Onstage magazine febbraio

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febbraio 2014

ONSTAGE AWARDS

220mila voti e le preferenze della giuria hanno premiato il meglio di quanto visto sui palchi nel 2013. Ecco i vincitori

MAX PEZZALI

Riparte il tour dei record dell’ex 883. «Ho ancora paura di salire sul palco», ci dice lui. Onesto com’è, c’è da credergli.

+

anna calvi stef burns LIAM GALLAGHER PAOLA CORTELLESI backstreet boys

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bruce springsteen

Il Boss si è buttato in un esperimento mai tentato prima: un album di cover e materiale del passato. Perchè?

DEPECHE MODE BACK IN ITALY


CLUB DER VISIONNAIRES WWW.COLMARORIGINALS.IT





EDITO


RIALE Daniele Salomone

@DanieleSalomone

N

elle ultime cinque edizioni di Sanremo, il numero di spettatori medi per serata è aumentato dai 10.335.000 del 2009 agli 11.936.600 del 2013. Un aumento secco di un milione e seicentomila persone. Siamo lontani dai quasi 17 milioni del ’95, e pure dai 15 (in media) delle edizioni di fine anni Ottanta, ma il dato è significativo, anche perché segue il punto più basso del Festival: nel 2008 l’audience per serata non ha raggiunto i 7 milioni di persone. Che cosa ha invertito il trend? Che cosa è successo in questi anni? Sono esplosi i talent show. Se escludiamo il (sorprendente) primo posto di Vecchioni nel 2011, i vincitori delle ultime cinque edizioni sono usciti dai talent: Valerio Scanu, Marco Carta e Emma da Amici, Marco Mengoni da X-Factor. Non sto cercando di dire che Sanremo sia pilotato - quello è un altro discorso. Mi limito a osservare che è un format televisivo e in quanto tale ha bisogno del pubblico della televisione. In particolare gliene serviva uno anagraficamente nuovo, perchè i vari Al Bano, Toto Cutugno e compagnia bella sono diventati impresentabili per un fatto generazionale. Quel nuovo pubblico c’è, ed è quello che segue i talent show. Quello che si appassiona, legittimamente, ai concorrenti di un programma Tv e, altrettanto legittimamente, se li dimentica dopo l’ultima puntata/serata. Missione compiuta quindi, con buona pace di chi esalta le aperture artistiche degli ultimi tempi.

Ospitare una band come i Marta Sui Tubi o una star “alternativa” come Patti Smith (che ha duettato con i Marlene Kuntz nel 2012) a Sanremo non porta grandi benefici. Il pubblico della musica, di certa musica, è poco numeroso - in Italia - e sta da un’altra parte, non certo incollato su Rai Uno per una settimana. Non è questione di meglio o peggio, bello o brutto. È un fatto di spazi. Quello che va in onda a Sanremo deve funzionare in quel momento, in quel contenitore, per fare audience. Banale? Eppure leggendo i commenti ai nostri articoli e post, ho l’impressione che non tutti abbiano chiaro lo scenario. Al Festival gareggiano volti noti che cercano di diventarlo ancora di più, nei talent perfetti sconosciuti che diventano popolarissimi in pochi mesi. Si servono, tutti, della televisione. Poi si vedrà. Non è un caso se quasi nessuno dei vincitori di Sanremo degli ultimi 20 anni - eccetto Giorgia ed Elisa nei Campioni (1995 e 2001), Laura Pausini e Bocelli nelle Nuove proposte (andiamo indietro finto alla prima metà dei Novanta) - sia riuscito a costruirsi una carriera di altissimo livello. Non è un caso se la maggior parte dei vincitori di X-Factor e Amici siano caduti nell’anonimato. Mengoni (a proposito, Migliore Tour agli Onstage Awards 2013) ed Emma restano le eccezioni che confermano la regola: non è la musica a far funzionare Sanremo e i talent, ma la televisione. Fuori da quella scatola, le hit, il successo e il pubblico sono un’altra storia.

onstage febbraio 07


INDICE FEBBRAIO N°68

Onstage AWARDS 2013

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ONSTAGE AWARDS

DEPECHE MODE

Tutti i vincitori degli Oscar della musica live, premiati da 220.000 voti e dal giudizio della giuria.

Per celebrare il ritorno degli inglesi in Italia, ci siamo concentrati sul sodalizio tra Martin Gore e Dave Gahan.

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MAX PEZZALI Dopo 20 di carriera, Max ha ancora «paura di salire sul palco». Meglio così. Perchè? Leggete l’intervista.

style

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52

56

PAOLA CORTELLESI

BACKSTREET BOYS

winter breAk

Al cinema con il nuovo film di Carlo Verdone, l’attrice romana ci svela i retroscena. Della sua vita, però.

Sono tornati. Anzi, non se ne sono mai andati del tutto. In ogni caso, l’attesa per il nuovo tour è alle spalle.

Ci piace pensare che sia già tempo di tirare il fiato. Qualche consiglio se state pensando di andare in montagna.

08 onstage febbraio


L’I N TE LLI GENZ A È UN’ AR MA JackRyan-liniziazione.it

/liniziazione


INDICE

FACE TO FACE

24

26

ANNA CALVI

MAX GAZZè

JUKEBOX

19 20 22 23 24

WHAT’S NEW

63 68 70 72

LIAM GALLAGHER FASO THE SMITHS EDITORS

CINEMA GAMES TECH

DAVIDE TOFFOLO

10 C0SE

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MUSICA

coming soon

74

DOOKIE

ELISA

Onstageweb.com Speciale Sanremo 2014 Anche quest’anno il Festival di Sanremo monopolizzerà l’attenzione di media e pubblico per tutto il mese. La manifestazione è fissato tra il 18 e il 22 febbraio, ma sul nostro sito daremo da subito ampio spazio all’evento pubblicando anticipazioni, speciali dedicati alla storia della kermesse e le

interviste ai cantanti protagonisti. Nella settimana clou saremo sul posto e seguiremo non solo le esibizioni ma anche tutto quanto ruota intorno a quel gigantesco carrozzone che è il Festival della Canzone Italiana, giunto quest’anno all’edizione numero sessantaquattro. Stay connected!

foto di Roberto Panucci

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OSPITI febbraio 2014

Anton Corbijn

Marina Alessi

Athanasios Alexo

Impossibile elencare tutte le star ritratte dal fotografo olandese, che ha anche diretto oltre 60 videoclip e due film,The American e Control. Sue le foto dei Depeche Mode per la coverstory di questo numero.

Dopo essersi trasferita a Milano si è specializzata in ritratti di attori di cinema e teatro, usando ogni tanto uno dei rarissimi esemplari di Polaroid Giant Camera. Sue le foto di Paola Cortellesi di questo mese.

Il fotografo, di origini greche ma residente a Milano, scrive nella sua biografia che crede nel potere della semplicità delle immagini. Ha scattato le foto di Max Pezzali che trovate su questo numero.

Roger Deckker

Matt Spalding

Charlie Rapino

Stefano Verderi

Si definisce solo “un uomo con una macchina fotografica”, ma la lista di soggetti ritratti nel mondo dello spettacolo è lunghissima. Tra loro anche Anna Calvi, come potete vedere su questo numero di Onstage.

Nato e cresciuto a Derby, UK, il giovane fotografo ama ritrarre animali e le band del circuito alternativo inglese. Ha scattato anche per gli Editors, come potete ammirare qualche pagina più in là.

Emigrando in Inghilterra ha trovato l’America (ma pure in Italia partecipando ad Amici come coach). Produttore dance e pop, da due anni butta benzina sul fuoco per noi dalla sua roccaforte: Londra.

“The Wizard” è il chitarrista de Le Vibrazioni. Diplomato al Musicians Institute di Los Angeles, ha fondato la Basset Sound nel 2010 per produrre nuovi artisti. Ci parla di affascinanti suggestioni retrò.

74 anni fa

Registrazione al Tribunale di Milano n° 362 del 01/06/2007

Direttore editoriale Daniele Salomone d.salomone@onstageweb.com

Hanno collaborato Blueglue, Antonio Bracco, Luca Garrò, Stefano Gilardino, Massimo Longoni, Alvise Losi, Claudio Morsenchio, Elena Rebecca Odelli, Gianni Olfeni, Marco Rigamonti, Marta Stone.

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Filiale di Roma Paola Marullo p.marullo@onstageweb.com

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12 onstage febbraio

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50 anni fa i Beatles sbarcavano in America, accolti da un grande folla - per lo più ragazzine - radunatasi al JFK di

New York. Era il 7 febbraio 1964. Da una settimana, I Want To Hold Your Hand era prima nella classifica di Billboard, eppure nessuno dei Fab Four immaginava quello che sarebbe accaduto. «Pensavamo di vedere solo uno spiraglio di quel mondo - dirà poi John Lennon - invece fu una luce talmente abbagliante che ne fummo storditi». Due giorni dopo, i Beatles si esibivano nella prima di tre apparizioni all’Ed Sullivan Show: 73 milioni di persone rimasero incollate davanti alla tv. Quei giorni non segnarono solo l’inizio della “British Invasion”: furono un evento epocale, destinato a rivoluzionare il mondo della popular music per sempre. D.S. 14 onstage febbraio


(United Press International, photographer unknown)

onstage febbraio 15


40 anni fa

nasceva Robert Peter Williams. Era il 13 febbraio 1974. Sedici anni dopo, Robbie entrava nei Take That, restandoci il tempo di pubblicare tre album e diventare ricco e famoso. Quando, nel ’95, annunciò la sua volontà di proseguire da solo, qualcuno sorrise: non era certo lui il più acclamato della boy band. E invece sarà l’unico in grado di costruirsi una (grande) carriera solista, tanto da potersi permettere – in base all’umore e alla convenienza - temporanee scorribande con i Take That da protagonista assoluto. Robbie Williams ha venduto oltre 80 milioni di album, ha piazzato innumerevoli hit in testa alle classifiche, ha suonato e suona negli impianti più grandi del mondo - nel 2006 sono stati staccati 1,6 milioni di biglietti in 24 ore per i suoi concerti. È una delle ultime stelle del music business, con il dovuto corredo di dipendenze e depressione. Un grande showman, un intrattenitore di quelli che nascono una volta ogni tanto. G.O.

foto di Francesco Prandoni

16 onstage febbraio


onstage febbraio 17



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JUKEBOX a cura di Francesca Vuotto

COME TI SEI

RIDOTTO

LIAM

Tornano in Italia i Beady Eye di Liam Gallagher. Proprio guardando alle location in cui sono in programma i concerti, è impossibile non notare come la parabola dell’ex cantante degli Oasis continui a essere in fase discendente. di Tommaso Cazzorla foto di Roberto Panucci

N

on c’è da stupirsi se la stampa inglese ama tanto i fratelli Gallagher e in particolare Liam. Sono una fonte inesauribile per chi si scrive di musica. Se un pomeriggio non succede nulla di eccitante, nessuna pubblicazione, nessun concerto e magari i Grammy sono lontani, il giornalista di turno prende il telefono e chiama casa Gallagher: «Liam, dimmi cosa ne pensi dell’ultimo singolo dei Daft Punk», «Liam, hai visto cosa ha fatto Damon Albarn?», «Liam, raccontami un po’ di Kurt Cobain». Basta mettere un po’ d’ordine al florilegio d’improperi e “fuckin’idiot” che ne deriva e il pezzo è servito. Lo scorso giugno il più piccolo dei fratelli se l’è presa con Robbie Williams, apostrofandolo con un «grasso idiota del ca**o». La sua “colpa”? Suonare per tre sere di fila allo stadio Etihad di Manchester (60.000 posti), mentre i Beady Eye, proprio nella loro città, si esibivano nel più modesto Ritz (1.500 posti). Ma questa è solo una delle tante scaramucce. Per Liam il dato è allarmante: con la band in cui ha raccolto gli ex Oasis orfani di Noel, suona in posti ben più piccoli di quelli a cui era abituato. Cioè, ha perso pubblico. Basta gettare un occhio all’entità dei loro live in Italia. Da noi i Beady Eye suoneranno al Live Club di Trezzo (Milano) e all’Orion di Ciampino (Roma) il 15 e il 16 di febbraio. Ottimi club, ma si tratta di capienze - intorno ai 1000 posti - neanche lontanamente paragonabili a quelle cui erano

abituati sotto la vecchia ragione sociale. In Ita- dei Gallagher ha cominciato a camminare con lia, gli Oasis, si esibivano nei palazzetti o come le sue gambe: i risultati, almeno per ora, sono headliner nei festival, vedi l’Heineken Jammin’ piuttosto modesti. Fa quasi tenerezza il tentativo di risollevare Festival del 2005. Com’è successo? La risposta, inaspettatamente, ce la fornisce le sorti dei Beady Eye usando come esca alcuni proprio Liam: «Il Ritz è il livello a cui siamo brani degli Oasis, provvidenzialmente aggiunti e a cui staremo fino a che la gente non tirerà in scaletta. «Hanno il mio permesso di suonafuori le sue ca**o di dita e comprerà il nostro re le canzoni che ho scritto» ha commentato fottuto disco». Eh già. Liam può andare in giro impassibile Noel. Allora Liam ci prova, parquanto vuole a dire che i Beady Eye sono «la la di reunion sfruttando come occasione il migliore rock’n’roll band che si possa incontrare in giro» ma alla «Suoneremo in posti piccoli fino a che la gente fine della fiera a decidere le sorti non tirerà fuori le sue ca**o di dita e comprerà di un disco, e di un gruppo, è il il nostro fottuto disco» pubblico. E anche se nell’ultimo album BE, aiutati da Dave Sitek dei Tv On The Radio, è stato fatto un ottimo ventennale di Definitely Maybe, ma sempre lavoro di arrangiamenti e di suoni, mancano con la strafottenza di chi sembra stia facendo quei ritornelli che si incidono nella mente e un favore, piuttosto che riceverlo. Il primogenel cuore della gente. Proprio come quelli degli nito non ci pensa nemmeno, rifiuta oltre 23 Oasis, che, guarda caso, nel 90% dei casi era milioni di euro di offerta e ribadisce che non Noel a scrivere. «Semplicemente non potevo vuole più avere niente a che fare con il fratellino. lavorare con Liam un giorno di più» ha scritto Non restano molte alternative al povero Liam: il fratello maggiore nella lettera di scuse ai fan che si abitui a suonare in posti piccoli, sempre per aver messo fine al gruppo, quella letale sera che non riesca a buttare fuori qualche canzoparigina del 28 agosto, pochi giorni prima di ne all’altezza del suo glorioso passato. Buona un concerto a Milano. È da lì che il più giovane fortuna.

onstage febbraio 19


JUKEBOX

Di Charlie Rapino

AIUTIAMOLI A VINCERE Faso, bassista degli Elio e Le Storie Tese, ci racconta del progetto benefico Nuvole di ossigeno, brano inciso da un gruppo di ragazzi in cura presso l’Istituto dei Tumori di Milano. di Francesca Vuotto - foto di Matteo Volta

N

o, il solito lentone strappalacrime no, mi rifiuto di farlo. Era questo l’unico pensiero con cui Faso ha varcato la soglia dell’Istituto dei Tumori di Milano quando ha incontrato per la prima volta alcuni dei ragazzi in cura, per aiutarli a comporre la canzone Nuvole di ossigeno. Il brano, realizzato in collaborazione con l’Associazione Bianca Garavaglia e la Fondazione Magica Cleme, è in vendita negli store digitali e presso le Feltrinelli e, ascoltandolo, si può ben dire “missione compiuta”: emergono tenacia, speranza, consapevolezza, pazienza. Gli ingredienti con cui questi giovani affrontano ogni giorno la loro battaglia. «E’ stato scritto di pancia: ognuno ha contribuito con quel che d’istinto gli sembrava descrivesse meglio i suoi sentimenti, un’immagine, una frase, un accenno di melodia. Poi quando il patchwork ha preso forma siamo andati in studio» ci racconta Faso. Lì al gruppo - The B.Livers, così si sono chiamati - si sono unite altre due facce note della banda degli Elii, Cesareo e Paola Folli. «Paola ci ha

20 onstage febbraio

*

LONDON CALLING

dato una mano come vocal coach. È nata una vera e propria sfida, maschis vs femmines. Ci hanno dato del filo da torcere le ragazze! Non è stato facile rompere il ghiaccio, ma alla fine chi aveva giurato che non avrebbe toccato il microfono si è ritrovato a essere una delle voci di punta». Nuvole di ossigeno si propone di raccogliere fondi per la realizzazione di nuovi progetti dedicati ai pazienti più giovani dell’ospedale, ma anche di sensibilizzare i loro coetanei. «Spesso sottovalutano i sintomi delle malattie per noncuranza, per non avere i genitori “addosso”, perché è facile scambiare un mal di testa per un postumo del sabato sera. E si perde tempo prezioso». In Italia infatti il 70% dei giovani riesce a guarire, ma la percentuale sarebbe più alta se si agisse più tempestivamente. Mobilitiamoci allora per dare una mano concreta a questi ragazzi e fare in modo che tanti altri possano vincere la loro guerra, perché, come cantano loro stessi, “la cosa più bella che si possa provare è la consapevolezza di avere un futuro ed esserne padrone”.

