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MAGAZINE MERRY CHRISTMAS
Sommario Natale in Abruzzo
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IL BUON BRODO DI CARDO
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LI CAGGIUNITT’
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di Elisabetta Mancinelli di Patrizia Manente
guide brochures cataloghi fotografia campagne pubblicitarie
di Patrizia Manente
PALAZZO LIBERATI 10 Hollywood e il suo mito 12 di Michela Cialini
L’ANTICO MULINO
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Vittorina Castellano
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QUANDO NEI SALOTTI TELEVISIVI NON C’ERA LA CRONACA NERA
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INVITO A CASA MIA
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Progettazione Marketing & Comunicazione di Patrizia Manente Via Luigi Longo, 21 - Teramo Foto Massimo Di Dionisio, Patrizia Manente, Diego Pomanti Marketing e Pubblicità Paola Manente, Patrizia Manente Coordinamento Patrizia Manente
IL FASCINO ANTICO DELLA SCARPA
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QUANDO A FONTE REGINA SI BEVEVA L’ACQUA DELL’AMORE
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ECCO COME FARE LA COTOGNATA IN CASA
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Graphic design Imago Comunicazione Stampa EditPress - Castellalto (TE) Copyright Marketing & Comunicazione di Patrizia Manente © Tutti i diritti riservati
di Vincenzo Di Gennaro
di Patrizia Manente Tel. 339.5653704 · 338.3972169 mail patrizia.marketing@gmail.com MAGAZINE MERRY CHRISTMAS 2016
Supplemento a Paese Nostro n. 23 - Anno 7 - Maggio 2016 Registrazione al Trib. di Teramo N. 625 del 8 marzo 2010 Direttore Responsabile: Giuliano Marsili
Questo magazine è sfogliabile on-line all’indirizzo: http://www.lelcomunicazione.it/blog/ magazine-pama-natalizio-teramo-2016/
Auguri feste di buone ai lettori ici e agli am isti inserzion
Paola Manente
di Patrizia Manente
di Marcello Martelli di Chie Yoshida
di Michela Cialini
di Luca Di Dionisio
di Graziano Celani
MADONNA DELLE GRAZIE 24 TROPPE TASSE E NON HAI PIU’ SOLDI? IL RIMEDIO SI CHIAMA “BARATTO”
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IL POLITTICO DEL DUOMO A RISCHIO
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SANTA ELISABETTA E LA SUA STORIA
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di Giovanna D’Alessandro di Paola Di Girolamo
di Elisabetta Mancinelli
DALLA PREVENZIONE ALLA RICOSTRUZIONE 30 di Enzo Saraceni
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Natale in Abruzzo di Elisabetta Mancinelli
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l ciclo natalizio, che parte dal solstizio d’inverno e termina con l’Epifania, celebra la festività in cui viene ricordata la nascita di Gesù che, nella cristianità occidentale cade il 25 dicembre in quella orientale il 6 gennaio. Ma la data della nascita di Cristo non è nota e i Vangeli non ne indicano né il giorno né l’anno. Le fu probabilmente assegnata la data del solstizio d’inverno perché, nel giorno in cui il sole comincia il suo ritorno nei cieli boreali, i pagani celebravano il dies natalis del Sol Invictus. Dunque l’origine della natività potrebbe essere collegata con la festa del dio del sole e signore dei pianeti e il Vangelo stesso parla del Messia descrivendolo come Sole di giustizia. La preferenza per il 25 dicembre sarebbe derivata dalla necessità di contrapporre una festa cristiana ad una pagana nel momento in cui si diffondeva il Cristianesimo. La data del 25 dicembre prima di diventare il ”compleanno di Gesù” era dunque un giorno di festa per i popoli del periodo primitivo in quanto la loro esistenza dipendeva dal “ciclo della natura” che aveva al centro il Sole l’astro indispensabile per la sopravvivenza. Nell’antica Roma dal 17 al 24 dicembre, nel periodo in cui si viveva in pace, si festeggiavano anche i “Saturnali” in onore di Saturno dio dell’agricoltura, ci si scambiava doni e si facevano luculliani banchetti abbandonando ogni divisione sociale. Ma le verità storiche sulle origini del Natale spaziano dagli antichi culti pagani ai culti orientali del dio indo-persiano Mitra, ai Saturnalia romani fino alle varie metamorfosi di Babbo Natale: dallo sciamano tribale custode del fuoco al vescovo cristiano San Nicola al testimonial per la propaganda della Coca Cola.
