Art&Arch - Francesco Toso

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Francesco Riccardo Toso

Art&Arch

Istituto Sacro Cuore





“A m a t e l’a r c h i t e t t u r a ,


l’a r c h i e t t u r a è u n c r i s t a l l o.” Gio Ponti


Francesco Riccardo Toso

Art&Arch

Istituto Sacro Cuore


Francesco Riccardo Toso Art&Arch Istituto Sacro Cuore Milano, Via Rombon 78. Prima Edizione Pubblicata per la mia Maturità 2016 5 Luglio 2016 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta del proprietario dei diritti d’autore. Printed in italy


PAGINE



INIZIO ARTISTA-ARCHITETTO? 14 LE CORBUSIER 17 MICHELE DE LUCCHI 21 CHRISTO 25 ILMOVIMENTO MODERNO ARTE E ARCHITTETTURA NEL FUTURISMO

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GIO PONTI 46 BIOGRAFIA 49 GIO PONTI ARTISTA

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GIO PONTI ARCHITETTO 56 LA CONVERSIONE CLASSICA E “I GRANDI TEMI” 57 RICHARD GINORI 58 DOMUS 61 LA CASA ALL’ITALIANA 64 1931 - 1933 68 1933 - 1938 72 ANNI QUARANTA: SCRIVERE, DIPINGERE, PROGETTARE 76 ANNICINQUANTA: LA TEORIA DELLA “FORMA FINITA” 78 IL PIRELLONE 80 ANNI SESSANTA: IL GIOCO DELLE SUPERFICI 86 ANNI SETTANTA: LA FELICITA’ 88 AMATE L’ARCHITETTURA l’architettura è un cristallo



INIZIO Molti sono gli esempi del passato che ci presentano figure di architettoartista, un esempio fra tutti, Michelangelo Buonarroti per i Prigioni, la Biblioteca Laurenziana, la Sistina, la Basilica di San Pietro, il Giudizio Universale e le Pietà. Non è nuovo, per l’artista puro, cimentarsi nella progettazione dello spazio architettonico o urbano, o per l’architetto essere coinvolto dalle indagini della ricerca artistica a lui contemporanea dalla quale trarre suggestioni culturali e sviluppi artistici. Secondo la scuola del Bauhaus, arte e architettura sono state affiancate perché considerate espressioni legate strettamente dagli stessi fenomeni culturali. L’obiettivo è quello di individuare i punti di contatto tra le due discipline attraverso il genio artistico di Gio Ponti. L’intenzione della ricerca è stata quindi affrontare, i personaggi e i movimenti che hanno prodotto sviluppi stilistici nell’ambito della ricerca del linguaggio architettonico tramite un approfondimento sulla figura di Gio Ponti. Parlando di Gio Ponti ho riportato lo sviluppo del suo pensiero di artista, architetto, cittadino e uomo attraverso degli esempi e delle opere significativi per mostrare un personaggio poliedrico e intraprendente.

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A RT I STA- A R C H I T ET T O ?

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Nel primo capitolo ho voluto riportare degli esempi di 3 figure a me care per come mi hanno fatto crescere attraverso il loro modo di guardare e rappresentare. Sono artisti ma anche architetti, oppure sono architetti ma anche artisti, o pittori, scultori, pensatori o semplicemente uomini appassionati alla loro vita e a quella degli altri. Ho scelto a delle loro opere che rappresentano una “contaminazioneâ€?, un punto di contatto tra le diverse discipline artistiche che però rappresentano un solo mondo, quello dell’arte, quello degli uomini.

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L E C OR BU SI E R

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Le Corbusier, architetto svizzero naturalizzato francese attivo dal 1905 al 1965, nel suo percorso artistico incontra il cubismo di Picasso e di Braque a Parigi, cioè quell’avanguardia che vuole rifondare le arti plastiche mettendo in luce le geometrie della realtà. Nel 1951 Le Corbusier viene incaricato di realizzare il piano urbanistico della città indiana di Chandigarh, la capitale del Punjab voluta da Nehru. Nella grande piazza della città vuole realizzare la scultura di una mano aperta: La mano aperta per ricevere, la mano aperta per donare. “Questo segno della Mano aperta per ricevere le ricchezze create, per distribuirle ai popoli del mondo, deve essere il segno della nostra epoca”. Segno di una grandezza artistica, ma anche morale di Le Corbusier. “Sono nato per guardare immagini e per disegnare. Il fondo della mia ricerca e della mia produzione intellettuale ha il suo segreto nella pratica ininterrotta della pittura. Disegni, quadri, sculture, libri, case e progetti, per quanto mi riguarda personalmente non sono che una sola e identica manifestazione creatrice rivolta a diverse forme di fenomeni”: così scrive Le Corbusier nel 1953.

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M IC H E L E DE LU C C H I

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Architetto e designer italiano ha vinto il compasso d’oro per la lampada “Tolomeo” di Artemide nel 1987. Negli ultimi anni attivo per la citta di Milano, ha costruito opere pubbliche di grande rilevanza come l’Unicredit Pavillon in piazza Gae Aulenti e il grande contributo per Expo 2015 disegnando il Padiglione ZERO (il primo e più importante per la visita del sito) e il padiglione dell’Intesa San Paolo. Inoltre ha ripensato il nuovo allestimento della Pietà Rondanini al Castello Sforzesco di Milano. “Le Casette sono nate facendo la punta con un coltellino alle matite. Mi sono accorto ben presto che lavorare il legno mi emozionava tanto quanto disegnare sui fogli di carta - ha commentato De Lucchi, padre delle opere esposte -. “Sono quindi passato dal silenzio della matita al fracasso della motosega, portando sempre con me la leggerezza e la delicatezza del tratto che dalla carta, si è spostato ora, al legno”. La vita delle Casette create da De Lucchi è stata duplice: utilizzate ora come modelli concettuali per vere architetture ora come presenze metafisiche «lasciate a riposare» - ama spiegare l’artista - in studio. “Ci sono dei momenti nella vita in cui hai fretta di vedere qualcosa di concreto. Per un architetto quindi non bastano gli schizzi a tracciare una prima fisionomia di quello che sarà il progetto, la necessità di realizzare qualcosa che si possa toccare con mano allora diventa urgentissima”. Per Michele De Lucchi questo momento risale a 10 anni fa, quando prese in mano una motosega; così per l’architetto-artista il legno diventa carta da disegno e il fracasso dell’attrezzo inizia il dialogo tra arte e architettura, creando modellini di edifici, oggetti e sculture.

