LA FORNARINA DI RAFFAELLO di Ambra Grieco
Ti osserva con i suoi occhi grandi e colmi di una sensuale dolcezza, nell'estasi di un amore così passionale che nemmeno il trascorrere degli anni ha saputo far dimenticare. Un pudico nudo femminile sembra incarnare una fisionomia delicata di musa ispiratrice ed amante che Raffaello seppe cogliere allo sbocciare degli anni suoi più giovani e belli. In un contrasto di luce ed ombra il suo corpo si illumina di un bianco latteo, coperto dalle trasparenze di un leggero velo che sembra accarezzarle la pelle, accesa da un manto di color rosso carnale. L'eloquenza dei suo gesti sembra rievocare il mondo classico nella sublime eleganza di una Venere pudica la cui bellezza si accentua con lo splendore di una perla che scende delicata dal turbante che adorna i suoi capelli. E il bracciale, che come una ghirlanda di fiori avvolge il suo braccio sinistro dove la preziosità discreta di un nome inciso rispenderà nei secoli. Quel gioco ripetuto fra idealità e carnalità, nutrito profondamente dalla genialità di un artista che, come afferma il Vasari, fu “persona molto amorosa e affezionata alle donne” e ai “diletti carnali” si esprime nella costante diatriba fra mera carnalità e vero amore. Essa cela quel sottile e fragile segreto che l'artista “di bonissimo ingegno e dotato di spirito” ha voluto dispiegare con la presenza di minimi particolari che sfuggono con facilità ad un osservazione superficiale. Simbolo dell'unione fra uomo e donna ed emblema di assonanza indissolubile, il mirto, presente nella folta vegetazione che si nasconde dietro il corpo sinuoso de “La Fornarina” sembra voler alludere al rapporto d'amore fra l'artista e la donna raffigurata. Essa, fra il candore di un velo la cui trasparenza inquadra gentilmente i suoi piccoli seni e la nudità del suo ventre, indossa un anello che risplende nell'anulare della sua mano sinistra. Una fisicità non trattenuta, ma naturalmente viva dove si esplica sia l’aspetto fisico che la sua personalità ideale, il ruolo politico, sociale e culturale che incarna. Il ritratto esercita così un’influenza psicologica sull’osservatore, comunica con lui intrattenendo una sorta di intima conversazione come se l’osservatore sorprendesse il personaggio in un contesto privato e personale, privo di quell'ufficialità che il ruolo o la società le impone.
La forte somiglianza con il ritratto della Velata e con i volti di alcune Madonne e sante per le quali la donna fece da modella, spiega il forte desiderio da parte dell'artista di ritrarla più volte, di mantenerla sempre al suo fianco e quando non la ebbe, il suo desiderio fu così potente da distoglierlo dal suo lavoro. Il Vasari narra infatti che Agostino Chigi decise di ospitarla nella villa alla Longara per indurre l’artista ad ultimare i disegni nella Loggia di Psiche. E fu proprio con “La Fornarina” che Raffaello morì nel suo palazzo romano all'età di trentasette anni il giorno di Venerdì Santo, lo stesso in cui era nato, secondo la leggenda del Vasari.
JACOPO DA LENTINI, “Io m’aggio posto in core”
Io m’aggio posto in core a Dio servire, com’io potesse gire in paradiso, al santo loco ch’aggio audito dire, u’ si manten sollazzo, gioco e riso. Sanza mia donna non vi voria gire, quella c’ha blonda testa e claro viso, ché sanza lei non poteria gaudere, estando da la mia donna diviso. Ma non lo dico a tale intendimento, perch’io peccato ci volesse fare; se non veder lo suo bel portamento e lo bel viso e ’l morbido sguardare: ché lo mi teria in gran consolamento, veggendo la mia donna in ghiora stare.
