca del governo Monti è Francesco Profumo, rettore del Politecnico di Torino dal 2005 al 2011. DOMANDA A dieci anni dalla riforma che ha fatto nascere i corsi di laurea in Pianificazione, non c’è ancora una definizione delle competenze tra architetti, pianificatori e paesaggisti. Inoltre, per numerose mansioni presso uffici tecnici piuttosto che per la partecipazione a concorsi o gare pubblici, in cui sono richieste competenze urbanistiche, la figura del pianificatore non è richiesta. Così pure per svolgere attività quali le pratiche catastali, pratica che potrebbe essere svolta da un pianificatore, al quale si nega tale competenza preferendo un architetto. Ritiene auspicabile la separazione di competenze tra architetti e pianificatori e quindi che il processo di pianificazione delle nostre città abbia bisogno di professionalità specifiche? RISPOSTA La pianificazione è un tema centrale nel nostro Paese, in cui è prevalsa una politica di uso piuttosto che di riuso del territorio e dove l’accettazione di nuove figure professionali richiede tempi lunghi. La professionalità del pianificatore può trovare radici sapendo creare maggiore relazione con il sistema di riferimento in base alla domanda. Certamente è auspicabile e necessario un forte coinvol-
gimento degli enti pubblici essendo i potenziali maggiori utilizzatori di questi professionisti. E quindi la definizione di competenze chiare è necessaria. D L’esperienza universitaria da cui è emersa la creazione della nuova figura professionale del pianificatore è da considerarsi fallimentare e da chiudere? Sarebbe preferibile seguire un corso di laurea che formi l’architetto per così dire “generico” e consentirgli poi di specializzarsi in urbanistica e pianificazione con una formazione di terzo livello? R Non è il Ministro che può indicare se la formazione della figura professionale del pianificatore debba avvenire all’interno di un corso di laurea in architettura o fuori di esso. Ed è giusto che sia così: dal 1989 le università sono autonome e responsabili e non è desiderabile un passo indietro rispetto al traguardo raggiunto, né derogare ad un governo centralistico. Sono un estremo difensore di questa autonomia e fermamente convinto che da lì possano essere indicati gli strumenti per coinvolgere gli stakeholders, attivando gruppi di lavoro interprofessionali e interdisciplinari per dare un contributo fattivo nella definizione delle competenze del pianificatore con riferimento alle richieste del mercato. L’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori è tra i principali
stakeholders con il quale l’università deve creare una connessione stretta e un osservatorio sulle prospettive professionali e occupazionali. D Le scelte urbanistiche che riguardano le nostre città hanno un gran bisogno di professionisti disposti al dialogo… R Molte problematiche relative alla città sono complesse e di difficile risoluzione se si ragiona per comparti. L’interazione e il dialogo tra figure professionali capaci di risolvere problemi complessi con strumenti complessi si generano nelle Università. Bisogna porre molta attenzione alle varie competenze che concorrono alla definizione dei problemi e alla loro risoluzione. Il tema non può essere ridotto a un dibattito locale, ma deve aprirsi all’osservazione e al confronto a livello nazionale e soprattutto europeo. Il contributo che ritengo di poter dare all’argomento è di metodo: affrontare il problema delle competenze in tema di pianificazione territoriale implica un dibattito culturale a cui devono prendere parte coloro che hanno riferimenti importanti nel panorama internazionale. Non credo in sistemi chiusi ed autoreferenziali, non solo per la scuola, ma anche e soprattutto per il Paese e, per garantire che il sapere sia sempre più aperto, è bene confrontarsi con saperi simili.