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C H R I S TO

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Christo lavora, come spesso avviene nell’arte contemporanea, sulla modificazione percettiva dei luoghi, che sotto le sue mani, sotto la sua influenza e con lo “strano” rivestimento di tessuto che gli aggiunge, non solo cambiano natura, ma anche il modo di essere guardati. Un po’ il rovescio dell’operazione che ha fatto Duchamp con il “readymade” quando innalzò l’oggetto d’uso, l’orinatoio, ad opera artistica. Christo fa il contrario: se in partenza ha un’opera d’arte questa viene reinterpretata come un bizzarro oggetto d’uso impacchettato. Se invece interviene su un elemento naturale (come in The Floating Piers) si trasforma in un opera artistica. E tutte comunque diventano indimenticabili. Perché protagoniste di una nuova estetica. Monumentali, solenni e sontuose” Anche in questo caso avviene una contaminazione tra arte e architettura la linea che separa le due discipline si fa sottilissima in un opera architettonica a favore di una ricerca artistica e percettiva.

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I L MOV I M E N T O MODE R N O

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Il movimento moderno è radicato nella tradizione culturale europea, ed è collegato al passato mediante una successione graduale di esperienze; il movimento moderno ha uno spirito rivoluzionario, che interrompe e modifica l’eredità culturale del passato. “L’architettura abbraccia la considerazione di tutto l’ambiente fisico che circonda la vita umana; non possiamo sottrarci ad essa, finche facciamo parte del consorzio civile, perché l’architettura è l’insieme delle modifiche e delle alterazioni introdotte sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato solo il puro deserto” (definizione di architettura di William Morris nel 1881) In che modo incomincia l’architettura moderna? Leonardo Benevolo nella “storia della architettura moderna” indica tre diverse risposte in ordine storico: Il riconoscimento del nesso tra forma e funzione, quindi il bisogni di agire contemporaneamente sul piano spaziale e sul piano dei contenuti umani e sociali, per migliorare l’ambiente circostante. La formazione di un’esperienza architettonica minoritaria, capace di trovare un’alternativa ai consueti stili storici e tradizionali; cioè il compito svolto dai movimenti delle avanguardie fra il 1890 e la fine della prima guerra mondiale. La convergenza del pensiero delle avanguardie in un movimento unitario, che sia in grado di guardare a tutta la produzione edilizia e di modificare globalmente l’ambiente in cui l’uomo vive e lavora, riportandolo alla misura dell’uomo; è l’impresa iniziata da Gropius, nel 1919 con la scuola del Bauhaus, e Le Corbusier subito dopo la fine della prima guerra mondiale.

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I movimenti d’avanguardia del secondo decennio del 900’ mutano radicalmente le tradizionali abitudini visive rompendo il dualismo con i modelli del passato, limite del tecnicismo dei progettisti e ingegneri del 800’. Cosi le avanguardie saranno capaci di vedere con occhi nuovi il paesaggio mutato e formato dalla rivoluzione industriale. La visione prospettica è rimasta finora il fondamento delle erti visive, si fonda su una nozione intellettuale per cui la rappresentazione degli oggetti deve consentire una raffigurazione esatta e univoca della loro forma, secondo un sistema di riferimento prodotto scientificamente dalle leggi naturali dell’ottica nel 1400 da Filippo Brunelleschi. questa tesi sulla prospettiva lega indissolubilmente arte, scienza e tecnica. Le prime opere cubiste e futuriste esprimono polemicamente questo desiderio di rottura dalla tradizionale visione del mondo dato dalle leggi della prospettiva, volendo cogliere la struttura della realtà attraverso la presentazione contemporanea di più immagini sovrapposte, cioè negando che l’espressione artistica sia in un certo senso vincolata dalla visione oggettiva e fisica. L’obbiettivo dell’operazione culturale è la liquidazione del tradizionale parallelismo fra rappresentazione e produzione degli oggetti, e del concetto stesso di pittura quale parte di questa funzione rappresentativa. Oggi continuiamo a usare questa parola ma non possiamo più, dopo il cubismo e il futurismo, attribuirvi lo stesso significato: la pittura viene integrata nella pianificazione dell’ambiente in cui viviamo, come strumento di ricerca qualitativa e quantitativa propria degli oggetti industriali, quindi strettamente legata all’architettura e partecipe della stessa funzione, contemplativa ed operativa allo stesso tempo. Si muovono in questa direzione di stretto contatto pittori e architetti;

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s’incontrano per svolgere il medesimo compito subito dopo la prima guerra mondiale i maestri del movimento moderno europeo come Le Corbusier a Parigi, Mies Van der Rohe a Berlino. Questo avviene per esempio al Bauhaus, dove accanto a Gropius lavorano Klee, Kandinskij, Feininger. Organizzando il Bauhaus, Gropius considera artigianato e industria, pittura e architettura, due fasi dello stesso ciclo vitale, servendosi del primo come introduzione didattica alla seconda. Negli stessi anni Le Corbusier comincia il suo lavoro per definire gli standards dell’architettura e dell’urbanistica moderna, negando una sua visione artistica irripetibile, ma ideando soluzioni ragionevoli, da ripetere e trasmettere agli altri. Imposta un metodo. Di seguito vedremo come questo processo, sebbene in misura minore, avviene negli stessi anni (dal ‘23 al ‘27) anche nel percorso artistico di Gio Ponti.

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A RT E E A RC H I T T E T T U R A N E L F U T U R I SM O

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I pittori futuristi orientarono le loro scelte stilistiche verso le scene della crescita urbana, contrapponendosi con forte polemica verso la tradizione del passato, all’Italia dell’archeologia e dell’architettura monumentale. È proprio dall’Italia “che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il << Futurismo >>, perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquari.” Questa visione artistica, in cui l’abitazione si identifica con la sola funzione sociale, corrisponde alla volontà futurista di esprimere i segni della modernità in opposizione all’architettura ufficiale, ancora dominata dall’ecclettismo accademico, o dal decorativismo, inteso a evocare le caratteristiche storiche della città italiana.

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L’artista futurista inverte la normale gravità e rompe l’integrità delle forme urbane: l’architettura è oggetto di una forte sollecitazione dinamica in visioni simultanee, dove il movimento riempie lo spazio abolendo la componente statica dall’immagine. I quadri di Carrà e Boccioni nella Galleria e nella Stazione di Milano traducono in movimento le forme dei nuovi centri della modernità urbana del capoluogo lombardo.