NATALE DI UN TEMPO Per ricchezza di simbolismo e antichissimi riti il Natale in Abruzzo è stato da sempre celebrato con una eccezionale solennità. Il nuovo anno nella regione comincia proprio col Natale, il Capodanno è quasi un’appendice e l’Epifania chiude il ciclo delle feste. Un tempo nella nostra regione i preparativi che precedevano il Natale erano festosi e lunghi: novene dell’Avvento nelle chiese, allestimento dei presepi, dolci e cibi tipici e
l’accensione del ceppo nelle case e nelle vie, il suono caratteristico delle zampogne e l’antica usanza della “Squilla” nel pomeriggio dell’antivigilia di Natale. Un miscuglio di tradizioni pagane e cristiane che con le sue luci e i suoi colori conferivano un’atmosfera di suggestione in particolar modo ai piccoli paesi arroccati sui cocuzzoli delle nostre montagne.
TRADIZIONI: IL rito del ceppo
Il ceppo o “tecchie” era il tronco che, al momento della provvista della legna, veniva messo da parte per essere bruciato la notte di Natale e rimaneva nel camino ed ardeva dalla sera della vigilia di Natale sino a Capodanno. Ogni famiglia si riuniva davanti al camino e vi metteva il ciocco dicendo: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane. Ogni grazia di Dio entri in questa casa. Le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina e si riempia la conca di vino”. Poi i bambini, con gli occhi bendati, dovevano battere sul ceppo con un bastone recitando una canzoncina detta “Ave Maria del Ceppo” che aveva la virtù di far piovere su di loro dolci e regalini. Sul ceppo acceso, si aggiungeva sempre altra legna che doveva bruciare lentamente per la durata di dodici giorni che stavano a significare i dodici mesi dell’anno ed erano in analogia al sole che, nascendo al solstizio d’inverno, avrebbe nutrito la terra per un anno intero. Per questo motivo si diceva.”domani è il giorno del pane” e si festeggiava mangiando dolci a base di farina. Nel rito dell’accensione si fondono due elementi propiziatori; il valore del fuoco immagine del sole e della vita e il simbolico consumarsi del tronco che voleva significare anche la fine del vecchio anno con tutto ciò che di negativo ha portato. Al culto del sole si è sovrapposta nella liturgia cristiana la figura di Cristo che si è incarnato e sacrificato per salvare l’umanità e sostenere l’uomo nel suo viaggio terreno. Per questo al ceppo si aggiungevano dodici pezzi di legno in memoria degli apostoli oppure gli si posavano accanto porzioni di cibo. I carboni
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del ceppo, considerati sacri, la mattina di Capodanno venivano riaccesi nelle campagne poi una volta spenti venivano sparsi nelle zolle a scopo propiziatorio.
La Farchia di Tufillo
Anche nel borgo di Tufillo (Ch) un paese sulla sponda abruzzese del fiume Trigno, il fuoco è protagonista della vigilia di Natale, o meglio la “farchia”, un tronco lungo e diritto che può arrivare anche a venti metri intorno al quale vengono inseriti altri tronchi minori, fino a formare un grosso fascio, tenuto insieme da cerchi di ferro. Il pomeriggio del 24 dicembre davanti alla chiesa di San Vito la farchia viene “vestita” dagli abitanti del paese che, sfilando in corteo, procedono tra i vicoli del centro storico, a torcia spenta, facendo tappa nei vari punti di ristoro a base di vino e dolci tipici di Natale: torcinelli, cagionetti, biscotti di mandorle e pizzelle. A mezzanotte il rito si compie: davanti alla chiesa di Santa Giusta viene appiccato il fuoco alla farchia mentre i visitatori intonano i canti natalizi.
LE “NTOSSE”
La notte del 24 dicembre, poco prima della mezzanotte a Santo Stefano di Sante Marie (Aq) si svolge una processione con le fiaccole accese, “ntosse”, che anima le vie del piccolo borgo; le torce, realizzate con querciole spaccate, riempite con stecche, o fasci di ginestre essiccate, vengono poi deposte davanti alla chiesa per alimentare un grande fuoco. La processione ricorda il cammino dei pastori che si recavano alla capanna di Betlemme e, in passato, quando non c’era la pubblica illuminazione, le “ntosse” illuminavano la strada ai fedeli che si recavano in chiesa per la messa di mezzanotte.
pastori verso la grotta di Betlemme; molti fedeli lo accompagnavano per ascoltare la sua predica di pace. Durante il pellegrinaggio la campanella suonava senza mai fermarsi, si fermava soltanto al rientro del vescovo nel suo palazzo. Per i lancianesi la campanella della squilla è il simbolo ed il rito del Natale.
