Cuore d'Europa

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Estate 2011 - # 13

Stampato in proprio - Luglio 2011

EDITORIALE

MORS TUA, VITA MEA

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e lo ricordiamo tutti affaticato, eppure indomito. Coerente fino all’ultimo. Per questo ci infastidisce non poco che dei laicisti prendano a pretesto le presunte ultime volontà del beato Giovanni Paolo II («Lasciatemi andare alla casa del Padre») per sostenere l’eutanasia, una pratica sempre aborrita dalla Chiesa e dal Papa in questione. Ultimamente certa scienza vuole indurci a considerare l’uomo e il suo corpo un mero strumento per ottenere fama, potere e persino la salvezza (obbligata) di un altro. Come nel caso dei fratelli gemelli fatti nascere solamente per funzionare da cavia allo scopo di aiutare l’altro gemello. Capisco che si tratti di casi pietosi, ma qui si apre il varco ad una subumanità costruita appositamente in vista di un’altra “superiore”! Sembra di essere tornati al latino MORS TUA VITA MEA. Per questo noi di Cuore d’Europa, affidandoci ad un pool di esperti, abbiamo deciso di trattare, secondo le nostre capacità, lo scottante tema del fine vita, avendo sotto gli occhi una legge arenatasi in Parlamento tra veti e contro-veti, emendamenti e contro-emendamenti. Lo ripetiamo: non siamo avvocati e neppure medici, ma ragazzi che intendono riflettere sulla società che li circonda senza chiudere gli occhi davanti a certe sue magagne. E per questo ci affidiamo anche all’assistenza di Santi patroni, che impareremo a conoscere nei

prossimi numeri. Cominciamo col sunnominato Karol Wojtyła, che noi giovani abbiamo già adottato come nostro nuovo protettore ed occupa nel cuore della redazione un posto non indifferente. Siano davvero nostri fratelli maggiori nella Fede, custodi delle nostre vite e delle nostre scelte in questi mesi che ci separano dalla Giornata mondiale della gioventù e dall’inizio del nuovo anno scolastico. Nelle loro biografie si respira già un non so che di Spagna... Il Direttore


SOMMARIO 1. Eutanasia: why not! - p.2 F. Canavesi

2. Dat: una sfida pericolosa - p.4 M. V. Gasperini

3. Massimiliano - p. 6 F. Chiesura

4. B. Giovanni Paolo II - p. 8 L. Toso

5. Un punk a cuor contento - p.10 P. Grassi

6. Avada Kedavra - p. 14 C. Albè

7. Processo al Vicario - p.16 A. Bellino

8. «Il Vangelo è la più grande fiaba…» - p. 18 F. Arnaldi

9. Le origini medievali della scienza moderna - p. 20 C. Beneduce

10. Donna, riscopri la tua vocazione - p.22 C. Caimi

11. In cammino verso Madrid - p.24 E. Bringheli

12. «De’ remi facemmo ali al folle volo» - p.25 A. Di Rocco

13. Ferragosto a Loreto - p.27 M. Brambilla

14. American Life - p. 29 L. Grassi

15. «12» - p. 31

Don G. Poggiali

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EUTANASIA: WHY NOT! COS’È L’EUTANASIA E PERCHÈ OPPORVISI SU OGNI FRONTE

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er affrontare un problema bisogna prima definirlo: per eutanasia s’intende l’azione od omissione compiuta da un terzo e deliberatamente intesa alla soppressione di una vita umana allo scopo di porre fine alle sofferenze. Dunque innanzitutto non ha alcun senso distinguere tra attiva o passiva: in entrambi i casi l’intenzione è provocare la morte. Ricordiamoci che anche per la legge penale il reato si configura sia come azione che come omissione. La “dolce morte” (eu-thanatos vuol dire appunto “buona morte”) è attualmente reato in Italia, poiché chi la pratica sarà condannato di omicidio volontario o omicidio del consenziente (cfr. Codice Penale artt. 575-579). Per la Chiesa Cattolica essa è inaccettabile, qua-

lunque siano i motivi o i mezzi (Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2277) e distingue bene fra l’inutile accanimento terapeutico, inteso come procedura smisuratamente onerosa, pericolosa o sproporzionata rispetto ai risultati, e l’interruzione di cure ordinarie che rappresenta, appunto, l’eutanasia. Se per dei credenti è sufficiente ricordare l’importanza della vita, dal suo concepimento al suo termine naturale, come valore non negoziabile ed indisponibile, come sostenere dunque la profonda disumanità del suicidio assistito con le sole “ragioni della ragione”? Innanzitutto, il senso della vita è un problema filosofico e religioso indeterminabile dallo Stato o dal singolo; inoltre è lo Stato stesso che considera alcuni diritti indisponibili, e tra questi anche la vita, insieme, ad esempio, alla libertà, tanto che se io volessi essere fatto schiavo, non mi sarebbe permesso; perché dunque si dovrebbe permettere di togliersi la vita? In secondo luogo, se l’eutanasia diventasse legge, i medici avrebbero comunque l’ultima decisione sulla sorte del “malato”, diventando incaricati di dare la morte a certe condizioni e minando alle fondamenta il rapporto fiduciario con il paziente. Questi peraltro subirebbe un’enorme pressione psicologica che suonerebbe un po’ come un invito a togliere il disturbo.


Va ricordato, infine, il rischio del “piano inclinato”: aprendo le porte all’eutanasia per casi pietosi, il passo verso l’omicidio legalizzato è brevissimo. Basti pensare a Belgio, USA, dove nel 2009, nello stato di Washington, si sono servite del “suicidio medicalmente assistito” 36 persone, per i motivi più svariati e non certo tutti drammatici, e all’Olanda tristemente nota per le “innovazioni” più azzardate dal punto di vista bioetico. Nei Paesi Bassi esiste una legge parlamentare varata nell’aprile 2002 che prevede la possibilità di eutanasia da parte di adulti infermi che ne avessero fatto richiesta “esplicita, ragionata e ripetuta”; per i giovani dai 16 ai 18 anni previa domanda scritta e per gli adolescenti (12-16 anni) capaci di consenso, purchè i tutori aggiungessero anche il loro, qualora colpiti da malattia inguaribile o dolore (cfr. Legge 1/04/2002). Questi “limiti” vorrebbero essere ulteriormente ampliati ai bambini sotto i 12 anni, fino all’età neonatale, per “liberarli dal dolore”, come afferma il padre dell’iniziativa, il Dr. Edward Verhagen. Una legge, quella del piano inclinato, che non funziona solo con l’eutanasia, ma anche in altri campi della bioetica. Se si tratta di aborto si comincia con la soppressione dell’anencefalo senza possibilità di vita autonoma e si arriva al figlio concepito prima delle vacanze; passando alla procreazione, si

parte dall’inseminazione omo/ eterologa per giungere alla clonazione terapeutica. Se questa legge non fosse sufficiente, è necessario ricordare che il primo ad adottare un piano articolato di eutanasia fu Adolf Hitler nella Germania nazista? Insomma, gli argomenti sono numerosi, ma restano ancora piccole questioni controverse. La ventilazione meccanica, la somministrazione di cibo e fluidi sono da considerarsi una terapia? Se così fosse lo Stato italiano prevede già il diritto di astensione dalle cure (essendo la salute, e non la vita, un diritto disponibile per legge), per cui il dibattito non sarebbe tanto spinoso. Anche in questo caso, però, le definizioni vengono in nostro aiuto, affermando che sono terapia i mezzi e modalità usati per combatte-

re le malattie. Il bisogno di mangiare, bere e respirare è una caratteristica che accomuna tutti gli esseri viventi ed il fatto che venga sfruttato un mezzo tecnico per la loro attuazione non vale a renderli necessità eccezionali: i neonati vengono nutriti con il biberon! Sono forse risorse sproporzionate ed esagerate? Se si dimostrasse l’inutilità o la lesività delle stesse, esse verrebbero considerate accanimento e quindi legittimamente sospese. Vivere grazie a una macchina è contro natura? Rimuoviamo tutti i pace-maker e gli apparecchi che consentono di vivere o vivere meglio a coloro che vogliono farlo! Semplicemente lo Stato dovrebbe essere veramente laico, neutrale e consentire a ciascuno di agire liberamente secondo le proprie convinzioni? Impossibile: dal momento in cui legifera in merito a qualcosa, smette di esserlo. Vorrei quindi concludere con un’esortazione a non lasciarci ammaliare dalla «filosofia e da vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana» (ovviamente la prendo in prestito da san Paolo, Col 2,8), bensì a ragionare secondo la Verità che semplifica ogni questione e chiarisce ogni dubbio, sempre che l’uomo abbia «orecchi per intendere»! Fabiola Canavesi Per approfondire: http://www.cesil.com/gennaio01/ITALIANO/1bieit.htm http://salute.aduc.it/eutanasia/ notizia/italia+pessina+testament o+biologico+lesivo+della_81595. php http://www.leadershipmedica. com/scientifico/scieott03/scientif icaita/8pessina/8pessinait.htm

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DAT UNA SFIDA PERICOLOSA

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Molta della confusione alla base del dibattito contemporaneo sull’eutanasia può essere ascritta ad una sfortunata imprecisione nella definizione» (John Kneown, docente alla facoltà di legge dell’Università di Cambridge). È, infatti, necessario chiarire che esistono tre diversi “tipi” di eutanasia; attiva, passiva e indiretta. Quest’ultima si verifica nel momento in cui ad un paziente terminale vengono somministrati medicinali palliativi, ossia contro il dolore, il cui effetto – appunto indiretto e non voluto – può essere quello di anticipare una morte comunque già scontata a causa della malattia in atto. In questo caso, come spiega Mons. Sgreccia, nel suo Manuale di Bioetica (2000, p. 732-733) è meglio non utilizzare neppure il termine eutanasia, che è fonte di equivoci: la c.d. terapia del dolore, infatti, non ha nulla di eutanasico e non vuole la morte della persona, quindi è lecita se non doverosa. Con l’espressione “eutanasia passiva” si indica, nel linguaggio comune, una condotta omissiva, per cui alla persona malata non viene più somministrata la cura che la tiene in vita, pur senza somministrarle nessuna sostanza che accelera la morte. Eutanasia passiva, però, non è sinonimo di rifiuto di accanimento terapeutico, cioè come rifiuto della continuazione di una cura inutile, non proporzionata e come tale da evitare; se da un lato, infatti, è vero che il rifiuto dell’accanimento comporta una sospensione della cura , tale atto è giustificato

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da ragioni mediche oggettive, laddove l’eutanasia passiva di per sé prescinde da un giudizio di proporzione basato su criteri oggettivi. Infine, l’eutanasia attiva (o diretta) è l’atto consapevole volto all’uccisione di un uomo affetto da grave ed inguaribile malattia. Talvolta si ritiene che vi sia una differenza sostanziale tra eutanasia passiva e attiva, posto che solo in quest’ultimo caso vi è la somministrazione “positiva” di una sostanza che provoca la morte. Ma così non è: per eutanasia deve infatti intendersi «un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore» (Evangelium Vitae, n. 65). Non si possono, quindi, identificare come eutanasici tutti quei casi in cui venga somministrato un farmaco (terapia del dolore) anche se causa la morte (c.d. eutanasia indiretta), come anche tutti quei casi in cui la cura viene sospesa

perché sproporzionata o non utile (rifiuto di accanimento terapeutico). In questi casi, non viene, infatti, violata la vita in quanto dono di Dio e non viene commesso alcun omicidio perché nessuno dei due atti è diretto a provocare la morte ma questa deriva solo da un comportamento del tutto lecito: la somministrazione di farmaci per lenire il dolore in un caso ed il rifiuto di cure praticamente inutili o dolorose nell’altro. L’atto eutanasico, invece, sia esso attivo o omissivo è sempre illecito, perché, sia da un punto di vista oggettivo, sia nella volontà della persona, è sempre contrario alla vita e, come tale, rappresenta certamente una tappa di quel processo di progressiva erosione del diritto alla vita cui stiamo assistendo da anni. Si precisa ancora che l’eutanasia può essere consensuale, se praticata con il consenso del malato, non consensuale, se il consenso del malato non c’è.