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Essere un pianificatore territoriale oggi Quattro interviste a quattro tipologie di pianificatori. Problemi e opportunità di una nuova professione Nadia Caruso e Elena Pede
A oggi i pianificatori territoriali laureati al Politecnico di Torino sono oltre trecento tra triennale e specialistica. Il loro inserimento nel mondo del lavoro, nell’attuale situazione di crisi economico-finanziaria, mostra problematiche comuni ad altre figure professionali, ma anche criticità specifiche del settore. In questo breve articolo sono state raccolte le testimonianze di quattro laureati (triennali e magistrali) del corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale del Politecnico di Torino. Gli intervistati rappresentano sia percorsi di studio, sia profili professionali differenti. Emilio Vertamy ha conseguito la laurea triennale part-time nel 2006. In seguito al tirocinio curriculare della triennale, ha deciso di non fare il percorso in modo continuativo, ma di svolgere l’attività professionale in studio per un anno, un rapporto lavorativo che continua tutt’ora. Grazie a questa esperienza positiva, ha deciso di proseguire gli studi magistrali, sia per interesse personale, ma anche per poter accedere alla titolarità della figura. Oggi è un libero professionista con partita IVA, iscritto all’Ordine della Provincia di Cuneo e all’Istituto Nazionale di Urbanistica. Collabora con diversi studi professionali, dove si occupa principalmente di pratiche urbanistiche e paesaggio. Oltre a queste attività, svolge il ruolo di consulente per una società di servizi ambientali, in particolare in relazione alla raccolta rifiuti. Emilio è soddisfatto del percorso di studi
intrapreso, “un percorso impegnativo, che è vero non dà degli sbocchi certi, ma per chi crede in questa attività, per quanto di élite, è completo e fornisce le giuste competenze”. Reputa il know-how e la conoscenza degli strumenti un buon vantaggio nelle mani dei pianificatori. Il non essere ‘schiacciati’ sul progetto, ma aver approfondito soprattutto l’aspetto legislativo-amministrativo, la valutazione ambientale, la conoscenza degli strumenti GIS e le tematiche di mobilità sono gli elementi di maggiore competitività professionale. Questi elementi sono riconosciuti da tutti gli intervistati come peculiarità, rispetto a possibili competitors. Il problema delle competenze che si sovrappongono con architetti e ingegneri è noto. Emilio non pensa sia dovuto a problemi o carenze relative al percorso di formazione, piuttosto, sottolinea come il problema sia ben più ampio e non riguardi solo i pianificatori. In Italia i professionisti iscritti agli Ordini sono di gran lunga maggiori rispetto alla domanda. Se un’unica laurea generalista in campo architettonico è ormai superata dalle richieste specifiche del mercato del lavoro, la figura più specializzata del pianificatore dovrebbe facilmente collocarsi. Questo però non avviene: il pianificatore non riesce a emergere, sebbene i temi della sostenibilità ambientale e della coesione territoriale siano sempre in prima linea, soprattutto se guardiamo alle richieste che vengono fatte dall’Unione Europea.
Il territorio, per quanto troppo spesso fuori dalle agende politiche, ha bisogno di una maggiore attenzione. Le recenti modifiche alla legge urbanistica del Piemonte sono forse la dimostrazione dell’ennesima occasione mancata per mettere in campo una vera riforma. Emilio sottolinea come, oltre all’aspetto squisitamente legislativo, per dar vita a un cambiamento culturale, ci sia bisogno anche di risorse “per far sì che queste leggi non siano lettere morte”. Per questo soprattutto gli Ordini e le associazioni professionali dovrebbero attivarsi maggiormente per la promozione di questa figura. Per esempio, l’Ordine di Cuneo sta attuando un progetto chiamato Usage del territorio, con il coinvolgimento di 18 giovani professionisti, tra cui Emilio: un progetto europeo transfrontaliero che ha come obiettivo l’individuazione di buone pratiche per l’attenzione al consumo di suolo. Se il problema del riconoscimento della figura professionale è riconosciuto da tutti i laureati in Pianificazione territoriale che si affacciano sul mercato del lavoro, Giovanni Vicentini, laureato nel 2011 propone una maggior differenziazione delle competenze. Si è laureato nel corso di laurea triennale in Pianificazione territoriale dell’Università IUAV di Venezia nel 2007 e, dopo un breve periodo a Parigi, ha seguito il corso magistrale di Torino. Attualmente è consulente della Provincia di Torino in materia di risorse energetiche e promozione delle risorse rinnovabili.