I PRESEPI IN ABRUZZO Il Presepio nella nostra regione ha una tradizione antichissima. Si ricorda il primo esemplare di presepe domestico presso la casa della nobile famiglia Piccolomini di Celano in quanto la sua esistenza viene menzionata in un Inventario proveniente dal Castello di Celano redatto nel 1567 che enumera gli oggetti appartenenti alla duchessa Costanza Piccolomini. I presepi folcloristici si sono tramandati fin dai tempi antichi in Abruzzo. Alla tradizione del presepe popolare è collegato il Presepe vivente di grande contenuto mistico. Tanti “presepi viventi” vengono allestiti nella nostra regione. Sicuramente il primo e più famoso “presepe vivente” d’Abruzzo è quello che ha luogo a Rivisondoli il 6 gennaio. Ambientato in un suggestivo scenario pastorale naturale, il Presepe Vivente di Rivisondoli, fa rivivere in una magica atmosfera il grande evento della natività. il Presepe Vivente, tra i più antichi d’Italia, si svolge per quadri che ripercorrono fedelmente il racconto evangelico. Una manifestazione a cui Rivisondoli ha legato da cinquant’anni il proprio nome. Animata dalle figure classiche del Presepe, la rappresentazione vede la partecipazione di tutta la popolazione. Tradizione vuole che Gesù Bambino sia impersonato dall’ultimo nato del paese. In località “Piè Lucente”, ai margini del Piano delle Cinque Miglia, la manifestazione è seguita da migliaia di turisti.
LA SQUILLA A LANCIANO Il 23 dicembre a Lanciano si ripete da secoli un’ antica originale usanza che continua a conservare tutto il fascino di un tempo. Nel pomeriggio dell’antivigilia il dolce e ripetuto rintocco di una campana “La squilla” apre le feste natalizie in un rituale di pace e di concordia. I fedeli portano in mano delle candele, le cui fiammelle illuminano il corteo che avanza col sottofondo musicale della magica campana. Chi non partecipa al corteo può accendere una candela nella propria abitazione. Secondo la tradizione, la squilla ricorda il viaggio che un arcivescovo di Lanciano, Tasso, compiva ogni anno dal 1588 al 1607, a piedi scalzi dal suo palazzo alla chiesetta dell’Iconicella (3 km) in segno di penitenza e per ricordare il viaggio dei
A Cerqueto di Fano Adriano (Te) il 26 dicembre in un’atmosfera magica e raccolta alle pendici del Gran Sasso, si svolge uno dei più antichi presepi viventi della regione. Il rito coinvolge tutti gli abitanti sia nei preparativi, che du-
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rano l’intero anno, sia nella rappresentazione vera e propria che ha luogo la sera di Santo Stefano nella piazza più grande del paese appositamente predisposta. Qui, nella penombra appena rischiarata da torci fumanti, figuranti in abiti d’epoca romana narrano la Natività iniziando dai racconti biblici della Creazione.
Dall’ 8 dicembre al 6 gennaio di ogni anno dal 1996, all’interno delle Grotte di Stiffe (S. Demetrio dei Vestini Aq) viene allestito un suggestivo Presepe artistico in uno scenario originale e di grande impatto visivo.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato da “Le radici pagane del Natale” di Elena Savino; da “Folklore abruzzese” Lia Giancristofaro. Le immagini sono tratte dal patrimonio fotografico di Tonino Tucci che ne autorizza la pubblicazione. Indirizzo: Via Veneto, 10 Montesilvano email: tuccifotografia@libero.it
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IL BUON BRODO DI CARDO per la tavola di Natale di Patrizia Manente
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ltro piatto della tradizione natalizia teramana è il prelibato brodo con il cardo. E’ un delizioso e leggero ortaggio perché contiene pochissime calorie e molto vicino al gusto del carciofo. La parte del gambo è quella commestibile, resa più tenera dalle gelate invernali. Il cardo migliore si presenta chiaro e con i gambi chiusi. Per cucinarlo richiede molto tempo, sia per pulirlo (dovrà essere ben sfilato) che per la cottura. Per non farlo scurire, tagliarlo a dadini e immergerlo in acqua con succo di limone. Per lessarlo va messo nella pentola con abbondante acqua bollente. A cottura avvenuta, divenuto morbido e tenero, scolarlo bene e riemmergerlo in una pentola smaltata con acqua fredda. Quindi strizzare bene i dadini di cardo e riporre. Al brodo rigorosamente di gallina o gallotta verranno aggiunte le polpettine di carne (preparate con carne di vitello, parmigiano, sale, noce moscata) stracciatella (uova sbattute) che si cuoceranno con il calore del brodo. In aggiunta al brodo fegatini e durelli tagliati finemente come anche la carne di gallina o della gallotta. Infine, una spruzzata di parmigiano. E’ un piatto completo e gustosissimo, che non mancherà sulla tavola il giorno di Natale.