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G I O P ON T I

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B IO G R A F IA

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Ho scelto di riportare una biografia il piÚ possibile schematica, precisa e sintetica per mostrare quanto è ampia e svariata la produzione artistica di questo architetto, quanto la sua vita sia stata piena di decisioni ed eventi che lo hanno portato ad essere uno degli uomini piÚ significativi per lo sviluppo architettonico, artistico, sociale e umano del XX secolo in Italia.

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1891 Giovanni Ponti, detto Gio, nasce a Milano il 18 novembre 1891 da Enrico Ponti e Giovanna Rigone. Nel corso della sua vita diventerà un architetto, designer e saggista italiano, tra i maggiori del XX secolo. 1913 Dopo il liceo classico, nel 1913, si iscrive alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, ma potrà laurearsi solo alla fine della prima guerra mondiale cui partecipa, nonostante la salute inizialmente cagionevole, in prima linea, riportandone alcune decorazioni sul campo e numerosi ritratti ad acquerello dei compagni d’armi. Durante la guerra visita le architetture di Palladio. Rientrato a Milano, si avvicinerà al gruppo dei “neoclassici milanesi”. 1921 Si laurea al Politecnico di Milano e sposa Giulia Vimercati. Avranno quattro figli: Lisa, Giovanna, Giulio e Letizia, e poi otto nipoti. 1923 Collabora con la manifattura ceramica Richard-Ginori (fino al 1938) dando il via a un rinnovamento della produzione. Porcellane e maioliche, d’ispirazione classica, verranno presentate alla Prima Mostra Internazionale di Arti Decorative di Monza, nel 1923. Lì Ponti incontra il critico Ugo Ojetti, figura di riferimento per la sua formazione. 1925 Disegna la palazzina di via Randaccio a Milano, la prima casa progettata da Ponti, e da lui anche abitata.

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1927 Apre il suo primo studio a Milano con l’architetto Emilio Lancia (19271933). La “conformazione classica”, come egli stesso diceva, la passione per la pittura (avrebbe voluto essere pittore) e per le arti decorative costituiscono la matrice da cui si sviluppa il primo linguaggio Pontiano. Centrale è un inedito approccio al tema dell’abitazione. Di questi anni la villa Bouilhet a Garches presso Parigi, in cui architettura, interni e decorazione si fondono. 1928 Fonda, con Gianni Mazzocchi, la rivista “Domus’’, che rappresenterà il suo strumento di elaborazione e diffusione delle nuove idee progettuali, in architettura, nel disegno di arredo e nelle arti decorative. - Il concetto di italianità, unito a un avvicinamento alle teorie razionaliste, lo condurrà a concepire le prime ‘’Case tipiche” emblematicamente denominate”Domus’’. - Gio Ponti ammira il critico Edoardo Persico. 1930 Prende avvio il suo coinvolgimento nelle Triennali di Milano (1930, 1933 la “sua” Triennale , 1936, 1940, 1951) 1931 Inizia la collaborazione con la “Luigi Fontana” (dall’anno successivo “Fontana Arte” di cui assumerà la direzione artistica). Nascono dallo studio con Emilio Lancia le prime residenze: Domus Carola, Domus Fausta, Domus Julia.

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1933 Termina, con la casa-torre Rasini in corso Venezia a Milano l’associazione professionale con Emilio Lancia. -fiorisce l’amicizia con il pittore Massimo Campigli. - si associa con Antonio Fornaroli ed Eugenio Soncini (1933-1945). Da questo sodalizio nasceranno importanti progetti e realizzazioni: edifici scolastici (Scuola di Matematica alla Città Universitaria di Roma, Facoltà di Lettere e Rettorato dell’Università di Padova), edifici per uffici (Palazzo Montecatini) ed edifici residenziali (Casa Marmont in via Gustavo Modena a Milano, Casa Laporte in via Brin a Milano e Villa Donegani a Bordighera). Alle grandi opere si affianca una vasta e proficua produzione nel campo dell’arredo, in cui si fondono funzionalità ed eleganza formale. 1936 Diviene docente del corso di interni, arredamento e decorazione presso il Politecnico di Milano (dal 1936 al 1961) 1938 Ponti conosce Bernard Rudofsky. Prende avvio una nuova fase progettuale, caratterizzata dal riferimento a un’ideale architettura mediterranea. 1941 Ponti, abbandonata temporaneamente la direzione di “Domus”, crea per l’editore Garzanti la rivista “Stile”, che dirigerà fino al 1947, portando avanti il suo programma di diffusione della cultura artistica e architettonica, per la formazione di un’inedita “cultura dell’abitare”. In questi anni si verifica un progressivo allontanamento di Ponti dalla committenza pubblica ufficiale e un rinnovato interesse per le arti decorative (collaborazioni con Venini e De Poli), per la pittura e per la scenografia teatrale. Nell’immediato dopoguerra

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assistiamo da un lato a un forte coinvolgimento, teorico e pratico, sul tema della ricostruzione, dall’altro a un netto rinnovamento formale: il volume lascia il posto alla superficie, alla ricerca di luminosità e fluidità spaziale. 1952 Nasce lo Studio Ponti, Fornaroli, Rosselli 1954 Ponti inventa il premio Compasso d’Oro e, nello stesso anno, è partecipe della nascita, per conto di Alberto Rosselli, socio e genero, della rivista “Stile Industria”. La teoria della ‘’forma finita”, punto cardine dell’opera di Ponti, coinvolge tutti i livelli della progettazione: dagli oggetti più minuti alle grandi architetture. La forma “a diamante” ne è il codice. Nel campo dell’arredo l’ideazione tocca un vertice con le “pareti organizzate”: mobile autoilluminante, pannellocruscotto, finestra arredata. Queste invenzioni troveranno una esemplare applicazione nelle ville dei primi anni Cinquanta: a Caracas, Villa Planchart e Villa Arreaza; a Teheran, Villa Nemazee. 1956 Il capolavoro da tutti riconosciuto: il Grattacielo Pirelli a Milano. 1957 Ponti pubblica “Amate l’Architettura”. Progetta la casa di Via Dezza, adiacente allo studio, dove abiterà da allora in poi, in un appartamento espressione della sua “cultura dell’abitare”, delle sue passioni e dei suoi temi. 1964 Gli edifici religiosi a Milano (la chiesa di San Francesco, 1964, e la chiesa di San Carlo Borromeo, 1966) rappresentano un’evidente tendenza alla

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smaterializzazione, anticipando alcune delle opere del decennio successivo. - Negli anni Sessanta i viaggi di Ponti si spostano dall’America Latina all’Oriente: realizzerà gli edifici ministeriali di lslamabad in Pakistan, una villa per Daniel Koo a Hong Kong e alcune importanti facciate per grandi magazzini (a Singapore, a Hong Kong, a Eindhoven in Olanda). 1970 Ad ottant’anni Gio Ponti realizza ancora opere memorabili quali la Concattedrale di Taranto (1970) ed il Denver Art Museum . L’architettura è ormai un foglio traforato. Dipinge su perspex, piega con l’argentiere Sabattini sottili lastre metalliche, pensa tessuti, pavimenti, facciate. Il colore predomina. 1979 Muore a Milano, nella casa di via Dezza, il 16 settembre 1979.