Parafrasi Io ho fatto proponimento, promessa, di servire Dio, affinché io possa andare in Paradiso. A quel santo luogo di cui ho sentito parlare, dove dura ininterrottamente divertimento, gioco e riso. Non vorrei andarvi senza la mia donna, quella dalla chioma bionda ed il volto luminoso, la carnagione chiara poiché senza di lei non potrei aver gioia, essendo diviso dalla mia donna. Ma non lo dico (non sto dicendo tutto questo) allo scopo di voler peccare con lei, bensì soltanto perché vorrei vedere il suo comportarsi bene, la sua dignitosa condotta, e il suo bel viso e il dolce sguardo; considererei ciò una grande consolazione, vedere la mia donna nella gloria del paradiso.
Commento Jacopo da Lentini, detto il notaro da Dante, fu appunto notaio e funzionario della corte palermitana dell’imperatore Federico II di Svevia, definito con l’appellativo di stupor mundi, stupore del mondo, perché uomo di grande cultura. E proprio Federico, non a caso, si fece promotore di una poesia di corte. Egli stesso scriveva componimenti in rima, ed invitò a questa pratica anche i suoi stessi funzionari, amministratori, cancellieri, tra i quali spicca Jacopo da Lentini, considerato caposcuola di questa prima forma di letteratura italiana, che vide il suo apice tra il tra il 1230 e il 1250. In questo ventennio, i rappresentanti della poesia siciliana, cantarono in versi l'Amore cortese, riprendendo i temi tipici dalla poesia provenzale. C’è la figura della DONNA, con i suoi caratteri canonici:
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bionda di capelli e chiara di pelle
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lontana e inaccessibile
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raffinata nell’educazione e nel costume
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intelligente
E c’è poi L’AMANTE – il suo vassallo. Ha con la donna un rapporto di dedizione cavalleresca. Mantiene gelosamente custodito nel suo cuore questo amore come un sentimento prezioso che affina il suo animo.
In questo componimento di Lentini, ovvero il classico sonetto fatto di 14 versi divisi in quartine e terzine, di cui lo stesso Lentini è considerato l’inventore, il sentimento d’amore s’intreccia con il sentimento religioso. Croce, vi ha visto un forte contrasto. A suo parere, in questa poesia, si esprime il contrasto tra attrazione fisica e virtù morale, tra terra e paradiso. Se riflettiamo tuttavia sul fatto che i poeti come Lentini cantavano un amore impossibile per una donna, oggetto di desiderio irraggiungibile, potremmo affermare che tutti i riferimenti al paradiso, alla gloria celeste, sono utilizzati unicamente come metafora per esaltare la bellezza e le virtù della donna. Del resto, quando Lentini rappresenta il paradiso, lo fa paragonandolo alla corte terrena, perché lo definisce come il luogo dove in eterno c’è gioco, divertimento, riso, che sono i tratti caratteristici della corte feudale. Ed i richiami alla realtà terrena sono numerosi: dalla fisicità femminile della donna protagonista del sonetto: i suoi capelli biondi, il suo viso chiaro, lo sguardo dolce; alla preoccupazione del poeta che, nel precisare che non vuol commettere alcun peccato con la propria donna, e che quindi il suo desiderio umano non vuol prevalere sulla devozione a Dio, finisce per lasciare intendere esattamente l’opposto. In sostanza, c’è in questo sonetto una materializzazione del paradiso in funzione della donna, un paradiso terreno che eleva la donna e la rende ancora più irraggiungibile.
Un curiosità linguistica: la lingua in cui i documenti della Scuola Siciliana sono scritti, è il Siciliano Illustre, ovvero un siciliano nobilitato dalle lingue auliche del tempo: il latino ed il provenzale. Ma i componimenti dei poeti siciliani, sono arrivati fino a noi perché trascritti da copisti toscani che le raccolsero e le studiarono a fondo, e che, più o meno volontariamente, cercò di adattare il volgare siciliano a quello toscano. Ne sono testimonianza molti termini latini che sono stati toscanizzati, come ghiora anziché gloria, e il fatto che compaiano nei testi molte rime imperfette, e questo perché il siciliano ha cinque vocali, mentre il toscano ne ha sette, e nel suo tentativo di adattamento di un volgare all’altro, alcune rime variarono.
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