La cultura eutanasica può trovare manifestazione anche nelle c.d. D.A.T. (dichiarazioni anticipate di trattamento), comunemente definite anche “testamento biologico”; con esse, infatti, si intende dare a ciascuno la possibilità di esprimersi sui trattamenti sanitari che desidera ricevere in caso di incoscienza derivata da grave incidente o malattia attribuendogli la possibilità di autorizzare, ora per allora, i medici a provocarne la morte, a prescindere da un giudizio oggettivo sui possibili effetti benefici della cura. I fautori dell’introduzione della legge, fanno leva sul fatto che in Italia non esistono, al momento, disposizioni che regolino la formalizzazione da parte di un cittadino della propria volontà circa i trattamenti sanitari che egli desidera ricevere qualora si trovi in alcuna delle situazioni cui si è fatto cenno. Esistono però normative vigenti da tenere in considerazione. L’articolo 32 della Costituzione della Repubblica italiana afferma, ad esempio, che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Inoltre l’Italia, nell’anno 2001 ha approvato la legge (n. 145) di ratifica della “Convenzione sui diritti umani e la biomedicina di Oviedo” del 1997 che, all’articolo 9, stabilisce che: «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione». Con questo documento però non si elimina la possibilità dell’eutanasia attiva che viene, invece, decisamente rifiutata dal documento emanato nel Dicembre del 2003 dal Comitato Nazionale di Bioetica dove si afferma che «il diritto che si vuole riconoscere al paziente di orientare i trattamenti a cui

potrebbe essere sottoposto, ove divenuto incapace di intendere e di volere, non è un diritto all’eutanasia (…) ma esclusivamente un diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale, pratiche che il paziente avrebbe il pieno diritto morale e giuridico di rifiutare, ove capace». La normativa ora elencata, che di per sé, può anche essere uno strumento che tutelava il rispetto della vita e permetteva l’esistenza di sole dichiarazioni anticipate pienamente lecite dal punto di vista morale, è stato sconvolta il 9 luglio del 2008 quando la Corte d’appello di Milano ha autorizzato la sospensione del trattamento di idratazione e alimentazione per Eluana Englaro, consentendo una pratica di eutanasia passiva, peraltro neppure qualificabile come consensuale, posto che era molto labile la ricostruzione della volontà di Eluana. Ciò che spaventa nel caso Englaro è il fatto che i magistrati abbiano autorizzato la sospensione dei suddetti trattamenti minimi basandosi soltanto su testimonianze di amiche e dei genitori che riferivano parole generiche e prive di ogni minimo riscontro documentale dette da Eluana. È così che qualche frase pronunciata più di 17 anni prima durante semplici chiacchierate tra amiche è risultata sufficiente per

decretare la morte di una persona. Riassumendo, non si può affermare che le DAT (qualora siano intese come semplici richieste di cura, di ricevere o non ricevere determinati trattamenti ma senza implicare il riconoscimento del diritto di disporre della propria vita) siano di per sé totalmente da condannare: le volontà precedentemente espresse da un paziente per l’ipotesi che abbia a trovarsi in stato di incoscienza, sono, infatti, certamente da tenere in considerazione, pur rimanendo irrisolto il problema dell’attualità di una volontà, manifestata allora per adesso. Volontà attuale, infatti, è propriamente solo la volontà in atto, cioè presente nel momento stesso in cui si deve praticare l’azione oggetto di decisione. Il problema delle dichiarazioni anticipate, fermo restando questo limite insuperabile, e cioè inattualità della volontà, nasce piuttosto perché esse vengono ad inserirsi nel clima culturale di questi anni: un clima che il beato Giovanni Paolo II definiva di dominante “cultura della morte” volendo indicare quanto il nostro mondo sia vittima del relativismo e dell’ateismo da cui deriva necessariamente la negazione di ogni diritto della persona umana e, dunque, tra i primi, di quello alla vita. È per questo motivo che accettare che una legislazione in materia

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essere introdotta con il semplice voto di maggioranze parlamentari sempre mutevoli e, comunque, facilmente influenzabili da campagne di stampa e stati di eccitazione anche momentanei delle folle, significherebbe in pratica, mettere pericolosamente ai voti la morale stessa. In questo senso è tragicamente necessario rendersi conto che le DAT sono intese e volute come manifestazione del diritto di disporre di sé e come lo strumento per liberare i medici da possibili responsabilità. Per questa ragione, nell’odierno panorama culturale, sono spesso intese come strada verso il riconoscimento dell’eutanasia. La lotta per la legalizzazione dell’eutanasia rien-

tra in quel rifiuto per la vita che ha come altra espressione l’aborto. L’aborto fu legalizzato entro i 90 giorni dal concepimento solo per le donne che, a causa della gravidanza, incorrevano «in un serio pericolo per la [sua] salute fisica o psichica» (art. 5, legge 194/1978) e dopo i 90 giorni, solo nel caso di grave pericolo per la vita della donna o in caso di patologie del feto (art. 6, legge 194/1978). Di fatto il numero di aborti all’anno è talmente alto da chiedersi, tutte queste gravidanze sono davvero così pericolose? La risposta è, scientificamente, no. Il pericolo nella legalizzazione delle DAT è analogo. Esse non rimarrebbero solo affermazioni sulla volontà di ricevere trattamenti

sanitari ma si tramuterebbero in volontà di decidere sulla propria vita e morte (come è avvenuto in Olanda). Elio Sgreccia, vescovo e teologo cattolico, afferma a riguardo che «c’è un aspetto nuovo e peculiare, se vogliamo, più terribile, nella campagna che sostiene la legittimazione dell’eutanasia ed è costituito dal potenziale di coinvolgimento sociale e personale, che è enormemente più vasto rispetto a quanto poteva apparire, almeno in senso immediato, nella legalizzazione dell’aborto. Il fatto dell’aborto può capitare a qualcuno, la morte è destino di tutti». (E. Sgreccia , Manuale di bioetica, I, 718) Maria Virginia Gasperini

MASSIMILIANO uno nessuno centomila Massimiliano, un uomo, considerato da molti (troppi) come “nessuno”, nelle condizioni di “centomila” nel mondo. C’era una volta il primo agosto 1991, e Massimiliano Tresoldi parte per le vacanze con amici. Non ha ancora compiuto vent’anni. Il 14 agosto la vacanza finisce e Massimiliano è di ritorno ma ha un gravissimo incidente in macchina. Quando mamma Lucrezia e papà Ernesto arrivano in ospedale Massimiliano è in coma. I medici sono inflessibili sul possibile risveglio: «È molto difficile. Non fatevi illusioni. La situazione è molto grave. Dobbiamo asportare subito la milza, è necessario fare in fretta perché dobbiamo trasferirlo in un’unità

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Massimiliano e sua mamma, Lucrezia di terapia intensiva». Anche dalla terapia intensiva le notizie dei medici non sono meno dispe-

rate. La TAC rivela una gravissima lesione al tronco cerebrale nell’emisfero destro; Massimiliano è


tenuto in vita dalle macchine. Nel giro di una settimana però il ragazzo inizia a respirare autonomamente, ma tenerlo in terapia intensiva è impossibile: la direzione dell’ospedale deve fare i conti con i numeri, le tante richieste. Nei mesi successivi gli ospedali faranno a gara per rimbalzare Massimiliano, le cure necessarie non comportano solo la somministrazione di medicinali, ma soprattutto una costante attenzione al malato, un’assistenza particolareggiata, assidua. Nessuna clinica accetta di prendersi in carico il ragazzo e anche quando si riesce a trovare un luogo dove “depositarlo”, sarà solo la mamma a prendersene cura giorno e notte. «La lunga degenza così come l’ha subita Massimiliano è stata una fatica inutile, se non dannosa» dice la mamma «un’esperienza di una brutalità esagerata. Ricordo perfettamente una domenica mattina, il medico ha pregato me e mio marito di guardare fuori dalla finestra. Ci ha indicato un albero che stava morendo, un fusto secco e poi ci ha detto “Vostro figlio è e sarà così”. Per loro si trattava davvero di un tronco morto». C’era solo una cosa da fare: portare a casa Max. Tutti sono contro questa grave decisio-

Massimiliano con la famiglia

«Sono felice. Povera Eluana» ne. Lucrezia però è fatta così, non molla e decide di agire da sola e da quel giorno la casa Tresoldi si trasforma nel luogo perfetto per un “comatoso”. Massimiliano non migliora e rischia di morire di broncopolmonite ma poi tutto va per il meglio, sarà l’ultima volta che Max rischierà la sua vita. Paradosso vuole che saranno proprio le medicine tolte a preservarlo da altri malanni. Ogni progresso in quel periodo è impercettibile e solo Lucrezia e gli amici più cari riescono ad accorgersene. Dieci anni, una lotta quotidiana fatta di medici, ma soprattutto volontari, amici che non abbandoneranno mai casa Tresoldi. Lucrezia però è stanca, sfiduciata, non ce la fa più: «Max questa sera no. Se proprio vuoi farti il segno della croce te lo devi fare da solo, io non ce la faccio». Detto fatto, Massimiliano si segna nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo! Giorno dopo giorno Max con piccoli segni comincia a dare conferma di esserci. Mamma Lucrezia ne è certa, per tutto quel tempo il figlio aveva compreso cosa gli stava accadendo, aveva colto l’affetto di amici e parenti. «Se fosse rimasto in ospedale come un vegetale, non sarebbe mai riemerso dal suo torpore». Max comincia lentamente a comunicare con l’alfabeto muto e la famiglia si accorge che comincia a ricordare gran

parte delle cosa vissute durante il coma, sapeva perfino che era entrato in vigore l’euro. Quando gli fanno fare compiti per bambini Max risponde «Io ho studiato. Capisco tutto. Non sono un cretino». Diciotto anni dopo l’incidente, Massimiliano torna a pronunciare le prime parole. Max negli anni ha subito l’atrofia dei muscoli del collo (ma non solo), così fatica ad alzare la testa, ma lui vuole guardare, interagire, essere partecipe durante le conversazioni, ma come stimolarlo negli esercizi? È stato appeso un poster per lui molto stimolante, in una posizione in cui, per vederlo, era obbligato a tirare su la testa con non pochi sforzi. Il problema più importante ora è alimentare la volontà di fare; un calendario sexy di Sabrina Ferilli è diventato così uno strumento riabilitativo molto più efficiente di tanti metodi scientificamente testati. Sono trascorsi vent’anni da quell’agosto del 1991, esperti, medici e luminari avevano sentenziato da tempo la sua fine, ma la forza delle relazioni, delle parole, dell’amore ha vinto su tutto. Massimiliano, dalla sua poltrona, guarda attonito le notizie del telegiornale, quando sente di “staccare la spina” diventa irrequieto e dice «Io sono contento così, mi dispiace per tutti quei ragazzi che non hanno la fortuna di avere una famiglia come la mia». Francesca Chiesura Per approfondire: Fabio Cavallari, Vivi. storie di uomini e donne più forti della malattia, Lindau, 2010

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BEATO GIOVANNI PAOLO II «...fino agli estremi confini della terra»

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l beato Giovanni Paolo II (1920 - 2005) ha sempre tenuto un posto privilegiato nel suo cuore per i giovani, che durante il corso del suo apostolato come Papa gli sono sempre stati vicini, proprio come farebbero dei figli con il padre. Ed è per questo motivo che siamo accorsi in più di un milione e mezzo il primo maggio a Roma, per poter avere la conferma, la proclamazione da parte del suo successore Benedetto XVI, che Giovanni Paolo II è stato nel corso della sua vita benedetto dal Signore, un uomo beato. Proclamandolo Beato la Chiesa invita le persone a rivolgersi maggiormente a lui per chiedere la sua intercessione; la certezza che sia in Paradiso è espressa in tutta la sua vita, che ha passato in sofferenza e amore per il Signore. Benedetto XVI ha subito intrapreso la causa di beatificazione, perché ha riconosciuto in Giovanni Paolo II un alone di santità e di grazia e questo lo ha ribadito nel suo messaggio durante la cerimonia. Benedetto XVI aveva deciso di beatificare Giovanni Paolo II proprio l’1 maggio per due ragioni molto importanti: la prima è che è il primo giorno del mese dedicato a Maria, alla quale era molto devoto. La seconda motivazione è che il primo maggio, quest’anno, era la prima domenica dopo Pasqua, la domenica della Divina Misericordia da lui stesso istituita come festa; Giovanni Paolo II morì proprio nei primi vespri della Domenica della Divina Misericordia del 2005. Benedetto XVI ha ricordato anche una delle frasi celebri di Wojtyła:

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Pellegrini in piazza S. Pietro «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!». E ha aggiunto: «Quello che il neoeletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante, forza che gli veniva da Dio, una tendenza che poteva sembrare irreversibile». Inoltre: «Papa Wojtyła ha restituito al cristianesimo quella speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso». Il cardinal Tarcisio Bertone, Segretario di Stato Vaticano, ha poi affermato: «Giovanni Paolo II era un autentico difensore della dignità di ogni essere umano e non mero combattente per ideologie politico-sociali. Per Lui ogni donna, ogni uomo, era una figlia, un figlio di Dio, indipendentemente dalla razza, dal colore della pelle, dalla provenienza geografica e culturale, e persino dal credo religioso. Il suo

rapporto con ogni persona è sintetizzato in quella stupenda frase che scrisse: “L’altro mi appartiene”». Giovanni Paolo II, un Papa che ha creduto nei giovani, ha cercato in innumerevoli occasioni di coinvolgerci nell’apostolato: egli ha istituito la Giornata Mondiale della Gioventù, di cui quest’anno si svolgerà la ventiseiesima edizione. «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi», citazione della prima lettera di san Pietro, fu una delle tante frasi su cui il Papa prestò più attenzione. Infatti diceva: «In voi c’è la speranza, perché voi appartenete al futuro, come il futuro appartiene a voi. La speranza, infatti, è sempre legata al futuro, è l’attesa dei “beni futuri”. Come virtù cristiana, essa è unita all’attesa di quei beni eterni, che Dio ha promesso all’uomo in Gesù Cristo», per sottolineare che noi siamo la sua speranza per un futuro migliore e per questo ci ha insegnato tutto


PREGHIERA AL BEATO GIOVANNI PAOLO II

B. Giovanni Paolo II attraverso le meravigliose opere della sua vita. Quando dice che a noi appartiene il futuro, pensa in categorie di transitorietà umana, la quale è sempre un passaggio verso il futuro. Quando dice che da noi dipende il futuro, pensiamo in categorie etiche, secondo le esigenze della responsabilità morale, che ci ordina di attribuire all’uomo come persona - e alle comunità e società che sono composte da persone - il valore fondamentale degli atti, dei propositi, delle iniziative e delle intenzioni umane. Questa dimensione è anche la dimensione propria della speranza cristiana e umana. E in questa dimensione il primo e principale augurio che la Chiesa fa a noi giovani, attraverso gli insegnamenti di Giovanni Paolo II, in questa nostra vita è: siate «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). Papa Giovanni Paolo II ha parlato innumerevoli volte della necessità di una «evangelizzazione nuova nel suo ardore». Nella Christifideles laici (1988) Giovanni Paolo II ha scritto che la Chiesa sta vivendo oggi «un’ora magnifica e drammatica della storia, nell’imminenza del terzo millennio» e

nella Redemptoris Missio (1990) leggiamo: «Il nostro tempo è drammatico e insieme affascinante», perciò le situazioni economiche, sociali e culturali «presentano problemi e difficoltà». Per questo Giovanni Paolo II è stato esempio di un nuovo slancio missionario per l’Europa che in questi anni è stata dilaniata dai totalitarismi che attanagliavano il suo paese e l’Europa stessa. Dinanzi al fenomeno così preoccupante della scristianizzazione dei popoli cristiani di vecchia data, è importante senza alcuna dilazione una nuova evangelizzazione: «Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà». Il Papa pone con forza l’accento «sul bisogno di evangelizzazione, di catechesi, di educazione e di formazione continua nella fede - sul piano biblico, teologico, ecumenico - dei fedeli, a livello delle comunità locali, del clero e di coloro che si occupano di formazione. Occorre impegnarsi in una nuova evangelizzazione e in un’aggiornata catechesi, che mirino a rafforzare la fede». Lorenzo Toso