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G I O P ON T I A RT I STA G I O P ON T I A R C H I T ET T O

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LA CONVERSIONE CLASSICA E “I GRANDI TEMI”

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R IC HA R D G I N OR I Gio Ponti ha cominciato con la ceramica. Bisogna dirlo subito. Fin dall’inizio progetta e promuove, insieme. Non teme il lusso e non teme la serie, perché la qualità è nella forma, e la si deve diffondere. La collaborazione con Richard-Ginori è, di fatto, l’esordio e il primo grande successo della sua carriera, che lo vede coinvolto non in veste di architetto, ma di direttore artistico. Anche Ponti, come lo era stato per gli esponenti del modernismo europeo in Francia con Le Corbusier e in Germania con il Bauhaus, non vuole dividere le due arti. Nel 1922 il giovane architetto inizia a collaborare con la celebre industria di ceramiche di cui diventa direttore artistico dal 1923 al 1933, decretandone il definitivo successo (a soli 32 anni). La passione per l’industria e al tempo stesso per l’artigianato più raffinato, la capacità di Ponti di imprimere una direzione al gusto contemporaneo, il suo talento immaginifico sono le premesse ideali per il rinnovatore dell’azienda Richard-Ginori. Il pubblico e la critica lo acclamano senza riserva sia nel 1923 quando espone per la prima volta alla Villa Reale di Monza, sede della Biennale Internazionale di Arti Decorative (che diventerà l’attuale e appena ricostituita Triennale di Design di Milano) che all’Esposizione internazionale di arti decorative di Parigi del 1925 quando riceve il gran premio della giuria. Il carteggio fra l’architetto, che lavora a Milano, e la manifattura di Doccia (paese di origine dell’azienda fiorentina) comprende 230 lettere. Il giovane Ponti era solito lavorare giorno e notte, disegnando in continuazione su ogni cosa avesse a disposizione e sui supporti cartacei più disparati: cartoline, fogli di taccuino e carta da lettere degli hotel in cui si trovava a soggiornare.

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D OM U S

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Apre il suo primo studio a Milano nel 1927 con l’architetto Emilio Lancia (1927-1933). Il primo linguaggio Pontiano è costituito da: una “conformazione classica” come egli stesso diceva, la passione per la pittura e per le arti decorative (avrebbe voluto essere un pittore), e un inedito approccio al tema dell’abitazione. Il progetto della villa Bouilhet a Garches presso Parigi, in cui architettura, interni e decorazione si fondono è proprio di questi anni. Nel 1928 raccoglie la proposta Ugo Ojetti e dell’influente predicatore padre Giovanni Semeria, e fonda quasi per gioco, come improvvisazione milanese, la rivista “Domus”, che più tardi passerà nelle mani dell’editore Gianni Mazzocchi, insieme alla sua storica rivale “Casabella”. Architettura, arte e abitare sono i termini di una triade inscindibile su cui Ponti fonda la nozione di “civiltà” come partecipazione vitale al proprio tempo e non dettata dalle mode del momento. L’architettura di Ponti crea “l’abitare”, la vita, il godimento contribuendo all’organicità dello spazio con arredi, oggetti d’uso, opere d’arte espressive e oggetti di design. L’arte per Ponti non si esaurisce nel passato, ma al contrario essa si ricrea col contributo creativo di architetti, artisti, artigiani e imprenditori. Grazie all’impegno diretto nelle Triennali (del 1930, del 1933, del 1951 in particolare), al ruolo di docente al Politecnico di Milano (di polemista instancabile),alle capacità d’inesauribile progettista e grazie alla diffusione delle sue inedite idee con Domus, contribuì all’affermarsi del design come momento formativo della produzione in serie e punto di convergenza di molti saperi artigianali. Ponti, infatti, è stato uno dei principali e il primo promotore del Made in Italy, come dimostrano gli arredi navali per l’Andrea Doria, Giulio Cesare, Conte Grande e dei tanti progetti e realizzazioni estere.

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L A C AS A A L L’ I TA L IA NA

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La casa all’italiana è il titolo dell’editoriale del primo numero di “Domus” nel gennaio del 1928: Ponti vi riassunse il suo programma di una cultura domestica intesa come la più generale riformulazione del “primo abitare moderno”. Il programma di “far diventare la casa più famigliare e meno presuntuosa” aveva già cominciato a circolare in Italia in una generale convinzione di dover sviluppare un’arte “d’uso quotidiano”. Ad essa Ponti fece corrispondere il concetto di “casa tipica” come declinazione della “casa di serie”, avviando a Milano la costruzione di alcune unità, le “domus” di via de Togni e di via del Caravaggio, destinate a una larga diffusione per le loro innovative caratteristiche di distribuzione e d’uso. Nell’abitazione dimostrativa allestita alla Triennale del 1936, Ponti riassunse tutti quei caratteri sull’abitare nello slogan “minimo ingombro, massima trasformabilità, docile mobilità”, cui uniformerà anche negli anni a venire la sua idea di abitazione moderna. Furono una prima dimostrazione i prototipi di case prefabbricate presentati alla X e alla XI Triennale insieme al condominio milanese di via Dezza (1956 -1957), dove nell’appartamento al settimo piano stabilì la sua ultima residenza. Nell’organizzazione della pianta fissò in maniera esemplare la sua predilezione per un’idea di casa trasformabile, praticando una distribuzione aperta degli spazi che rifiutava la suddivisione in stanze, adottando sistemi di chiusura a fisarmonica. Questo principio fu sviluppato con coerenza, negli anni Settanta, nella proposta della “casa adatta”: “maggior spazio godibile in minor superficie”! L’obiettivo era quello di contrapporre alla pratica ricorrente del piano-tipo la possibilità di una trasformazione dello spazio nel tempo, coerentemente al mutare delle esigenze. Questa visione della casa “trasformabile” è presente