DRAMMI AL GRAMMY

H

o sempre dato un consiglio a chi non ha voglia di lavorare: entrate nel settore discografico. Prendiamo i primi mesi dell’anno: s’inizia coi Grammy, poi c’è il Midem in Costa Azzurra (una specie di convention per gli operatori che in realtà è una scusa per schiantarsi di champagne al Carlton sulla Croisette), si prosegue con i Brit Awards e poi con Sanremo. Se per caso avete il culo di lavorare con un Morricone vi ritrovate pure agli Oscar. Il tutto annegato nei cocktail a base di Martini, magari con una Amy Addams che ti strizza l’occhio. E ti pagano pure! Niente male!… 20 anni fa. Purtroppo, per colpa di qualche smanettone è cambiato tutto: niente più party al Beverly Hills Hotel e giù di acqua naturale. I Grammy di quest’anno riflettono la noia di un’industria che non si diverte più: i giovani di oggi si sono sparati troppa Tv in vena e pensano che basti una grande produzione per fare il miracolo. E quindi ecco l’esibizione pallosa e autoreferenziale di Beyoncè (qualcuno vuole dirle che quel pezzo NON è una hit?), i premi a Lorde - una Cristina D’Avena del nuovo secolo, ma più noiosa (è questo il meglio che questa generazione sa dare?) - l’imbronciata Taylor Swift in prima fila che insiste a fare la cool a tutti i costi. Ok, we got it, sei la numero uno. Ma non sei Bonnie Raitt, baby. E poi perchè tutti duettano? Nessuno ha le palle per cantare da solo? Per svegliarci dal torpore c’è voluta l’esibizione dei Daft Punk. Non tanto perché hanno suonato l’unico pezzo decente del 2013. Non tanto perché c’erano Pharrell e Stevie Wonder (e mi sembra di avere visto alla batteria Omar Hakim dei Weather Report, ma tanto non sapete chi sono). Valeva la pena seguire Get Lucky per quel fottuto genio di Nile Rodgers e ascoltare il riff senza il quale dei Daft Punk manco si sarebbe parlato l’anno scorso. Quella cosa lì si chiama MUSICA! Altro che Beyoncè. Beyoncè è roba da democrazia… roba da repubblica.


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JUKEBOX

GLI SMITHS APPESI AL MURO

Milano ospita un’esposizione dedicata allo storico gruppo inglese: in mostra i poster promozionali degli album di MorrisSey&co.

C

osa non si fa per il proprio cantante o gruppo preferito. C’è chi macina chilometri per andare a un concerto, chi spende una fortuna per seguire un tour intero, chi tenta di imitarne il look e chi, addirittura, ricorre alla chirurgia estetica per assumerne le sembianze. E poi c’è chi, come lo spagnolo Marc Capella, dedica dieci anni della sua vita ad una ricerca paziente e meticolosa che gli permetta di possedere una collezione completa che riguardi il suo beniamino. Nel caso di Marc, si tratta dei poster promozionali dei dischi degli Smiths che le discografiche Rough Trade e Sire hanno distribuito in edizione limitata ai negozi di dischi durante i quattro anni di attività della band. Il risultato delle sue fatiche è visibile nella mostra The Smiths In Posters, che, dopo aver fatto tappa a Barcello-

na e Manchester, dall’1 al 22 febbraio arriva a Milano, presso il Ristorante San Vittore (Viale Papiniano, 12). Venti i manifesti esposti, il cui artwork, come per le copertine gli album, è ispirato a immagini particolari: scatti famosi - come quello dal documentario Nell’Anno del Maiale sulla guerra in Vietnam per la cover di Meat Is Murder - o foto di personalità del cinema, della letteratura e della musica (James Dean, Elvis e Truman Capote). Pezzi dal valore inestimabile, per il loro proprietario e per chiunque veneri il quartetto inglese. F.V.

HOT LIST I 10 brani più ascoltati in redazione durante la lavorazione di questo numero

DAL TRAMONTO ALL’ALBA

Passenger Let Her Go (All The Little Lights, 2010)

Torna il 15 febbraio MI AMI ANCORA, evento milanese un po’ party e un po’ festival.

Eminem feat. Rihanna The Monster (MMLP2, 2013)

10

ore consecutive di sangue caldo e dancefloor al prezzo onesto di 15 euro. Queste le invitanti carte con cui si presenta la quarta edizione del MI AMI ANCORA, la versione invernale dell’estivo MI AMI. Il prossimo 15 febbraio torna a dare il suo contributo musicale e festaiolo alla movida milanese dagli East End Studios di Via Mecenate, che apriranno i loro cancelli alle 18.00 per non chiuderli prima di notte fonda. Per la gioia degli aficionados e di chi sperimenterà sulla propria pelle per la prima volta questo festival, saranno due i palchi su cui si avvicenderanno le 15 band protagoniste della serata, tra cui spiccano i nomi di The Bluebeaters e I Cani. E finiti i concerti, si potrà ascoltare (e ballare) ancora tanta buona musica con i dj set di chi si alternerà in consolle, o fare un salto nell’area relax per tirare un po’ il fiato, mangiarsi uno spuntino o dare un’occhiata al merchandise in ven-

22 onstage febbraio

dita. Per poi tornare a scatenarsi in pista e non fermarsi più fino alle prime luci dell’alba. F.V.

George Ezra Budapest (Did You Hear The Rain, 2012) Nick Cave & The Bad Seeds Mermaids (Push The Sky Away, 2013) AC/DC Highway To Hell (Highway To Hell, 1979) Disclosure feat. Sam Smith Latch (Settle: The Remixes, 2013) Notwist Kong (Close To The Glass, 2013) Rudimental Feat. Elle Eyre Waiting All Night (live) (BBC Radio 1’s Live Lounge, 2013) Editors Smokers Outside the Hospital Doors (An End Has A Start, 2007) Marlene Kuntz Mala mela (Catartica, 1994)


QUELLI DEI GIORNI MIGLIORI

Dopo quello che aveva tutta l’aria di essere un periodo di declino, gli Editors hanno rialzato la testa. Non a caso, dopo il concerto a Milano dello scorso ottobre, gli inglesi tornano in Italia. di Marco Rigamonti - foto di Matt Spalding

N

el 2013 gli Editors sono stati headliner ai festival di Werchter, in Belgio, e Lowlands in Olanda e hanno partecipato ad altri 25 raduni estivi - obbligatorio citare Glastonbury. Hanno poi proseguito con il tour post The Weight Of Your Love girando mezza Europa (compreso il concerto di Milano a ottobre), dopodiché hanno dedicato l’intero mese di novembre alla loro amata Inghilterra. Si sono presi una meritata pausa in concomitanza con l’uscita del terzo singolo Honesty, ma ora sono già tornati in pista, e tra la decina di nuove date annunciate per il tardo inverno 2014, c’è anche Bologna (il 28 febbraio). Il bis della band capitanata da Tom Smith è piuttosto sorprendente, specialmente considerando che il concerto, inizialmente previsto al Paladozza, è stato spostato all’Unipol Arena, che ha il doppio della capienza. Considerata la non trascurabile percentuale di date sold out registrate nel corso del tour, si tratta di una conferma bella e buona della fase positiva attraversata dagli inglesi. L’entusiasmo del pubblico è probabile conseguenza di quattro anni di astinenza. Dopo un avvio di carriera folgorante cominciato con il debutto del 2005 (il sorprendente The Back Room, che aveva spinto la stampa specializzata ad azzardare un paragone rischioso con i Joy Division) e proseguito con la doppietta composta da An End Has A Start e In This Light And On This Evening (album del 2007 e del 2009 che li hanno visti crescere notevolmente a livello di popolarità), era subentrato un periodo di confusione e poca lucidità. La svolta sintetica del terzo album non era stata metabolizzata in maniera univoca: se da una parte una hit come Papillon aveva contribuito ad accrescere la loro notorietà facendogli scalare classifiche ovunque, una buona fetta dei fan era rimasta spaesata di fronte al cambio di suono, forse troppo repentino per apparire completamente naturale. La conferma che ci fosse qualcosa che non girava a dovere è arrivata con una serie di dichiarazioni poco chiare (tipo quella del 2011 di Smith, che promette un nuovo al-

bum piuttosto “elettronico”) e soprattutto con la dipartita dello storico chitarrista Chris Urbanowickz, che ha lasciato il gruppo per divergenze musicali. The Weight Of Your Love vede la luce soltanto nel 2013. È un passo indietro in termini di sound: tornano a vincere le chitarre e assumono un ruolo di rilievo gli archi, che accompagnano una scrittura più classica e in un certo senso semplice. Ci voleva: per ripartire ogni tanto conviene resettare, evitando di osare a tutti i costi o e puntando invece sulle certezze. Flood, per esempio. O la capacità di scrivere brani intensi, caratteristica che da sempre fa parte del DNA della band di Bir-

mingham. Che a trainare sia il basso galoppante di Sugar o il riff di A Ton Of Love, che a colpire sia la dolcezza di Nothing o l’energia di Formaldehyde il succo non cambia: ci sono le melodie, c’è l’arrangiamento e l’interpretazione è quella dei giorni migliori. E nonostante la critica mediamente non abbia accolto il loro ritorno con grande calore, a giudicare da quanto si è visto a Milano lo scorso ottobre i cinque (perché ora si è aggiunto anche il tastierista e polistrumentalista Elliott Williams) sembrano particolarmente ispirati: sia i pezzi tratti dall’ultimo album che i tuffi nel passato sono stati riprodotti con grandissima enfasi, e Tom Smith dal vivo è un vero spettacolo.

onstage febbraio 23


JUKEBOX

*

RETROMANIE di Stefano Verderi

AUTOANALISI A FUMETTI

Davide Toffolo ritorna con uno dei suoi lavori più belli di sempre, l’autobiografia a fumetti Graphic Novel Is Dead, che a febbraio presentA al pubblico con uno spettacolo speciale. di Stefano Gilardino

L’

avevamo lasciato alle prese con il tour più importante della sua carriera, quando i Tre Allegri Ragazzi Morti avevano supportato Jovanotti in alcuni stadi italiani, durante la scorsa estate. Un riconoscimento mainstream per un gruppo fieramente indipendente e punto d’inizio, tra l’altro, della graphic novel di Davide. Proprio alcune fotografie del backstage di una di quelle date serve come introduzione alla storia: «L’effetto è volutamente straniante, ma l’idea di scrivere una mia autobiografia molto particolare è nata anche come effetto di quel tour. È stato un momento molto importante per i TARM, sono felice di aver conosciuto Lorenzo, ho guadagnato un amico con cui mi sento spesso e volentieri e questo traguardo è una bella soddisfazione». Graphic Novel Is Dead (Rizzoli Lizard, 16 Euro) è un romanzo a fumetti, una seduta di autoanalisi del suo autore, che ha messo a nudo parecchi aspetti personali, senza imbarazzi e, spesso, con molta delicatezza. Soprattutto nei rapporti personali, come quello con il padre recentemente scomparso, con la figlia e con le donne. «La presenza di mio padre è molto importante, il mio rapporto con lui è stato com-

24 onstage febbraio

plicato ma, come spesso accade, quando viene a mancare una persona così importante, ci si trova a fare i conti con una mancanza impossibile da colmare. Come quella di mia figlia Zoe, una presenza/assenza nella mia vita spesso insopportabile. Il rapporto con le donne, infine, è esattamente come viene descritto nel libro, complicatissimo, ma irresistibile». A differenza delle solite presentazioni nelle librerie, El Tofo parlerà del suo nuovo lavoro in alcuni club selezionati, accompagnandosi con la fida chitarra e allestendo uno spettacolo inedito per lui. «Ho «Questa strana autobiografia è un

effetto del tour con Lorenzo. Sono felice di averlo conosciuto, ho guadagnato un amico» voluto proprio puntare su altre cose, quasi da intrattenimento puro: parlerò con il pubblico, canterò alcune canzoni, mi lascerò ispirare dal vate Andy Kaufman, presente anche nella graphic novel come sorta di spalla/guida al pari di Pierpaolo Pasolini». Con figure del genere a vegliare su di lui, sarà difficile sbagliare.

(ANCHE) QUESTA È L’ITALIA Il Festival di Sanremo andrebbe rispettato e osservato (se non vogliamo usare la parola “ammirato”) come un monumento nazionale. Non certo per il suo carattere particolarmente “ingessato”, ma per il fatto di rappresentare, ancora oggi, la voglia di rinascita e di benessere che pervadeva il nostro Paese dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Del Festival cominciò infatti a parlare, dopo la fine del conflitto, una sottocommissione culturale del Comune di Sanremo, che cercava un modo per rilanciare il glorioso Casinò, rimasto chiuso durante il periodo bellico. Ne parlavano personaggi illuminati, con tanta voglia di fare, per ricostruire l’Italia e competere culturalmente col mondo. Rambaldi, Nizza, il direttore del Casinò Busseti e poi Razzi, direttore artistico della Rai, sono i padri fondatori di quel concorso canoro che ancora oggi guardiamo. Scoprirne le origini potrebbe farcelo apprezzare di più, dato che sono già troppi i motivi che ce lo fanno mal digerire, primo fra tutti il fatto di non essere mai una vera fotografia della musica in Italia. Come la storia ci ha dimostrato, quelli che vendono dischi, che fanno lunghi tour e soprattutto che hanno un pubblico davvero numeroso, sono raramente tra i big del Festival, men che meno tra le nuove proposte e quasi mai tra chi vince. Le eccezioni confermano la regola. Eppure Sanremo rimane ad oggi l’unico programma musicale televisivo di interesse nazionale dove si suona dal vivo e si presentano canzoni originali. L’unico che riesce ad avere un importante share televisivo (12 milioni di spettatori in media a serata nel 2013). Nel 1951 i cantanti che si esibivano erano solamente tre, le canzoni in gara venti. Avete capito bene: cantavano 6 o 7 canzoni ciascuno. Insomma vinceva l’interprete, ma era la canzone a fare la differenza. Voglio sperare che sia ancora così. Che vinca veramente la canzone più bella, senza che ci siano di mezzo gli interessi delle multinazionali discografiche, i soldi, la politica, le spinte, i televoti falsati. Insomma senza tutto ciò che spesso ci fa dire: ecco, questa è l’Italia.


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FACE TO FACE

ANNA calvi di Marco Rigamonti foto di Roger Deckker

si con lode all’Università di Southampton) e per assimilare il talento di un eclettico elenco di musicisti e interpreti (da Debussy a Edith Piaf, dai Rolling Stones a Nina Simone). Forse il clamore con cui il suo debutto è stato accolto poggia le basi proprio su questo misto di maturità, competenza tecnica ed esperienza accumulata negli anni. A ottobre del 2013 è uscito il suo secondo lavoro, toccante quanto l’esordio e spinto da una dose maggiore di sicurezza e intraprendenza. Anna Calvi - timida e riservata quando si tratta di parlare della sua musica, un leone quando calca il palcoscenico e si esprime come sa - ci ha parlato della genesi di One Breath.

lla faccia delle giovani promesse e dei debuttanti minorenni che i media amano sbattere in prima pagina, Anna Margareth Michelle Calvi (originaria di Twickenham, una cittadina sul Tamigi) se l’è presa comoda. Ha esordito ufficialmente nel mercato discografico all’età di 30 anni, e stando alle sue parole fino a poco tempo prima soffriva di un blocco emozionale che le impediva di cantare perfino sotto la doccia. Il primo quarto di secolo della sua vita l’ha sfruttato per studiare musica (laureando-

Nel 2011 sei riuscita a mettere d’accordo pubblico e critica, cosa che ora si sta ripetendo con One Breath. Qual è il segreto? Non ne ho la più pallida idea! Tutto quello che faccio è scrivere canzoni con passione, cercando di esprimere quello che sento attraverso uno stile musicale che amo. A pensarci bene, forse il segreto è proprio questo: condividere ciò che si ha dentro, senza filtri e senza paure. Il resto viene da sé. L’inaspettato successo del primo disco ha cambiato il tuo approccio alla scrittura? Quali sono le analogie e le differenze tra i due album?

La songwriter inglese è uno dei migliori talenti emersi negli ultimi anni. Ci parla del suo nuovo disco e dei cambiamenti dopo il successo dell’esordio.