O Trinità Santa, ti ringraziamo per aver donato alla Chiesa il beato Giovanni Paolo II e per aver fatto risplendere in lui la tenerezza della tua paternità, la gloria della Croce di Cristo e lo splendore dello Spirito d’amore. Egli, confidando totalmente nella tua infinita misericordia e nella materna intercessione di Maria, ci ha dato un’immagine viva di Gesù Buon Pastore e ci ha indicato la santità come misura alta della vita cristiana ordinaria quale strada per raggiungere la comunione eterna con Te. Concedici, per sua intercessione, secondo la tua volontà, la grazia che imploriamo, nella speranza che egli sia presto annoverato nel numero dei tuoi santi. Amen. Con l’approvazione ecclesiastica Agostino Card. Vallini Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma

B. Giovanni Paolo II

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UN PUNK A CUOR CONTENTO GIOVANNI LINDO FERRETTi, DA TOGLIATTI A BENEDETTO XVI

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l locale è pieno. Si aspetta che il concerto inizi, e ci si guarda, con aria incuriosita. Ad aspettare che il palco si popoli di suoni, ci sono giovani con la fidanzata, giovani degli anni Ottanta, chi è appena uscito dall’ufficio, chi ha l’aria di non esserci mai entrato in un ufficio e sfoggia capigliature (e fragranze) da punkabbestia. A un certo punto le luci si abbassano, il pubblico comincia a rumoreggiare di eccitazione e si apre una tenda. Entrano un chitarrista e un violinista. Poi un signore sui cinquant’anni, vestito come un metalmeccanico, con una croce appesa al collo che spunta da sotto il giubbotto, spegne la sigaretta e si fa avanti fino al microfono. Inforca piccoli occhiali tondi, sorride timidamente alla folla, socchiude gli occhi e comincia a salmodiare per due ore. Perché il canto di Giovanni Lindo Ferretti (d’ora in poi GLF) assomiglia più alla recita dei salmi, che ha conosciuto da bambino nella chiesa del paese dove lo portava la nonna. Nato sull’Appennino, a Cerreto Alpi, fra i pascoli e i cavalli, cresce circondato dagli animali e dalla sua numerosa famiglia. Non conosce il padre, che muore poco prima della sua nascita. La madre rimasta vedova si trasferisce coi figli a Reggio Emilia, dove GLF studia dalle suore. Un’infanzia in una famiglia che aveva due punti di riferimento costanti: la fede religiosa e il Partito Comunista. A questo punto si impone un distinguo e una spiegazione. Nell’Emilia Romagna del dopoguerra la politica e la classe dirigente si ri-

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facevano all’ideale comunista; erano gli anni in cui si cominciava ad insinuare la mentalità secolarista; il quadro italiano era quello del boom economico, in cui anche le classi più povere cominciavano a scoprire il benessere, e tutti viaggiavano in Cinquecento. Per il popolo, però, per i piccoli di cui parla Mt 11,27 il PCI rappresentava spesso il «miglior buongoverno cittadino» (così definito in “Orfani e Vedove”, dell’ultimo gruppo di GLF, i Per Grazia Ricevuta), era percepito come garanzia di sicurezza, svolgeva a livello locale le funzioni che altrove in Italia erano delegate con cieca fiducia alla Democrazia Cristiana. In Emilia, pur segnata nell’immediato dopoguerra dalle stragi di civili ad opera di partigiani comunisti, l’antifascismo trovò terra fertile anche in ambiente cattolico, e si creò la base per decenni di politica cattolico-democratica, grazie all’opera di molti personaggi determinanti tra cui in particolare Giuseppe Dossetti (1913-1996). Il PCI di un tempo, inoltre, era un monolite di austerità morale (e

solo un occhio sprovveduto può notare in questo una convergenza con la fede cattolica) che almeno a parole si lanciava in difesa del mondo operaio: è solo al giorno d’oggi che a comunisti e rifondaroli preme la salvaguardia degli omosessuali e dell’ambiente, come proclama Corrado Guzzanti nella sua esilarante imitazione di Fausto Bertinotti («Cos’è rimasto ai comunisti? Ah sì, i diritti dei gay, e se non sbaglio quelli di alcune felci»). Negli anni in cui GLF è un bambino, invece, molti intellettuali anche organici al PCI (come Pasolini) vedevano il partito come ultimo baluardo in cui la gente semplice riponeva la propria fiducia, grazie a cui fosse concreta la possibilità di salvaguardare il mondo contadino che andava scomparendo con la modernizzazione. In GLF si ritrova questo retroterra culturale solo apparentemente schizofrenico, che lo porterà negli anni della giovinezza ad allontanarsi dalla parrocchia per frequentare i movimenti di sinistra extraparlamentari. Durante un


viaggio a Berlino nel 1982 conosce Massimo Zamboni: formano insieme il primo nucleo dei CCCP, e suonano, secondo la loro definizione, musica emiliana / punk filosovietico. Il nome del gruppo è la sigla, in caratteri cirillici, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ma il gruppo la italianizza, pronunciandola cicicipì. Berlino era in quegli anni al centro di un fermento musicale bizzarro e alternativo, e GLF torna da Pankow (quartiere di Berlino Est) con la cresta verde e la voglia di urlare sul palco le sue liriche allucinate, accompagnato dalla chitarra scordata di Zamboni. Il primo concerto, segnatevelo perché è significativo quanto l’ultimo, si tiene in un centro psichiatrico, quello in cui il Nostro svolgeva attività di volontariato prima di partire: suonò davanti ai matti, e racconta che fu un successo. Le performance live dello strambo complesso incuriosivano i giovani emiliani dei primi anni Ottanta, ma stentavano a conquistarli davvero: GLF e Zamboni reclutarono per le loro esibizioni altri due membri che divennero parte integrante dei CCCP, l’amica Annarella, col titolo di “benemerita soubrette”, e Fatùr, “artista del popolo”, un ex barman e spogliarellista di simpatie fascistoidi. I due si dimenavano sul palco tra-

C.C.C.P. vestiti (o nel caso di Fatùr più che altro nudi), dando vita a una sorta di teatro avanguardista che accompagnava visivamente le canzoni. Il primo album (1984) resterà nella storia della musica italiana: “Affinità – Divergenze tra il compagno Togliatti e noi”. I testi di GLF raccontano una generazione arrivata troppo tardi per fare il Sessantotto, ma anche priva di ogni fiducia nei confronti della contestazione militante, della quale si cominciano a vedere gli effetti. La società ha perso il suo ordine naturale, quello che seguiva il ritmo delle stagioni, è arrivata la modernità e la Tecnica ha imposto il suo dominio sull’uomo. “Io sto bene” canta lo spaesamento di chi non si rassegna a vivere una vita tranquilla nel senso più deteriore del termine, di chi non vuole gettarsi senza pensare negli anni Ottanta

Giovanni Lindo Ferretti al tempo dei CCCP

da bere, del godimento futile e fugace; ma questo rifiuto del tempo moderno occidentale non può portare ad abbracciare ciò che esisteva prima e che è stato spazzato via dalla civiltà del benessere obbligatorio e assopito, perché il mondo placido delle montagne appenniniche non esiste più, o quasi. Restano i miti: e per chi, come GLF, è cresciuto negli anni Settanta in terra rossa, il mito è l’Unione Sovietica, che viene guardata quasi con nostalgia, come una favola in cui tutto è ordinato, a cui ci si ostina a credere nonostante l’evidenza. Un richiamo estetico, più che ideale. E certo, un comunista organico GLF non lo è mai stato: i suoi riferimenti intellettuali sono molteplici, religiosi inclusi. In “Socialismo e barbarie” (1987), invoca un fuoco che risvegli la sua Emilia «sazia e disperata», come viene definita in “Rozzemilia”, con le stesse parole che in quegli anni aveva usato il Cardinale Giacomo Biffi, allora Arcivescovo di Bologna, per descrivere lo smarrimento desolante e benestante. In “Manifesto” parafrasa Lenin («I Soviet più elettricità / non fanno il comunismo / ma è un dato di fatto / che a Stalingrado non passano»), ma per urlare poi delle «voglie sconfinate» e delle «necessità di infinito», in un mondo in cui grande è la confusione «sopra e sotto il cielo». L’agitazione di queste parole trova la quiete quando GLF

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canta (o appunto salmodia), accompagnato da un organo, «Libera me Domine de morte aeterna / in die illa tremenda / quando caeli movendi sunt e terra». In occasione dell’uscita dell’album successivo, poi, scrive pubblicamente a Berlinguer, storico segretario del PCI, ma anche a Paolo VI, ringraziandolo «per aver riaffermato l’esistenza del diavolo, contro lo scandalo dei credenti che adorano le loro ragioni invece di adorare Dio». In “Canzoni preghiere danze del II millennio – Sezione Europa” (1989) è contenuta una struggente dichiarazione di devozione mariana, “Madre”, che farà guadagnare ai CCCP anche un’intervista a Famiglia Cristiana, nella quale GLF, interpellato in proposito, ribadisce l’indiscutibilità delle radici cristiane del continente europeo. Il 1989 è anche l’anno in cui esce l’ultimo album, “Epica Etica Etnica Pathos”. I CCCP hanno abbandonato le sonorità punk per arrivare a un rock più melodico e studiato, grazie alla collaborazione dei componenti dei Litfiba, allora un gruppo di giovani alternativi fiorentini e non ancora band da classifica. In questo periodo i due gruppi intraprendono insieme un

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tour che li porta a San Pietroburgo e a Mosca. Qui, mentre Piero Pelù pieno di vodka intrattiene le autoctone, i CCCP suonano per l’ultima volta insieme nel palazzetto dello sport della capitale russa: e quando intonano la loro rielaborazione dell’inno sovietico, “A ja liublju SSSR”, i soldati sovietici fra il pubblico si alzano reverenti in piedi. Così in mezzo alle rovine dell’Unione sovietica che di lì a poco sarebbe stata smantellata, e fra le lacrime di GLF, si conclude la parabola del punk filosovietico. Con un simile finale, non aveva senso continuare a suonare. Ma GLF continua a scrivere e a viaggiare. Nel Novanta arriva in auto fino a Medjugorije, incuriosito dagli eventi che in quegli anni acquistano visibilità. Fonda un’etichetta discografica, lancia gruppi che troveranno poi il successo nel panorama musicale italiano, e si ritrova a cantare a Prato con Zamboni e due ex Litfiba: nasce il Consorzio Suonatori Indipendenti, o CSI. Ferretti continua attraverso i suoi testi la critica alla modernità e alla civiltà della tecnica. Tornati da un viaggio in Mongolia, GLF e Zamboni danno alla luce “Tabula Rasa Elettrificata”, l’album che nel 1994 resta per due

due settimane in cima alle classifiche, destando la curiosità dei media verso un personaggio e un gruppo pressoché sconosciuti ai più. Il nome dell’album è una definizione della società occidentale: dopo mesi passati nelle terre sconfinate nel cuore dell’Asia, dove i cavalli corrono liberi e i contadini non hanno case, ma tende, GLF torna nella sua Europa, dove sembra rimossa la prospettiva verticale, il Creatore è dimenticato e la Creazione deturpata. È una tabula rasa, ma con l’energia elettrica, sennò come si fa a guardare la tivù. L’uomo sembra ridotto ad una “Unità di produzione”, canta GLF: una «macchina automatica» senz’anima. E questo vale tanto nell’Occidente tecnocratico quanto nell’Est distrutto dalla industrializzazione forzata sovietica, dal «sogno tecnologico bolscevico» e dalla sua «permanente rivoluzione». Scrive del viaggio in Mongolia anche in un volume, In Mongolia in retromarcia: e questo gli offre spunti per riflettere sulle origini della sua terra (attraverso il richiamo agli “avi longobardi” e rievocazioni del Medioevo) e della sua famiglia. Medita sulla sconfitta del comunismo, attraverso testi «impregnati di senso di sacro e assoluto sostenuti da una religiosità che si sente debitrice del mondo pagano, di quello semitico e delle dottrine estremorientali». Dopo anni in cui sente le fascinazioni della religiosità orientale e islamica (una hit dei CCCP era “Islam Punk”), scrive di riconoscere la potenza del Cielo, ma di sentirsi lontano da ogni forma di religione organizzata. Gli anni zero sono testimoni del suo progressivo riavvicinamento alla fede cattolica. I CSI si sono sciolti da tempo, ma nel 20042005 GLF gira l’Italia insieme al violinista Ambrogio Sparagna, per un tour attraverso piccole sale e