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Iscritto all’Ordine di Vicenza, Giovanni lavora, al termine di un tirocinio post-laurea, nell’ambito della pianificazione energetica a livello comunale (vedi Patto dei Sindaci www.pattodeisindaci.eu). Secondo lui la principale peculiarità dei pianificatori, la multidisciplinarietà, non è ancora sfruttata appieno: bisognerebbe fornire, nel percorso di studi, più strumenti che permettano la sintesi delle varie discipline. Come il software GIS, sarebbe infatti auspicabile dotare i pianificatori di altri e ulteriori strumenti (statistici e non) in grado di migliorare la capacità dei pianificatori di “parlare” e collaborare con figure professionali diverse. La multidisciplinarietà si rivela utile nell’affrontare temi e aspetti diversi in campo lavorativo. Nel caso di Giovanni, questa caratteristica è ciò che gli ha permesso di svolgere il suo attuale lavoro: la pianificazione energetica rappresenta una delle possibili specializzazioni dei pianificatori e gli ha permesso di competere con laureati anche di altre discipline. Questa capacità differenzia positivamente i pianificatori da architetti e ingegneri, ma andrebbe ulteriormente favorita nei percorsi di studi. Giovanni vede, poi, le opportunità per i pianificatori nel lavorare anche con soggetti privati: “in campo energetico è possibile seguire schemi virtuosi, situazioni win-win che portano benefici sia a soggetti pubblici che privati”. La figura del pianificatore può dare al mondo professionale privato una componente ‘etica’:
“la visione a 360 gradi sul territorio permette di valutare anche aspetti che ingegneri o architetti non sono portati a considerare. Ad esempio i valori del paesaggio nella progettazione di opere idroelettriche e/o solari”. Il valore di una visione di ampio respiro capace di mediare tra i diversi bisogni emerge forte anche nell’esperienza di Savino Nesta, che lavora presso il settore urbanistica del Comune di Torino, ha seguito il corso di laurea triennale in Pianificazione territoriale part-time dal 2001 e si è laureato nel 2006. Si occupa del PRG di Torino, di varianti al Piano Regolatore, della ‘manutenzione’ del piano e di procedure urbanistiche quali accordi di programma e conferenze di pianificazione. Savino ha scelto il corso di laurea in Pianificazione territoriale perché approfondisce le tematiche urbanistico-paesaggistiche. Le motivazioni che hanno portato a quella scelta sono state sostanzialmente due: l’interesse verso la materia e la possibilità di poter accedere a posizioni di maggiore responsabilità nell’Ente presso cui presta servizio e quindi partecipare con più consapevolezza ai processi pianificatori. Se, per la posizione che occupa attualmente, la laurea in Pianificazione territoriale in realtà non è obbligatoria, Savino ne conferma l’utilità e l’importanza, così come in enti quali Regione e Provincia. Pur conoscendo la materia anche prima di iscriversi all’università, il corso di studi gli è servito per aprire i suoi orizzonti e
dargli una visione più ampia. Questa è la capacità che maggiormente pensa di aver acquisito rispetto ad altre figure professionali (ingegneri o architetti). L’approccio sociologico, la conoscenza dei progetti europei, l’attenzione verso il paesaggio sono temi e aspetti che avrebbe magari incontrato nel percorso lavorativo, ma che ritiene utili e interessanti, da approfondire anche al di fuori del corso di studi. Il settore pubblico è per definizione (e dovrebbe essere) uno dei principali sbocchi lavorativi per i pianificatori. Alcuni degli studenti part-time iscritti al Politecnico di Torino sono allo stesso tempo lavoratori presso enti locali nell’ambito dell’urbanistica e dell’edilizia, cercano nella laurea una maggiore formazione, utile al proprio lavoro. Savino dice: “ai colleghi che mi hanno chiesto in questi anni un consiglio sul corso di laurea, ho sempre dato la stessa risposta: in primis è un corso interessante, ma soprattutto sono contento perché mi ha consentito di ampliare gli orizzonti delle mie conoscenze. Non so se in altri corsi è possibile approfondire così tanti argomenti”. La figura del pianificatore diventa ancora più importante alla luce della situazione di crisi attuale. Savino, nella sua posizione di professionista del Comune, sottolinea come è soprattutto il rapporto tra pubblico e privato a complicarsi. La difficoltà maggiore è quella di riuscire ad andare incontro alle esigenze degli investitori pri-
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vati, pur mantenendo la pianificazione coerente a quelli che sono principi ordinatori del piano. “Un privato interessato a investire in città significa non solo un investimento in termini economici, ma spesso anche in posti di lavoro, con ricadute sociali positive, questo però non può avvenire in deroga a tutte le regole e a tutti i principi”. La presenza di professionisti capaci di mediare tra esigenze del territorio e aspetti socio-economici rappresenta un punto di forza per gli enti locali impegnati nell’attività di pianificazione del territorio. Savino, ricorda però anche l’importanza di una legislazione che supporti i pianificatori. La pianificazione dovrebbe essere riconosciuta come una disciplina settoriale e specifica di una precisa qualifica professionale, “chiaramente finché non c’è questo riconoscimento, finché manca una legittimazione nella legislazione, la figura professionale non può emergere”. Anche Michela Bongiorno, laureata magistrale nel 2008 e libera professionista, mette in luce come le recenti modifiche alla Legge regionale 56/1977 non abbiano costituito un passo avanti netto per la pianificazione in Piemonte e per gli stessi pianificatori. Se da una parte le modifiche e gli aggiornamenti apportati sono utili e importanti, dall’altra “non è la legge che immaginavo”, dice. Rispetto alle scelte più radicali fatte da altre regioni, in fase di approvazione, le modifiche alla legge urbanistica piemontese hanno forse perso quella spinta innovativa.