A

A livello pratico per completare il primo album ci ho messo tre anni, perché avevo bisogno di molte pause. One Breath invece l’ho registrato in poco meno di due mesi. E’ stato tutto più spontaneo, ma non credo che il successo abbia avuto un ruolo in queste diverse tempistiche: penso che ci sia stata una progressione naturale, tutto qui. E non mi sento di mettere i due dischi a confronto, rappresentano diversi momenti della mia vita che ho semplicemente documentato in musica. Deduco quindi che fossi piuttosto arrabbiata quando hai scritto Love Of My Life. Non la definirei rabbia: quella canzone per me descrive il concetto di perdita, che è una sensazione che può essere davvero brutta. è questo il motivo per cui ho sentito il bisogno di farla suonare così cruda e distorta. «Tutto quello che faccio è scrivere canzoni con passione, cercando di esprimere quello che sento attraverso uno stile musicale che amo» Insomma, a livello di testi One Breath è un disco molto personale. Senza dubbio. Il tema principale è il controllo, e soprattutto la perdita del controllo. Ha a che fare con la transizione dal passato al presente, con quel misto di paura e speranza che accompagna i cambiamenti. Si prende un bel respiro, e poi si va. Musicalmente hai ascoltato qualcosa negli ultimi tempi che ti ha in qualche modo colpito al punto di diventare fonte d’ispirazione? No, i miei punti di riferimento non sono cambiati. Ma ovviamente ho apprezzato molto alcuni dischi che sono usciti di recente: mi vengono in mente Push The Sky Away di Nick Cave e Cupid Deluxe di Blood Orange. E’ cambiato qualcosa nel modo in cui affronti il palcoscenico in questi anni? In realtà sì: mi capita più spesso di improvvisare. Chiaramente c’è sempre una scaletta, ma se prima rispettavo il programma dall’inizio alla fine, ora ogni tanto succede che mi venga voglia di deviare leggermente dal copione.


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FACE TO FACE

STEF BURNS In Italia è noto soprattutto come “il chitarrista di Vasco”. Ma Stef è uno dei migliori musicisti rock in circolazione e ha anche una vivace carriera solista di Luca Garrò

I

n pochi forse si aspettavano un disco così da te: strumentali ridotto all’osso, grandi canzoni rock e un’energia travolgente. In più con una band tua! È la svolta della carriera? In realtà credo che il processo sia nato già con il mio disco precedente, World, Universe, Infinity. Se ricordi bene lì c’era Begin, il brano che secondo me collega quella mia parte di carriera a questa. Fin da piccolo ho sempre sognato di

suonare in una band mia, come potevano essere i Beatles. Poi crescendo il mio desiderio si è spostato su gruppi come Deep Purple o Led Zeppelin, ma il sogno rimaneva lo stesso: entrare in un garage con degli amici e dare vita ad un gruppo. Per una serie di circostanze e soprattutto per il lavoro di turnista non è mai potuto accadere, fino ad ora. In effetti sembra che il primo singolo scelto, What Doesn’t Kill Us, rispecchi questo concetto: è inutile aspettare che le cose accadano, meglio mettersi in gioco e rischiare... Esattamente. Il concetto è proprio quello ed è una cosa in cui penso possano ritrovarsi tutti. Alla fine, il più delle volte, non facciamo delle cose per paura di fallire, finendo per fallire comunque. Ho capito che è meglio buttarsi e rischiare una brutta figura, ma non avere rimpianti. Mi sono sempre detto che quando sarei diventato grande avrei messo in piedi un progetto del genere: penso di esserlo diventato (ride, ndr)! Anche se vedo la mia carriera come una chiara evoluzione, in un certo senso possiamo definirlo il mio debutto solista. Anche musicalmente credo che quel pezzo sia una buona summa del disco. Si colgono tutte le influenze che hanno caratterizzato la

tua vita. E io ci sento molto i Foo Fighters... Sì, anche se l’album è così sfaccettato che non è facile riassumerlo in pochi minuti. Diciamo che secondo me i Foos sono il gruppo di american rock migliore degli ultimi vent’anni: li ho ascoltati così tanto che probabilmente ne ho subito l’influenza. Io però ci sento anche i Beatles, i Queen e, a livello ritmico, i Coldplay. Volevo un disco suonato, con un’attitudine live molto forte e con la batteria in primo piano. Ho lavorato tantissimo sulla mia voce: ho cercato per mesi uno stile e un range adatto

«Spesso non agiamo per paura di fallire, finendo per fallire comunque. È meglio buttarsi e rischiare una brutta figura, ma non avere rimpianti»

alla mia vocalità. Non è stato facile, perché ho sempre scritto pezzi pensando a quella di altri. Se cantassi dei brani che ho composto per Vasco sarebbe un vero disastro, credimi. Ho fatto fatica, ma alla fine ho trovato la mia voce. Parlando di Vasco, il tuo suono ha influenzato moltissimo il suo e quello della band da quando ne fai parte. In che modo lui ha influenzato te? Dall’interno non riesco bene a percepire quanto io possa aver cambiato il suo sound, ma di sicuro ogni musicista finisce per cambiare gli equilibri all’interno di un gruppo. Negli ultimi vent’anni ho cercato di migliorarmi in continuazione e mi accorgo delle differenze, soprattutto in termini di melodia: credo che Vasco da questo punto di vista abbia un talento straordinario, in grado di influenzare chi divide il palco con lui. Tempo fa, senza che io facessi il tuo nome, Alice Cooper mi confessò di avere un rimpianto: non averti più nella sua band. Dice che sei stato tra migliori musicisti con cui abbia mai suonato. Davvero ha detto una cosa del genere? Tipico di Alice: credo sia il più grande gentleman della storia del rock. Lavorare con lui è stata una delle cose più incredibili che potessero accadermi nella vita e sono sicuro che prima o poi torneremo a lavorare insieme. È troppo gentile e penso abbia esagerato, però ora lo amo ancora di più (ride, ndr).



STORIE

HAPPY BIRTHDAY DOOKIE!

IL CAPOLAVORO DEI GREEN DAY COMPIE 20 ANNI Il 1° febbraio 1994 usciva il terzo album dei Green Day, Dookie. Anche se non sembra, sono passati vent’anni da quando quel disco sconvolse non solo la vita e la carriera del trio californiano, ma anche la scena underground mondiale, dando inizio a un decennio florido e mai così ricco di successi per il punk melodico e l’hardcore. Celebriamo l’anniversario con le 10 cose che non potete non sapere su quell’album storico. di Stefano Gilardino

ANGUS YOUNG

PATTI SMITH

1. ANGUS YOUNG È SUL TETTO OZZY OSBOURNE

30 onstage febbraio

A prima vista la copertina di Dookie potrebbe sembrare un caos senza forma, opera del disegnatore di Berkeley Richie Bucher, musicista anch’egli e amico dei tre punk rocker. Invece, osservandola bene e conoscendo qualche re-

troscena, si scoprono parecchie minuzie interessanti: omaggi agli AC/DC (Angus Young è sul tetto di un palazzo con la sua inseparabile Gibson Diavoletto), a Patti Smith (sotto Angus, in una finestra del palazzo, Patti è in posa come sulla copertina di Easter), a Ozzy Osbourne (la donna che pare Morticia al centro del disegno è la stessa che campeggia sulla


cover del primo album dei Black Sabbath). Senza contare tutti gli altri accenni a personaggi della scena punk della Bay Area, a certificare un legame saldo con il proprio passato. Sul retro della copertina, infine, si può riconoscere, nella prima stampa, il pupazzo Ernie di Sesame Street, poi cancellato dalla fotografia per problemi legati al copyright.

2. ALTO TRADIMENTO Non è stata certo una scelta facile quella di Billie Joe Armstrong e compagni: lasciare i vecchi amici, i quali immediatamente li accusarono di alto tradimento, per finire nelle mani di una major, la Reprise, che ovviamente aveva intenzione di lanciarli come paladini del punk da classifica. Nessuna possibilità di tornare indietro e l’istantanea fama di venduti. Il gioco, però, ha funzionato piuttosto bene e, seppure anni dopo, i Green Day si sono presi tutte le rivincite possibili.

3. CHE TITOLO... DI CACCA In origine il disco si sarebbe dovuto intitolare Liquid Dookie, riferimento ai problemi gastrici dei tre componenti del gruppo dopo mesi di tour e junk food. Esatto, la liquid dookie è proprio quello che state pensando in questo momento, un riferimento considerato dalla Reprise un po’ troppo azzardato. Si trasformò in Dookie senza che nessuno s’interrogasse sul reale significato della parola.

4. POKERISSIMO In totale sono 5 i singoli estratti dal disco. In assoluto, la migliore cinquina mai messa a segno dal terzetto californiano. Longview ha un memorabile giro di basso di Mike Dirnt - pare partorito sotto influenza dell’LSD -, Basket Case è ormai un classico da discoteca rock, Welcome To Paradise e When I Come Around sono, come gli altri,

classici che non mancano mai nella scaletta live. Chiude il poverissimo She, uno dei pochi singoli dei Green Day a non avere un video.

5. CASI DISPERATI Provenendo dalla scena punk, sebbene mai dichiaratamente politici, i Green Day mettono in musica i propri psicodrammi giovanili e personali, riversando nelle liriche ansie, paure, divertimento sboccato, amore e divorzi, omicidi di massa e molto altro ancora. When I Come Around è dedicata all’allora fidanzata del chitarrista e leader Billie Joe Armstrong, mentre She parla di una sua ex, Longview della masturbazione e Basket Case degli attacchi di panico (sempre di Billie Joe).

6. NEVROTICO Nonostante i singoli siano cinque, il più rappresentativo del disco è Basket Case, probabilmente il brano più celebre dei Green Day. E proprio quel brano è stato il più complicato da partorire e quello di cui Billie Joe era meno convinto. «Continuavo a cambiare il testo» ha raccontato Armstrong. Ero partito con l’idea di parlare semplicemente di una relazione, poi ho cominciato a pensare di rendere il testo più nevrotico e farla diventare una canzone da attacco di panico. Ma non ne ero particolarmente soddisfatto e non pensavo nemmeno che sarebbe diventato un singolo. Beh, mi sbagliavo».

7. BAND A CAVALLO L’uomo scelto dalla Reprise per occuparsi della produzione di Dookie fu Rob Cavallo, a detta di Billie Joe, “l’unico di cui ci fidassimo e per cui provassimo empatia”. Cavallo aveva appena prodotto un album per i Muffs (Blonder And Blonder), band californiana guidata dall’affascinante Kim Shattuck (nel 2013, per lei, una breve apparizione come bassista dei Pixies in tour), amica proprio del chitarrista del terzetto. A parte altri dischi di successo con artisti del

calibro di Dave Matthews Band, My Chemical Romance e Phil Collins, Rob è anche responsabile della produzione di American Idiot, best seller incredibile dei Green Day, oltre che di parecchi altri lavori del gruppo, compresa l’ultima trilogia.

8. PENSIONI D’ORO Ridendo e scherzando, Dookie - che ha fruttato al trio un Grammy come “Best Alternative Album” - rimane il disco più venduto dei Green Day oltre che, con ogni probabilità, l’album “punk” di maggior successo economico di sempre. Con oltre 15 milioni di copie piazzate in tutto il mondo, i tre musicisti si sono assicurati l’immortalità, oltre che una pensione da favola…

9. UN RICORDO SUL DIVANO Dopo aver assistito alla prima calata italiana della band nel 1995 a Milano, mi ritrovai l’anno successivo a Torino per intervistare i Mr. T Experience, di supporto ai Green Day per il tour del 1996, quello di Insomniac. Dopo aver ricevuto raccomandazioni dal manager sull’assoluta necessità di non provare nemmeno a disturbarli e di parlare solo con Dr. Frank - il leader dei Mr.T, appunto - entrai nel camerino del gruppo di supporto in cui, sorpresa, erano schierati sul divano anche tutti e tre i Green Day. I quali, senza nessun problema, assistettero divertiti all’intervista, interrompendo ogni tanto per dire la loro. Punk rock…

10. COVER D’AUTORE Tra le decine di cover dei pezzi di Dookie, impossibile per noi italiani non scegliere quella di Mino Reitano, il quale, armato persino di giubbotto di pelle, regala la sua versione personale di Basket Case con testo riadattato, tra l’entusiasmo del pubblico (probabilmente del Maurizio Costanzo Show) e l’imbarazzo di tutto il resto del mondo. La trovate su YouTube scrivendo “Mino dove vai?”.

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Onstage AWARDS 2013

6

220.000 voti

8.127 per decretare il Migliore Artista. 76.770 per il Migliore Tour. 16.041 Per il Migliore Concerto Indoor. 34.497 per il Migliore Concerto Outdoor. 22.121 per il Migliore Palco. Non sempre le cifre forniscono l’esatta rappresentazione di un evento, ma nel caso degli Onstage Awards 2013, i numeri sono significativi – ancor di più perché ogni persona poteva esprimere una sola preferenza per categoria. 220.000 voti significano che la passione degli italiani per la musica e in particolare per i concerti gode di ottima salute, che il pubblico è molto attento a ciò che riguarda i grandi artisti perché, grazie all’intensa attività live che caratterizza questo periodo storico, ha con loro uno scambio continuo. 220.000 voti significano che gli Onstage Awards sono davvero gli “Oscar della musica live”, non solo nelle nostre intenzioni. Abbiamo ottenuto un grande risultato, che ci spinge a lavorare per far diventare questo un appuntamento sempre più impor-

32 onstage febbraio

tante e consolidato già dall’edizione 2014. Lo stiamo già facendo, proprio mentre leggete queste righe. Qualcuno, tra le decine di migliaia di persone che hanno votato, si è lamentato del regolamento, ritenendo ingiusto un sistema in cui la giuria ha così tanto peso nel determinare i vincitori - la preferenza di ognuno dei cinque giurati valeva il 5% dei voti complessivi di ogni categoria - e può sovvertire la volontà popolare. Ma noi, lo ribadiamo ancora una volta dopo averlo fatto in Rete, siamo profondamente convinti del contrario. Crediamo cioè che l’autorevolezza degli Onstage Awards dipenda anche da questo “sistema misto”, che consente un equilibrio tra il giudizio soggettivo dei fan e quello oggettivo della giuria, evitando, di fatto, che gli “Oscar della musica live” si trasformino in una gara a chi ha più fan sui social network. Ripartiremo proprio da qui, dall’autorevolezza. Nel frattempo, celebriamo i vincitori. Applausi, e sipario. Daniele Salomone


foto di Roberto Panucci

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MIGLIORE ARTISTA

JOVANOTTI

Chi avrebbe scommesso su Lorenzo ai tempi di Jovanotti For President? E invece Jova, cambiando più volte pelle artistica, si è affermato come uno dei migliori performer italiani. Il migliore in assoluto dell’anno secondo i risultati degli Onstage Awards 2013. Grazie alla combinazione tra voto del pubblico e della giuria, è lui il Migliore Artista live del 2013. La sua energia sul palco durante il Backup Tour è stata, se possibile, più esplosiva che in passato e gli ha permesso, nonostante gli spazi enormi degli stadi e l’ottima band di supporto, di proporre un one man show di straordinaria intensità.

MIGLIORE TOUR

MARCO MENGONI L’essenziale Tour 2013

E’ stato indubbiamente il suo anno. Il 2013 di Marco Mengoni è stata una grande e trionfale cavalcata, che ha raccolto successi e premi lungo tutto il percorso. Dalla vittoria a Sanremo al primo posto in classifica per l’album #PRONTOACORRERE, fino ai sold out continui del lunghissimo L’essenziale Tour, che dalla primavera all’autunno inoltrato ha girato l’Italia in lungo e in largo. Nonostante la concorrenza di grandi artisti come Eros Ramazzotti e Jovanotti, Marco vince meritatamente il premio come Migliore Tour del 2013.

MIGLIORE concerto indoor

green day

Bologna, Unipol Arena, 6 luglio 2013 Fino al 2013, la storia recente dei Green Day in Italia non è stata troppo fortunata. Concerti rinviati per problemi meteorologici e persino un malore, quello di Billie Joe a Bologna, che aveva costretto gli organizzatori a cancellare il tour. Ma proprio da Bologna passa la riscossa dei californiani nel nostro Paese: il live dello scorso giugno gli vale la vittoria nella categoria Migliore Concerto Indoor agli Onstage Awards 2013. Staccando Placebo e Beyoncè, i Green Day si impongono senza troppi problemi.

Le foto di Jovanotti sono di Roberto Panucci, la foto di Marco Mengoni e Negrita sono di Francesco Prandoni, la foto dei Green Day è di Mirko Cantelli, la foto di Cesare Cremonini è di Cristina Checchetto.