e chiese sconsacrate, in cui canta salmi e antiche preghiere. Sembra riavvicinarsi al cattolicesimo democratico della sua prima gioventù, ma allo stesso tempo comincia a prendere posizioni che a sinistra suscitano malumori e sospetti: dopo l’11 settembre 2001, aveva scritto pubblicamente il suo sostegno all’America e all’intervento armato in Afghanistan, spregiando i finti pacifisti che non mossero un dito durante la sanguinosa guerra in Bosnia degli anni Novanta. Nel 2004 annuncia che non voterà al referendum sulla fecondazione assistita; e nel 2006 la sua dichiarazione di voto per l’UDC lo fa ricadere nelle liste di proscrizione dei compagni delusi e spaesati. Alla morte di Giovanni Paolo II segue l’elezione al soglio pontificio di Joseph Ratzinger col nome di Benedetto XVI. GLF è incuriosito dal livore con cui il nuovo Papa viene attaccato da sinistra, da quello che è ancora il suo mondo, ed entra in una libreria chiedendo se questo Ratzinger abbia mai scritto dei libri. Torna a casa con una pila di pubblicazioni, tra cui cita come fondamentale per lui la celebre Introduzione allo spirito della liturgia. Gli scritti del nuovo Papa sono decisivi nel ricondurlo a casa, come scrive lo stesso GLF in Reduce. In questa sorta di biografia, edita da Mondadori nel 2007, racconta della fede cattolica ritrovata proprio come di un ritorno a casa. Da diverso tempo infatti il Nostro è tornato a vivere nel paese di nascita, Cerreto Alpi, dove assiste la madre anziana e malata. Si considera reduce delle scelte giovanili, prese a motivo della sua insoddisfatta «necessità di infinito» ma soprattutto per molta incoscienza. Torna alle origini: si dedica al pascolo e all’allevamento dei cavalli, sua grande passione (al suo Tancredi ha dedicato una

canzone). Segue il ritmo della natura e delle stelle, mantiene il contatto col mondo esterno solo grazie alla lettura dei giornali, tra cui Il Foglio diretto da Giuliano Ferrara, che ringrazia durante un’intervista per le preziose riflessioni che i suoi scritti e il suo giornale gli hanno offerto. L’ammirazione per Ferrara è tale che nel 2008 GLF appoggia pubblicamente la sua lista elettorale contro l’aborto, e in occasione dell’inizio della campagna elettorale si esibisce sul palco di Piazza Farnese, davanti ai sorridenti prolife assediati dalle femministe perennemente indignate. Negli anni zero ha pubblicato alcuni album sotto il nome di PGR, Per Grazia Ricevuta, dove suonano con lui Gianni Maroccolo e Giorgio Canali, colleghi e collaboratori storici da vent’anni. È del 2009 l’ultimo lavoro del gruppo, “Ultime notizie di cronaca”, dove con parole appassionate e decisive GLF racconta il suo tempo, il mondo «fecondo d’aborto e di pratiche soluzioni eutanasiche», e contemporaneamente il mondo che ha ritrovato sui monti, l’umanità vera e semplice, che sa ogni cosa nel Creato ha il suo posto e merita il rispetto che si deve all’opera di Dio. Canta con voce da

monaco la «languida catena» che non si può recidere, e che generazione su generazione lo lega ai suoi antenati. Scrive Camillo Langone che «Ferretti lancia il suo esorcismo oltre l’ostacolo dell’incredulità e canta come dal pulpito di una pieve romanica fra i boschi». GLF si definisce ormai un uomo italico montano cattolico romano, e nella struggente “Cronaca Divina” canta la nascita e il sacrificio di Cristo, con la meraviglia di un bambino: «chi sono se Tu / ti curi di me?». Nel 2011 annuncia a sorpresa un tour nel quale attraversa tutto il suo repertorio, dai CCCP ai PGR, a dimostrazione della continuità delle sue liriche, e della naturale maturazione di un pensiero che sempre ha lasciato aperta la porta del cuore, e mai si è indurito. Potete chiedere a un vecchio compagno cosa ne pensa di GLF, e se è un po’ assennato parlerà vagamente di tradimento, alla peggio dirà che è ormai un vecchio rincoglionito. Potete chiedere a Giorgio Canali, ateo e anarchico, che col Nostro ha collaborato per almeno due decenni, e vi dirà (più o meno testuali parole) che non capisce lo stupore di chi gli dà del voltagabbana, GLF l’ha sempre pensata così, bastava sentirlo parlare. GLF una chiave di lettura l’ha fornita: il suo tour si chiama “A cuor contento”. Pierluigi Grassi Per approfondire: Giovanni Lindo Ferretti, Reduce, Mondadori, 2007 Luca Negri, Giovanni Lindo Ferretti. Partigiano dell’infinito, da Togliatti a Benedetto XVI, Vallecchi, 2010 Discografia di CCCP, CSI, PGR

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AVADA KEDAVRA

VERBA VOLANT, MA MICA TANTO

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arole magiche: come fare cose con le parole

J. K. Rowling ripesca niente di meno che dall’aramaico una delle tre Maledizioni senza perdono che il giovane Potter si destreggia a schivare per sette volumi e otto film, onde evitare di morire all’istante. Abhadda kedhabhra, antica formula magica, significa, infatti, «sparisci come questa parola». Mi sono informata, e pare che sia possibile fare incantesimi anche senza usare parole, ma solo con la forza del pensiero. Niente di nuovo sotto il sole, anche Yoda, che notoriamente aveva qualche problema ad articolare frasi, non parlava mentre sollevava le navicelle dalle paludi. Eppure, se la pronunci ad alta voce, la parola magica acquisisce consistenza, spessore, potenzia il suo effetto sulla realtà e non sparisce, come invece suggerirebbe la maledizione di cui sopra. Emily Dickinson (1830 - 1886), poetessa americana, scrive: «A word is dead / when it is said, / some say. / I say’ it just / begins to live / that day» (Una parola muore quando viene pronunciata, alcuni sostengono. Io invece dico che, quel giorno, ha appena cominciato a vivere)(Emily Dickinson, Complete Poems of Emily Dickinson, Paw Prints 2008). Gli incantesimi e le parole magiche che troviamo nella saga di Harry Potter, ma anche in molta altra letteratura che abbraccia lo stesso genere, non sono parole vane affidate al vento, non spariscono quando sono pronunciate, ma producono un effetto molto concreto e tangibile, a volte indelebile, sulla real-

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tà. Aprono porte, proteggono, spostano gli oggetti, uccidono. Quando la parola è pronunciata, allora comincia la sua vita e il suo potere. Le parole magiche esistono solo nelle fiabe, ma qualcosa di simile avviene ogni giorno sotto i nostri occhi, nel mondo reale. Ci sono parole che hanno il potere di fare ridere o piangere. Se scoppio a ridere, la parola divertente ha esercitato su di me il suo potere, modificando il mio umore. Dopo poco, però, l’effetto svanisce. Ci sono parole, al contrario, che possono cambiare per sempre quello che io sono e la natura delle cose. Queste sono le parole veramente potenti. Accade perché queste non hanno solo un valore informativo, ma anche performativo: quando parli, cioè, stai facendo qualcosa. «Ti licenzio; ti dichiaro colpevole; la dichiaro dottore in Giurisprudenza; ti battezzo; vi dichiaro marito e moglie». Se è la la persona competente a pronun-

ciarle, queste parole cambiano, in modi diversi, chi io sono. Prima ero un impiegato e ora non più; da oggi sono dottore; oggi sono diventato membro della Chiesa di Dio. Prima no, ma ora che queste parole sono state pronunciate, tutto è cambiato. «Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi». La sostanza dell’ostia è stata trasformata dalla parola del sacerdote. La rettificazione dei nomi L’espressione risale a Confucio (551 a.C. - 479 a.C.), secondo il quale solo tramite la rettificazione dei nomi è possibile ripristinare l’ordine sociale. Questo implica l’adeguamento dei nomi alle realtà che indicano: i nomi devono essere attribuiti solo alle realtà che lo meritano e, viceversa, le realtà devono tornare a coincidere con i nomi convenzionali. Che il sovrano agisca, quindi, da sovrano, il figlio agisca da figlio; venga chiamato sovrano solo chi

Lord Voldemort


lo merita; che i figli si comportino secondo il loro nome. Dare il giusto nome alle cose non è banale, influisce sulla realtà. Nel romanzo Bianca come il latte, rossa come il sangue (Alessandro D’Avenia, Mondadori, Milano 2010) il protagonista, un giovane liceale, è chiamato sempre con un diminutivo, Leo. Poi, finalmente, qualcuno lo chiama con il suo nome completo. Ed è l’inizio di una vita nuova perché quello è il suo vero nome, il nome che aspettava che qualcuno pronunciasse per scoprire la verità su sé stesso: «“Ti amo Leonardo”. Il mio nome, tutto intero, il mio vero nome preceduto da quel verbo alla prima persona è la formula che spiega tutte le cose nascoste nel cuore del mondo. Mi chiamo Leo, ma io sono Leonardo. E Silvia ama Leonardo». Dare il nome giusto alle cose significa ordinarle, metterle a posto e fare chiarezza sul loro significato. Ci consente di conoscere un po’ della realtà a cui si riferiscono. Si potrebbe obiettare che le parole, le lingue, sono solo convenzioni. Ci siamo messi d’accordo per chiamare così i tavoli e le sedie, ma i finlandesi si sono messi d’accordo in un altro modo. Di certo come chiamo qualcosa è una con-

venzione, ma quello che dico appartiene ad essa, svela una parte del suo modo di essere: «(…) la parola ha in sé un grande potere: assegnare alle cose il loro nome significa infatti svelarne il senso producendo un effetto» (Laura Boccenti, La manipolazione attraverso il linguaggio, in Il Timone, anno XI, n. 82, aprile 2009, pag. 30 - 31). Ad Adamo Dio chiede di dare un nome a tutte le piante e animali sulla terra (Gn 2, 18-20). Facendolo le ordina, dà loro un posto nel mondo, stabilisce su di esse il proprio dominio. Dare il giusto nome alle cose non significa solo articolare ed emettere suoni convenzionali, flatus vocis. Significa conoscere qualcosa del loro modo di essere. Nel 2007 esce un film di Sean Penn, Into the Wild, che vede il giovane protagonista scappare di casa per inseguire il suo sogno di raggiungere l’Alaska. Fugge e lascia dietro di sé genitori e amici, costruendosi una nuova identità e un nuovo, poco plausibile, nome: Supertramp. Alla fine di questo viaggio, che è soprattutto una ricerca di senso, la scoperta sarà inaspettatamente semplice e cristallina: «Chiamare ogni cosa col suo vero nome». Come Leo, Supertramp tornerà ad essere ciò che è veramente, Christopher Johnson Maccandless, riappropriandosi del proprio vero nome. E quando è Dio stesso a rettificare i nomi? Gesù dice a Simone: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa» (Mt 16,18). Un nome un programma, insomma. Parole in risposta «La sventurata rispose». Poteva star zitta, la monaca di Monza, poteva dar peso alla propria parola. Basta solo l’accenno a quella risposta, nessun particolare scabroso in più, ma già abbiamo capito tutto. Tradimento, delitto, ri-

catto. Ma ora cominciamo dall’inizio, che poi è anche la fine. Ci sono risposte, ci sono parole, che cambiano la storia intera. Sono dichiarazioni d’amore che si imprimono nella carne. Niente è come prima, tutto è nuovo. Ed era solo una piccola potente parola sussurrata. «Fiat» (Lc 1, 38). Costanza Albè Per approfondire: John Austin, Come fare cose con le parole, a cura di Carlo Prenco e Marina Sbisà, Marietti, Genova 1987 Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, vol. I, Einaudi, Torino 2000 Gianfranco Ravasi, L’incandescenza della parola che crea, Osservatore Romano, 17 febbraio 2008

PAROLE CHE CREANO «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.(…) E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 1-18)

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PROCESSO AL VICARIO PAPA PACELLI E LA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI DI ROMA

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no dei punti più problematici nella storia contemporanea della Chiesa è legato alla figura di Pio XII e al suo atteggiamento durante la seconda guerra mondiale. Nell’impossibilità di affrontare in questa sede tutta la problematica, mi sembra esemplificativo il caso della deportazione degli ebrei romani, avvenuta il 16 ottobre 1943, lì, nella diocesi del Papa, «sotto le sue finestre». Il 25 settembre, il generale delle SS (Schutzstaffeln) Herbert Kappler (1907 - 1978), radunando la comunità ebraica, chiede loro la somma di 50 kg di oro per evitare la razzia. Non riuscendo a racimolare tutto il denaro, il rabbino capo di Roma Israel Anton Zoller (1881 - 1956) si reca dal Papa dal quale ottiene la piena garanzia che sarà la Santa Sede a fornire la cifra mancante. Cionostante, però, la furia nazista non si placa. L’arrivo di tremila SS al comando del generale Theodor Dannecker (1913 - 1945) è conosciuto in Segreteria di Stato sin dall’11 ottobre e si prevede che entro il 18 verranno effettuate delle perquisizioni domiciliari in tutta Roma. I rapporti tra la S. Sede e la Germania non potrebbero essere più travagliati ma ora il pericolo si presenta imminente e proprio nella diocesi del Papa. Da luglio, inoltre, l’ambasciatore tedesco Carl-Ludwig Diego Von Bergen (1872 - 1944), con cui da anni si è abituati a trattare, è sostituito da Ernst Von Weizsaecker (1882 - 1951), un personaggio che si rivela fondamentale in questa giornata. Il 16 ottobre, giorno fatidico, Pio XII, dopo aver celebrato la prima messa del mattino, riceve