Michela, in possesso della doppia laurea del Politecnico di Torino e di Milano, ottenuta nell’ambito del programma Alta Scuola Politecnica, svolge la libera professione collaborando con privati e con uno studio professionale di architettura e urbanistica nell’ambito di varianti strutturali e parziali. In passato ha avuto anche esperienze lavorative all’estero. Dopo la laurea, grazie al Master dei Talenti neolaureati della Fondazione CRT, ha lavorato nel Parco Nazionale di Yellowstone negli Stati Uniti, come specialista di sistemi informativi territoriali. Proprio l’esperienza all’estero le fa riconoscere la debolezza del ruolo del pianificatore: “in Italia questa figura professionale fa fatica a decollare, all’estero invece non si fa difficoltà a competere anche con altri laureati di campi affini”. Sottolinea anche una differenziazione tra diversi specialisti fuori dai confini nazionali: se all’estero i pianificatori sono riconosciuti secondo specializzazioni diverse (paesaggisti, trasportisti, valutatori,…), in Italia il dibattito ruota ancora intorno alla ragione d’esistere del pianificatore. Dal punto di vista formativo, Michela suggerisce un ampliamento delle competenze: lavorando con architetti e ingegneri civili ed edili, ma sente la mancanza di una più solida base di fondamenti di progettazione architettonica. Dato che i pianificatori non sono legittimati ad occuparsi di pianificazione in termini esclusivi, Michela suggerisce di adeguare il corso di laurea
al mercato del lavoro, alla realtà lavorativa attuale, permettendo ai pianificatori di competere con gli altri soggetti attualmente attivi nel settore. Al termine di queste interviste, i problemi principali, ma anche le peculiarità dei pianificatori, sono chiari: da una parte una figura professionale non riconosciuta dal mercato del lavoro e dai soggetti che svolgono attività di pianificazione, dall’altra una professionalità tecnica utile e importante per la gestione del territorio (dalle pratiche urbanistiche di dettaglio a indirizzi e strategie più generali). Gli intervistati per questo breve articolo sono stati solo quattro, ma tante altre esperienze potrebbero essere raccontate: dai liberi professionisti, ai tecnici negli enti pubblici, ai ricercatori universitari, che spaziano dai temi dell’urbanistica, alla valutazione, alla mobilità, al paesaggio e alla sostenibilità. I laureati in Pianificazione costituiscono un gruppo di professionisti che si ‘ritaglia’ un ambito professionale molto conteso e con poche risorse legislative e finanziarie. È importante ricordare che numerosi sono i laureati che, soprattutto nella situazione attuale, sono in una situazione lavorativa critica. La mancata attenzione verso il territorio e le sue forme e la fase di stasi che vive la pianificazione territoriale necessitano un nuovo e importante slancio. Occuparsi di territorio secondo principi etici, significa anche riconoscere l’importanza di figure professionali quali i pianificatori territoriali.
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Formare un pianificatore: un obiettivo da salvare Ragioni economiche e politico-culturali sono alla base della crisi della figura del pianificatore e del suo percorso di studi Silvia Saccomani
Il Corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistico-ambientale di Torino nasce nel 2001 dopo la riforma dell’Università (legge 509/99), seguito nel 2004 dal corso specialistico, oggi magistrale. Il titolo iniziale, Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale, è stato completato nel 2010-11 con l’aggettivo ‘paesaggistico’; l’aggiunta non è puramente nominale ma si riferisce ad una maggior accentuazione nel percorso formativo delle tematiche paesaggistiche, conseguente all’affermarsi anche a livello internazionale, per effetto della Convenzione europea del paesaggio, dell’importanza e della pervasività della nozione di paesaggio. Gli iscritti al corso di laurea sono cresciuti fino ad un massimo nel 2010-11, anno in cui è stato introdotto il numero programmato per mancanza di risorse. Poi il trend è diventato negativo, segnando il minimo assoluto quest’anno (fig. 1). È la crisi economica una delle cause di questa flessione? Alcuni dati sembrano confermarlo, ad esempio il calo degli studenti che frequentano il corso part-time (che rende il percorso più lungo e costoso); e ancora la diminuzione nel 2012-13 degli studenti provenienti da fuori regione (17%), cui non è certamente estraneo il taglio alle borse di studio (fig. 2); infine la crescita fra i laureati negli ultimi tre anni della percentuale di coloro che non si iscrivono ad una laurea magistrale, percentuale che si aggira nei diversi anni attorno al 20%, ma