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anche nel suo libro amate l’architettura dove spiega una nuova concezione del muro poiché “una volta il muro portava, e l’onore del muro era la sua grossezza: che ne dimostrava la capacità portante: non era un merito, una prerogativa d’una volta: per forza il muro era grosso, solido e massiccio, portava” oggi “l’onore del muro divenne d’esser leggero, cioè sottile (cavo, con le qualità coibenti – al caldo e al freddo ed al suono – che finalmente erano create dalla tecnica dell’uomo – onore intellettuale – e non con lo spessore – fatto naturale)” Infine chiude il capitolo sulla scomparsa del muro dicendo quale sia la sua funzione d’oggi, per chi li usa ancora, e la loro destinazione artistica “scomparsa del muro? Oggi facciamo anche dei muri per non portare il resto ma per portare se stessi in funzione di chiudere plasticamente degli spazi: plastica spaziale, incanto murario puro, muri per guardarli”

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1931 - 1933 D OM U S D OM U S D OM U S E M I L IO

C A ROL A , FAU S TA , J U L IA , L A N C IA - G IO P ON T I ,

V IA DE TO G N I 2 1 , 2 3 , 2 5 - M I L A N O

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L’architettura viene seconda in ordine di tempo, per Ponti, dopo le arti applicate. È stata molto disegnata, prima che costruita la prima casa di Ponti a Milano, la casa di via Randaccio del ‘25. Successive alla guerra sono le “Domus” che definirà di “ispirazione classica per l’enorme impressione che ebbi vivendo, durante la guerra, nei periodi di riposo dal fronte, in edifici del Palladio, e con la possibilità di vederne più che potevo”. Sono le sue architetture più tipiche: hanno radici disegnative neoclassiche e inedite soluzioni di pianta. Tre case in via De Togni formano la prima concretizzazione del programma di rinnovamento dell’abitazione medio borghese che Gio Ponti chiamava “la casa all’italiana”. Gli appartamenti, uno per piano in ciascuna delle tre case, sono particolarmente innovativi per l’edilizia milanese del tempo. Innanzitutto, per un’organizzazione razionale della pianta, con l’abolizione dei corridoi, la separazione tra zona giorno e zona notte, la riduzione al minimo degli ambienti di servizio a piccoli ambienti affacciati sul retro a favore di un grande ambiente per il pranzo e il soggiorno sul fronte strada, dove la famiglia potesse ritrovarsi. In corrispondenza di tale ambiente, poi, prevede la dislocazione di aperture e di balconi, in linea con la sua visione della “casa all’italiana” non come “il rifugio, imbottito e guarnito degli abitatori contro le durezze del clima”, ma come “lieto aprirsi fuori e comunicare con la natura”. L’attenzione del progettista si concentra poi sull’aggiornamento degli impianti e sulla nozione di “attrezzatura domestica” come elementi fissi dell’architettura. Al posto del mobile o dell’arredo tradizionale, scaturirono tante “invenzioni”, come gli “arredi mobili” (vetrine, scaffali, pareti divisorie per articolare gli ambienti senza dividerli), l‘office arredato (armadi a tutta parte), le “finestre-vetrine” (mensole ed aggetti che rendono utilizzabile

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la finestra come superficie d’appoggio) e cosi via, forniti dall’origine come parte integrante della costruzione. In particolare, la “finestra-vetrina” è una invenzione di Gio Ponti in cui la vista esterna è inglobata nella composizione delle librerie. Il ruolo delle “case tipiche” nella costruzione della città è dato dalla loro ripetibilità: mediante l’arretramento del filo facciata si ricava un piccolo spazio verde condominiale, e la strada diventa una “strada-giardino”. Nelle facciate, spogliate da ogni ornamento, l’unità stilistica è garantita dalla ripetizione di pochi elementi in combinazioni sempre differenti. Ai colori vivaci degli intonaci (giallo ocra, verde oliva, rosso mattone) è affidato il compito di sottolineare l’individualità di ogni “casa tipica”. Tra il 1933 e il 1937 Ponti ha la possibilità di ripetere più volte la proposta progettuale che, su un altro fronte, propagandava tramite la rivista Domus: in via del Caravaggio si allineano cinque “case tipiche” in cui compaiono alcuni elementi nuovi; in via Coni Zugna, con la Domus Adele propone diversi tagli di appartamenti anziché lo stesso ripetuto a tutti i piani; in via Goldoni con la Domus Alba sviluppa compiutamente il tema del piano attico su due livelli.

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1933 - 1938 D OM U S AU R E L IA , D OM U S F L AV IA , D OM U S L I V IA , D OM U S ON OR IA D OM U S SE R E NA G IO P ON T I V IA DE L C A R AVAG G IO 2 5 , V IA P R I VATA L E T I Z IA - M I L A N O

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Milano gli offre le grandi occasioni private: dal progettare “domestico” (le “case tipiche” o “Domus”, 1931-36) al progettare “per l’industria” (primo Palazzo Montecatini nel ‘36; edificio e attrezzature), a un caso di design a scala architettonica quale è la Torre Littoria al Parco, ‘33.). Dal ‘33 al ‘45 Gio Ponti è socio di Antonio Fornaroli ed Eugenio Soncini, ingegneri. Insieme al nuovo studio nascono i quattro stabili costruiti in via del Caravaggio che sono parte della più ampia riflessione sulla casa moderna da produrre in serie, che Ponti ha modo di portare avanti dopo gli esperimenti delle Domus Julia, Carola e Fausta in via De Togni (1931-1936). Le costruzioni sono concepite come un’unità di quartiere, ispirata al concetto di strada-giardino grazie alla successione di spazi verdi tra ciascun edificio e lo spazio pubblico destinato alla circolazione. La comune concezione è testimoniata anche dall’invariante di elementi come balconi, terrazze, vetrate che riprendono caratteri consolidati della tradizione italiana e che ricorreranno in tutte le realizzazioni dell’architetto. Alle esigenze economiche si affianca ora la necessità etica e sociale di un alloggio come luogo per soddisfare i bisogni dell’uomo contemporaneo. Il riflesso del nuovo pensiero è leggibile tanto negli ambienti di servizio impostati al minimo consumo dello spazio a disposizione, quanto nell’ampio soggiorno che ritorna in tutte le Domus pontiane e che si arricchisce di soluzioni d’arredo già comparse nelle domus di via De Togni. Dagli armadi a muro, alle vetrine o agli scaffali fissi si aggiunge poi l’invenzione della “finestra-vetrina” (anticipatrice della “finestra arredata” delle case degli anni Cinquanta), che trasforma lo spazio sotto il davanzale delle sale affacciate su balconi in luoghi funzionali e con diverse possibilità d’utilizzo. Accomunate da questi caratteri, dall’uso di materiali poveri come l’intonaco