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Pio XII la visita della contessa Enza Pignatelli D’Aragona che, avvisata da un’amica ebrea, lo supplica di intervenire per la razzia in corso. Sbigottito, Pio XII rivela la propria convinzione che i nazisti non avrebbero effettivamente toccato gli ebrei ma, cionostante, agisce in modo esemplare. Secondo la testimonianza resa dalla Pignatelli, Pio XII prende immediatamente in mano il telefono e si attiva per fare il possibile. Carlo Pacelli, nipote del Papa, si reca dal generale Reiner Stahel (1892 - 1955), l’ufficiale nazista grazie al quale è stato possibile ottenere l’extraterritorialità dei possedimenti della S. Sede, un’operazione che nelle intenzioni del Papa è assolutamente funzionale a nascondere gli ebrei in luoghi dove i nazisti, a meno di non violare la legge, non possono entrare. Il giovane Pacelli prega il generale di usare tutta la sua influenza presso il comando militare e interrompere le deportazioni. È necessario specificare, però, che, come si evince da una nota datata 22 settembre del Prosegretario di

di Stato, Mons. Domenico Tardini (1888 - 1961), nessuno ha fiducia che le SS rispettino l’inviolabilità di conventi e seminari, rifugio sicuro per gli ebrei. Tornando all’azione del Papa, anche Mons. Alois Hudal (1885 - 1963), rettore della Chiesa nazionale tedesca di Roma, si reca a parlare con Stahel pregandolo di interrompere tale scempio. Entrambi gli interventi, quelli di Hudal e Pacelli, si possono certamente ascrivere all’iniziativa del Papa. Di particolare importanza è l’intervento del Segretario di Stato, il Card. Luigi Maglione (1887 1944), il quale convoca immediatamente l’ambasciatore tedesco Von Weizsaecker. Sarebbe necessario analizzare ogni singolo passo di tale documento ma ci si può limitare a rilevare i seguenti aspetti: Maglione pone l’accento sul carattere razziale di tale provvedimento indicando come i deportati siano esclusivamente ebrei. La risposta dell’ambasciatore è molto evasiva ma il porporato ribadisce l’inaccettabilità di tale razzia, dettata solo dall’antisemitismo. Inoltre — qui scaturisce una delle colonne portanti dell’accusa a Pio XII — il punto di svolta si ha quando Weizsaecker chiede di poter non far sapere a Berlino di tale conversazione. L’importante, infatti, non è che la protesta sia pubblica ma che sortisca il giusto effetto. Anzi, potenzialmente, una pubblica denuncia avrebbe solo inasprito la situazione. La condotta di Weizsaecker è molto strana. In quei giorni egli scrive alla madre che il suo compito è quello di «appianare e di spianare» il difficile rapporto diplomatico. Il suo intento, a quanto


riconosce il suo biografo Leonidas Hill, è di tenere buono il Vaticano sperando in una pace di mediazione operata dallo stesso Pontefice. La poca fiducia nella vittoria finale del Reich fa si che nel RHSA, consiglio per la sicurezza del Reich, qualcuno elabori un progetto che miri, come ho detto, a puntare sul Papa per una mediazione con gli alleati. Per poterlo fare, però, Weiszaecker deve lasciar credere al suo governo che la S. Sede sia insospettabile e che, se mai vi fossero problemi, siano circoscritti a fatti marginali. Da questa premessa già si può intuire che fine farà la protesta di Maglione, che l’ambasciatore omette volutamente di comunicare al proprio governo. Anche se il Segretario di Stato aveva ritenuto superfluo una protesta formale, puntando però l’accento sulla necessità della sospensione della razzia, nel trasmettere il rapporto sulla situazione, l’ambasciatore, pochi giorni dopo, scrive al barone Joachim Von Ribbentrop (1893 - 1946) che il Papa, pur sollecitato da varie parti, non si era lasciato andare ad alcun tipo di protesta. Ne esce, se vogliamo usare le parole di Robert Graham (1912 - 1997), gesuita e studioso della storia della Chiesa durante il secondo conflitto mondiale, un dei rapporti più alterati dell’intera storia diplomatica. Inoltre, Weizsacker, per essere del tutto sicuro del silenzio del Papa, sottolinea a Maglione un aspetto senz’altro vero e che il Cardinale non può che condividere, sebbene per motivi profondamente diversi dai suoi, cioè che l’ordine di deportazione viene direttamente da Hitler e che, pertanto, non è opportuno lanciarsi in una protesta pubblica. Maglione giudica il ragionamento senz’altro realistico, soprattutto in virtù dei rapporti che giungono dalla nunziatura di Berlino, secondo cui è della

Pio XII ai microfoni della Radio Vaticana massima pericolosità, oltre che del tutto inutile, fare anche solo cenno alla situazione degli ebrei. Non si dimentichi che già dal 1941, quando il Papa si era rifiutato di considerare Hitler un baluardo contro l’Unione Sovietica e di proclamare una “crociata antibolscevica”, il Fuhrer prepara il suo rapimento, fatto ben noto alla S. Sede. Per questo, alla domanda: «Che farebbe la Santa Sede se le cose avessero a continuare?» Maglione non può che rispondere: «La Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire una sua parola di disapprovazione (...). Qualora fosse messa nella necessità di protestare si affiderebbe per le conseguenze alla divina Provvidenza». Il colloquio tra i due è di vitale importanza, non solo perché testimonia l’azione del Papa ma anche perché contribuisce a fare del “caso Pio XII” una vera e propria “questione morale”, ritorcendo, paradossalmente, le stesse parole contenute in quel colloquio contro il Papa. Com’è possibile? Molti storici, a partire dagli anni Sessanta, quando ancora non è stata pubblicata la rassegna di documenti della S. Sede relativi alla seconda guerra mondiale, hanno ritenuto, nonostante i brillanti articoli in proposito su La Civiltà Cattolica, la rivista di alta divulgazione della

Compagnia di Gesù, che la S. Sede fosse rimasta indifferente alla razzia, proprio a partire dal dispaccio alterato che Weiszaecker invia a Ribbentrop il 30 ottobre. È il caso del Vicario di Hochhuth, un’opera scandalistica che getta fango sul Pontefice, non senza l’intenzione di sciogliere il popolo tedesco dalle proprie colpe e creare un capro espiatorio. La lacuna della polemica hochhuthiana è, però, colmata, almeno sembrava nei primi anni Sessanta, da una ricerca accurata di Saul Friedlander, scrittore e storico israeliano, che in un libro del ‘64, un anno dopo il Vicario, forniva in sostanza l’argomentazione storica per quelle affermazioni. Nel 1965, sollecitato da tali polemiche, Paolo VI, che nel ‘43 era responsabile di una delle due ali della Segreteria di Stato, nonché attivissimo nell’assistenza agli ebrei nascosti, annuncia la pubblicazione dei principali documenti dell’archivio vaticano relativi al periodo. Dopo il 1981, anno di pubblicazione dell’ultimo volume, la storiografia contraria o comunque polemica nei confronti di Pio XII deve aggiustare il calibro. La tenace anticattolicità di storici come Susan Zuccotti o il troppo zelo di Giovanni Miccoli, la prima contraria al Papa, il secondo critico spesso in modo ingiustificato, li costringe a volte a falsare o

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a non ammettere fino in fondo l’opera del pontefice. Cosi la Zuccotti riaccende il caso morale, intitolando un suo libro Under his very windows scandalizzata dall’indifferenza del Papa. La sua è una ricerca orientata verso la critica in modo del tutto ingiustificato arrivando persino a rendersi ridicola in certe affermazioni. Ovviamente deve prendere in esame il colloquio Maglione-Weiszaecker ma lo cita indebitamente e solo in parte, tralasciando il fatto che Maglione continuasse a insistere sulla necessità dell’intervento, anche in mancanza di una denuncia formale e, cosa ancor più grave, tralascia completamente la risposta in cui Maglione, non escludendo l’idea di una protesta pubblica, affidava la Chiesa a

Dio per una mossa di questo tipo. Non accurata appare anche l’analisi fatta dal Miccoli che non cita l’intervento di Carlo Pacelli e del vescovo Hudal e che cita solo di sfuggita la risposta di Maglione. Mi pare superfluo il sottolineare come questi due storici, della cui onestà intellettuale a volte è lecito dubitare, si autocontraddicano una riga dopo l’altra. Mi sembra, in conclusione, di poter affermare che questo breve panorama del complesso “caso Pio XII” dimostri ampiamente l’azione tutt’altro che indifferente del Papa, che, invece, riteneva di dover rispondere un giorno davanti a Dio del suo atteggiamento. Nonostante l’indubitabile santità che lo ha contraddistinto, Pio XII si è sempre sentito, fino all’ul-

timo, indegno della missione affidatagli. «Miserere mei Domine, secundum magnam misericordiam tuam» scrive nel suo testamento. Morto tra la lode del mondo ebraico, i cui principali esponenti si rifiutano di assistere alla proiezione del Vicario, e venerato come uno dei più grandi pontefici della storia, nonchè defensor civitatis, è in seguito diventato il Papa di Hitler, il Papa silenzioso e indifferente alla Shoah. «La verità ti renderà libero», dice Margherita Marchione, religiosa italiana autrice di molti libri su Pio XII, citando il Vangelo di Giovanni, e di questo, credo, non dobbiamo dubitare. Alessandro Bellino

«Il Vangelo è la più grande fiaba…»: il lieto fine della storia dell’uomo

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e siete ragazzi nati da metà anni Ottanta in poi, probabilmente ricorderete la morte di Mufasa nel film d’animazione Il Re Leone come uno dei primi traumi della vostra vita! Le critiche, quando nel ‘94 il film uscì al cinema, non mancarono di certo, e vennero da chi sosteneva che il bambino non dovesse essere messo di fronte alla morte. I racconti di fantasia, le fiabe, le favole, devono essere allegre, piene di speranza e devono finire bene: la morte non deve entrare a scioccare quelle povere e ingenue menti, che già poi crescendo avranno modo di rendersi conto di quanto il mondo sia pieno di dolore! Chi vuole togliere la morte dai libri e dai cartoni per bambini è anche

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chi vuole relegare a solo tali racconti il lieto fine, portando avanti la battaglia del «non è reale, nella vita le cose non finiscono quasi mai bene!». Certamente esiste una connessione tra la fiaba e la mente dei

bambini. Innanzitutto, però, bisogna ricordarsi che il bambino non è una specie animale a sé stante, ma è un piccolo essere umano. Un uomo in potenza, insomma. In quanto tale, deve crescere nel modo migliore possibile, e con


“nel modo migliore possibile” intendo dire in quel particolar modo che possa un giorno renderlo un uomo migliore. Paradossalmente i bambini capiscono certe questioni meglio degli adulti e, in modo particolare, riguardo alle fiabe! Quando si trova davanti a un racconto nuovo, il bambino è interessato non tanto a sapere se è reale o fantastico; vuole sapere chi è il buono e chi è il cattivo. Questo perché tale distinzione è l’unica che valga sia per il mondo fantastico sia per il mondo in cui il bambino vive. Il mito, la fiaba, altro non sono che una creazione dell’uomo, della sua immaginazione e fantasia, che rimanda a qualcos’altro. Quando l’uomo inventa, si fa sub-creatore; la fantasia è l’unico strumento con il quale l’uomo può creare qualcosa che prima non esisteva. John Ronald Reuel Tolkien (1892 - 1973) è giunto a creare una cosmologia, una geografia e persino delle lingue. Ma, come detto prima, questa “creazione” dell’uomo deve avere un rimando alla realtà per poter essere non un’evasione ma un simbolo. Ce lo spiega bene sempre Tolkien: questo qualcos’altro a cui la fiaba rimanda è il Vangelo.

«Il Vangelo è la più grande fiaba, e produce quella sensazione fondamentale: la gioia cristiana simile alle lacrime perché qualitativamente è simile al dolore, perché proviene da quei luoghi dove gioia e dolore sono una cosa sola, riuniti, così come egoismo e altruismo si perdono nell’Amore» (J. R. R. Tolkien). Il Vangelo, che insieme racchiude tutte le caratteristiche delle grandi fiabe e dei grandi racconti, non è però il frutto della fantasia umana, del sub-creatore: è il racconto del Creatore che entra nella storia, nasce dalla Sua mente e dal Suo disegno, e questo lo rende il racconto per eccellenza. Ma qual è una delle caratteristiche principali della fiaba? L’eucatastrofe. Tolkien introduce questo concetto per spiegare quel capovolgimento che arriva a un certo punto della narrazione, quando tutto sembra dover finire male e il lettore, insieme con i protagonisti della storia, sta iniziando a disperare che le cose possano aggiustarsi. Ne è un bell’esempio il discorso di Sam ne Il Signore degli Anelli: «È come nelle grandi storie, padron Frodo. Quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericoli, e a volte

Gran Burrone

non volevi sapere il finale. Perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno. E quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché». Capiamo bene che non esiste eucatastrofe più intensa di quella del Vangelo! I Suoi uomini Lo hanno seguito per anni, hanno creduto in Lui… e alla fine era appeso a una croce, morto, umiliato. La speranza pareva essere per folli in quel momento, il mondo pareva destinato alla tenebra. E infine, la Resurrezione! La morte sconfitta per sempre, l’uomo salvato ed elevato a partecipare della natura divina. «La nascita di Gesù Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’uomo; la Resurrezione, l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione», scrive sempre Tolkien. A coloro che accusano il lieto fine di essere solo un’illusione, io rispondo così: nella storia dell’uomo c’era solamente un racconto che doveva finire bene. Ed è finito benissimo. Con quel lieto fine fine, non può esserci vittoria del male, mai più. Può esserci dolore, sofferenza, morte, ma per citare nuovamente Sam «è una cosa passeggera quest’ombra». La fiaba acquista il suo valore simbolico più alto solo quando diventa un’eco dell’evangelium nel mondo reale. «Se mai gli uomini si trovassero in condizioni tali da non voler conoscere o di non poter percepire la verità, la Fantasia perirebbe e diventerebbe morbosa illusione» (J. R. R. Tolkien). Francesco Arnaldi