nell’ultima rilevazione di Alma Laurea, relativa ai soli laureati 2010, è oltre il 26%. Quest’ultimo dato si presta anche ad un’altra interpretazione perché la causa dichiarata dell’interruzione del percorso di studi al completamento del triennio è “motivi lavorativi” per oltre il 37% degli intervistati, e che mette anche in luce una caratteristica peculiare: il corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistico-ambientale è professionalizzante, in coerenza con lo spirito della riforma dell’Università, ovvero il cosiddetto ‘3 e 2’. Il suo obiettivo è formare un ‘tecnico del territorio’, una figura in grado di collaborare a tutte le attività connesse alla pianificazione a scale diverse ed alla gestione di piani e programmi in ambito pubblico e privato. [fig 1, fig 2] La laurea cerca di rispondere a queste esigenze con un percorso che si snoda lungo tre filiere: quella sui temi del governo del territorio e della pianificazione urbanistica e territoriale, quella sui temi del paesaggio e dell’ambiente, quella sui Sistemi informativi territoriali. Alla base di questa scelta ci sono due assunti: che esistano, soprattutto negli enti locali (sbocco prevalente e naturale per questo laureato), numerose mansioni che richiedono una competenza tecnica e nel contempo una formazione culturale di livello universitario; che, essendosi gli ambiti di attività relativi alla pianificazione della città e del territorio, del paesaggio e dell’ambiente molto
ampliati nel tempo, ciò richieda maggior specializzazione, ma nel contempo un approccio culturale che superi le separatezze disciplinari. Il trend degli iscritti è invece positivo per la laurea magistrale (fig. 3). Il loro bacino di provenienza si è ampliato sia dal punto di vista geografico (fig. 4) sia dal punto di vista della formazione di partenza: il 53% degli attuali immatricolati si è laureato in un altro Ateneo, e il 5% è laureato in un’altra classe di laurea. Per gli stranieri, che provengono spesso da percorsi formativi non direttamente assimilabili alla classe di laurea del corso, tale percentuale attualmente supera il 50%. [fig 3, fig 4] La provenienza da altre sedi italiane è dovuta in parte al fatto che in alcune i corsi magistrali in Pianificazione sono stati eliminati (cfr. Reho in questo volume; Moccia D., 2011, I corsi di laurea in urbanistica e pianificazione falcidiati da Gelmini, in Urbanistica Informazioni, n. 237, pp.74-75); ma, a giudicare dalle risposte ai colloqui per l’ingresso alla magistrale sul perché della scelta del corso di Torino, i motivi addotti sono anche altri: una congruenza del percorso del corso di Torino con le attese formative maturate durante la triennale, la sensazione che a Torino si viva meglio che in altre città, ed anche il ‘marchio Politecnico di Torino’. Lo scopo del corso magistrale è formare un planner, un soggetto in grado di coordinare équipe progettuali che svol-
Fig. 1 - Corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistico-ambientale: trend iscritti
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gono attività di pianificazione territoriale, urbanistica, paesaggistica, strategica ed ambientale. Questo obiettivo si fonda sull’assunto di un’attuale centralità della pianificazione: gran parte delle questioni rilevanti per la vita della popolazione e le sue prospettive di sviluppo chiamano in causa la pianificazione in senso lato e la sua capacità di rispondere alle criticità strutturali dell’ambiente ed alla crescente importanza, dettata dai processi di globalizzazione, di modelli di sviluppo fondati anche sulla valorizzazione di risorse e identità locali. Il percorso formativo cerca di rispondere alla necessità di una approfondita formazione tecnica multidisciplinare e di accrescere negli studenti la consapevolezza della necessità di una visione olistica e complessiva nel concreto operare dei processi di pianificazione. Specializzazione, quindi, ma nel contempo una formazione indirizzata a far crescere le risorse critiche. Nell’ultima indagine (2011) svolta da Alma Laurea fra i laureati del corso triennale di Torino emerge che oltre il 32% ha un’occupazione (33,3% nell’anno precedente); in entrambi gli anni i laureati di questo corso che lavorano sono percentualmente un po’ più numerosi dei laureati
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di I livello dell’intero Politecnico (29,2% e 28,5%) ed in particolare dei laureati in Architettura (26,3% e 24,6%) che condividono lo stesso Ordine professionale. Fra gli occupati la maggior parte dichiara di proseguire un lavoro già iniziato durante la laurea. Dalla stessa indagine fra i laureati specialisti (le prime lauree magistrali sono del 2012) emerge che l’81,3% degli intervistati ha un’occupazione (lievemente in discesa rispetto alla rilevazione dell’anno precedente, 84,6%) e la percentuale sale all’86,7% a tre anni dalla laurea. Questi dati sono confermati anche da indagini dirette svolte dal corso di studi nel febbraio 2010 e nell’ottobre 2011 con la collaborazione di numerosi ex alunni. Complessivamente la situazione occupazionale dei laureati non appare quindi così negativa, soprattutto se messa a confronto con alcuni aspetti del mercato del lavoro a cui si rivolgono prevalentemente i laureati del corso, in particolare la specifica situazione di crisi in cui si trovano gli enti locali cui compete per legge svolgere le diverse attività connesse al governo del territorio. Tutto bene, dunque? In realtà la situazione è più problematica di quanto descritto. Le difficoltà per questo corso di studi sono di due ordini: quelle interne all’università