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colorato – dalla «gaiezza tutta italiana» già descritta per le case di via De Togni (1933) – e da una ridotta variazione volumetrica, tutte le Domus di via del Caravaggio conservano comunque una propria anima. La Domus Livia, prima ad essere conclusa, fa da testata d’ingresso alla schiera grazie al doppio affaccio sulla via privata Letizia e su via del Caravaggio. Qui il prospetto è scandito da una fila di finestre orizzontali con balconi in aggetto, a servizio degli ambienti degli alloggi di destra e sinistra. Lo stesso accorgimento spaziale viene adottato dalla Domus Serena. Le Domus Onoria e Flavia, infine, condividono anche un’impostazione planimetrica a “L” e un prospetto su via Letizia caratterizzato dalla reinterpretazione in chiave contemporanea del motivo della quadrifora, affacciata sui terrazzi.

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ANNI QUARANTA: SCRIVERE, DIPINGERE, PROGETTARE

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Nel decennio che della guerra e il dopoguerra, la parola che conta per Gio Ponti, è “Italia”, e la sua opera più importante in questo periodo - insieme alla pittura - è Stile, la rivista che per anni (dal ‘41 al ‘47) vive le sorti della guerra. L’Italia che Ponti sostiene (come sempre) è quella il cui “primato” è nell’arte (architettura compresa) e nelle arti: un’Italia che si esprimerà anche, alla fine degli anni 40, con l’esplosione della “ceramica d’arte” e con le acrobazie decorative di Gio Ponti stesso. La sua ammirazione è per gli “individui artisti” (da Terragni a De Chirico) e lui stesso sembra essere, in questi anni, una molteplicità di individui artisti. Procedendo egli dirà anche “per erramenti e per casi”. Ma è anche l’altra Italia, l’Italia bombardata da riedificare “migliore”, con la “carta della casa”, con i concorsi per i “testi per la ricostruzione”, per i quali Ponti (e altri con lui) si batteva in Stile, nei quotidiani, in pamphlets e in pubblicazioni in cui erano coinvolti progettisti e architetti insieme all’industria. Ponti stesso uscirà da questa appassionata solitudine, fatta anche di libri (la prima stesura di L’architettura è un cristallo è del ‘45), di pittura (pittura allegorica: gli affreschi al Palazzo del Bo, sede del Rettorato dell’Università, a Padova, ‘40), e di occasioni teatrali (scene e costumi per il Pulcinella di Strawinsky al teatro della Triennale nel ‘40 e per l’Orfeo di Gluck alla Scala nel ‘47). Nel ‘48 tornerà a Domus portandovi il suo carico d’arte per un nuovo rinnovamento del mensile. In questi ultimi due anni del decennio, la sua architettura (più progettata che costruita) matura una definizione che esploderà pochi anni dopo.

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ANNI CINQUANTA: LA TEORIA DELLA “FORMA FINITA”

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È nel ‘54 che Ponti pubblica il primo libro sul proprio lavoro, e lo chiama Espressione di Gio Ponti. attraverso la stesura del libro è arrivato a guardare criticamente la propria storia come “continuità di un’espressione individuale” formando una “teoria” sulla forma: la teoria della “forma finita”. Inventa termini suoi per l’interpretazione della forma dall’”invenzione strutturale” all’”essenzialità”, “l’espressività”, “l’illusività”. In questi “favolosi anni Cinquanta”, ricchissimi di architettura e design per Ponti, progetta la Torre Pirelli, che ne è il culmine, prima e dopo i “grandi viaggi” (in Brasile, Messico, Venezuela, USA, Medio Oriente), le opere si somigliano (dalla carrozzeria al grattacielo), in un’immaginazione formale che evolve continuamente. Gio Ponti è nei suoi sessant’anni. In questi anni lo studio di Gio Ponti a Milano e la rivista Domus sono due laboratori, che da milanesi si fanno internazionali, per l’esplosiva crescita di scala che il mondo del design e dell’architettura affronta in questo momento. Il libro del ‘45 (L’architettura è un cristallo) che Ponti ripubblica nel ‘57, cambia titolo e diventa Amate l’architettura: suo diario-“ideario”, suo libro senza fine, che verrà subito tradotto in inglese e in giapponese. In questi anni Gio Ponti è associato con Antonio Fornaroli, ingegnere, e Alberto Rosselli, architetto: Studio Ponti, Fornaroli, Rosselli attivo dal 1952 al ‘76.

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I L P I R E L L ON E

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Il grattacielo Pirelli è certamente una delle costruzioni che meglio interpretano le riflessioni di Ponti sulla forma finita e sull’esigenza di integrazione tra arte e architettura (o, in altre parole, tra forma e struttura; tra arte e tecnica), più volte espressa sia da Ponti – già negli anni Trenta – sia da Pier Luigi Nervi Il complesso sorge su un basamento, che ricopre l’intera superficie del lotto a disposizione, in cui sono ospitati sia i piani tecnici sia l’affascinante auditorium, scandito da travi a sezione rettangolare intrecciate, che mostrano in chiave strutturale la predilezione di Ponti per la forma diamantata. All’ossatura portante è perfettamente integrato il sistema di finitura del soffitto della sala, ordito da fasce trasparenti e retroilluminate, che sottolineano l’andamento delle travi per contrasto con l’opacità dei pannelli del controsoffitto. Le modifiche più evidenti al progetto si rintracciano però nel disegno della copertura – che ora si stacca dal solaio dell’ultimo piano, lasciando a vista la conclusione in altezza dell’ossatura portante – e nella facciata a curtain wall, che arretra a filo dei pilastri per consentire di leggerne il progressivo assottigliarsi in funzione della diminuzione dei carichi portati. Le punte del diamante su cui si modella la torre, invece, si aprono permettendo a chi osserva l’edificio di scoprire la configurazione a doppia valva della struttura e della pianta (risolto con soli quattro setti “a farfalla”), paradossalmente tenuto insieme dal vuoto centrale su cui si organizzano i percorsi di distribuzione interna. Ancor più quando, di notte, il grattacielo diventa esempio paradigmatico del discorso sull’architettura illuminata. Sulla facciata posteriore del grattacielo compare infine il “disegno a traliccio” – così definito da Ponti – delle pareti di chiusura degli ascensori, traforate dalle loro gabbie, che è ancora una volta interpretazione del corretto rapporto