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LE ORIGINI MEDIEVALI DELLA SCIENZA MODERNA A ssociare l’epoca medievale al concetto di cultura scientifica è stato a lungo considerato impensabile. Il diffuso giudizio negativo espresso genericamente sul Medioevo, infatti, ebbe come conseguenza il disconoscimento della presenza di una feconda speculazione scientifica nell’Europa cristiana medievale. I secoli bui, si diceva, non avrebbero potuto mai essere il contesto adatto per lo sviluppo di un qualsivoglia progresso scientifico. Teologia cristiana e maestri della Scolastica erano considerati i nemici acerrimi della scienza. Si diceva che quest’ultima, dopo secoli di torpore, si fosse risvegliata nel XVI secolo lasciandosi alle spalle un passato di oscurantismo e sterilità. Tra la filosofia naturale dell’antichità e la scienza della prima età moderna veniva a crearsi un vuoto di oltre dieci secoli in cui la filosofia cristiana, le circostanze storiche e la mentalità medievale avrebbero impedito alla scienza di esprimersi. Il mondo medievale veniva considerato contrario al progresso scientifico, ancorato com’era al fardello di due autorità incontestabili: la tradizione biblica e quella aristotelica. La discontinuità scientifica registrata tra i secoli dell’età di mezzo e quelli dell’epoca moderna è stata suggellata dalla nascita del concetto di Rivoluzione Scientifica. Non poteva esserci alcuna continuità tra la sterile filosofia naturale del Medioevo e la fruttuosa speculazione scientifica dei secoli successivi, occorreva pertanto sottolineare le assolute novità introdotte nella cultura

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Dio come geometra occidentale dal genio di Copernico, Galileo e Newton. Dagli inizi del XX secolo, grazie ai pioneristici studi del filosofo e fisico francese Pierre Duhem (1861 - 1916), è stato possibile ridimensionare la portata negativa delle considerazioni sulla scienza nel Medioevo e riscontrare, nel pensiero di alcuni filosofi medievali, teorie che avrebbero avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della scienza moderna. Duhem suggerì una prospettiva di continuità tra la filosofia della natura medievale e le teorie scientifiche della prima età moderna. Egli si spinse ad affermare che soltanto grazie al nuovo paradigma cristiano fu possibile ridimensionare l’autorità aristotelica e lasciare così spazio ad una nuova speculazione scientifica. Con la condanna di presupposti filosofici quali il necessitarismo, l’eternità del mondo ed il monopsichismo, sostiene Duhem, il vescovo parigino Tempier avrebbe causato

la nascita della scienza moderna. Gli studi duhemiani hanno contribuito a risvegliare negli europei la consapevolezza dell’enorme eredità scientifica lasciata dal Medioevo all’Occidente: la filosofia naturale studiata nelle Università europee durante la Tarda Scolastica costituì la culla di numerose dottrine scientifiche moderne. Il Medioevo (e la filosofia cristiana in esso dominante) fornì un contributo scientifico inestimabile all’Occidente: fautori ne furono, soprattutto, i Doctores Parisienses ed i Calculatores di Oxford. La vivacità intellettuale, le scoperte scientifiche, la profondità del pensiero medievale potevano sussistere solo in un contesto, quello medievale appunto, in cui l’applicazione allo studio, la cura del particolare, la dedizione assoluta al sapere, il senso della missione culturale volta alla ricerca della verità fossero costitutive della mentalità di un continente.

Pierre Duhem (1861 - 1916)


Nicola d’Oresme (1323- 1382) Nonostante i contributi di Duhem, estirpare l’idea che il Medioevo abbia rappresentato un’epoca sterile dal punto di vista scientifico non è impresa semplice: essa è radicata nella mentalità occidentale e ha lontanissime origini. Gli stessi protagonisti della Rivoluzione Scientifica, infatti, attaccarono la Scolastica considerandola retrograda e priva delle risorse intellettuali necessarie per far progredire la scienza. Ci vorrà tempo ancora per convincere l’Occidente a ritrovare il proprio Medioevo e a considerarlo, finalmente, il periodo in cui la scienza dell’età moderna trovò il terreno adatto per cominciare a germogliare. Furono alcune teorie cristiane a consentire l’abbandono del paradigma aristotelico e la proiezione dell’antica filosofia naturale verso le scoperte della fisica classica. L’unificazione della meccanica, la composizione del dualismo aristotelico tra regione terrestre e celeste, la spiegazione dei fenomeni del moto, dell’accelerazione di caduta e della rotazione terrestre sono soltanto pochi esempi delle conquiste filosofico-scientifiche che non avrebbero mai potuto aver luogo senza il contributo dei

maestri della Scolastica. È altresì evidente che non si possa abolire il termine “Rivoluzione Scientifica”: il progresso tecnico e scientifico fu effettivamente un percorso del moderno. I pensatori dell’età moderna ebbero a tutti gli effetti una nuova coscienza filosofica, tecnica e scientifica la quale permise loro di compiere un decisivo salto di qualità nella storia della scienza. Con essi nacque la moderna scienza occiden-

tale. Prima della sua nascita, però, ci fu una lunga fase gestazionale che, per quanto si tenda ad ometterlo, ebbe luogo nell’Europa cristiana medievale. Come scrive il benedettino Stanley L. Jaki: «La scienza ebbe una sola vera nascita, la cui culla fu la cristianità occidentale». L’Europa dovrebbe rimuovere quel velo d’oblio che le impedisce di ritrovare, anche in ambito scientifico, le sue origini più autentiche. A questo proposito occorre sempre tenere a mente il monito del grande storico della filosofia medievale E. Gilson: «Per tutto il pensiero occidentale, ignorare il suo Medioevo significa ignorare se stesso». Chiara Beneduce Per approfondire: Stanley, L. J., Cristo e la scienza, Fede & Cultura, Verona, 2006. Crombie, A. C., Da Sant’Agostino a Galileo: storia della scienza dal V al XVII secolo, Feltrinelli, Milano, 1970 Grant, E., Le origini medievali della scienza moderna, Einaudi, Torino, 2001 Clagett, M., La scienza della meccanica nel Medioevo, Feltrinelli, Milano, 1972. Gilson, E., La filosofia nel Medioevo: dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, Sansoni, Firenze, 2004.

Aristotele (384 a.C. - 322 a.C.)

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DONNA, RISCOPRI LA TUA VOCAZIONE:

«SPOSATI E SII SOTTOMESSA»

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Ti scandalizza la frase di san Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti?», mi sento chiedere da un amico durante una conversazione telefonica. Dopo un attimo di riflessione e smarrimento, in cui i miei neuroni cercano di formulare una risposta che non sia un mugugno, decido che no, non mi scandalizza più di tanto quest’invito dell’Apostolo delle genti. Anche se ammetto di non averci mai pensato molto prima e, anzi, di aver provato un po’ di irritazione al pensiero di essere sottomessa a qualcuno (chi mi conosce bene nutre forti, fortissimi sospetti sulla mia capacità di poterlo fare!). Pensandoci bene, però, mi è sempre piaciuta la famosa espressione “dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna”, soprattutto se quella donna sono io! E così ho iniziato ad interrogarmi più seriamente su quale fosse il mio ruolo nella società o, per usare una parola oggi urticante, sulla vocazione di una donna come me nel terzo millennio. Ebbene sì, ogni uomo e ogni donna è chiamato a rispondere a questa vocazione, non si può sfuggire a questa chiamata, nonostante oggi si ritenga che non esistano scelte definitive e che si possano lasciare aperte mille porte scegliendone altre equivalenti all’occorrenza. A ben guardare, però, il modello di donna proposto dalla nostra società non è certo molto allettante. La donna viene presentata esaltando esclusivamente la sua dimensione sensuale e se per casi fortuiti qualcuna riesce ad emergere in un particolare settore per le sue qualità intellettuali o è brutta, si

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dice, o scattano i sorrisini e le allusioni. Perché una visione tanto sessista e maschilista della donna? Non posso e voglio credere che sia questo il suo unico ruolo nella società odierna: sento che la donna ha una dignità e una vocazione diversa. Penso al fatto che Dio si è affidato ad una giovane donna per venire in questo mondo e salvarci e poi per portare l’annuncio della sua Risurrezione si è rivolto ancora ad alcune di esse. Vorrà pur dire qualcosa? Beh, sarò troppo tranchant e qualcuno potrebbe scandalizzarsi, ma forse tutto quello che accade oggi dipende dal fatto che la donna è venuta meno alla sua vocazione e ha voluto negare la natura che la vede diversa dall’uomo e, nel tentativo di colmare questo divario, si è svenduta pensando di ottenerne dei vantaggi, ma con risultati devastanti. Sì, esiste una natura che ci impone di notare che siamo diverse, diversissime

dagli uomini: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27), cito a scanso d’equivoci. Ed ecco che, inaspettatamente, un sostegno a questa mia tesi senza troppe pretese scientifiche si palesa in modo più strutturato sotto forma di un libro dal titolo provocante che scandalizza i più, non avvezzi oggigiorno alle Sacre Scritture (Carneade, chi era costui?): Sposati e sii sottomessa. Pratica estrema per donne senza paura. Giustamente una donna potrebbe anche chiedersi il senso di tutte le lotte per l’emancipazione e per i diritti compiute per riparare ai soprusi e alle umiliazioni subite nel corso dei secoli se deve ancora sopportare di essere considerata inferiore all’uomo. Eppure, come spiega saggiamente l’autrice, Costanza Miriano (una statua per questa donna, please!), la reazione a quelle ingiustizie mirava sì a rispondere alla reale esigenza di sentirsi amate, valorizzate e capite in una società che escludeva dalla vita pubblica, ma alla fin fine ha preso la strada sbagliata snaturando il suo ruolo e portando ad un’idea distorta della parità, che si è tradotta in egualitarismo e ha voluto ignorare le differenze, percepite come segno di ingiustizia e inferitorità e quindi da rimuovere. La sottomissione biblica, però, non è affatto una questione di inferiorità: è qualcosa di molto, molto diverso e più profondo. Come non rimanere affascinati quindi da questa frase, che ha il pregio di riassumere in poche righe la vocazione delle donne nella forma più sublime? «Dovrai


imparare a essere sottomessa, come dice san Paolo. Cioè messa sotto, perché tu sarai la base della vostra famiglia. Tu sarai le fondamenta. Tu sosterrai tutti, tuo marito e i figli, adattandoti, accettando, abbozzando, indirizzando dolcemente. È chi sta sotto che regge il mondo, non chi si mette sopra gli altri». Queste poche righe sono la risposta che andavo cercando, il significato dell’essere donna e l’obiettivo da cercare di raggiungere. Mi suonano così vere che mi fanno sentire profondamente orgogliosa di appartenere a questa metà del genere umano che è forza propulsiva per la vita, non solo in senso fisico, accogliendola nel proprio grembo, ma anche perché con la sua sensibilità e materna tenerezza è in grado di dimostrare affetto a chi le sta vicino e a chi incontra con una parola di conforto, uno sguardo o un gesto silenzioso, riuscendo così ad addolcire un po’ questo mondo altrimenti schiacciato dal peso del peccato, del male, dell’invidia, della rivalità. «La donna è forte per la consapevolezza dell’affidamento, forte per il fatto che Dio “le affida l’uomo”, sempre e comunque», afferma il beato Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Mulieris Dignitatem. Vorrei riuscire a fare mia questa vocazione all’accoglienza nonostante sia consapevole che è una grande, grandissima responsabilità. Se qualcuna volesse rinunciarvi è liberissima di farlo, ma la scelta non è priva di conseguenze. Le donne che hanno smesso di fare le donne rappresentano una tragedia per l’umanità: sono tristi, insoddisfatte, ciniche, calcolatrici, disposte a passare sopra a tutto e tutti perché nell’altro vedono un ostacolo alla propria realizzazione e non una persona da “accogliere”. Infatti, «la donna non può ritrovare se stessa se non donan-

donne senza paura, Firenze, Vallecchi Editore, 2011 B. Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem. Lettera apostolica sulla dignità e vocazione della donna in occasione dell’Anno Mariano, Libreria Editrice Vaticana, 1998

La Sacra Famiglia do l’amore agli altri». Come non provare quindi ad esercitare questa verità in primis con l’uomo che abbiamo scelto o che sceglieremo per condividere la nostra vita? Perché è qui, nel rapporto tra marito e moglie e nel reciproco dono di sé, che si gioca la partita fondamentale della nostra vita e la possibilità di dare speranza a questo mondo assetato di Verità e di Amore che viene sempre più sedotto da modelli che alla fine portano solo a tristezza, vuoto, solitudine e disperazione. E quale migliore esempio da seguire se non la Sacra Famiglia di Nazareth? In un’iconcina che mi è tanto cara scorgo nell’abbraccio pieno di tenerezza tra la Madre, il Figlio e il Giusto per eccellenza l’immagine della Trinità e del suo Amore e questa mi appare la sola via per “assaporare” uno scorcio di felicità su questa terra. Cristina Caimi Per approfondire: Costanza Miriano, Sposati e sii sottomessa. Pratica estrema per

«Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito, infatti, è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. (...) E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito.» (Ef 5,1-2a.21-33)

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IN CAMMINO VERSO MADRID! Esortazioni, riflessioni e spunti per guidare passi e cuore sulla strada della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid.