34 onstage febbraio


MIGLIORE CONCERTO OUTDOOR

CESARE CREMONINI

Arena di Verona, 22 luglio 2013 Una crescita costante, che gli Onstage Awards 2013 certificano nel suo aspetto più importante: il live. Dopo l’esordio con i Lunapop, Cremonini è stato capace di reinventarsi costruendo una carriera solista basata sulle canzoni e, soprattutto, sul grande rapporto con il pubblico durante i concerti, dimensione a lui congeniale. Le soddisfazioni sono tante, dal successo dell’ ultimo album La teoria dei colori a quello della successiva tournée, culminata nell’esibizione dello scorso luglio all’Arena di Verona. Una serata indimenticabile per Cesare, che gli è valsa il premio come Miglior Concerto Outdoor del 2013.

MIGLIORE PALCO

JOVANOTTI

Backup Tour 2013 Secondo premio per Lorenzo, testimonianza del grande lavoro fatto per la sua prima tournée negli stadi. La produzione del Backup Tour è stata grandiosa come gli stadi impongono, ma è soprattutto la qualità delle immagini diffuse dagli schermi ad aver stupito. Jovanotti e il suo team di visual artist hanno fatto un grande lavoro, al punto che durante i concerti della tournée era difficile staccare gli occhi dalle loro creazioni. Tra i motivi di interesse del palco di Lorenzo, la passerella curva che gli consentiva - letteralmente - di stare in mezzo al suo pubblico.

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA

NEGRITA

Scriveva Pau nella prefazione di Onstage Live Book 2012 che «i Negrita sono una live band, sono nati in scena, ben prima di poter annusare la carta di un contratto discografico. Dal vivo danno il massimo e il loro meglio. È DNA!». Il Teatri Tour 2013 è la testimonianza dell’onestà di queste parole. Una tournèe acustica in due atti che ha visto i Negrita spogliare i propri brani e rivestirli con nuovi abiti, eleganti anche quando ispirati dal blues. Uno show perfettamente centrato che ha confermato la grande versatilità dei toscani sul palco, a proprio agio anche in una dimensione per loro inedita come quella teatrale. Un tour già premiato dal pubblico, che la giuria degli Onstage Awards 2013 ha deciso di riconoscere tra i migliori dell’anno per la qualità complessiva dello spettacolo e dei singoli musicisti.

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d e p e c h e

M o d e


u n q a u e s t i o n e d i

e q u i l i b r i o


n

L’Italia aspetta a braccia aperte i Depeche Mode, che a febbraio hanno in programma tre concerti nello Stivale dopo le date di luglio 2013 a San Siro e all’Olimpico di Roma. Del resto gli inglesi sono una delle band più amate in assoluto, e non solo da noi. Merito di Martin Gore e Dave Gahan, anima e cuore del gruppo inglese. In equilibrio tra amore e odio, come tante altre grandi coppie nella storia della musica, i due continuano a far crescere la loro creatura. di Alvise Losi - foto di Anton Corbijn on sono in tanti a potersi permettere un tour mondiale negli stadi. Ancora meno quelli che possono concedersi il lusso di raddoppiare o triplicare lo stesso show con un secondo o un terzo passaggio invernale nei palazzetti. Naturalmente da tutto esaurito. Eppure i tre (ex) ragazzi in questione hanno fatto molta fatica a farsi prendere sul serio. E, nonostante non abbiano più molto da dimostrare, c’è ancora qualcuno che riduce i Depeche Mode a mero fenomeno di costume tutto sommato secondario nel mondo del rock. Quasi fossero un residuato di un’epoca che fu e che, chissà come, nutre ancora proseliti. Ma per avere un’idea della loro importanza basti pensare che, dopo i Beatles e i Rolling Stones, i DM sono stati il primo gruppo britannico in grado di conquistare gli Stati Uniti. Con la loro musica, i loro dischi e, ancor più, i loro concerti che da sempre hanno trascinato decine di migliaia di fan (e non) a scatenarsi sulle note di successi come Just Can’t Get Enough, Enjoy The Silence o Personal Jesus. Canzoni che non possono permettersi di non riproporre a ogni live. «Molti fan tornerebbero a casa insoddisfatti se non le suonassimo», ha confessato prima dell’ultimo tour la mente del gruppo Martin Gore.

DUE È IL NUMERO PERFETTO Una carriera lunga 34 anni, con molti alti e, va detto, pure alcuni bassi, che ha un segreto comune a molte altre band. Il gruppo ruota intorno a due membri principali, che catalizzano l’interesse dei fan e canalizzano le idee della band. Un dualismo intriso di competizione che ha fatto la fortuna di gruppi come Led Zeppelin, The Who, U2. Di fatto Dave Gahan e Martin Gore sono l’anima dei Depeche Mode esattamente come Lennon/McCartney lo sono stati dei Beatles, i Glimmer Twins dei Rolling Stones, Plant e Page dei Led Zeppelin, Daltrey e Townshend degli Who, Bono e The Edge degli U2, i fratelli Gallagher degli Oasis. E molti colleghi americani sono nella stessa situazione. Steven Tyler e Joe Perry degli Aerosmith, Axl Rose e Slash dei Guns N’ Roses, Paul Stanley e Gene Simmons dei Kiss. Per citarne solo alcuni. Spesso le seconde linee di queste band sono state (o sono) autentici fuoriclasse, ma in funzione dei due leader sono rimasti nell’ombra. Non nel caso dei Depeche Mode. Andy Fletcher non è né George Harrison né Charlie Watts (o Bill Wyman o Mick Taylor). Il suo ruolo può essere

38 onstage febbraio

associato più a quello di un collante necessario per tenere insieme il gruppo. Anche perché il dualismo, se alimentato da una sana rivalità, può sì incanalare le energie per far toccare vette di creatività altrimenti irraggiungibili da soli, ma anche segnare l’inizio della fine. Molti gruppi sono durati pochi anni (se confrontati ai 34 dei DM) proprio perché il gioco non ha retto. Mentre per chi è ancora in attività non sempre è facile mantenere intatta l’alchimia delle origini, neppure se la strada scelta è andare sul sicuro e continuare a riproporre il sound che ha decretato il successo. Gli stessi Depeche in Delta Machine sono tornati alle atmosfere di Violator (del lontano 1990) e autocitarsi non è mai facile.

PIÙ FORTI DELL’EGO I Depeche Mode però hanno retto. Non sempre hanno azzeccato il disco giusto, a volte la sperimentazione non è riuscita, ma, tra varie vicissitudini, dagli anni Ottanta sono arrivati al 2014. Merito della vena artistica di Martin Gore, autore della maggior parte dei brani, ma anche dell’ostinazione di Dave Gahan di dimostrarsi degno del ruolo che ricopre, frontman di una band planetaria. Si torna così alla rivalità tipica di ogni band: ce n’è stata (e ce n’è ancora) tanta anche all’interno dei Depeche Mode. Soprattutto se si pensa che, fino a un periodo relativamente recente, Dave era davvero vissuto dai compagni (e da parte del pubblico) solo come un cantante che si scatenava sul palco (beninteso, un grande cantante con un grande carisma), mentre il merito della creazione musicale andava quasi esclusivamente a Martin Gore. Se si volesse azzardare un paragone, con le debite differenze, si potrebbe pensare ai Pink Floyd e al dualismo tra il cantante e chitarrista David Gilmour e il bassista e autore Roger Waters. Con un esito diverso. Quella situazione nei Depeche Mode ha resistito per circa un quarto di secolo, agevolata anche dalla lunga fase di dipendenza di Dave dalle droghe, che gli hanno impedito di interagire nel processo di composizione. Una sensazione che lo stesso Keith Richards ha provato sulla sua pelle e ha ben descritto nella sua autobiografia riferendosi alla gestione autocratica degli Stones che Mick Jagger portava avanti proprio mentre Keef pensava all’eroina. Tutti questi meccanismi hanno però rischiato di incepparsi quando una decina di anni fa i due leader erano sul punto di mandare il gruppo in frantumi, perché Gahan voleva iniziare


ÂŤAbbiamo litigato al telefono per mesi. La cosa piĂš difficile da accettare per me era suonare le mie canzoni con la band, cantare i miei testi e ascoltare Martin che faceva le sue criticheÂť Dave Gahan

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«Io voglio spingere le canzoni in direzione diversa. Mentre Martin è il classico songwriter: è difficile fargli cambiare un accordo o convincerlo a lasciarmi tentare qualcosa di insolito» Dave Gahan

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a incidere dei brani suoi, mentre Gore si opponeva. «Sapevo fin dall’inizio che sarebbe stato meglio metterne tre o quattro sull’album e non di più», ha ammesso il cantante in seguito. «Ma dovevo darci dentro a muso duro. Abbiamo litigato al telefono per mesi e la cosa più difficile per me era accettare di suonare le mie canzoni con la band, cantare i miei testi e stare ad ascoltare Martin che faceva le sue critiche». Alla fine entrambi misero da parte il proprio ego e l’accordo fu trovato: in ogni nuovo album targato DM ora ci devono essere tre canzoni a firma Gahan. Così è stato sia per Playing The Angel sia per Delta Machine.

diverso, perché suoniamo insieme da molti anni», è il commento di Gore. «Il suono è molto più puro, più live e a volte si distacca parecchio dai dischi. Trovo anche interessante fare una versione acustica di un brano che in origine canta Dave». Quelle che non sono diverse invece sono le gerarchie sul palco, opposte rispetto allo studio. Se in fase di registrazione il boss era (e in fondo è ancora) Martin, davanti al pubblico il leader indiscusso è Gahan. E non a caso dipende principalmente da lui la riuscita di un concerto: se è in forma si può stare certi che sarà un bel concerto, altrimenti...

IL SOLITO CASINO

L’EQUILIBRIO DEI SOPRAVVISSUTI

Eppure, a detta degli stessi protagonisti, non molto è cambiato rispetto agli inizi. «Quando stai in una band tanto quanto sono stato io nei Depeche, entri in studio con una serie di regole, sfortunatamente», ha spiegato Dave. «Abbiamo creato degli schemi, e romperli non è facile. Il mio cruccio è quello di spingere le canzoni in direzione diversa. Mentre Martin è il classico songwriter: si siede e tira fuori una canzone ed è difficile fargli cambiare un accordo o convincerlo a lasciarmi tentare qualcosa di insolito sulla melodia originale. Sta lì in un angolo a storcere la bocca. La tipica espressione: “Non è la nota che volevo”. Allora si avvicina al piano e dice: “Questa è la nota”. Io gli rispondo: “Martin, non è quello il modo in cui la sento io”. Ogni volta è la stessa storia. Chi ci frequenta da anni ormai strabuzza gli occhi quando ci vede scazzare per l’ennesima volta. In 25 anni non è cambiato niente». È invece mutato l’approccio ai live. Sembrano passati secoli dai primi concerti, quando i suoni campionati erano tutto. Ormai la batteria è sempre sul palco (la prima volta fu nel 1998 per il The Singles Tour) e le sonorità variano non poco rispetto agli album. «Ci esibiamo in modo

Qual è allora il segreto per restare ancora uniti dopo tanti anni? Forse la realtà è molto più banale di quanto si voglia immaginare. I Depeche Mode non sono mai arrivati a livelli di fama tali da trasformarli in mito. Una situazione destabilizzante che invece hanno provato i vari The Who, Led Zeppelin e Pink Floyd. Certo hanno passato la loro dose di guai (Dave ha rischiato più volte la morte per overdose, Martin soffre di epilessia). Ma, dopo essere sopravvissuti a se stessi e alla loro epoca, si sono guardati intorno e scoperti umani. E a quel punto hanno capito che la loro più grande forza era sostenersi l’un l’altro e continuare a essere un gruppo. «Unirmi alla band mi ha dato una sensazione di cameratismo», ha raccontato Gahan qualche anno fa. «Agli inizi dei Depeche, per i primi 15 anni, facevamo tutto assieme. Mi ero inventato quella storia: “Questa è la mia famiglia”. Ma attraversavamo anche brutte fasi, lunghi periodi senza rivolgerci la parola». Se dopo 34 anni sono ancora insieme, c’è da scommettere che abbiano trovato l’equilibrio tra gli estremi. l

Due per uno, i Depeche per tutti La tranche 2014 del Delta Machine Tour è cominciata a Barcellona il 15 gennaio. Dal concerto al Palau San Jordi in poi, gli inglesi hanno alternato due scalette, simili ma non perfettamente uguali. Eccole.

Welcome To My World Angel Walking In My Shoes Precious Black Celebration Should Be Higher Policy Of Truth Slow But Not Tonight Heaven Behind The Wheel A Pain That I'm Used To A Question Of Time Enjoy The Silence Personal Jesus Encore Shake The Disease Halo Just Can't Get Enough I Feel You Never Let Me Down Again

Welcome To My World Angel Walking In My Shoes Precious Stripped Should Be Higher In Your Room The Child Inside Judas Heaven Behind The Wheel A Pain That I’m Used To A Question Of Time Enjoy The Silence Personal Jesus Home Halo Just Can’t Get Enough I Feel You Never Let Me Down Again

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IL COWBOY AMICO DEGLI INDIANI In un Paese che si divide sempre in tifoserie, Pezzali è uno dei pochi personaggi capace di attirare le simpatie di tutti. Tra le sue caratteristiche più apprezzate c’è la capacità di non andare mai sopra le righe: Max si rivolge al pubblico senza artificio, non ha mai costruito un personaggio da dare in pasto alla gente. Se ancora ci fosse bisogno di una conferma, l’abbiamo avuta chiacchierando con lui in vista della tranche 2014 del Max 20 Live Tour. di Luca Garrò - foto di Athanasios Alexo


MAX PEZZALI


c

he Max Pezzali, da qualche anno a questa parte, fosse ormai entrato a pieno titolo nel gotha della musica italiana, quello dei campioni di vendite, per intenderci, se ne erano ormai accorti in molti. Quello che forse era sfuggito a quelli che si ostinavano a sottovalutarne l’impatto culturale sulla nostra società, era forse il fatto che il buon Max non si fosse limitato a parlare di banchi di scuola e flirt finiti male. L’incredibile successo della prima tranche del Max 20 Live Tour, infatti, non può essere spiegato solo con la popolarità di alcuni motivetti orecchiabili o con la simpatia che da sempre Pezzali suscita nella gente. «A dire il vero, ancora oggi non riesco a spiegarmi il successo ottenuto in questi vent’anni. Non sono mai stato un grande cantante e non si può nemmeno dire che sia un sex symbol - puntualizza - e fidati, non lo dico per sentirmi dire il contrario, ma perché tutto sommato molte cose restano ancora inspiegabili per me». Forse anche per questo, dopo il successo della raccolta che ne celebrava i primi 20 anni di carriera, quando lui e il suo entourage si misero a pianificare alcune date promozionali, il timore di inflazionarsi era qualcosa di più grande rispetto alla gioia per le vendite eccezionali. «Il disco stava andando benissimo e l’idea di poterlo portare in tour mi elettrizzava come poche volte nella mia carriera. Tuttavia, avevamo paura di fare il passo più lungo della gamba e insieme a Live Nation abbiamo deciso di partire con una manciata di date, giusto per vedere la reazione della gente».

SGUARDO BASSO Col senno di poi, quella manciata di date si sarebbe trasformata nel suo più grande trionfo e in una delle tournée di maggiore successo dell’anno scorso. Con tanto di nuovi show a febbraio 2014. «Dopo i primi sold out abbiamo iniziato a capire che c’era qualcosa di diverso nell’aria, come se la gente fosse lì ad aspettare solo noi. Questo ci ha permesso di aggiungere altre date, ma soprattutto di potenziare la scenografia, visto che le spese ormai erano totalmente coperte». Eppure, se anche i nuovi concerti continuano a collezionare “tutto esaurito”, Max non perde la caratteristica paura che lo attanaglia ogni volta in cui si

appresta a salire su un palco. «Forse è una fortuna che non abbia ancora perso quel terrore, perché significa che non mi sono ancora abituato all’impatto col pubblico. Se ci fai caso, sono l’opposto dell’animale da palcoscenico: sguardo basso e parole impacciate. Non riesco a essere qualcun altro e non invidio chi riesce a indossare una maschera sul palco, perché il rischio è quello di sfociare in deliri di onnipotenza alla The Wall». Sì perché Max alle grandi folle è abituato da tempo, ma forse la volta in cui si rese conto davvero dell’amore del suo pubblico fu in Piazza Duomo, a Milano, nel luglio del 1998: «Lì sì che avrei potuto perdere la testa come racconta Roger Waters, ma il mio stato emotivo era così differente, che si rivelò la migliore delle cure. Io e Mauro ci eravamo appena separati e il mondo per un attimo era sembrato crollarmi addosso: non avevo più certezze e quel bagno di folla fu il mio salvagente psichico».