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LI CAGGIUNITT’ (cagionetti) di Patrizia Manente
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ono dolci della mensa tradizionale delle feste natalizie, presenti in molte famiglie abruzzesi per onorare le ricette e i segreti culinari delle nonne. Specialità tipiche locali che fanno bella mostra nelle vetrine dei forni e delle pasticcerie di Teramo e dintorni. Specialmente nel periodo natalizio, quando la caccia ai dolci della tradizione è aperta e non c’è mensa che non ne sia fornita. Li caggiunitt’, per la loro forma, ricordano i ravioli, ma con un sapore tutto diverso e sicuramente eccellente. Ingredienti per il ripieno Castagne o marroni lessati e ridotti a purea (in passato si adoperavano anche i ceci), mandorle tostate e frullate, rum aromatizzato, buccia di limone grattugiata, zuc-
chero, cioccolato fondente, cannella, cedro grattugiato o sminuzzato, un po’ di caffe’ macinato e liquido. Per l’impasto Farina, vino bianco, olio evo, acqua, olio di semi di mais o arachidi Preparazione Per prima cosa occorre preparare il ripieno un giorno o due giorni prima (per meglio insaporire) mescolando tutti gli ingredienti in una terrina. Poi procedere con la preparazione dell’impasto, mescolare gli ingredienti fino ad ottenere un composto morbido ed elastico, far riposare per circa un’ora. Stendere la pasta in modo sottile con il matterello, oppure con la macchinetta e formare delle strisce di pasta adagiando nel mezzo un po’ di ripieno come si usa fare per i ravioli, infine usare il taglia ravioli e intorno pigiare con i denti della forchetta. In una pentola profonda mettere abbondante olio e quando questo risulta ben caldo buttare un po’ alla volta i cagionetti, girarli una sola volta e non farli colorare. Tolti dalla frittura, poggiarli delicatamente su carta straccia o carta assorbente. Raffreddati metterli su vassoi spolverizzandoli con un po’ di zucchero e cannella in polvere.
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PALAZZO LIBERATI
e le sue storiche cantine
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l Palazzo Liberati è uno dei principali edifici storici dell’antico borgo di Tortoreto Alta, di proprietà delle sorelle Angela Rita, Maria e Vincenza. Esso presenta tracce dell’antico Castrum Salini nella cinta muraria a scarpa e nella cisterna sempre di epoca romana.Durante il Medioevo era parte del borgo fortificato verso Ovest insieme con la costruzione difensiva chiamata cassero. Attualmente l’edificio, di estese dimensioni, presenta particolari caratteristiche architettoniche, risultanti dall’accorpamento di più parti risalenti ad epoche diverse. Prospiciente la vallata, ha un aspetto tipico delle abitazioni nobiliari con soffitti affrescati e decori vari; ad esso è aggregato un manufatto più vecchio, situato ad ovest, che mostra reminiscenze marcatamente medioevali, con piccole finestrature e feritoie proprio di un baluardo, e rappresenta certamente il nucleo originario del castello, sorto a difesa del territorio che, da questo punto, spazia dal mare alle montagne. Il tutto si completa con un’ulteriore costruzione di forma quadrata, a suo tempo destinata a stalle e rimessaggio, collegata al corpo principale da un arco con sovrastante passaggio coperto. Un’altra caratteristica storico architettonica è rappresentata dalle cantine valorizzate dalla presenza di una grotta scavata nel sottostante strato di terreno, composto da sabbie compatte ed agglomerati ghiaiosi, adibita al mantenimento di prodotti alimentari, vista la temperatura sempre costante in ogni stagione. Un ampio giardino,che circonda per due terzi l’intera proprietà, mette maggiormente in risalto l’imponenza della struttura. La scorsa
estate il Palazzo Liberati è stato gentilmente concesso per la famosa rievocazione storica del Palio del Barone.