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e quelle derivanti dal mercato del lavoro. Nell’università la situazione, a valle dei più recenti provvedimenti ministeriali, appare sempre più difficile. Da un lato occorre, infatti, confrontarsi con la crescente riduzione delle risorse (diventata drammatica negli ultimi tempi), i cui effetti sono moltiplicati dai vincoli burocratici disseminati dai diversi decreti attuativi della riforma Gelmini (L. 240/10). La mancanza di risorse si fa sentire soprattutto per corsi come quelli in classe pianificazione che per il tipo di obiettivi e di formazione richiedono una grande interdisciplinarità e quindi fondi economici, talvolta poco presenti nell’Ateneo di appartenenza, ma hanno in genere un numero minore di iscritti e si devono confrontare con corsi molto grandi: diventa facile pensare alla chiusura di corsi piccoli, che chiedono molto in termini di risorse formative. In questi undici anni di vita del corso di studi di Torino la sua esistenza è stata spesso in pericolo; oggi il calo degli iscritti alla triennale e l’ulteriore taglio alle risorse stanno nuovamente mettendo a repentaglio la sua permanenza. Ma c’è anche, a mio giudizio, un’altra ragione di tipo politico-culturale. Va, infatti, emergendo, non solo in ambito accade-
Fig. 3 - Laurea magistrale in Pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistico-ambientale: trend iscritti
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mico, ma anche nel modo di affrontare le politiche per la città e il territorio, un atteggiamento che sembra affermare una visione molto riduttiva di che cosa significhi “governo del territorio”. Secondo questa visione definire strumenti di pianificazione, gestire le conseguenze delle decisioni che riguardano le condizioni urbane, territoriali, ambientali, stabilire le regole per le trasformazioni territoriali non sono più temi all’ordine del giorno, nonostante gli obblighi di legge: il problema essenziale non sono le regole, ma la produzione di progetti architettonici e urbani puntuali. Per cui, di fronte alla mancanza delle risorse, sono i corsi che hanno al centro degli obiettivi il governo del territorio quelli messi in discussione: l’impressione è che dietro la chiusura in varie sedi di alcuni corsi in questa classe ci sia un miscuglio di tutte queste cose. Questo approccio culturale trova sicuramente alimento in un situazione economica e istituzionale in cui la carenza di risorse spinge gli enti locali a non avviare politiche di ampio respiro, a gestire concertazioni pubblico/privato la cui essenza sta nell’ottenere qualcosa dal privato, coperta, anche se non sempre, dalla qualità del progetto puntuale. La situazione è resa più grave dal fatto che
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questo atteggiamento culturale insieme alle conseguenze dell’applicazione della riforma universitaria (L. 270/2004) stanno facendo sì che la formazione nel campo dell’urbanistica e della pianificazione sia sempre più debole nei corsi di studio di Architettura e praticamente quasi scomparsa in quelli in Ingegneria. Dal punto di vista del mondo del lavoro la situazione non è certo migliore perché alla generale riduzione degli sbocchi occupazionali si aggiungono problemi specifici per il laureato in Pianificazione. In particolare due: a) le ambiguità del decreto che definisce le competenze delle diverse figure iscritte all’Ordine professionale; b) il permanere nel mondo del lavoro di una non conoscenza dell’esistenza di laureati con queste specifiche competenze. La questione delle competenze degli iscritti all’Ordine è annosa (cfr. Rallo in questo stesso volume), e non è stata risolta con il DPR 328/2001, secondo il quale i pianificatori (junior e non) non hanno competenze riservate, pur avendo uno specifico e separato esame di stato. A questo si aggiunge il fatto che gli enti locali spesso sembrano ignorare che esistono laureati triennali che hanno una formazione sicuramente superiore a quella
Estero
di un diplomato di scuola superiore, con conoscenze strumentali oggi assolutamente necessarie, e che esistono laureati magistrali con una specifica formazione nel campo della Pianificazione, cioè in un campo centrale per la loro attività. Sono ricorrenti i casi in cui nei rari concorsi pubblici la laurea in pianificazione non viene indicata fra i requisiti, anche se l’attività a cui il concorso è finalizzato riguarda questi temi. La situazione del corso di Torino, certo non dissimile da quella dei corsi in pianificazione di altre sedi, suggerisce un terreno di riflessione per soggetti diversi, molti dei quali chiamati urgentemente a confrontarsi. L’attuale situazione degli enti locali, ma anche il mondo delle professioni non offrono grandi sbocchi lavorativi immediati per questo tipo di laureati. Questo è però uno sguardo di corto respiro. I problemi che affliggono il territorio italiano, sebbene spesso ignorati nel dibattito politico e oggetto di puri richiami retorici, sono noti e richiederebbero un’azione di governo politicamente decisa, ma anche estremamente attenta e bisognosa di capacità e competenze tecniche che non si formano da un giorno all’altro e che non sono presenti in altri percorsi formativi.