SUL COMODINO DEGLI ADOLESCENTI D’altra parte, l’unico obiettivo dichiarato dall’ex 883 è sempre stato quello di riuscire a far passare qualche ora di serenità a chi uscisse di casa per andarlo a vedere, senza troppi clamori o proclami intellettualoidi alla Bono Vox e affini. «Quel tipo di comunicazione mi ha sempre spaventato. Quando ti trovi di fronte a decine di migliaia di persone

«Sono l'opposto dell'animale da palcoscenico: sguardo basso e parole impacciate. Non riesco a essere qualcun altro e non invidio chi riesce a indossare una maschera sul palco» che pendono dalle tue labbra devi stare molto attento a quello che dici, perché qualcuno potrebbe prenderti troppo sul serio. Anche quando il messaggio è positivo ci sono dei rischi. La figura di Bono negli ultimi anni ha perso molto del fascino che aveva proprio per questo motivo, perché in troppi credono ormai che i suoi messaggi nascondano qualche fine personale. Il caso di Jovanotti è differente, perché a un certo punto si è accorto della deriva cui poteva andare incontro e ha fatto un passo indietro prima di compromettersi. Per quanto mi riguarda - continua Max - quando sono in tour mi interessa solo che la gente si diverta così tanto da tornare la volta successiva, quindi da questo

ABBATTERE IL MURO

All’inizio dell’intervista Max cita The Wall, disco dei Pink Floyd uscito nel 1979. Si tratta di uno dei più importanti album nella storia della musica, un’opera rock ideata e scritta da Roger Waters, fondatore, principale autore e bassista della band inglese. Racconta di una rockstar di nome Pink che, a causa di una serie di eventi drammatici che sconvolgono la sua esistenza, si chiude dietro un muro psicologico, che lo soffoca e lo riduce sull’orlo di crisi d’identità. Isolato, Pink capisce di poter vincere la sua solitudine solo analizzando la sua vita con una sorta di processo alla sua psiche. L’esito è immaginato come una sentenza di condanna ad abbattere il muro, eliminando le proprie difese ed esponendosi “nudo” di fronte ai propri simili, il pubblico. The Wall è un capolavoro che tutti dovrebbero conoscere. G.O.

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punto di vista non posso che essere felice. È bello vedere nuove generazioni ai nostri concerti, gente che quando uscì Hanno ucciso l’uomo Ragno nemmeno era nata. Ma è stupendo rivedere quelli che all’epoca avevano quindici anni». In effetti, una delle cose più sorprendenti della musica degli 883 è che ai tempi del loro debutto molti di quelli che su un comodino della camera avevano un loro disco, sull’altro potevano averne uno dei Nirvana o dei Pearl Jam. «Questa cosa mi ha sempre fatto sorridere, ma allo stesso tempo affascinato tantissimo. E so per certo che è vera, poiché tante persone che ho conosciuto in questi anni mi hanno confessato l’inconfessabile!».

semplicemente, i pezzi presentano due chiavi di lettura: una delle quali comprensibile solo una volta cresciuti. «È sempre stato un vizio del nostro Paese quello di bollare come spazzatura la musica leggera. Forse si tratta ancora di un retaggio legato agli anni Settanta e al cantautorato di quel periodo. Pensa cosa

«È sempre stato un vizio del nostro paese quello di bollare come spazzatura la musica leggera. Ma anche una canzone che pare un puro divertissement può dare spunti importanti»

QUALCOSA DA SCOPRIRE In un modo completamente diverso, anche la poetica di Pezzali andava a cogliere un disagio ben radicato in quella generazione. Un disagio che poteva attaccarsi alle urla strazianti e ai testi disperati degli eroi del grunge, così come alla realtà di periferia cantata da Max. Dietro a brani apparentemente innocui o leggeri si celava una malinconia che non veniva colta dai critici, ma che faceva breccia senza filtri negli adolescenti dell’epoca. «Quello fu un periodo storico molto particolare per il mondo e, di riflesso, anche per il nostro Paese. Sentimenti contrastanti convivevano tra loro e contribuivano ad alimentare il disagio delle persone più fragili, in primis gli adolescenti. Da una parte c’era una grande fiducia nel domani, un’economia che sembrava florida e foriera di buone nuove per il futuro. Clinton diventò presidente degli Stati Uniti, in Inghilterra la sterlina volava. Dall’altra parte però c’erano sentimenti

«Tante persone che all’inizio degli anni Novanta erano adolescenti, oggi mi confessano che sui loro comodini c’erano sia i dischi di band come Pearl Jam e Nirvana che quelli degli 883» completamente opposti di persone che cercavano di capire chi fossero davvero. E qualcuno non ci riusciva». Sarà per questo motivo che, da qualche anno a questa parte, i trattati intorno al canzoniere di Pezzali si sprecano: da quando l’intellighenzia del nostro paese ha sdoganato la musica degli 883, in molti si sono messi ad analizzare testi che ai tempi vennero bollati come canzonette buone per un successo estivo e che ora vengono filtrate attraverso lo specchio della psicologia. Forse, più

succedeva a De Gregori, solo per farti un esempio. Oggi nessuno si sognerebbe più di discuterne l’arte, ma ai tempi il clima era troppo al limite per poter giudicare serenamente qualcosa. Io credo che nella vita ci sia un momento per tutto, ma soprattutto sono convinto che anche una canzone che pare un puro divertissement può celare altro, può dare uno spunto per qualcosa da scoprire».

RIMBOCCARSI LE MANICHE Non è peccato pensare che in molti giovani, nei primi anni Novanta, si siano avvicinati a gente come i Rolling Stones, il cui blues veniva passato dal locale nel Bronx di Hanno ucciso l’Uomo Ragno, o al Neil Young che passa la radio di Certe notti. «Assolutamente no. Quello che magari quando hai dieci anni ripeti come un mantra, senza nemmeno sapere cosa voglia dire la parola Stones, può trasformarsi in un regalo quando ne hai diciotto. Ho imparato tanto dai ragazzi più grandi di me, ero onnivoro e quando scoprivo un nuovo gruppo correvo a comprarmi tutto quello che avevano inciso e volevo sapere tutto di loro. Oggi internet, nato come strumento di ricerca attiva e consapevole, ha paradossalmente portato alla scomparsa della curiosità». Forse proprio per questo Max, così legato alla cultura dell’America dell’Ovest, si augura un ritorno ai valori dei cowboy, come mostra chiaramente nel suo ultimo video: «Sì ma non a quelli che uccidevano gli indiani. Sono sempre stato dalla parte dei Nativi Americani, quindi non va frainteso il messaggio della canzone. Parlo dei cowboy come specchio di certi valori: penso al rimboccarsi le maniche nei momenti di difficoltà, al creare reti sociali in grado di sostenere chi non ce la fa con i propri mezzi e al recupero di virtù come la solidarietà e la comunanza d’intenti. Cose di cui avremmo bisogno in questo momento storico». l

La scaletta del MAX 20 LIVE TOUR

Durante i concerti di febbraio, Pezzali insiste con la fortunata scaletta proposta a novembre e dicembre 2013. Tra classici e brani più recenti troviamo un totale di 23 canzoni più un medley.

Ragazzo inadeguato I cowboy non mollano L’universo tranne noi Lo strano percorso Rotta x casa di Dio Gli anni Quello che capita Come mai Il mio secondo tempo

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Sei un mito Sei fantastica Hanno ucciso l’Uomo Ragno Come deve andare Nessun rimpianto La dura legge del gol Il presidente di tutto il mondo La regola dell’amico Nord Sud Ovest Est

Il mondo insieme a te Con un deca La regina del Celebrità Tieni il tempo Medley: Nient’altro che noi, Ti sento vivere, Io ci sarò, Eccoti, Una canzone d’amore

Sempre noi


TUTTO ESAURITO. Comincia l’8 febbraio da Modena la tranche 2014 del Max 20 Live Tour. Sette concerti, compreso il sold out a Milano, il terzo consecutivo se consideriamo quelli di novembre e il 23esimo in totale del tour. Gran finale a Pesaro il 22 febbraio.

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PAOLA CORTELLESI Reduce dal recente successo di Un boss in salotto, l’attrice romana torna al cinema a San Valentino con il nuovo film di Carlo Verdone, Sotto una buona stella. Abbiamo approfittato dell’uscita per scambiarci qualche chiacchiera sul film. Ma siamo finiti a parlare soprattutto di lei, che ha risposto alle nostre domande con la solita autoironia. di Antonio Bracco - foto di Marina Alessi

è

la tua prima volta con Verdone. Hai trascorso un po’ di tempo con lui sul set. I personaggi che ha inventato e che l’hanno reso famoso negli anni l’hanno abbandonato? Certo che no, sono tutti vivi dentro lui. Gli ho fato milioni di domande, volevo sapere di Alfio, sai, il professore che fa il processo ai due figli hippie. Carlo mi ha spiegato che era un suo amico che conosceva e che frequentava, così come il nipote della sora Lella era un suo amico di scuola. Tutti quei personaggi sono usciti grazie al suo spirito d’osservazione. Quello che c’è del Carlo non caratterizzato, che però ci fa tanto ridere, è lui che si arrabbia e dice “ma insomma, non sapete fare questo!” e poi lui fa peggio. Ed è proprio lui, è uno che inciampa, capito? Tu lo guardi incredulo perché ti sembra assurdo che dietro ci sia una persona reale. E invece è così, c’è Carlo. Nel film interpreti la sua nuova vicina di casa. La premessa è che nella storia è venuta a mancare la sua ex moglie. Lui è sempre stato un padre assente. Io sono la vicina che ascolto, ci sono le pareti di cartongesso e si sente tutto. Un po’ sono solidale con lui, un po’

mi sento sola. Succede che ci si unisce in una strana forma di amicizia e alla fine si diventa quasi conviventi. C’è una scena nel film in cui lui, sapendo che tu sei tutt’orecchi dall’altra parte del muro, fa finta di trombare alla grande sul divano. È quasi un classico della commedia, ma quante volte capita nella vita? Tu hai mai sentito i tuoi vicini travolti dalla passione? A me non è mai capitato! Mi sarei imbarazzata un sacco… sarei uscita di casa con una scusa qualunque, tipo a prendere le sigarette anche se non fumo. E tu sei mai stata sentita da un vicino mentre… Oddio, mi auguro di no. Pensa, mi imbarazza di più l’idea di ascoltare. Se qualcuno sente tu non lo saprai mai, ma se sei tu ad aver sentito hai la certezza. Le tue imitazioni di noti personaggi femminili sono irresistibili. Ti guardi mai allo specchio dicendoti che sei stata proprio brava? No, guarda, in generale ‘sta cosa non capita mai. Però sulle imitazioni non posso essere tanto brava, perché le mie sono parodie. La parodia supera quella che è la mera imitazione e lo fa attraverso un’invenzione,

O

«Se mi capita di guardarmi allo specchio e pensare che sono brava nelle imitazioni? No guarda, ‘sta cosa non capita mai. E poi le mie sono parodie più che imitazioni»

una lettura assurda che tu dai a un personaggio. A parte che c’è anche il trucco, ma quello che può riuscire bene è il testo, più che l’imitazione.

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Hai compiuto da poco 40 anni. Scusa se mi permetto di tirare in ballo l’età anagrafica. Ma figurati, è la vita. Marina Ripa di Meana scrisse la sua bella autobiografia a quell’età, tu non hai mai pensato di scrivere la tua? No no, evito. Non ho fatto niente di interessante da raccontare.

O

«Sono probabilmente una buona interprete, ma non sarei mai diventata una cantautrice come invece avrei voluto essere. Però cerco di cantare ogni volta che ne ho la possibilità» Bè, non sono d’accordo. Intanto hai una maternità in corso che è qualcosa di particolarmente interessante. La stai vivendo bene? Chi è che se la vive male? Mi trovi un po’ in imbarazzo sulle cose intime e personali, però per essere molto generici come è stata la tua domanda ti dico che me la vivo bene. Anzi, ci metto un superlativo assoluto: benissimo. Poi hai messo entrambi i piedi in qualunque settore dello spettacolo. Ho scoperto che hai fatto anche la voce narrante degli audiolibri… Sì. L’ultimo che ho letto è Nudi e crudi di Alan Bennett, l’autore del testo teatrale La pazzia di re Giorgio. Lui ha un umorismo inglesissimo, l’archetipo dello humor britannico, e quando ho letto Nudi e crudi mi sono piegata in due dalle risate, da sentirsi male. Mi piace molto fare gli audiolibri. A proposito di teatro, credi che continuerà ad avere un futuro nonostante l’avanzata tecnologica e la comodità dei video on demand? Penso che il teatro non tramonterà mai. Una persona che si esibisce dal vivo è l’origine di tutto. Ci si potrà avvalere di linguaggi diversi, di audio e video all’avanguardia, di ologrammi, ma l’emotività e la vicinanza tra il pubblico seduto in platea e gli attori è una forma espressiva che non morirà mai. Avendo tu splendide doti canore, vorrei chiederti un paio di cose sulla musica. Finalmente. Infatti io voglio parlare di musica… Ah! A saperlo te l’avrei chiesto subito. Ormai si sa che eri tu, poco più che bambina, a cantare Cacao Meravigliao del programma Indietro tutta. Erano gli anni ’80. Quello sì che è stato un magnifico tormentone. Era un cult quel programma. Sai cosa mi ha detto Renzo Arbore? Lui va in giro per il mondo con la sua band, no? Quando arriva in Brasile gli mettono Cacao Meravigliao come omaggio. E i brasiliani sono convinti che sia un loro classico che lui ha rivisitato in Italia e l’ha reso famoso. No, non ci credo. È una cosa fantastica! È quel che mi ha detto lui. Se è vero è il massimo della truffa! Tu canti sotto la doccia? Di solito canto quando faccio degli spettacoli (ride). Però sì, canto anche sotto la doccia. A Sanremo, quando eri conduttrice nel 2004, cantasti alcune canzoni molto divertenti scritte con Rocco Tanica. Però la tua voce su quel palco ebbe un tale risalto da far quasi impallidire i veri concor-

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renti. Perché non hai fatto la cantante? Perché sono probabilmente una buona interprete, ma non sarei mai diventata una cantautrice come invece avrei voluto essere. Sarei rimasta un’interprete nella media come ce ne sono tanti. Non lo so, ho sentito che il fuoco sacro non si accendeva per la musica. Inserisco sempre il canto quando faccio varietà, come nei programmi che ho fatto con Morandi e con Fiorello. Quando posso canto perché è una cosa che mi piace fare e la faccio seriamente anche se si tratta di gag. Sei una vera donna di spettacolo, questa è la verità. Ma che ne so, fa’ un po’ te… anzi, tutto attaccato, fampotté. Hai seguito X Factor? Sì, i programmi musicali li guardo volentieri. Soprattutto X Factor che è fatto benissimo, ha un nuovo taglio televisivo. Ben vengano programmi così. E che mi dici di Masterchef ? Segui anche quel talent? Masterchef è un po’ meno musicale… però la parodia che fa Crozza mi fa scompisciare dalle risate, soprattutto quando dice “Vuoi che muoro?”. Andresti a Sky se ti proponessero qualcosa? Mi piacerebbe lavorare con loro, sì. Sono molto bravi. Sanno fare bene lo spettacolo in televisione, quindi tanto di cappello. Mi riallaccio al film di Verdone. Tu ti senti “sotto una buona stella”? È da mo’ che me ce sento… l

Il film in uscita

sotto una buona stella di Carlo Verdone ITALIA, 2014 Il Cast: Carlo Verdone, Paola Cortellesi, Tea Falco, Lorenzo Richelmy, Eleonora Sergio, Simon Blackhall Un uomo d’affari, divorziato, con una bella casa, una vita agiata e una ragazza mozzafiato si trova di fronte ad un radicale cambio di rotta che il destino gli impone. Nel corso degli anni, grazie ad una brillante carriera in una holding, non aveva mai fatto mancare il supporto economico alla sua famiglia mentre quello affettivo è sta-

critica

to inesistente. Uno scandalo finanziario lo riduce quasi in rovina ed è costretto, dopo la morte dell’ex moglie, a farsi carico dei figli ventenni facendoli abitare in casa sua. Le nuove responsabilità di padre e la crisi economica lo gettano nel panico, ma un lume di speranza si manifesta forse nell’arrivo di una nuova vicina di casa.

pubblico


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BACKSTREET BOYS

TOH, CHI SI RIVEDE

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on chiamatela boyband. Se già negli anni Novanta i Backstreet Boys non amavano questa etichetta per il suo sottosignificato denigratorio, oggi è quanto di più lontano dall’essenza del gruppo. Che non è più composto di postadolescenti con cappellini da baseball calcati in testa al contrario o canotte da basket, ma da uomini maturi, con barbe lunghe, tatuaggi e vestiti eleganti. Della boyband restano la storia - visto che di tutte quelle fiorite tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila loro sono quelli che hanno avuto maggior successo, con 130 milioni di dischi venduti - e l’energia sul palco, dove cantano, ballano e danno spettacolo come un tempo. Il 22 febbraio arrivano al Forum di Assago, in formazione completa, con il tour del ventennale di carriera.