Bibliografia: Santangelo E.,Tortoreto – Guida storico-artistica, Carsa edizioni 2002
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Hollywood e il suo mito di Michela Cialini
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ollywood ad oggi rappresenta un gigante dell’industria del cinema. Ma è stato sempre così? Nel 1912, la capitale mondiale dell’industria del cinema era Parigi grazie alla produzione di lungometraggi
che diedero forma ai generi cinematografici. Al contrario, l’industria statunitense era arretrata, i film erano corti, non elaborati e venivano trasmessi durante spettacoli dal vivo perché le sale cinematografiche erano fatiscenti. Questa differenza veniva rimarcata dal fatto che negli Stati Uniti si fosse costituito un cartello di dieci aziende, il cosiddetto Film Trust, che costituiva un limite allo sviluppo dell’industria del cinema. In effetti l’obiettivo del Film Trust era quello di evitare la competizione con altri produttori e distributori filmici, motivo per cui decise di fissare i prezzi di ogni fase della produzione e della distribuzione di pellicole e bloccò l’importazione di film stranieri in quanto venivano privilegiati cortometraggi semplici e non controversi. Al contrario di come agirebbe un monopolio, il Film Trust realizzava prodotti economici e di conseguenza faceva diminuire i prezzi andando però ad intaccare la qualità dei film che per forza di cose dovevano essere contenuti nei limiti di durata e prevenire l’eccesso di fama di un attore. A questa situazione decisero di opporsi gli Indipendenti, i quali accettavano di malgrado le regole imposte dal cartello. Nel 1912, quindi, non c’era ragione per cre-
dere che Hollywood avrebbe occupato un posto di preminenza nel panorama del cinema data la spaccatura tra il Film Trust che rappresentava l’America bianca, proprietaria di sale e brevetti e gli Indipendenti costituiti da immigrati senza agganci economici e politici. Tuttavia, gli Indipendenti, iniziarono a ribaltare la situazione indovinando un giusto processo di innovazione del cinema e avvicinandosi sempre più ad un pubblico giovane e multietnico. Fu così che ci si avvicinò pian piano alla denuncia del Trust, da parte degli Indipendenti, che pertanto venne sciolto nel 1915 rendendo per la prima volta l’industria cinematografica un mercato aperto. In seguito, l’industria filmica americana cambiò radicalmente, sviluppando una grande capacità creativa, in grado di sfidare il mercato europeo. Per questo, quando l’Europa venne messa in ginocchio dalla Grande Guerra, Parigi perse il suo status di capitale del cinema, conferendo all’industria americana la supremazia globale. I fondatori di Hollywood divennero ricchi e famosi e i loro studi dominarono il mercato americano. Inoltre venne inaugurata la stagione del cosiddetto divismo che vide tra i suoi primi protagonisti Charlie Chaplin. Ad oggi, gli Stati Uniti rappresentano un colosso del sistema cinematografico mondiale non solo per quanto già detto ma anche perché gode di budget illimitati e utilizza la lingua inglese capace di raggiungere un pubblico maggiore rispetto a quanto non riesca a fare l’Europa.