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Governo del territorio: l’informazione on line Una sintetica panoramica dei principali strumenti di informazione e aggiornamento professionale che il pianificatore ha a disposizione Roberto Albano
Il mondo delle professioni cambia in maniera sempre più rapida ed è necessario seguire questa evoluzione con un continuo processo di aggiornamento. A maggior ragione perché, a partire dal 2014, sarà resa obbligatoria per tutti i professionisti iscritti agli Albi, pianificatori del territorio inclusi. All’interno di una società che bombarda continuamente di informazioni gli individui che ne fanno parte, diventa complicato discernere tra i contenuti professionali e i messaggi commerciali, così come può risultare non facile scegliere i giusti media per l’aggiornamento. Per fare alcuni esempi di questa rapidissima evoluzione mediatica, basta pensare che ora l’attività del Papa può essere seguita attraverso i tweet in nove lingue (oltre 5 milioni di follower), che negli Stati Uniti “le vendite delle copie su carta nei giorni feriali fra le 25 maggiori testate sono precipitate del 41,6% dal marzo 2005 al marzo 2012” (fonte: lsdi.it) e che in Italia “la vendita giornaliera dei quotidiani è calata a 4,7 milioni di copie” (Fonte TNT News, 2012). Per quanto riguarda gli aggiornamenti di ciò che accade in relazione al governo di città e territorio, si sta verificando la medesima evoluzione: l’informazione può ar-
rivare al professionista attraverso i nuovi media (Facebook, Twitter e Youtube su tutti) che, in molti casi, rimandano a materiali presenti su altre fonti, così come attraverso i blog, i siti internet, i portali informativi, oltre che attraverso i più classici quotidiani, i libri e le riviste. Anche la pesante macchina dell’urbanistica sta, dunque, diventando open source, consentendo sia i cambiamenti operativi dal basso, per colmare la continua incompiutezza delle città attraverso una sinergia tra tecnologia e territorio (Saskia Sassen, 2013), sia attraverso un sistema informativo aperto. É proprio l’esplorazione della nuova informazione l’obiettivo di questo breve saggio. Si vuole offrire una panoramica delle principali fonti informative (on line) di cui dispongono coloro che si occupano delle trasformazioni della città e del territorio. Questa ricognizione, che non mira a essere esaustiva, parte dai siti istituzionali di riferimento generale della materia urbanistica (alle diverse scale), e si conclude con quelli che si occupano di singoli aspetti del governo del territorio. Cita infine alcuni siti/portali che non sono riferimento esclusivo per i tecnici della città e del territorio, ma dell’architettura in generale e
su cui spesso, come è ovvio che sia essendo parte della stessa materia, si trovano informazioni fondamentali anche per gli urbanisti. A livello europeo il sito dell’European Council of Spatial Planners (ECSP-CEU, www.ectp-ceu.eu), organismo fondato nel 1985, che raggruppa 25 associazioni di 22 Paesi europei, presenta, in due lingue, le attività del Consiglio e divulga pubblicazioni, riflessioni e convegni, relativi alle buone pratiche di pianificazione in Europa. Altre associazioni da ricordare che svolgono meeting e attività otre i confini nazionali e il cui sito, oltre che la newsletter, è in grado di segnalare importanti iniziative, sono l’International Society of City and Regional Planners (ISOCARP, www.isocarp.org), l’Association of European School of Planning (AESOP, www.aesop-planning.eu) e l’European Urban Research Association (EURA, www.eura.org). La prima è un’associazione globale di planner, fondata nel 1965 con lo scopo di rafforzare la rete internazionale di chi governa il territorio, mentre la seconda e la terza assumono una dimensione più legata alla formazione, alla ricerca e ai centri universitari. Ancora con l’Europa come area di rife-
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rimento delle attività, ma con finalità del tutto differenti rispetto ai soggetti sopra citati, si segnala European Observation Network, Territorial Development and Cohesion (ESPON, www.espon.eu), direttamente collegato con le politiche dell’Unione Europea e con i Fondi di Sviluppo europei, che mette a disposizione interessanti rapporti sulla condizione del continente e, in particolare, sulle politiche di coesione e competizione. Il sito dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU, www.inu.it), interfaccia del soggetto fondato nel 1930 per promuovere gli studi edilizi e urbanistici e diffondere i princìpi della pianificazione, si configura come il riferimento principale per l’aggiornamento tecnico e professionale in Italia. Le principali pubblicazioni di settore e gli eventi sono chiaramente segnalati e viene offerta visibilità anche alle prese di posizione politiche dello storico istituto a difesa dell’urbanista e dell’urbanistica. Le sezioni regionali promuovono la conoscenza e il dibattito culturale sui temi più locali. Direttamente connesse con le attività dell’INU, e dal soggetto stesso promosse, sono le riviste Planum on line, prima testata europea in rete interamente indirizzata ai pianificatori e alla comunità