Ci sono band indissolubilmente legate a un particolare momento storico. Per esempio, associare i Backstreet Boys alla seconda metà degli anni Novanta è un esercizio fin troppo facile. Eppure, il gruppo americano non si è veramente mai fermato e ha continuato a vendere tantissimi dischi. Lo dimostra il tour 2014, che arriva per festeggiare il ventennale dell’ex (?) boyband e passa anche dall’Italia. di Massimo Longoni

Un evento che ha senso ancora oggi o un tentativo di aggrapparsi all’effetto nostalgia per dare lustro a qualcosa che ormai è fuori dal tempo?

IL TEMPO PASSA Quando calarono in Italia nel 1999 all’Olimpico di Roma (dopo tre date sold out al Forum di Milano), tra i 25mila fan impazziti ce n’erano davvero pochi che superavano i vent’anni. Tanto che, per dire, l’ingresso in scena venne preceduto dal lancio in platea di centinaia di orsetti di peluche. Oggi le cose sono un po’ diverse e gettando uno sguardo tra il pubblico si vedrà una maggioranza di over 30. E, tra un ballo e l’altro al suono delle vecchie hit, le teenager di un tempo

potranno apprezzare i testi delle nuove canzoni, che parlano di figli, di bullismo, di un condannato a morte che ammette le sue colpe nel corso dell’ultima telefonata. Insomma, i tempi sono passati e non per nulla.

SODDISFAZIONI Sul fronte dell’immagine quello che è riuscito ai Take That non è riuscito ai Backstreet Boys. I primi dopo dieci anni di assenza dalle scene si sono rifatti una verginità, con dischi che hanno raccolto nuovi fan e fatto ricredere i critici. Sono anche riusciti a trasformare in evento il ritorno di Robbie Williams. Da un punto di vista mediatico, il recente

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impatto dei BB è stato meno forte. La stessa reunion con Kevin Richardson, che aveva abbandonato nel 2006, ha fatto sognare giusto i fan incalliti, ma ha trovato ben poco spazio sui media. Come spesso accade in questi casi, quando si spegne il clamore dei media parte la rivalutazione degli addetti ai lavori. E così per i vent’anni di carriera è stata regalata loro una bella stella sulla Walk Of Fame. Sono soddisfazioni.

SOCIAL BAND La Rete per molti artisti è uno strumento fondamentale. Se le nuove leve sono native digitali, anche tra chi era abituato alle vecchie forme di promozione c’è chi è riuscito a riconvertirsi per aggregare i fan anche non avendo più a disposizione copertine di giornali e televisioni. I Backstreet Boys se la cavano bene sia su Twitter (706mila follower) che su Facebook (10 milioni di “like”). Certo, siamo lontani dagli oltre 40 milioni di follower e 60 milioni di “like” delle varie Lady Gaga e Justin Bieber, ma ogni epoca ha i suoi social leader. E comunque i Take That su Facebook hanno solo un milione di “Mi Piace”.

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OGNI LASCIATA E’ PERSA Se c’è una cosa che non manca al gruppo è la fantasia. In questi anni i BB si sono spesso ingegnati nell’organizzare eventi speciali che potessero attrarre l’interesse del pubblico. Ecco quindi il tour della nostalgia in accoppiata con i New Kids On The Blocks, che delle boyband sono stati i progenitori. Per non parlare delle “Backstreet Boys Cruise”, dove il gruppo intrattiene, tra giochi e concerti, per tre giorni gli ospiti di una crociera che parte da Miami alla volta delle Bahamas, dove si tiene una festa speciale sulla spiaggia. Forse fa un troppo Love Boat e non sappiamo se i membri del gruppo servano anche i cocktail di benvenuto, ma a un certo punto fare troppo gli schizzinosi non conviene e, in fondo, le crociere musicali le fanno anche i Kiss. Senza contare che i biglietti sono stati bruciati in men che non si dica...

CONTA IL GRUPPO Sarà stato il caso o la mancanza di un vero fuoriclasse portato per il


La formazione con cui i Backstreet Boys si presentano sul palco nel 2014 è la stessa con cui hanno iniziato nel 1993. Dal 2006, infatti, Kevin Richardson si è riunito ai suoi compagni Nick Carter, Howie Dorough, Brian Littrel e AJ McLean.

gioco solista come un Justin Timberlake o un Robbie Williams, fatto sta che a differenziare la storia dei Backstreet Boys da quella dei gruppi loro coetanei è la longevità. Gli ‘N Sync si sono sciolti come neve al sole, i Take That una volta via Robbie hanno impiegato un decennio a riprendersi e a capire che potevano farcela da soli. I Backstreet Boys, a parte un breve periodo di pausa, non hanno mai mollato, anche di fronte all’abbandono di un componente carismatico come Kevin Richardson, riuscendo così a passare anche i momenti più difficili.

ZOCCOLO DURO L’eterno dilemma: non cambiare mai ed essere accusati di fare sempre le stesse cose, o cambiare e sentirsi dire: “Non siete più quelli di un tempo!”? Dal 2005, anno dell’album Never Gone, il gruppo ha provato a crescere musicalmente. Strumenti veri in scena, suonati anche da loro, uno stile più prossimo al rock radiofonico. I Backstreet Boys hanno fatto di tutto per convincere anche gli altri che erano diventati adulti, anche rischiando pericolosi scivoloni. La critica li ha presi

spesso a pesci in faccia, e i loro dischi hanno venduto meno di quelli del momento d’oro, con il pubblico più teen che preferiva rivolgersi al nuovo idolo del momento. Ma se negli Stati Uniti l’ultimo disco, In A World Like This, è entrato al quinto posto della Top 200 di Billboard, nona Top 10 della loro storia, è segno che un consistente zoccolo duro di fan ha continuato a seguirli.

AGENDA FITTA Sul fronte discografico il gruppo riesce a tenere botta, ma dove ancora luccica come ai bei tempi è negli eventi dal vivo. Il nuovo tour è di quelli massacranti. Dal maggio 2013 ad aprile 2014, quando si chiuderà, la tournée del ventennale consta di quasi 90 date, e tutte in location dalle grandi dimensioni. A queste bisogna aggiungere un evento a Londra, ad Hyde Park, a giugno, più la crociera a ottobre. Insomma, un’agenda fittissima, con mesi, come marzo, dove il gruppo si esibisce praticamente tutte le sere. E non è che questo tour faccia storia a sé: dal 2008 a oggi il ritmo è sempre stato lo stesso. l

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STYLE

WINTER

BREAK Ci siamo appena lasciati alle spalle le vacanze di Natale, ma già le mente corre al prossimo momento di relax, complici il sole che (in teoria) ogni tanto fa capolino tra le nuvole e le giornate che cominciano ad allungarsi. Viene voglia di stare all’aria aperta, a contatto con la natura e ogni pretesto diventa buono per scappare in montagna per una giornata, un weekend o meglio ancora una settimana bianca. E immergersi così in una dimensione senza tempo, fatta di passeggiate, grandi sciate e discese in slittino. Che nevichi o il cielo sia blu, si può fare tutto, basta dotarsi del giusto abbigliamento. Perché, come dicono gli svedesi (che di clima freddo ne sanno qualcosa), non esiste il cattivo tempo, ma solo vestiti inadeguati. a cura di Francesca Vuotto

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STYLE / ABBIGLIAMENTO

EMPORIO ARMANI EYEWEAR Occhiali da sole con aste bicolori, disponibili anche in altre varianti e con cordino in gomma. 161 Euro

DOCKERS Camicia con motivo scozzese, taglio slim e polsini a contrasto in cotone chambray. 69 Euro

REPLAY Cardigan da uomo in lana, lavorato a trecce e con avvolgente collo a scialle a coste. 189 Euro

COLMAR Blouson slim fit con zip diagonale a contrasto, realizzato in lana a coste. Colmar Originals. 340 Euro

OAKLEY PANTALONI Pantaloni da neve in tessuto elasticizzato con tecnologia Hydrogauge(TM), comodi e idrorepellenti. 200 Euro

ROSSIGNOL - Unique 10 Pratici e performanti sci da donna, più leggeri del 20% grazie all’anima in legno di Paulownia. 880 Euro

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MOON BOOT Modello Monaco impreziosito da bordo in pelliccia. Anche in rosso, nero, blu e militare. 145 Euro

McGREGOR Lupetto sportivo in cotone elasticizzato, con taglio sciancrato e stampa “sports d’hiver”. 70 Euro

MEDITERRANEA CREMA Crema piedi a base di burro di mango e capsico, derivato del peperoncino che sviluppa calore. 15 Euro


COLMAR Felpa sportiva in neoprene total zip che garantisce contemporaneamente comfort e calore.140 Euro

DOCKERS Pantaloni Alpha Khaki con stampa scozzese in verde e blu e taglio slim fit affusolato. 99,90 Euro

BREKKA Sunglasses Long è un beanie reversibile: scegli tu se avere “in testa” maschera o occhiali da sole! 19,90 Euro

DIADORA HERITAGE Modello Basket Moch Hiker in pelle bottalata con dettagli in suede e ceratura effetto vintage. 160 Euro

DIMENSIONE DANZA Caldi scaldamuscoli in lana e lurex effetto tricot, disponibili anche nella variante nera. 39 Euro

TIMBERLAND Parka waterproof da uomo dotato di ampie tasche con patta e chiusura con bottoni e zip.

BREKKA Caldo paraorecchie adatto anche ai freddi più pungenti grazie alla fodera in eco pelliccia. 19,90 Euro

McGREGOR Morbido maglione in lana a collo alto, con fantasie colorate che ornano il décolleté. 140 Euro

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STYLE / PRODOTTI

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BROWN PAPER BAG Un sacchetto per il pane? No, molto di più. Brown Paper Bag è una vera e propria borsa termica (caldo/freddo) realizzata in Tyvek, un materiale resistente, antistrappo e riciclabile. Insomma, l’ideale per portare il pranzo in alta quota. 15,18 Euro

COVER IPHONE - CONNECT DESIGN Immaginatevi in baita, fuori nevica e si fa sera. A volte sia ha voglia di recuperare tradizioni ed abitudini ormai perdute. Come rimediare? Facile, seguite le istruzioni e iniziate a ricamare la cover del vostro iPhone a punto croce! 20 Euro

LASSO SHOES Storia interessante quella di queste pantofole in feltro. Il progetto è stato finanziato attraverso Kickstarter (uno spazio online per la raccolta fondi). Oggi vengono prodotte da una cooperativa sociale. Il montaggio però spetta voi! 35 Euro

TROPHY DEER HEAD - MIHO A noi gli animali impagliati non piacciono. Ma se proprio non potete fare a meno di esporre “un trofeo” vi proponiamo questa alternativa più spiritosa e divertente: una testa di renna colorata. Disponibile in 3 misurazioni diverse. 45 Euro

UVEX La lente della Downhill 2000 Polarvision Pro si adatta ai cambiamenti di luce ed evita l’effetto abbagliamento. Con la nebbia, con il sole o il riverbero dei ghiacciai, vedere bene è la prima regola per sciare in sicurezza.199 Euro

Prairie Campfire Volete accendere un falò in giardino, per fare bella figura nella baita dell’amico ricco senza che se ne accorga? Questo è il prodotto che fa per voi: Basta scegliere dove posizionarlo e neanche un filo d’erba verrà rovinato. Prezzo non disp.

set per fonduta - DOMESTIC Non si può parlare di freddo senza pensare al cioccolato. Ed è proprio nella sua versione più goduriosa che lo vogliamo ricordare: fuso. Ecco a voi un set da fonduta dall’aspetto curato e dal design moderno. Da 27 Euro

SNOW WOLF A chi è già capitato di spalare la neve sa che è una scocciatura. Questo nuovo prodotto cerca di renderci il compito meno faticoso: si carica la neve sulla pala e facendo leva sulla ruota si fa rimbalzare via.178 Euro

Bread board set Sandwich In quota c’è una regola da non trasgredire: prima dello sci è d’obbligo una sana colazione del campione. Questi originali sottobicchieri non sono solo utili, ma riproducono fedelmente l’aspetto del pane. Ora vi manca solo la marmellata!10 Euro


SLITTINO Chi non ama lo sci spesso dice di non apprezza la montagna. Magari definendola “noiosa”. In realtà sulla neve si possono fare molte cose: tra queste come dimenticare lo slittino? Ce ne sono di tutti i tipi e modelli, per grandi e per piccini. Insomma, le scuse e la pigrizia non sono ammesse.

cabina peg holder Questo porta-mollette a forma di cabinovia, disegnato da Avichai Tadmor, non solo vi permetterà di averle sempre a portata di mano facendole scorrere lungo il filo, ma darà anche un tocco giocosamente sciistico al vostro bucato. 17 Euro

cucù - DIAMANTINI & DOMENICONI Retrò e moderno insieme, questo caratteristico cucù è realizzato in legno tagliato a laser (oppure in metallo, oro, ruggine e inox). L’uccellino esce e canta ogni ora, tranne quando fuori è buio per non disturbare il vostro riposo. 229 Euro

ATTITUDE CHAIR Esiste qualcosa meglio di una tradizionale sedia a dondolo per lasciarsi cullare e passare le gelide serate invernali? No. Niente male questa versione rivisitata nel design, nei colori e nei materiali da Patricia Urquiola. 476 Euro

onstage febbraio 61


64 onstage novembre


WHAT’S NEW a cura di Tommaso Cazzorla

IL PASSATO TORMENTA

IL BOSS ?

High Hopes è uscito il 14 gennaio. Un disco anomalo, un esperimento mai tentato da Springsteen, che mette insieme cover e materiale del passato. Che sia proprio il passato la chiave di questo album? di Alvise Losi

H

igh Hopes è un disco che non sarebbe dovuto uscire. Perlomeno non in condizioni normali. Mai Bruce Springsteen aveva pubblicato un album solo di outtake e cover, senza neppure un pezzo composto per l’occasione (le Seeger Sessions erano un’altra cosa, così come Tracks e The Promise). Soprattutto, mai il rocker del New Jersey aveva fatto uscire un suo lavoro senza che avesse uno spirito di fondo ben identificabile, un tema unitario che desse omogeneità alla scaletta. E c’è da chiedersi il perché. Non tanto perché non l’avesse fatto prima. Quanto perché abbia deciso di farlo proprio ora (non che sia un male), lui ben noto per l’ossessione di non lasciar uscire un disco se non quando lo considerasse perfetto. Una scusa per andare di nuovo in tour? Non ne ha alcun bisogno. Probabile che il motivo sia ben più profondo. Inutile nasconderlo: a Bruce manca qualcosa. O qualcuno. Non ha ancora davvero superato i lutti per le morti di Danny Federici e Clarence Clemons, l’organista e il sassofonista membri fondatori della sua E Street Band. Sembrava ci fosse riuscito con Wrecking Ball, dove il suo omaggio era sentito e commosso, ma era anche evidente il primo passo verso un nuovo percorso. E invece nel continuo recupero di registrazioni degli ultimi vent’anni, pur giusto tributo ai compagni di una vita, pare di cogliere un’ostinazione eccessiva, soprattutto quando il sax di Big Man va a duettare con la

chitarra di Tom Morello. Ecco forse il percorso che ha portato al lavoro più disomogeneo nella carriera di Springsteen: la necessità di recuperare la memoria. O magari no. Magari Bruce ha solo imparato a fregarsene un po’ del suo perfezionismo, pubblicando quella che lui per primo ha definito come «un’anomalia». Non è insomma semplice valutare High Hopes e non si può darne un giudizio netto. O meglio, si può anche farlo, dicendo che è un ottimo disco, ma non un grande disco: e però si tratta di un passaggio importante se si vuole capire chi sia oggi Bruce Springsteen. Non vale Wrecking Ball, l’ultimo splendido album pubblicato due anni fa, ma è superiore ai due precedenti Magic e Working On A Dream. La qualità è comunque assicurata, con almeno un paio di veri capolavori come American Skin (41 Shots) o Dream Baby Dream, cover del gruppo punk Suicide. Entrambe, peraltro, già note ai fan di Springsteen, che forse apprezzeranno il disco meno dei neofiti. Venendo alla grande novità di High Hopes, la collaborazione con Morello, si può dire che

l’esperimento fosse più riuscito in Wrecking Ball, mentre qui il chitarrista in alcuni degli otto brani ai quali partecipa aggiunge troppo, fin quasi a sovrastare (su tutti The Ghost of Tom Joad, dove l’arrangiamento, bello e arrabbiato, è in parte vanificato dalla stessa voce di Morello). Le orecchie hanno comunque di che gioire: Just Like Fire Would (cover dei Saints), Down In The Hole, Frankie Fell In Love (cori d’altri tempi di Litte Steven), Hunter Of Invisible Game, The Wall sono tutte canzoni di altissimo livello. Ma la sensazione che sia solo una bozza di un bel quadro resta. Dopo 40 anni di carriera Springsteen se lo può permettere. E, in ogni caso, fossero tutti di questo livello gli album rock di oggi ci sarebbe da esultare.