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L’ANTICO MULINO
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er il Mulino Di Giovannantonio, tutto ha inizio nel lontano 1812, quando è di proprietà della famiglia Marcozzi. Successivamente, intorno ai primi del ‘900, passa alla famiglia Pistocchi, per poi essere acquistato nel 1930 dalla famiglia Di Giovannantonio. Da questo momento in poi si sussegue nel tempo un’arte di mugnai esperti che si tramanda per cinque generazioni. Comincia con il capostipite Luigi senior, mugnaio nel mulino Cerulli di Castelnuovo, che con i risparmi del suo lavoro acquistò il mulino a Castellalto. Dove la tradizione si è tramandata con Mario, per poi passare all’attuale proprietario Luigi e, infine, al figlio Mario junior. Quello di Luigi Di Giovannantonio è uno degli ultimi rari ed antichi mulini originali ancora presenti nella provincia di Teramo. Simbolo delle tradizioni artigianali del territorio e di arti e mestieri, che si tra-
mandano, ancora oggi, con passione e diligenza. Oltre al mulino “storico”, interessante per visite guidate ed escursioni turistiche, è presente un secondo mulino “tecnologico”, che dedica particolare attenzione alla qualità della farina. Dispone infatti di una macinazione a pietra che permette la conservazione migliore di tutte le proprietà del prodotto finito. Il mulino ad acqua con le macine in pietra ha un’origine antichissima e accomuna tutte le civiltà che si sono succedute nel corso dei secoli. La funzione principale sempre quella della macinazione di cereali, ma sono stati usati mulini ad acqua anche per le industrie del legno e della carta. Nella nostra provincia è facile immaginare quanto fosse importante il mulino per le comunità teramane. Nei mulini alimentati dalle acque dei torrenti, di cui la provincia di Teramo è ricchissima, venivano trasformati in farina il grano, il granturco e i cereali minori coltivati nel fondovalle e nelle aree collinari. Anche le castagne raccolte nei vasti castagneti delle zone montuose venivano portate alla macina, per ottenere la farina di castagne tanto prelibata nella tradizione culinaria locale.
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Vittorina Castellano un talento a 360 gradi di Patrizia Manente
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ittorina Castellano, nata a Montesilvano, vive a Pescara. Docente di scienze naturali, già presidente dell’Accademia Kronos, è fondatrice e presidente dell’Associazione Culturale Teatranti d’Abruzzo. Commediografa, attrice e regista, ha scritto e messo in scena numerose commedie. Ha pubblicato i libri “Un po’ d’Abruzzo nel cuore”, “Lu ponte de Pescare”, “Niente è come sembra” e “Passato che uccide”. Le sono stati conferiti numerosi premi tra cui Pegasus Città di Cattolica, Macroproblemi Club Roma, Fondazione Veronesi di Milano, Premio Europeo del Museo Roma, Premio Internazionale Consorzio Interuniversitario Chimica verde, Premio Nazionale Federchimica, Giulio Natta Politecnico di Milano, Luigi Dommarco di Ortona, Premio Letterario Nazionale Civitaquana, Premio Nazionale Poesia“Pellicciotta”, Golden Selection di San Marino, medaglia del Comune di Roma alla carriera e Premio Europeo scrittori delle Associazioni culturali Club Roma e L’Età Verde, Premio alla Cultura Internazionale World Literary Prize Internazionale di Parigi. Ha esordito negli anni novanta con saggi e video di denuncia ambientalista. E’ anche filmaker, poetessa e autrice di romanzi gialli e commedie teatrali.
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QUANDO NEI SALOTTI TELEVISIVI NON C’ERA LA CRONACA NERA
ricordi di un vecchio cronista e di Beppe Monti, re dei paparazzi in Abruzzo di Marcello Martelli
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ntercettazioni o no, meglio le indagini giudiziarie di una volta, nonostante tutto. Ho fatto a lungo il cronista di nera in importanti quotidiani come “Il Giornale d’Italia” e poi “Il Tempo”. Prima ancora per “Crimen” (poi “Detective”), settimanale specializzato, una specie di bibbia del “noir” che andava a ruba nelle edicole. Al timone una donna, la direttrice più generosa e munifica che abbia incontrato. Le vendite di copie, con i fattacci quando non c’era la tv, andavano a gonfie vele e facevano incassare un bel mucchio di lire al giornale, sempre ricco di servizi e inchieste. Dovevano ancora arrivare le interminabili dirette televisive
che adesso anticipano e dilatano fatti e gossip. Ho seguito efferati delitti persino in zone isolate del profondo Sud. Era durissimo trovare le notizie per ricostruire in profondità ogni vicenda. Cavare una parola dalla bocca degli inquirenti era un’autentica lotteria. Un giorno, mentre con l’intraprendente re dei “paparazzi”, Beppe Monti, mi stavo avvicinando alla scena di un complicato uxoricidio, il Pm impegnato nel sopralluogo ci bloccò con un perentorio: “Qui non vogliamo interferenze…”. La fatica dei gazzettieri, quando andava bene, veniva chiamata “interferenze” dagli arcigni magistrati e poliziotti d’altri tempi. Normalmente poco abituati a concedere confidenze a cronisti-ficcanaso, allora che la presunzione d’innocenza era sacra per inquisiti e imputati. Il segreto istruttorio c’era davvero e i processi si celebravano solo nelle aule di giustizia. Dopo laboriose indagini top-secret su malfattori e assassini, che spesso non la facevano franca. E i casi irrisolti non erano poi tanti.