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tra forma e struttura: non essendo portante, questa porzione del prospetto non può confondersi visivamente con le punte rivestite in ceramica, che funzionano staticamente come piloni cavi e sono quindi chiusi in tutta la loro altezza. Il processo di affinamento del progetto è ampiamente descritto da Ponti, che lo indica come facile e naturale trovando la piena concordia di Nervi: «la semplicità raggiunta è frutto non di una semplificazione, ma di un’invenzione strutturale, al punto di farla identificare con l’architettura senza elementi aggiunti» (1956). Forma strutturale ed essenzialità sono i due caratteri principali ed esposti da Ponti in questo progetto. Mentre, chiari nei nostri cervelli, ma non s’è potuto raggiungere del tutto: espressività ed illusività. Questi sono i termini che usa. Espressività: la torre è verticale sui fianchi, ma nella facciata vetrata prevale la rigatura orizzontale creata dai parapetti opachi. Eppure, si era arrivati a far sparire lo spessore stesso dei solai, affilandoli ai bordi. Ma non scompare, agli occhi dì Ponti, la detestata impressione del “pigiama a righe”. Illusività: altro effetto non pienamente raggiunto è quello della spaccatura verticale alle due estremità della torre, pensata come una fenditura luminosa continua, e invece, nella realtà, segmentata dall’apparire delle solette che furono prolungate per ragioni strutturali. Ponti, dialogando con sé stesso, se ne duole. E ben fa, perché nel tempo è l’architettura sola che resta, al di là delle ragioni per cui è nata.

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ANNI SESSANTA: IL GIOCO DELLE SUPERFICI

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Dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta il fiorire delle invenzioni, nell’architettura e nel design, per Gio Ponti si sviluppa in crescendo, fino agli anni Settanta. È cominciata per Ponti la grande età (o la splendida età, come lui la chiama per Le Corbusier o per Ronchamp) nel senso di una visione felice che compare e ricompare con gli anni. Basta vedere non solo come Ponti progetta ma come pubblica i suoi progetti in Domus, in modo sempre più sintetico e poetico perfino in forma di favola, sempre più d’immaginazione. In questo decennio il pensiero e l’opera di Ponti si riassumono nel detto “l’architettura è fatta per guardarla”, che diventerà il detto pontiano finale, di sintesi vitruviana, a modo suo. Ponti costruisce e propone: dall’edificio Shui-Hing a Hong Kong del ‘63, alle chiese di San Francesco e San Carlo a Milanodel ‘65, agli edifici di via San Paolo, Milano, ‘67, all’involucro dei magazzini Bijenkorf a Eindhoven, ‘67, ai progetti di grattacieli triangolari colorati, ‘67, il suo è un giocare in superficie, con le aperture e con il rivestimento, splendente, in ceramica, a diamante. Procede per facciate indipendenti dalla struttura e dalla pianta che ci riporta a quel detto: L’architettura è fatta per guardarla. Perché l’architettura è paesaggio pubblico, attraverso le facciate: le facciate sono le pareti della strada, e di strade è fatta una città: le strade sono la parte visibile della città, sono ciò che della città appare. Anche di notte. Ho voluto concludere con una citazione di Renzo Piano, altro grande maestro a cui sono molto affezionato, per mostrare quanto il pensiero di Ponti sia rimasto anche negli occhi dei suoi successori. Un brutto libro si può non leggere; una brutta musica si può non ascoltare; ma il brutto condominio che abbiamo di fronte a casa lo vediamo per forza.

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ANNI SETTANTA: LA FELICITA’

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Nel 1970 Gio Ponti ha quasi ottant’anni ed è in questi ultimi anni della sua esistenza che porterà a termine due opere programmatiche, la cattedrale di Taranto e il museo di Denver nel ’70 e ’71; insieme all’invenzione di un nuovo oggetto “la poltrona di poco sedile”. Il suo pensiero, in questi anni, è sempre più incentrato sulla casa e sull’abitare. Ma la sua, mai accolta, proposta di casa versatile a pareti mobili, è qualcosa che va al di là del progetto, è l’espressione di un modo di pensare e di vivere che è il suo messaggio ultimo, di sempre. La casa deve essere un fatto semplice. La si giudica dal grado d’incanto che si prova a guardarla da fuori, e dal grado d’incanto che si prova a viverci dentro. Gio Ponti era del tutto solo, nel frastuono di allora, di una città amata nel 1971, quando pensava così. Milano, culla natale e professionale di Gio Ponti, è anche il luogo in cui ha realizzato alcune delle icone più note della propria opera. Edifici come il Pirelli, la Chiesa di San Carlo Borromeo, le Domus e molto altro sono il simbolo dell’indissolubile legame instaurato da Ponti – architetto “globale” ante litteram, attivo tanto a Denver quanto a Bagdad, Caracas, Hong Kong o Stoccolma – con il tessuto culturale e artistico, prima ancora che edilizio, della sua città.