BRUCE SPRINGSTEEN High Hopes (Sony Music)

onstage febbraio 63


MUSICA

© Peter Hapak

S

ei anni nella carriera di un cantante possono essere un’eternità, e tanti ne sono passati da Modern Guilt, l’album con il quale Beck ha chiuso nel 2008 il suo contratto con la Interscope. Da allora si è calato in una fase di frenetico lavoro indipendente, da una parte aprendo i suoi studi alla collaborazione con altri artisti, dall’altra componendo pezzi per colonne sonore di film o dando vita a progetti follemente sperimentali, come Song Reader, sulla carta (nel vero senso della parola) il suo più recente album di inediti: 20 canzoni pubblicate nel 2010 solo sotto forma di spartito. Dopo un simile periodo, il ritorno a un album classico come Morning Phase sembra quasi un momento di relax, come tornare al focolare domestico dopo una lungo viaggio intorno al mondo. E il focolare domestico, le radici, per Beck, sono rappresentate dal folk californiano degli anni ‘60 e ‘70, quello di Neil Young, di Crosby, Stills & Nash, di Gram Parsons. Per realizzare Morning Phase l’artista losangelino ha scelto con cura da una gran mole di materiale composta in questi anni e ha recuperato i frutti di una session di lavoro iniziata nel 2005 a Nashville (e che alla fine ha portato in dote tre canzoni, più due pubblicate come singoli nel 2012). Il risultato è un album giocato tutto su toni molto morbidi e caldi, con suoni in gran parte acustici, arrangiamenti lievi e orchestrazioni misurate, dove sono bandite chitarre elettriche ed elettronica. Pur in un percorso variegato come quello che Beck ha sempre condotto, c’è una cesura rispetto a Modern Guilt, del quale manca la vena psichedelica e il forte impatto ritmico, per tornare alle atmosfere del fortunato Sea Change (2002), al quale Morning Phase è accomunato dai musicisti coinvolti.

Il livello è alto, con punte di eccellenza, come Morning, quasi un quadro impressionista, con la sua splendida apertura sul ritornello, o Turning Away con le sue trascinanti armonie à la Simon & Garfunkel, o la dolente Country Down e il suo assolo di armonica a bocca. Storia a sé fa Wave, dove la voce del cantante si muove come appoggiata su onde sonore composte solo da un tappeto di archi. Nelle intenzioni questo dovrebbe essere solo il primo di due album da pubblicare nel corso di quest’anno. Se il buongiorno si vede dal “mattino”, per i fan di Beck sarà un 2014 da ricordare.

BECK

Morning Phase (Capitol)

di Massimo Longoni

Micro-reviews Nobraino L’ultimo dei Nobraino (Warner)

Anni e anni di #gavetta e ora la band romagnola approda ad una major. L’impatto è lo stesso di sempre, su tutto svettano i testi spiazzanti di Lorenzo Kruger.

64 onstage febbraio

The Notwist Close To The Glass (Sub Pop)

La band tedesca cammina sul sottile vetro tra lievi suoni elettro-noise e la ricerca della canzone pop perfetta. A volte scivola, ma ne vale comunque la pena #dontbreakglass

Maximo Park Too Much Information (Daylighting)

Formula immutata per i cinque di Newcastle, un indie-rock guitar oriented che appare inesorabilmente stanco e mostra il logorio del tempo e delle mode #fuoritempomassimo

Suzanne Vega Tales from the Realm of the... (Cooking Vinyl Records)

Riferimenti esoterici, tarocchi, allegorie mistiche: Suzanne racconta il suo mondo con compostezza e manierismo confermandosi una Signora della musica. #popdaltritempi


P

remessa: il mondo del post rock è considerato da molti un sublime contenitore di espressioni musicali non conformi agli stili classici, dove esprimere in modo oscuro, dissennato, spudoratamente sonoro e viscerale forme artistiche di svariata natura e provenienza. Una volta entrati in quest’ottica, un disco dei Mogwai, acclamata band di culto nel genere, può essere approcciato, ascoltato, degustato e fatto proprio senza nessuna ricetta preconfezionata, risultando probabilmente un piacevole rifugio emozionale senza confini nè spazi ristretti. Fin dai tempi degli esordi, la ricerca meticolosa di mondi visionari, dilatati, sghembi ed introspettivi, ha da sempre caratterizzato il combo scozzese: abbandonati i muri chitarristici che si incastravano drammaticamente tra lunghe riflessioni musicali rarefatte, l’orientamento attuale sposta l’ambientazione in un suono intriso di elettronica tenue, che si alterna e convive con

U St. Vincent St. Vincent (Loma Vista / Republic Records)

di Marco Rigamonti

E

l’anima acustica e suonata degli strumenti. Le esplicite linee di direzione si erano già manifestate nei recenti lavori, e questo nuovo geniale prodotto arricchisce il percorso evolutivo e di scrittura compositiva, dando maggiore energia alla band e spostandosi su atmosfere meno cupe e meno ricche di tensione emotiva. Sempre al minimo le parti teatralmente recitate o cantate, tanto spazio alla profondità dei suoni ed alla ripetitiva cadenza delle estenuanti melodie, per l’occasione infuocate dalla presenza cospicua di synth analogici, nuova recente passione della band. Merito anche della produzione di Phil Savage che accompagna i Mogwai attraverso un’intensa sperimentazione ritmica, fatta di lunghe dissolvenze e riverberi. Un ulteriore passo avanti nella lunga vita di Stuart Braithwaite e soci che, giunti all’ottavo album, hanno ancora la voglia ed il coraggio di intraprendere nuovi viaggi e contaminare il loro insaziabile spirito libero.

n anno prima della collaborazione con David Byrne, il terzo disco di St. Vincent (Strange Mercy) aveva sorpreso tutti raggiungendo la diciannovesima posizione della Billboard USA; il commento di Annie Clark a riguardo fu qualcosa tipo: «Penso di potere fare meglio, ma comunque è un buon disco». Ora, nel meraviglioso mondo della musica certe frasi te le puoi permettere (senza passare per sbruffone) soltanto se possiedi almeno un paio di argomenti, identificabili nell’essere un buon musicista e nel sapere trovare il giusto compromesso per comunicare la tua bravura a un pubblico medio-vasto. Tali necessarie condizioni calzano alla perfezione la multi-strumentista originaria dell’Oklahoma, che da quando si è lasciata alle spalle i Polyphonic Spree propone una sua personalissima declinazione di musica pop; la ricetta consiste nel minuzioso dosaggio di svariate influenze

rano attesi al varco i You Me At Six. La band inglese doveva confermare quanto di buono ottenuto con le tre uscite precedenti, lavori che l’hanno rapidamente portata in cima alle preferenze dei giovani inglesi più trendy e ancora parecchio interessati a quel pop punk che i Blink-182 a inizio millennio trasferirono su ogni radio. Cavalier Youth dimostra che il sound del gruppo guidato dalla voce di Josh Franceschi è sempre più orientato all’easy listening e al singolo mangia classifiche, ma questo non significa che il nuovo cd sia poco godibile. Profondità di ascolto e varietà compositiva non sono certo da ricercare nei brani dei ragazzi di Weybridge, capaci invece di regalare intrattenimento con semplicità e buona alternanza ritmica. Se da un lato l’attacco con Too Young To Feel This Old potrebbe

Mogway Rave Tapes (Rock Action)

di Claudio Morsenchio

stilistiche a supporto di melodie a presa rapida, nel tentativo (sistematicamente riuscito) di nascondere azzardi e tecnicismi dietro un’apparente semplicità. Con il quarto album St. Vincent saluta il mondo indie e si avventura in territori major, ma pensare a un “tradimento artistico” pare fuori luogo: Annie continua a fare quello che vuole fregandosene bellamente dei supposti limiti (ma esistono ancora?) che un’etichetta più in vista potrebbe imporre. In 40 minuti c’è spazio per grovigli di synth e chitarra funky (Rattlesnake), splendida strafottenza punk (Birth In Reverse, che si apre così: «Che giorno ordinario / Porta fuori i rifiuti, masturbati»), soave liricità (Prince Johnny e I Prefer Your Love), fiati che marciano (Digital Witness), distorsioni deliranti (Bring Me Your Loves) e progressioni armoniche di spessore (Huey Newton e Severed Crossed Fingers). L’ennesima dimostrazione di come “ricercato” non debba per forza litigare con “digeribile”.

lasciare deluso chi si aspettava un impatto maggiore, il successivo mega singolo Lived A Lie e la più spedita Fresh Start Fever faranno sfracelli ai concerti e nei dancefloor votati al mainstream rock. Buoni momenti sono anche Room To Breath e le più ruvide Win Some, Lose Some, Hope For The Best e Love Me Like You Used To. Il resto però non è certo su un livello eccelso, in particolare la chiusura dell’album è troppo posata e non regala grosse emozioni. Quest’uscita difficilmente fallirà nelle chart del Regno Unito, considerando anche l’ottimo impatto ottenuto dal brano di lancio Lived A Lie a settembre 2013. Il quintetto è destinato a raccogliere ulteriori consensi, tuttavia ascoltando Cavalier Youth rimane la fastidiosa sensazione di un compitino realizzato senza eccessiva fatica.

YOU ME AT SIX Cavalier Youth (BMG Rights)

di Jacopo Casati onstage febbraio 65


A STEF BURNS LEAGUE Roots & Wings (Ultratempo / Self)

di Luca Garrò

quasi sei anni da World, Universe, Infinity, Stef Burns si riaffaccia sul mercato discografico con un album che, per certi versi, può essere paragonato ad un vero e proprio debutto. Sì, perché questa volta Stef ha deciso di fare le cose in grande, lasciando per un attimo da parte l’idea che un ottimo chitarrista debba incidere per forza di cose solo dischi strumentali o nei quali i brani cantati siano semplici eccezioni che confermino la regola. Roots & Wings, fin dal titolo, si mostra come il disco più personale di Stef, quello in cui il musicista si è sentito finalmente libero di dare sfogo alle proprie passioni più inconfessabili; un album in cui a fare la differenza sono la varietà di stili e una produzione che, allo stesso tempo, appare old school, ma anche terribilmente attuale: rock classico che strizza l’occhio agli anni Settanta

T

erzo capitolo della saga Brunori Sas. Italianità, genuinità, spontaneità sono sostantivi che hanno sempre disegnato i contorni creativi del cantautore cosentino. Sarto nel cucire la vita quotidiana tra note e parole. Il Cammino di Santiago in taxi é autobiografico fino al midollo ed è cosparso di profonda ricerca e velocità contemporanea. Un minatore dell’anima che scava le sue vicissitudini per sfociare in quell’Arrivederci tristezza cantato con voce graffiata in apertura e in Sol come sono sol, posta in naturale antitesi come ultima traccia. «Chiedilo a Marilyn quanto l’apparenza inganna e quanto ci si può sentire soli» (Kurt Cobain) è una domanda retorica che mostra come questo album non parli solo di Dario ma anche di noi, ascoltatori attoniti nel vedere la nostra vita dipinta tra pentagrammi e parole. Il Cammino di Santiago in taxi é sfrontato e irriverente anche nella sua voglia di umanizzare gli

è Dente Almanacco del giorno prima (Sony Music)

di Stefano Gilardino

66 onstage febbraio

e Ottanta, quelli della sua formazione, ma che non ha paura di confrontarsi con il presente e di lasciarsi alle spalle alcune certezze del suo passato solista. Per la prima volta, Burns si presenta nella triplice veste di autore, musicista e cantante e lo fa con una naturalezza sorprendente. Gli echi musicali sono continui e rimandano tanto alle esperienze personali (l’Alice Cooper più radiofonico, le melodie di Vasco e una spruzzata di Huey Lewis & The News), quanto ai gruppi amati nel corso della propria vita, tra i quali spuntano spesso Queen, Van Halen e Foo Fighters, con il faro di Jimi Hendrix sempre stabile all’orizzonte: What Doesn’t Kill Us, Home Again, Something Beautiful, Patience e la title track sono i pilastri di un disco in grado di stupire tanto i fan di vecchia data, quanto quelli che lo scoprono solo oggi.

idoli, riportandoli alla loro essenza prima: l’esser uomini. Brunori è da sempre ironico e (mi permetto) macchiettistico nel drappeggiare i personaggi (Mambo reazionario). Un album che pone una lente di ingrandimento sempre più stretta su questo mondo, Stato, provincia, città, fino ad arrivare all’uomo, che mescola la sua esperienza di vita per diventare contorno o gradiente comune. Maddalena e Madonna descrive una passionalità tra gonne strette mentre in Pornoromanzo, per antitesi alla becera carnalità, troviamo l’immagine più crudamente reale di quell’Amore tanto bistrattato: «Se mi stringi il cuore non ti spaventare». Oppure La vigilia di Natale, con «la moglie che puzzava di brodo vegetale» che porta alla mente un’ immagine fantozziana. Ancora una volta, Dario Brunori pone la giusta distanza dalla malinconia e ti trovi a sorriderne, tra incoerenze e moti di anime in continuo divenire dal sapore popolare.

una parabola in costante crescita quella del cantautore fidentino, approdato per il suo nuovo album alla Sony, dopo aver consolidato con ottimi risultati la sua carriera artistica. Dente non ha mai fatto mistero delle proprie influenze musicali, da Battisti a De Gregori, passando per certo materiale targato Cramps degli anni Settanta, ma è un piacere constatare come il suo talento personale sia ormai sufficiente a far dimenticare i maestri del passato ed evitare scomodi paragoni. A onor del vero, gli omaggi si riconoscono eccome, ma l’impressione è che Dente abbia finalmente trovato una voce ben precisa che non necessita altro se non se stessa. Registrato la scorsa estate in una ex scuola di un piccolo paese in provincia di Parma, Busseto,

Brunori Sas Il Cammino di Santiago in taxi (Picicca Dischi / Sony Music)

di Elena Rebecca Odelli

assieme alla sua band e con la partecipazione di amici come Enrico Gabrielli, Tommaso Colliva e Rodrigo D’Erasmo, L’Almanacco del Giorno Prima è un album “polveroso” che volge il proprio sguardo verso gli anni d’oro della musica italiana, pur con l’indubbio merito di non suonare fuori dal tempo e neppure nostalgico. Ci sono molti motivi per gioire durante l’ascolto: lo splendido arrangiamento di fiati di Chiuso dall’interno, per esempio, la leggerezza malinconica di Invece tu (il primo singolo estratto) e Miracoli, pezzi alla Dente come Fatti viva, Remedios Maria e Al Manakh. Una parola, infine, per la bella copertina, molto psichedelica, che nella versione gatefold in vinile si mostra in tutto il suo splendore. E, ora, tocca al lungo tour nei teatri per la definitiva consacrazione.



CINEMA

a cura di Antonio Bracco

MONUMENTS MEN di George Clooney

USA, 2014, 118 min Il cast: Matt Damon, George Clooney, Cate Blanchett, John Goodman, Bill Murray, Jean Dujardin, Bob Balaban, Hugh Bonneville.

critica pubblico

D

urante gli ultimi concitati mesi della tirannia di Adolf Hitler, sette uomini si incaricano a loro rischio e pericolo di recuperare quante più opere d’arte possibile tra quelle impropriamente confiscate dai nazisti. Non erano soldati né spie, ma curatori di musei, artisti, architetti e storici dell’arte. Quella che portarono a termine fu una vera caccia al tesoro contro il tempo per evitare che, ormai conscio di essere vicino alla sua disfatta, il Führer desse l’ordine di distruggere tutto. E con il nobile scopo di recuperare le opere, patrimonio culturale dell’umanità (tra le quali sculture di Rodin e dipinti di Matisse e Picasso), per restituirle ai legittimi proprietari. Una storia vera portata sul grande schermo con il titolo di Monuments Men grazie a George Clooney e al suo collaboratore Grant Heslov, vinci-

tori dell’Oscar un anno fa per aver prodotto Argo. Anche qui sono produttori, oltre che sceneggiatori. La regia è curata dallo stesso Clooney che per la quinta volta siede dietro la macchina da presa, non resistendo al fascino cinematografico dei film ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale, e ritagliando una parte per sé anche davanti la cinepresa. L’attore (che per le donne di qualunque età è sempre un sex symbol, what else?) interpreta uno storico dell’arte

impiegato presso il Fogg Museum di Harvard. Il fatto che il suo personaggio abbia combattuto nella Prima Guerra Mondiale lo favorisce alla leadership del gruppo e al delicato compito di infiltrarsi nel morente Terzo Reich. Tante opere d’arte conservate nei musei di fama mondiale hanno un passato che ignoriamo ed è grazie al coraggio di questi uomini, raccontati nel film, che oggi possiamo ammirarle e che continuano a rappresentare un pezzo di Storia.