Cristo offre di più! Anzi, offre tutto a cura di Emanuela Bringheli

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[…] Cari giovani, la felicità che cercate, la felicità che avete diritto di gustare ha un nome, un volto: quello di Gesù di Nazareth, nascosto nell’Eucaristia. Solo lui dà pienezza di vita all’umanità! Con Maria, dite il vostro “sì” a quel Dio che intende donarsi a voi. Vi ripeto oggi quanto ho detto all’inizio del mio pontificato: “Chi fa entrare Cristo [nella propria vita] non perde nulla, nulla - assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No, solo in questa amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in questa amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in questa amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera” (Omelia per l’inizio del ministero di Supremo Pastore, 24 aprile, 2005). Siatene pienamente convinti: Cristo nulla toglie di quanto avete in voi di bello e di grande, ma porta tutto a perfezione per la gloria di Dio, la felicità degli uomini, la salvezza del mondo. In queste giornate vi invito ad impegnarvi senza riserve a servire Cristo, costi quel che costi. L’incontro con Gesù Cristo vi permetterà di gustare interiormente la gioia della sua presenza viva e vivificante per poi testimoniarla intorno a voi. Che la vostra presenza in questa città sia già il primo segno di annuncio del Vangelo mediante la testimonianza del vostro comportamento e della

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Benedetto XVI alla GMG di Sidney del 2008 vostra gioia di vivere. Facciamo salire dal nostro cuore un inno di lode e di azione di grazie al Padre per i tanti benefici che ci ha concesso e per il dono della fede che celebreremo insieme, manifestandolo al mondo da questa terra posta al centro dell’Europa, di un’Europa che molto deve al Vangelo e ai suoi testimoni lungo i secoli.» (Discorso di Sua Santità Benedetto XVI in occasione della festa di accoglienza dei giovani presso la banchina del Poller Rheinwiesen, 18 agosto 2005). Questi testimoni, infatti, alla scuola di Gesù e di Maria nella Chiesa capirono che «[…] la vita non è governata dalla sorte, non è casuale. La vostra personale esistenza è stata voluta da Dio, benedetta da lui e ad essa è stato dato uno scopo (cfr. Gn 1,28)! La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze, per

quanto utili molti di tali eventi possano essere. È una ricerca del vero, del bene e del bello. Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia. Non lasciatevi ingannare da quanti vedono in voi semplicemente dei consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva soppianta la verità. Cristo offre di più! Anzi, offre tutto! Solo lui, che è la Verità, può essere la Via e pertanto anche la Vita. Così la “via” che gli Apostoli recarono sino ai confini della terra è la vita in Cristo. È la vita della Chiesa. E l’ingresso in questa vita, nella via cristiana, è il Battesimo. […] Nel giorno del Battesimo Dio


vi ha introdotto nella sua santità (cfr. 2 Pt 1,4). Siete stati adottati quali figli e figlie del Padre e siete stati incorporati in Cristo. Siete divenuti abitazione del suo Spirito (cfr. 1 Cor 6,19). Perciò, verso la fine del rito del Battesimo, il sacerdote si è rivolto ai vostri genitori e ai partecipanti, e chiaman-

mandovi per nome ha detto: “Sei diventato nuova creatura” (Rito del Battesimo, 99). Cari amici, a casa, a scuola, all’università, nei luoghi di lavoro e di svago, ricordatevi che siete creature nuove. Come cristiani, voi siete in questo mondo sapendo che Dio ha un volto umano - Gesù

Cristo – la “via” che soddisfa ogni anelito umano, e la “vita” della quale siamo chiamati a dare testimonianza, camminando sempre nella sua luce. (cfr. ibid., 100)» (Molo di Barangaroo, Sydney, Giovedì 17 Luglio 2008).

DE’ REMI FACEMMO ALI AL FOLLE VOLO «Considerate la vostra semenza Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto XXVI, versi 118° – 120°)

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l desiderio di sapere ha da sempre accompagnato la storia dell’uomo e l’Ulisse dantesco ne è, forse, il migliore interprete. L’eroe greco racconta il suo viaggio all’autore della Divina Commedia, gli narra come ardesse di «divenire del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» (versi 98° – 99°) e per questo motivo avesse deciso di varcare le soglie del mondo allora conosciuto: lo stretto di Gibilterra. Il viaggio di Ulisse non ha, però, un lieto fine: l’intervento divino fa naufragare la sua nave ed ora si trova condannato all’Inferno, imprigionato in una lingua di fuoco. Ma come può Dio punire la magnanimità di un uomo che sente vivo in sé l’anelito alla verità, che non si ferma ai beni materiali, ma aspira a soddisfare i quesiti ultimi della propria esistenza? Troppi critici si sono fermati a una tale lettura superficiale dell’opera, trovando motivo per condannare nel Dante (1265 - 1321) medievale quella cultura cristiana, considerata

chiusa, ottusa, oscurantista. Rileggiamo attentamente il canto di Ulisse, il ventiseiesimo dell’Inferno. Dante sta attraversando l’ottava bolgia, nella quale sono condannati i consiglieri fraudolenti. L’eroe greco, come ben spiega l’autore nei versi dal 56° al 63°, sconta i peccati commessi ogni qualvolta abbia usato la sua acuta intelligenza per ingannare il prossimo. Nessun elemento, quindi, ci richiama al suo desiderio di conoscere. In questo Ulisse non ha peccato, perché percepiva i limiti della natura umana. L’ammirazione di Dante per la grandezza del suo spirito pervade tutto il canto. A noi lettori sembra quasi di vedere i suoi occhi fiammeggianti, ardenti del desiderio di sapere. Non si può neanche dimenticare come l’autore sia degno erede dell’eroe omerico. Dante, come Ulisse, varca le soglie della conoscenza umana ed ha il privilegio di vedere il Mondo ultraterreno. Il viaggio di quest’ultimo, però, ha un lieto fine e conduce il pro-

Ulisse in viaggio tagonista fino alla visione di Dio. Qual è la differenza fondamentale tra l’eroe pagano e Dante? Perché il primo perisce, mentre il secondo raggiunge il suo scopo, cioè la Salvezza? Perché Ulisse ha tentato di colmare la sua sete di conoscenza con le sole forze della ragione, munendosi di mezzi inadeguati: una piccola barca e pochi compagni. L’errore non risiede nel desiderio che lo muove e nel tentativo di realizzarlo, ma nella presunzione, che sarà tipica dell’uomo illuminista e poi moderno e contemporaneo, di compiere la traversata verso il significato ultimo delle cose confidando soltanto nelle proprie forze. Dante, al contrario, ha l’umiltà di chiedere la Grazia divina. Egli

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B. Fehmiu intepreta Ulisse nel film “Odissea. Le avveture di Ulisse” percepisce la sproporzione strutturale tra la sua mente finita e ciò che può conoscere da un lato e l’infinita logica di Dio dall’altro. Il noto scienziato Albert Einstein (1879 - 1955) affermava: «L’essere consci del lato misterioso della vita è il sentimento più bello che ci è dato di provare». Soffocare il sentimento di stupore e l’anelito alla verità intrinseco al cuore dell’uomo significa rinnegare se stessi. L’uomo ha il dovere di elevarsi dalle cose materiali che lo circondano, per dare voce ai desideri più profondi del suo animo e per cercare di rispondere ai quesiti ultimi della sua esistenza.

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Egli deve, però, essere cosciente dei limiti della propria ragione. Non potrà mai, infatti, realizzarsi credendosi illusoriamente onnipotente ed onnisciente, ma rendendo giustizia alla sua nostalgia d’Infinito. Come Dante chiede la Grazia divina per affrontare quel viaggio, che rappresenta un’indagine della natura umana dagli abissi più scuri del peccato alle vette della Beatitudine celeste, così l’essere umano non può confidare nelle sue sole forze. Credere in Dio significa avere fissa in mente una meta, che trascende la realtà terrena e che, alle stesso tempo, non la umilia, ma le dà significato d’essere. Il Cristianesimo, come Dante ci insegna, non è un’alternativa alla nostra umanità, ma il massimo compimento della stessa. Non è un caso che sia un uomo del Medioevo, prima ancora degli illuministi, a trasmettere ai posteri il valore della ragione e della sete di conoscenza. Per concludere, vorrei citare un brano tratto dai Pensieri di Leopardi (1798 - 1837), uno degli autori che forse ha meglio dato voce al desiderio dell’uomo di superare i propri limiti: «Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare

l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio: immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vuoto, e però noia, pare a maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga nella natura umana» (Giacomo Leopardi, Pensieri, Garzanti, Milano 1985). Aglaia Di Rocco

IL BLOG DI CUORE D’EUROPA Dal 10 maggio di quest’anno è presente sul web il blog di Cuore d’Europa. Perchè un blog? Perché aprire un blog quando esiste già un sito? È nata l’esigenza di trovare un canale più dinamico e interattivo, un supporto che ci permettesse di divulgare gli articoli migliori, di condividerli, di diffonderli: un trampolino di lancio per i più famosi social network. Un piccolo spazio dove raccogliere commenti, pareri, dove poter comunicare in modo diretto. Cosa viene pubblicato? Sul blog non troverai solo i migliori articoli di CdE ma anche riflessioni e analisi, video, testi interessanti da conoscere e divulgare tra conoscenti e amici. Vieni a trovarci!

www.cdmi.it/blog


FERRAGOSTO A LORETO C

hi si recasse in vacanza nelle Marche, sa che il 15 agosto, per noi cattolici solennità dell’Assunzione di Maria al cielo, esiste un luogo privilegiato in cui festeggiare piamente la Madre celeste: il santuario della Santa Casa di Loreto. Narra la tradizione che il 10 dicembre 1294 i villici di un piccolo borgo che prendeva il nome da un boschetto di lauri (Lauretum) scoprirono che era misteriosamente giunta nelle loro terre la casa in cui la Madonna era vissuta a Nazareth. Sempre secondo la tradizione, furono gli angeli a portarla in volo nottetempo: ancora oggi, il 9 dicembre, vigilia dell’apparizione, i marchigiani sono soliti accendere dei falò che hanno come scopo quello di indicare la strada ai messaggeri alati. La versione più prosaica, ma comunque suggestiva, indica nei responsabili del trasferimento delle reliquie dei crociati superstiti, che fecero arrivare in Italia le pie-

Traslocazione della Santa Casa

Santuario Maggiore della Santa Casa e della Madonna di Loreto tre della casa nazarena tramite il porto di Acri, nel 1291 caduto in mani musulmane. Da quel momento in poi Loreto divenne un’affollata meta di pellegrinaggio. Papa Paolo II, guarito miracolosamente dalla Vergine proprio a Loreto, si adoperò perchè nel 1469 iniziassero i lavori della grandiosa basilica che oggi domina le colline immediatamente a sud di Ancona. L’edificio fu terminato nel 1587, ma ci vollero altri due secoli per le rifiniture. Nel frattempo la devozione popolare canonizzava le litanie alla Madonna che dal santuario prendono il nome, cosicché si può affermare che Loreto abbia influenzato persino la liturgia della Chiesa universale. Per le caratteristiche peculiari del miracolo che diede inizio al culto, la Madonna di Loreto è patrona degli aviatori. Visitare la basilica lauretana significa immergersi in uno spazio abitato da tutti i cattolici del mondo e non è difficile accorgersene. Le cappelle laterali sono

state spesso assegnate a gruppi nazionali (polacchi, spagnoli, francesi, tedeschi ecc...), che vi hanno depositato segni della propria Storia. Se gli statunitensi hanno rappresentato sul loro altare la storia del volo, fino agli astronauti moderni, i polacchi hanno trovato del tutto naturale ringraziare la Madonna per la sconfitta dei bolscevichi (1920) dipingendo nel santuario l’epica battaglia della Vistola, con tanto di comunisti in fuga assieme a diavoli che latrano sulle bandiere rosse. Le aggiunte moderne, quasi tutte novecentesche, non disturbano l’insieme della basilica, cambiata poco nel corso dei secoli rispetto all’iniziale ispirazione gotica. Il suono dell’organo guida suggestivamente il fedele ad accostarsi al prezioso scrigno della Santa Casa, racchiusa dal Bramante in un grandioso cubo rinascimentale (1509) i cui bordi sono stati smussati da secolari torme di pellegrini inginocchiati. Valicata la piccola soglia dello

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La Santa Casa scrigno bramantesco, appare un ambiente ridotto, dai colori rossicci, dominato dal grande altare con la veneratissima Madonna Nera. Purtroppo la statua non è quella originale, andata distrutta in un incendio nel 1921, ma una copia fedele patrocinata da Pio XI (1922 - 1939). Tuttavia, sono di più grande suggestione le pareti, in arenaria palestinese, su cui sono impressi graffiti in greco del I secolo d. C. che attestano l’antichità del culto mariano. Scritte analoghe si trovano nella grotta di Nazareth. Nel I secolo, infatti, le case della Terra Santa erano costituite da una parte in muratura e da una più interna, scavata nella roccia, per conservarvi le dispense. La Santa Casa è collocata nel transetto, il cuore della chiesa, sopra il quale si erge la cupola, posta da un altro genio del Rinascimento, Giuliano da Sangallo, nel 1500. Costui era un architetto militare, per cui non stupiscono le feritoie e i merli che percorrono tutto il perimetro della basilica: Loreto fu un importante avamposto militare dello Stato pontificio e lo rimase finchè, nel 1860, le truppe fedeli al Papa non andarono in-

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contro al proprio destino sul fatidico campo di Castelfidardo. Per la cronaca, il complesso di Loreto comprende un palazzo apostolico che è tutt’ora territorio vaticano. Loreto è un luogo legato alla devozione di numerosissimi santi e beati. Non a caso uno dei ritratti più famosi di s. Giuseppe da Copertino (morto nel 1663) lo immagina mentre va in estasi alla sola vista del santuario. Il fatto che, nel quadro, manchi il campanile del Vanvitelli (elevato nel 1750) è un importante elemento per datarlo. A Loreto il B. Pio IX decise di farsi prete. Il suo “compagno di beatificazione”, Giovanni XXIII, riesumò il treno personale del Papa per affidare personalmente alla Vergine il Concilio Vaticano II incipiente. Era il 4 ottobre 1962 e il Papa pronunciò la famosa frase: «la vita è tutta un pellegrinaggio: ci fermiamo qui un poco e poi ricominciamo a camminare». Anche il B. Giovanni Paolo II sostò più volte a Loreto, l’ultima nel 2004 per l’Agorà dei giovani. Passò da Loreto anche Napoleone. Il 19 febbraio 1797 l’umiliante trattato di Tolentino impose la requisizione non solo di grandi opere d’arte, ma anche del tesoro del santuario lauretano, statua della