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A M AT E L’A R C H I T ET T U R A L’A R C H I T ET T U R A È U N C R I STA L LO

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“L’architettura è un cristallo. Quando è pura, è pura come un cristallo, magica, chiusa, esclusiva, autonoma, incontaminata, incorrotta, assoluta, definitiva come un cristallo. L’Architettura comincia e finisce. L’Architettura sta, l’Architettura tronca le forme chiuse per farle stare, e poggiarle” Nel 1945 Ponti dà alle stampe un breviario dei suoi pensieri sull’architettura (L’architettura è un cristallo) che nel 1957 riprende, ampliandolo, col titolo di Amate l’Architettura. Utilizzando la metafora del cristallo (“nella natura - scrive - essa rappresenta il finito contro l’indefinito”) sviluppa la sua teoria della “forma finita”. Con lui l’architetto «moderno» fu anche designer, artista e divulgatore «Sono un architetto fallito e un pittore mancato»: così si descriveva Gio Ponti, quando rimpiangeva di non essere riuscito ad esprimere completamente la sua vocazione artistica. D’altra parte, il padre Enrico Ponti, manager alla Edison, era stato categorico: nonostante il talento nel disegno rivelato da Giovanni sin da adolescente, era meglio puntare su Architettura, che dava uno sbocco professionale più solido rispetto al mestiere di pittore. E così il giovane Ponti, obbedendo, si iscrisse al Politecnico. Non male, per uno che è diventato il progettista italiano più famoso del dopoguerra. Non è mai citato nella storia dell’architettura moderna del Benevolo o di Bruno Zevi per questo non vuol dire che la sua influenza sia nulla, anzi, solo per l’interesse che ha suscitato in me e che mi ha spinto a fare questo percorso basta per definirlo un grande architetto. Per come è stato descritto in questo testo posso dire che si tratta di un architetto ante litteram: per aver tenuto testa ai grandi maestri europei e mondiali come Mies, Corbu, Gropius, Nyemeier. Stimandoli e osservandoli ha sempre cercato un confronto continuo per la sua ricerca e sperimentazione, senza far rimanere il nostro paese indietro

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rispetto agli altri come spesso è accaduto ma portandolo ad avere (per pochi anni) il grattacielo più alto del mondo. La sua produzione grafica era incessante: disegni per ceramiche, vetri, smalti, affreschi, arazzi. Allo stesso modo in cui oggi si va in palestra, «ogni mattina io faccio un’ora di pittura» diceva Ponti. Un’ora ogni giorno per mantenersi in un’atmosfera distaccata, spirituale, quasi poetica. E per affinare quella sensibilità sul colore per cui è diventato giustamente famoso. Ancora oggi le sue decorazioni vengono utilizzate, come è successo dalla collaborazione tra la fondazione Gio Ponti e la azienda di tappeti Amini che ha creato la Gio Ponti carpets collection. Nel frattempo proseguiva la serie dei suoi progetti, molti dei quali a Milano: le domus, la Montecatini, la casa in via Dezza e infine, il grattacielo Pirelli, icona della modernità, simbolo di Milano e del boom economico italiano. Ma non si limitò agli edifici, Ponti disegnò anche arredi, sanitari, interni di transatlantici (per l’Andrea Doria) e di abitazioni, posate, vasi, stoffe, lampade, un po’ di tutto. Persino la carrozzeria di un’auto per l’Alfa Romeo, la «Diamante » dalle linee tese e il padiglione molto luminoso.

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E proprio il diamante, l’esagono allungato, era diventato un tema dominante nei suoi lavori, simbolo di trasparenza, di un architettura «cristallina». Simbolo che si ritrova nella pianta del Pirellone, nella facciata della Concattedrale di Taranto e di quella della chiesa di San Francesco al Fopponino, nelle finestre dell’hotel Parco dei Principi a Roma, nelle piastrelle delle ville di Teheran e di Caracas. Ponti è stato uno dei primi architetti nel senso «moderno» del termine, l’oggetto della propria arte è la vita che scorre. La modernità per Ponti non è un’obbiezione bensì una condizione: costruttore, designer, artista, docente, direttore di giornale, divulgatore. Numerosi sono i suoi «spazi dimostrativi» e i «modelli di comprensione», presentati sulle pagine di Domus o nelle manifestazioni culturali specializzate, perché sosteneva che «il mondo cambia, la vita cambia, la città cambia, la casa cambia». Chissà come se la godrebbe, se fosse qui oggi; anche perché la sua storia è per certi versi una storia ancora aperta; se la figura di Ponti aspetta ancora di avere una collocazione chiara nel panorama culturale italiano, è certo che questa figura ha ormai un peso determinante, per la fluida capacità di interpretare ed esprimere la modernità dell’intero novecento.

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“Meravigliosa ventura quella degli architetti, concessa da Dio: costruire la sua casa e costruire per gli uomini, nella Sua ispirazione, la loro casa, il tempio della famiglia: e costruire le opere di giustizia e di assistenza per gli uomini, e costruire le <<maternità>> perché tutti siano assistiti nel nascere, ed i nascenti siano onorati; e costruire asili e colonie perché l’infanzia di tutti sia assistita, e scuole ed istituti e biblioteche perché tutti siano educati nel sapere; e costruire gli ospedali, gli ospizi perché tutti siano assistiti e confortati nella malattia e nell’età: ed anche teatri e stadi, perché allo spirito ed al corpo, negli uomini, sian dati forza e salute e rallegramento nella letizia del gioco, e costruire le belle fabbriche e gli uffici perfetti perché nel lavoro sia sempre onorato l’uomo. E costruire infine al sommo di questa scala di opere e di edifici, la Chiesa, dove l’umanità innumerevole conduce l’individuo a Gesù; e l’individuo, l’uomo solo, è riconosciuto, e Gli parla «a tu per tu ». ” Forse è anche questo uno dei motivi che mi ha portato a scrivere il testo più importante di questi 5 anni su un uomo che viveva all’altezza di ciò che desiderava, instancabile, incantato (nel senso che coglie l’incanto) da tutto quello che vedeva. Proprio questo lavoro sull’artista-architetto fatto durante questi anni di liceo mi ha portato a scegliere architettura all’università. Sicuramente questo lavoro e questo uomo rappresentano un grande contributo alla scelta del percorso che farò i prossimi cinque anni.

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B I B L I O G R A F IA http://www.giovaniartisti.it/articoli/le-corbusier-pittore http://www.ecodibergamo.it/stories/cultura-e-spettacoli/case-casinecasone-casette-mostra-allex-caserma-ghisleni_1054961_11/ Leonardo Benevolo - Introduzione all’architettura http://amsdottorato.unibo.it/4979/1/GIANLUCA_BONINI_TESI.pdf http://www.gioponti.org/it/ http://ilforumdellemuse.forumfree.it/?t=67348335 mus-julia/18-il-condominio-milanese http://www.ordinearchitetti.mi.it/it/ http://www.opcit.it/cms/?p=1176 http://www.corriere.it/cultura/eventi/2011/gio-ponti/notizie/vinelli-ilpersonaggio_5598995c-7ae2-11e0-be08-e42815e8b082.shtml Gio Ponti - AMATE L’ARCHITETTURA l’architettura è un cristallo, Rizzoli, 1957, Genova Giuseppina Bolzoni - Artual , dalle avanguardie ai giorni nostri, G.D’Anna

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