Micro-reviews POMPEI - di Paul W.S. Anderson (GERMANIA, USA, 2014)) Milo è un ambizioso schiavo che sogna non solo la libertà, ma anche la figlia del suo padrone. Il problema è che siamo nel 79 D.C. e l’eruzione #apocalittica (Hollywood style) in 3D del Vesuvio è imminente.

68 onstage febbraio

SAVING MR. BANKS

di John Lee Hancock (USA, 2014) Ci ha messo 14 anni Walt Disney per convincere l’autrice di Mary Poppins che avrebbe fatto del suo libro un buon film. Una storia molto #supercalifragilisticespiralidosa con Tom Hanks e Emma Thompson.

TIR di Alberto Fasulo (ITALIA, croazia 2013) Documentario su un ex professore croato diventato #camionista per un’azienda italiana. Guadagna tre volte tanto rispetto a prima, ma la vita che aveva non c’è più. Vincitore dello scorso Festival di Roma.

JUSTIN BIEBER’S BELIEVE

di John M. Chu (USA, 2013) Sequel di Never Say Never, il documentario continua a raccontare la #scalata al successo mondiale di Justin Bieber. Sperando che, dopo il suo recente arresto e rilascio, il prossimo non ne racconti la discesa.


The Lego Movie

di Phil Lord e Chris Miller, USA, 2014

Realizzato con tecnica mista (stop-motion e CGI), si tratta del primo film della notissima azienda danese che produce mattoncini assemblabili. La storia mette al centro Emmet, un comunissimo omino Lego che viene erroneamente identificato come un personaggio straordinario in grado di salvare il mondo da un’imminente apocalisse. Il malvagio Presidente Business ha intenzione di distruggere l’universo incollando insieme tutti i mattoncini esistenti. Emmet deve accettare il suo destino e partire con una compagnia di sconosciuti nel tentativo di bloccare un malvagio tiranno. Per questa avventura è drammaticamente e comicamente impreparato, ma per sua fortuna ad accompagnarlo ci sono Batman, Superman, Wonder Woman e Lanterna Verde (ovviamente tutti in versione omini Lego). I registi sono gli stessi di Piovono polpette. In 3D. critica pubblico

Con le voci italiane di Pino Insegno e Claudio Santamaria

12 ANNI SCHIAVO

di Steve McQueen, USA, 2013

Stati Uniti, 1841. La Guerra Civile Americana è alle porte e Solomon Northup è un violinista nero di grande talento, ma soprattutto un uomo libero. Un giorno, nel nord dello stato di New York dove vive, viene ingannato da due falsi agenti di spettacolo, rapito e venduto come schiavo. Costretto a lavorare in una piantagione di cotone in Louisiana, deve misurarsi quotidianamente con la feroce crudeltà del suo “datore di lavoro” Edwin Epps, ma anche con gesti di inaspettata e spiazzante gentilezza. Solomon usa tutta la forza fisica e d’animo che possiede per sopravvivere, senza perdere la sua dignità. Nel dodicesimo anno della sua odissea, l’incontro con un abolizionista canadese cambia per sempre la sua vita. Tratto dall’autobiografia di Solomon Northup, il film è candidato a 9 premi Oscar ed è prodotto da Brad Pitt (che recita in una piccola parte). Il Cast: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Sarah Paulson, Paul Giamatti, Lupita Nyong’o, Adepero Oduye, Brad Pitt

critica pubblico

UNA DONNA PER AMICA di Giovanni Veronesi, Italia, 2014

Un uomo e una donna possono essere amici? C’è un film che non ha rivali su questo argomento: Harry, ti presento Sally... Ma era il 1989 e il produttore Domenico Procacci ha pensato che fosse il caso di fare un aggiornamento con l’idea suggerita da Giovanni Veronesi. La storia di questa commedia racconta di Francesco e Claudia, giovani, belli e, soprattutto, molto amici. Lui è un avvocato, impacciato e spiritoso, lei è veterinaria, un’anima libera, sensuale e anticonformista. Tra loro ci sono tante confidenze e nessun segreto. Eppure quando nella vita di Claudia arriva Giovanni, Francesco comincia a manifestare inaspettatamente inequivocabili segni di gelosia. E quando lei decide di sposare il suo nuovo amore, Francesco si accorge che forse quella che aveva sempre creduto essere una bella amicizia, era in realtà qualcosa di molto più significativo. critica pubblico

Il Cast: Fabio De Luigi, Laetitia Casta, Valentina Lodovini, Adriano Giannini, Geppi Cucciari, Monica Scattini, Virginia Raffaele, Valeria Solarino

onstage febbraio 69


GAMES

Don’t Starve Inno all’Indie Un survival a tinte dark che provoca assuefazione

Produttore: Klei Entertainment Genere: Avventura Disponibile per: PS4

U

no dei segreti del successo di Minecraft (titolo indie osannato dalla critica e graditissimo al pubblico) è stato quello di avere letteralmente preso a picconate la parola “fine” intesa come obiettivo principale; il classico schema videoludico a livelli basato su un viaggio che a un certo punto mostra gli inevitabili (e agognati) titoli di coda è stato messo da parte, in favore di un ravvivato interesse per il primordiale concetto di curiosità - il vero motore che spinge il giocatore a rimanere incollato allo schermo. Tale impostazione (detta nonlineare) prende spunto dai giochi simulativi, manageriali e strategici in tempo reale che spopolarono negli anni 90 (pensate ai vari Sim); ma ad oggi il vetusto sistema “pensa, clicca e aspetta le conseguenze” non è più sufficientemente innovativo per attirare l’attenzione di tutti gli utenti – soprattutto di

a cura di Blueglue

quelli sprovvisti di mouse, che si ritrovano a controllare interfacce complicate con uno scomodo joypad. Le idee che hanno messo tutti d’accordo sono state l’inserimento di un pizzico di azione e di un tema tanto caro alla generazione del ventunesimo secolo: la sopravvivenza. Se proprio dovessimo trovare un obiettivo in Don’t Starve basterebbe tradurre il titolo: “Non morire di fame”. In un mondo dai contorni artistici dovremmo procurarci le risorse necessarie per resistere il più a lungo possibile: si parte da zero (legno, fogliame e pietre) e col tempo ci si evolve e

ci si occupa di problemi ben più impegnativi (agricoltura, sartoria e scienza), stando molto attenti a tenere a bada la follia che a poco a poco si impossessa del nostro personaggio (che rischia di impazzire tra allucinazioni e scherzi della mente). Spietato, eccentrico e bizzarro, Don’t Starve è il regalo di Sony per chi ha deciso di compiere il grande passo verso la next-gen (che ora non è più next) sottoscrivendo l’abbonamento Plus; per tutti gli altri è disponibile a un costo super abbordabile, e lasciarselo scappare sarebbe un delitto.

Micro-reviews Assassin’s Creed Liberation HD (Xbox Live – PS Network) Per chi un anno fa si fosse perso le avventure di Aveline De Grandprè nell’America coloniale su Ps Vita, ecco che la versione HD di Liberation sbarca sui mercati digitali di Sony e Microsoft. #spin-off

70 onstage febbraio

Broken Sword - The Serpent’s Curse (Ep. 1) (Ps Vita) Revolution Software (con l’aiuto di Kickstarter) pubblica il primo tempo di Broken Sword 5 sulla console portatile che meglio si presta a ospitare avventure grafiche. #enigmiaparigi #avventurapura

Minecraft

(PS3) Il capolavoro firmato Markus Persson approda finalmente anche su Play Station, dando così opportunità anche agli utenti Sony di esplorare, combattere e soprattutto sbizzarrirsi con i cubi. #craftingestremo

Zombeer

(PS Network) Risvegliarsi dopo una sbronza circondato da zombi consapevole del fatto che la birra cura la zombificazione: Moonbite crea un’indie-parodia totale che diverte e fa bene allo spirito. #occhioaltassoalcolico



TECH

vi basta un dito Arriva sul mercato Amplifi, nuovo modello di amplificatore digitale progettato dalla Line6. Un ulteriore passo in avanti della tecnologia applicata all’amplificazione che semplifica la vita di aspiranti chitarristi (e dj). di Marco Rigamonti

c’

era una volta il falò sulla spiaggia. Indissolubilmente legata al poetico focherello era la figura del chitarrista, addetto all’intrattenimento degli avventori che cantavano insieme a lui (e limonavano). Con il passare del tempo, e una disponibilità economica maggiore, il vero rocker si comprava una chitarra elettrica con annesso amplificatore e pedaliera per gli effetti: overdrive, riverberi e wah-wah rendevano gli eroi di Woodstock un poco più raggiungibili e le ragazze sulla spiaggia un poco più distanti. Intorno alla metà degli anni 90 la Line6 provava a mandare in pensione le care vecchie valvole, introducendo sul mercato l’AxSys 212 - il primo amplificatore digitale. Inutile soffermarsi sui dibattiti tra puristi e innovatori: è una discussione che probabilmente non si spegnerà mai (vedi libri Vs Kindle, vinile vs formati digitali etc.). Oggi la stessa Line6 compie un ulteriore passo verso il futuro: il nuovo Amplifi (disponibile nella versione “rock duro” da 150 watt

e in quella “cameretta” da 75) include 5 speaker, si può comandare attraverso una App e implementa una connessione Bluetooth. Sembra incredibile, eppure questo scatolone bucherellato che pare un ibrido tra un pc-case e un condizionatore è capace di tutto ciò. Dimenticatevi manopole o interfacce fisiche: come in qualsiasi moderno contesto vi basteranno un dito e un touch-screen. Potrete quindi personalizzare il suono (ci sono repliche di più di 70 ampli e un centinaio di effetti), salvare i preset e condividerli con la comunità attraverso cloud e jammare come se non ci fosse un domani sulle vostre canzoni preferite. C’è perfino la possibilità di rallentare i brani così finalmente riuscirete a imparare quel riff o quel solo che proprio non riuscivate a replicare - oppure di trasformare l’amplificatore in sound-system e dare una festa, con il vostro dj-telefono in wireless. I prezzi si aggirano sui 700 dollari (per la versione 150 watt) e sui 550 (per la versione 75 watt). Non una batosta, ma forse sarebbe meglio evitare di portarli in spiaggia.

Micro-reviews XO Tablet

Con più di 100 applicazioni, giochi, libri e video precaricati, XO è il miglior modo per avvicinare i bimbi alla tecnologia moderna; la sicurezza è garantita da un sistema di controllo per i genitori. #smartkids

72 onstage febbraio

HTC One Mini

A un anno dal lancio dell’HTC One, ecco la versione in miniatura; ottime prestazioni e cura dei dettagli lo fanno svettare nel mercato dei mini, anche se il prezzo è alto rispetto alla media. #minidilusso

Solo Monochrome

Disponibili anche in Italia i nuovi modelli delle cuffie Beats by Dr. Dre, che ora presentano due altoparlanti per padiglione garantendo una riproduzione sonora sempre più definita. #trendyheadphones

Interviewy (IOS)

La pratica dello sbobinamento comporta un grande spreco di tempo; ma con questa app è possibile taggare i momenti clou in tempo reale, così al riascolto avrete dei comodissimi marker. #freeapp #tagliacorto


GIGI D’ALESSIO

RA

20 14 MARZO 2014

20 ROMA GRAN TEATRO 21 ROMA GRAN TEATRO 25 NAPOLI PALAPARTENOPE 26 NAPOLI PALAPARTENOPE 27 NAPOLI PALAPARTENOPE 30 ACIREALE PALASPORT APRILE 2014

2 BARI TEATRO TEAM 4 FIRENZE TEATRO VERDI 5 RIMINI 105 STADIUM 8 TORINO PALAOLIMPICO 11 MILANO GRAN TEATRO LINEAR4CIAK 12 MILANO GRAN TEATRO LINEAR4CIAK 15 PADOVA GRAN TEATRO GEOX

OBVIOUS BASIC

MAGGIO 2014 1 LIVORNO Modigliani Forum 3 PADOVA Palafabris 4 MONTICHIARI (BS) PalaGeorge 6 RIMINI 105 Stadium 7 BOLOGNA Paladozza 10 MILANO Mediolanum Forum 13 TORINO Palaolimpico 14 ANCONA Palarossini 17 ROMA Palalottomatica 20 NAPOLI Palapartenope 22 FIRENZE Mandela Forum 25 VERONA Arena BIGLIETTI DISPONIBILI ORA

IL NUOVO ALBUM DISPONIBILE ORA


COMING SOON

ELISA di Marta Stone foto di Fabio Lovino

C

antautrice di successo e madre di due figli: non è l’unico “dualismo” che caratterizza la complessità di Elisa Toffoli, così fragile e al tempo stesso tenace, timida e scatenata. Da adolescente, oltre a fare motocross, ascolta il blues americano e i Doors. Poi, un giorno del 1996, Caterina Caselli nota le sue doti vocali e le spalanca le porte del successo. Il primo album Pipes & Flowers esce nel 1997 e permette all’Italia di conoscere il talento di questa ragazza friulana, vicina al rock come alle ballate, che canta esclusivamente in inglese. Da quel momento in avanti, la parabola artistica di Elisa è in costante crescita. Tende verso il pop, ma non manca di incontrare suoni elettronici e ancora il r’n’r, mentre i testi mostrano una progressiva “italianizzazione” dei suoi album. Non a caso, nel 2001, un anno dopo l’uscita dell’album Asile’s World, si presenta al Festival di Sanremo con il suo primo testo in italiano:

Luce (tramonti a nord est). Da quel momento la sua ascesa non si arresta più. Raccoglie premi (Migliore artista italiana agli MTV Europe Music Awards 2001 di Francoforte, tre riconoscimenti agli Italian Music Awards dello stesso anno) e soprattutto consenso del pubblico, che riconosce le sue doti vocali nonostante lei sia ancora in bilico tra italiano e inglese, lingua mai fortunata per i cantanti del nostro Paese. Un dualismo che accompagna tutti gli album: Then Comes The Sun, Lotus (si vedano i singoli Broken e Almeno tu nell’universo, cover di Mia Martini), Pearl Days, Heart e Ivy. Finchè arriviamo al 2013 e al suo ultimo disco, L’anima vola. Per la prima volta Elisa abbandona l’inglese in favore di una scrittura completamente in italiano. Come e se questa svolta influirà sul suo modo di cantare e stare sul palco lo scopriremo presto: all’inizio di marzo, quando partirà la sua tournée (il 7 da Conegliano), che toccherà le principali città italiane fino alla fine del mese - il calendario è fittissimo. Con lei, ovviamente, anche il compagno (e chitarrista) Andrea Rigonat e i loro due figli. Non tutti i “dualismi” possono essere messi da parte.

*

CALENDARIO CONCERTI marzo

Afterhours 07/03 Modena 14/03 Mantova 15/03 Rimini 18/03 Torino 21/03 Bologna 22/03 Treviso 24/03 Milano 26/03 Firenze 28/03 Roma 29/03 Bari James Blunt 18/03 Milano

Skunk Anansie 18/03 Bergamo 19/03 Roma 20/03 Bologna 22/03 Padova Joe Bonamassa 08/03 Milano 10/03 Roma Bastille 22/03 Milano Mogwai 30/03 Bologna 31/03 Milano Antonello Venditti 03/03 Firenze 08/03 Roma 09/03 Roma 11/03 Napoli 15/03 Catania 19/03 Genova 22/03 Campione d’Italia (CO) 28/03 Padova 30/03 Montecatini (PT)

74 onstage febbraio

Levante 20/03 Milano 25/03 Roma 27/03 Napoli 28/03 Pescara Neffa 01/03 Bologna 07/03 Firenze 14/03 Roncade (TV) 20/03 Milano 28/03 Roma Alex Britti 01/03 Civitanova Marche 06/03 Roma 08/03 Senigallia (AN) 10/03 Napoli 21/03 Padova 22/03 Rimini 25/03 Torino 27/03 Milano 29/03 Pescara Brunori Sas 06/03 Milano 08/03 Firenze 14/03 Torino 15/03 Genova 19/03 Padova 21/03 Bologna 22/03 Verona 27/03 Cosenza 29/03 Roma Dente 24/03 Firenze 25/03 Bologna 28/03 Verona 29/03 Senigallia (AN) 30/03 Rimini 31/03 Perugia




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