Madonna compresa. Bonaparte voleva forse, con tale gesto di spoliazione insensibile e brutale, riscattare il momento di smarrimento avuto quello stesso mese ad Ancona, quando gli portarono la Madonna del Duomo di S. Ciriaco ed essa replicò sotto il suo sguardo il prodigio del movimento degli occhi, cominciato qualche mese prima. La Madonna di Loreto fece bella mostra di sé in uno scantinato del Louvre, finché i francesi non decisero di porre fine a quella sceneggiata e di restituire il maltolto ai marchigiani. Come non pensare, poi, al fatto che appena una collina più in là sorge la cittadina di Recanati, patria di Monaldo (1776 - 1847) e Giacomo Leopardi (1798 - 1837)? Il credente coglie nelle loro righe una Presenza, che, se nel primo è certezza rocciosa, nel secondo è perlomeno nostalgia. Dalla balconata di Loreto lo sguardo può correre effettivamente su colli che si perdono all’orizzonte, segno di un infinito che pare aver impresso nelle Marche una bellezza sconfinata. «E il naufragar mi è dolce in questo mare». Michele Brambilla

Uno sguardo su Recanati


AMERICAN LIFE P

otrebbe sembrare, dal titolo, la solita commedia americana, ma non lo è. Verona e Burt hanno superato la soglia dei trent’anni, ma non sono pienamente soddisfatti della loro vita e, anche se non l’avevano previsto, i due sono in attesa di un terzo membro della famiglia; ciò che preoccupa maggiormente la coppia è come far crescere la nuova creatura ed entrambi sono, senza ombra di dubbio, sicuri di voler rimanere a vivere vicino ai genitori di Burt anche se ciò comporterebbe abitare in una “casa” grande quanto una roulotte. Certi del fatto che i genitori saranno entusiasti nel ricevere una tale notizia, vanno a trovarli quando Verona è al sesto mese di gravidanza, ma scoprono che i futuri nonni stanno per partire e trascorreranno due anni in Belgio, per cui non potranno fare affidamento su di loro. A questo punto a Verona e Burt non rimane che cercare il posto migliore in cui far crescere la loro creatura e da qui inizia un vero e proprio viaggio attraverso l’America arrivando fino addirittura in Canada, a Montreal; essi continuano a ripetersi di essere dei falliti, ma sanno che per il bene della loro futura figlia dovranno rimboccarsi le maniche e darsi da fare per regalarle il migliore futuro possibile. Phoenix, Tucson, Madison, Montreal, Miami, queste le tappe percorse dai nostri insicuri protagonisti, alla disperata ricerca del modo più giusto di essere genitori, ma presto scopriranno che in tutte le famiglie ci sono problemi anche se in apparenza possono sembrare perfette. All’amore di Verona e Burt, che durante il viaggio scoprono di amarsi sem-

Burt e Verona, protagonisti del film pre di più e cercano di aiutarsi a vicenda e di venir incontro alle esigenze l’uno dell’altra rimanendo insieme nonostante tutti i problemi, si contrappongono i difetti, le mancanze, le ossessioni delle altre coppie di amici e parenti a cui fanno visita. Inizialmente troveranno il sarcasmo di Lily, l’amica del college di Verona, che del suo matrimonio ormai giunto a termine pensa valga la pena tenerlo in piedi solo per le spese che hanno dovuto sostenere per la cerimonia e considera i suoi figli come due estranei, la cui unica colpa è quella di “averle completamente prosciugato il seno”; successivamente incontrano la sorella di Verona, la quale non riesce a mantenere una relazione sentimentale stabile e che vorrebbe parlare con la sorella della morte dei genitori che né l’una né l’altra hanno mai voluto accettare — tanto che Verona non vuole sposarsi con Burt proprio per questa mancanza. Proseguendo il viaggio visitano Hellen che, insieme al marito, professa teorie new age su come crescere i figli: dal non utilizzare il passeggino perché con esso rischiamo

di spingere i nostri bambini lontano da noi o dormire insieme ai figli in un unico grande letto senza nascondere effusioni coniugali nel corso della notte perché “non c’è nessun motivo per il quale i nostri figli non debbano vedere che i loro genitori si amano”. I nostri protagonisti giungono poi a Montreal dove abitano due loro vecchi amici circondati da una splendida schiera di figli, adottati, di tutte le età. All’apparenza questa potrebbe sembrare la famiglia che Verona e Burt hanno sempre cercato, tanto che in un primo momento decidono che quella è la città giusta; scopriranno poi, amaramente, che in realtà i loro amici sono infelici poiché non riescono ad avere figli loro, continuando ad accumulare anno dopo anno aborti spontanei che portano i due ad una implacabile tristezza e malinconia di fondo. L’ultima tappa sarà a Miami dal fratello di Burt lasciato senza preavviso dalla moglie con una figlia a carico alla quale non riesce a dire la verità; sarà proprio qui che Verona e Burt, insoddisfatti delle realtà che hanno trovato, decidono di non prende

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re più come riferimento altre persone, altre coppie o gli amici, ma, anzi, di contare su loro stessi e, con una sorta di “promesse matrimoniali” che fanno da surrogato a quelle vere che Verona vuole evitare, promettono l’un l’altro che qualunque cosa accada resteranno accanto e proteggeranno la vita che lei porta in grembo. Non è difficile, quindi, evincere il messaggio che il regista cerca di trasmettere: la società americana, specchio dell’intera civiltà occidentale, ha perduto ogni tipo di certezza e vive nello smarrimento esistenziale e spirituale. Ognuno ha bisogno di riferimenti da seguire e sembra che Verona e Burt, pur cercandoli, non riescano a trovarne nemmeno uno; ma è, infine, l’amore di qualunque tipo , inteso come dedizione, donazione di sé, che scoprono essere la base di ogni cosa, l’unico ingrediente che possa tenere tutto unito. Essere genitori non è un facile mestiere (quante volte me l’hanno ripetuto i miei!), bisogna imparare a crescere con la consapevolezza che si sbaglierà spesso ma in qualche modo si dovrà pur imparare. Ed è un po’ ciò che si sta perdendo ai nostri giorni: lo spirito malefico della IV Rivoluzione (quella culturale, iniziata con il Sessantotto) sta guastando la cultura e la morale europea violando la legge di natura e le-

galizzando aborti, divorzi, unioni libere, soppressioni di embrioni, eutanasie. Oggigiorno si vive nella paura di mettere al mondo un figlio, oppure di volerlo a tutti i costi anche ricorrendo alla procreazione assistita, nello stesso tempo c’è anche il rifiuto totale di una gravidanza ed il ricorso all’aborto. La vita che dovrebbe essere accolta ed amata, in quella “culla” che le è propria, come la famiglia, viene invece proprio da essa, in un certo senso, rinnegata; è un po’ ciò che possiamo riscontrare nel film, infatti vediamo genitori stanchi dei loro figli, genitori ai quali risulta difficile educare i propri bambini; ma c’è anche chi, come la coppia di Montreal, che nonostante le mancate gravidanze non si lascia scoraggiare e, anzi, adotta bambini di tutte le età bisognosi di aiuto e affetto. La maternità, che dovrebbe essere il momento più bello nella vita di due persone, inizia in questi tempi ed essere concepita come un peso o un qualcosa che, non essendo stato programmato, risulta ostacolare la libertà dei genitori. Anche la fede, elemento importante per la crescita educativa dei figli, non viene oramai più considerata, anzi, ad essa a volte viene riservato un posto molto marginale nella vita a due. Marito e moglie non hanno una vita di fede vissuta insieme, un momen-

Locandina del film to di preghiera in famiglia. A volte capita che uno solo dei coniugi si ponga il problema della religione, altre volte, invece, la religione e la fede non hanno proprio alcun posto nella vita familiare. Per formare una famiglia c’è bisogno di maturità e di consapevolezza di ciò che si costituisce, il matrimonio non deve essere una scelta qualsiasi, fatta per comodità o perché così fanno tanti, esso è una vocazione e, solo se vissuto come tale, dà luogo ad una famiglia che è più solida e cosciente del ruolo che occupa e del compito enorme che ha da svolgere; uomo e donna costituiscono col matrimonio anche una piccola chiesa domestica nella quale i figli potranno imparare ad amare e a vivere. Letizia Grassi

- Scheda film -

Burt e Verona

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Anno: 2009 Paese: USA Durata: 98 minuti Regia: Sam Mendes Interpreti: John Krasinski, Maya Rudolph, Carmen Ejogo, Catherine O’Hara Genere: Commedia


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Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. 2Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto. 3 Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; 4la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. 5Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. 6La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni. 7 Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, 8ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. 9E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli. 10Allora udii una voce potente nel cielo che diceva: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato 1

l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. 11 Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello e alla parola della loro testimonianza, e non hanno amato la loro vita fino a morire. 12 Esultate, dunque, o cieli e voi che abitate in essi (…).» (Apo 12, 1-12) Maria è Colei che brilla come la luna. Dicevano gli antichi padri che Lei non è il Sole, Cristo è il Sole, ma il Sole La illumina, come la luna, e brilla e nella notte si vede la Sua luce che squarcia il buio delle tenebre. La sua luce riflessa è quella di Cristo ma la Luna è bellissima… Maria brilla. Il capitolo 12 dell’Apocalisse realizza la profezia del libro della Genesi (3, 15) dove la Donna è nemica del serpente e lotta con

lui, con una inimicizia irriducibile: la stirpe della Donna combatte contro la stirpe del serpente e la sconfigge. Dice Dio al serpente: «15Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». Apocalisse 12 è riferito a Cristo, si parla infatti del Figlio della Donna, ma è anche a carattere mariano, perché la Donna vestita di Sole è la Vergine Maria, oppure la Chiesa. L’interpretazione è possibile per entrambe: Maria e la Chiesa, e non si può essere cristiani senza essere mariani e nel contempo senza amare la Chiesa… Noi ci sentiamo di dire: amiamo la Chiesa, e Maria ci insegna ad amarla perché Lei è la Madre della Chiesa e la cura e la protegge come una madre con i figli. Siamo generati alla vita soprannaturale nella Chiesa grazie al Battesimo e Maria è accanto al fonte, per accompagnarci nel cammino spesso arduo della vita. L’Immacolata, Colei che è senza peccato, è la Tuttabella. Grazie a Lei abbiamo il Verbo incarnato, senza di Lei solo la disperazione. Grazie a Lei il dono del Paradiso, senza di Lei è l’inferno… Il Drago dell’Apocalisse ha una violenza e una furia assassina perché sa che è giunta l’ora della resa dei conti. Satana è omicida fin dal principio e padre della menzogna (cfr. Gv 8, 44), astuto ma non forte come il Forte, Gesù Cristo. È la resa dei conti: sconfitto da Gesù ecco che il Demonio scatena il suo odio contro l’uomo, contro la Chiesa, contro tutta l’umanità. È giunto alla Rivoluzione in interiore homine, la IV Rivoluzione con la R maiuscola: Cristo sì Chiesa no; Dio sì Cristo no; Dio è morto è il grido empio; Dio, se c’è, non c’entra… A Satana non importa dei lutti, delle macerie, delle disperazioni profonde. È come un rullo compressore, sen-

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za pietà, perché non la conosce, non sa amare, non prova misericordia. Qualcuno dice che si può rileggere la storia della Chiesa e del mondo in prospettiva cristiana, come il progressivo infuriare di Satana e del suo potere. Ma c’è Maria, con le schiere angeliche, a fermare l’omicida: Michele e i suoi angeli combattono il drago che non prevalse e non c’è più posto per lui nel Cielo… (v. 7).

Ecco la grande battaglia di ogni giorno: la storia. Tra Dio e Satana. Per questo la Madonna è apparsa così spesso negli ultimi 200 anni e ha segnato la vita di milioni di persone, convertendone il cuore e dirigendolo verso il Bene. Maria è come un baluardo di misericordia contro Satana. Don Divo Barsotti (1914 - 2006) scrisse: «La Vergine è questa donna vestita di sole. Speculum justitiae. Se

LA VIGNETTA DI STEFANO CHIAPPALONE

la Chiesa tutta è il riflesso di Dio, il riflesso di Dio è anche la Madonna. Dio tutto si specchia in lei. È circondata di sole; la gloria di Dio l’ammanta. Chi la vede, vede in qualche modo la stessa gloria di Dio, perché tutta, ella, ne è rivestita». Don Gianni Poggiali

COS’è CUORE D’EUROPA? Cuore d’Europa è una rivista per giovani, scritta da giovani e fondata da Enzo Peserico (1959 - 2008) con un duplice scopo: il primo è aiutare i ragazzi che vogliono collaborare con noi ad appassionarsi, ad approfondire certe tematiche ed a condividere i propri interessi. Il secondo è porsi come uno strumento di formazione, un canale agile che i giovani possano usare per conoscere ed interrogarsi su argomenti e problemi che molto spesso nelle scuole vengono taciuti o stravolti. Cuore d’Europa perché il nostro è un cuore crociato, un cuore che ama e che combatte per quello che ama: l’Europa. L’Europa di oggi è gravemente malata, ma noi facciamo nostre le parole che lo scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton (1874 - 1936) riferiva alla patria: «quando si ama qualcosa, la sua gioia è una ragione per amarla e la sua tristezza è una ragione per amarla di più» (Ortodossia). Noi amiamo l’Europa e l’Europa ha significato perché è cristiana, e l’Europa di domani «o sarà cristiana oppure non sarà» (Mario Mauro). Noi vogliamo andare al cuore della nostra Europa. Il cristianesimo non è, e non può essere, una questione meramente privata, ma ha una dimensione pubblica e si incarna in una cultura. Solo questo secondo noi può sostenere la nostra società europea.

Fondatore: ENZO PESERICO Direttore: MICHELE BRAMBILLA Redazione: COSTANZA ALBE’, FRANCESCO ARNALDI, RICCARDO CANTONI, GIORGIO COLLEONI, CARLO MARTINUCCI, FEDERICO ROSA, MARCO SAVOIA Lay out: FEDERICO ROSA

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