scientifica interessata ai temi dello sviluppo urbano e alla tutela dell’ambiente (fonte www.INU.it) e Urbanistica Informazioni on line, che completa l’attività di divulgazione cartacea dell’Istituto. Da segnalare, inoltre, sempre a livello nazionale, l’importante attività divulgativa svolta dalla Società Italiana degli Urbanisti (SIU, www.societaurbanisti.it), dalla Associazione Nazionale degli Urbanisti e dei Pianificatori Territoriali e Ambientali (ASSURB, www.urbanisti.it) e dall’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRE, www.aisre.it). La SIU, la cui mission è quella di agire contestualmente nei campi della professione, della formazione e della ricerca urbanistica, organizza annualmente una conferenza in cui ricercatori e professionisti sono invitati a confrontarsi e che è riconosciuta come il principale evento con cadenza regolare di confronto, prevalentemente accademico, su queste tematiche. Torino ha ospitato nel 2011 la conferenza annuale prevista a Napoli per il 2013, con il tema Urbanistica: per una diversa crescita. L’ASSURB differenzia le sue attività legandole maggiormente al mondo professionale e delle competenze di settore, ponendo particolare attenzione alla tutela
della professione e a un suo corretto svolgimento da parte dei pianificatori. L’AISRE, infine, sezione italiana della Regional Science Association International, si interessa delle discipline delle scienze regionali, promuove la circolazione delle idee e delle attività di ricerca sui problemi regionali e organizza annualmente un convegno su questi temi. In particolare i primi due siti sopra segnalati sono molto utili per un costante aggiornamento del dibattito, sia in termini culturali-accademici (SIU) sia tecnicooperativi (ASSURB). Entrambi offrono infatti informazioni in merito a corsi, eventi e conferenze. ASSURB funziona, inoltre, da collettore per articoli a tutela della categoria e segnala bandi di concorso e suggerimenti per la libera professione. Sempre a livello italiano, con un taglio più divulgativo e meno accademico, è necessario citare il sito www.eddyburg.it, che si deve al lavoro meticoloso dello stimolante docente di urbanistica, Edoardo Salzano, e che rappresenta un portale informativo di eccellenza su tutti gli eventi che riguardano la società, la politica, l’urbanistica e la pianificazione. Un ulteriore salto di scala consente di individuare alcune associazioni, costitu-
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ite da raggruppamenti di ex studenti o di appassionati e che sfociano sul web con forme associative differenti: è il caso del sito www.planetmilano.it (un’associazione che riunisce e rappresenta studenti e laureati in Urbanistica e Pianificazione territoriale del Politecnico di Milano), o del blog http://progettazioneurbanistica.wordpress.com, o ancora di diversi gruppi, che si trovano sui social network e che funzionano come ottimi luoghi per il confronto, per l’aggiornamento professionale e per i dibattiti locali. Ancora, sono moltissimi i portali di confronto sulle tematiche urbane, lanciati e aggiornati costantemente da singoli o da gruppi di persone e derivanti dalla voglia di condividere e renderne accessibili i contenuti. Tra i numerosi portali esistenti vale la pena segnalare www.audis.it (Associazione Aree Urbane Dismesse), per l’intensa attività svolta e per il tema di particolare rilevanza in questa fase storica dell’urbanistica la cui vera sfida è trasformare in maniera sostenibile parti di città compromesse; inoltre, www.cittainrete.blogspot.it, sito dell’omonima associazione nata nel 2009 per indagare gli aspetti territoriali delle città e www.esteticadellecitta.it, un sito promosso dall’urbanista Marco Ro-
mano, interessante sia per la filosofia dietro il progetto sia per la grande disponibilità di immagini di modelli di città liberamente visualizzabili. Mantenendo costante il riferimento al territorio locale e alla scala urbana, non è da sottovalutare l’attività che, anche grazie alla capillare capacità di comunicazione verso tutti gli iscritti, può essere offerta dai siti degli Ordini degli architetti più grandi. Tale attività sarà incrementata anche in relazione alla nuova offerta formativa che gli Ordini dovranno offrire ai professionisti e che sarà composta, oltre che da attività formative classiche, anche da un ampliamento delle proposte culturali. Sempre a livello di scala urbana, anche gli Urban Center si configurano come soggetti in grado di stimolare il dibattito e la riflessione sulla professione e sulle prefigurazioni della città futura, anzi dovrebbe essere quello il loro ruolo prevalente. Accanto alla riflessione sui temi della città contemporanea, compaiono numerosi altri temi che riguardano ad esempio la sostenibilità, l’efficienza energetica o il paesaggio; proprio in merito a quest’ultima categoria tipologica vale la pena segnalare, tra i moltissimi esistenti, il sito www.uniscape.eu, rete universitaria
che ha l’obiettivo di promuovere l’introduzione e l’applicazione della Convenzione Europea del Paesaggio del 2004, e www.salviamoilpaesaggio.it, che più che ai temi del paesaggio fa riferimento al consumo di suolo in Italia. Inoltre, il fatto che architetti e urbanisti siano, quantomeno in Italia, parti della stessa categoria professionale, fa sì che moltissimi dei siti di riferimento base per gli architetti offrano informazioni e possibilità interessanti per chi si occupa di trasformazioni territoriali. I siti più comuni, e visualizzati quotidianamente dai professionisti, sono www.europaconcorsi.com, riferimento internazionale per la pubblicazione dei bandi, dei concorsi e dei loro risultati, oltre a www.edilportale.it e www.professionearchitetto.it. Questo elenco on line per la professione del pianificatore va inteso come sintetica panoramica ragionata dei principali riferimenti utili per un aggiornamento professionale: il suo monitoraggio, insieme all’attività di formazione permanente obbligatoria, sarà utile per mantenere aggiornato il profilo professionale di chi il territorio non solo lo abita, ma cerca anche di studiarlo e amministrarlo nel migliore dei modi.
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