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INVITO A CASA MIA
tra bella musica e scuola di cucina giapponese di Chie Yoshida
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i chiamo Chie Yoshida e sono una musicista giapponese. Nel 1998, dopo il diploma in violino a Tokyo, mi sono trasferita in Italia per approfondire gli studi musicali. Nel 2005, diplomata anche in viola a Livorno, ho iniziato a girare tutta la penisola suonando con varie orchestre e formazioni cameristiche. Parallelamente ho anche collaborato con numerose celebrità della musica e del teatro come Ron, Pavarotti, Enrico Rava, Skin, Marco Paolini, Natalino Balasso. Nel 2010 ho sposato un ragazzo ascolano. Anche lui è musicista ma autodidatta, suona molti strumenti a fiato e tastiera, canta ed è anche produttore di musica elettronica. Insieme abbiamo creato un duo elettro acustico che si chiama Kousagi Project (siamo su Fb) con il
quale ci esibiamo dal vivo in Italia e all’estero, collaborando anche con importanti video artisti e compagnie di danza. La nostra musica è in bilico fra classica, melodie tradizionali giapponesi, elettronica colta e anche dance. Dopo una parentesi di due anni in Giappone, dove insegnavo musica e mio marito lingua e cucina italiana, abbiamo deciso di tornare a vivere nel Piceno, perché nel frattempo è nata nostra figlia e volevamo crescerla
in un contesto più tranquillo e meno frenetico. Un anno fa, quasi per gioco, ho intrapreso un corso di cucina tradizionale casereccia giapponese. Fin da bambina ho infatti sempre affiancato mia madre nella preparazione di piatti tipici casalinghi. Questa mia passione è cresciuta negli anni, soprattutto da quando vivo in Italia perché qui è difficile mangiare piatti originali giapponesi nei ristoranti. La maggior parte degli italiani crede che la nostra cucina sia soltanto pesce crudo e riso. Allora per divulgare le tante ricette tradizionali che conosco, ho deciso di intitolare simpaticamente il mio workshop ‘Non solo Sushi’ (corso di vera cucina casereccia giapponese). Le lezioni si svolgono a casa mia, in un ambiente intimo, che può
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ospitare al massimo sette persone. Tutti gli amici e i parenti che hanno partecipato sono rimasti piacevolmente sorpresi e affascinati dalle mie ricette. Cerco di programmare dei menù con ingredienti di facile reperibilità in Italia in modo tale che chiunque partecipi possa replicarli. Fra gli ospiti del mio corso ho avuto anche l’immenso piacere della presenza di veri e propri chef abruzzesi e marchigiani, i quali sono rimasti entusiasti delle mie proposte. Su richiesta ho anche organizzato lezioni in forma di pacchetto regalo per amici che volevano festeggiare in modo originale un compleanno. Insieme a mio marito sto organizzando anche un progetto di aperitivo-cena giapponese in locali e bistrot. In futuro vorremmo anche abbinare la nostra musica italo nipponica al cibo, chissà che non ne nasca qualcosa di davvero originale. Mi rende felice sapere che sempre nuove persone possano apprezzare le mie proposte culinarie nip-
poniche oltre a quelle della cucina italiana. Cucina quest’ultima che comunque amo moltissimo e nella quale mi cimento spesso cercando di recuperare ricette tradizionali, sane e gustose per la gioia della mia famiglia.
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IL FASCINO ANTICO DELLA SCARPA
da Messalina ai giorni nostri di Michela Cialini
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esatto inizio della storia della calzatura è difficile da stabilire con precisione. Tuttavia è possibile tracciare un excursus ripercorrendo le tappe e le date principali che hanno caratterizzato questo accessorio. Inizialmente la calzatura ha l’unico scopo di protezione dei piedi, è quindi considerata come una necessità. Nell’Antica Roma, le scarpe sono un elemento caratterizzante del rango sociale di chi le indossa. I Cittadini con uno status alto utilizzano i “Calcei”, consistenti in tomaie in pelle che avvolgono tutto il piede; i Senatori romani indossano i “Calcei Senatorii” di colore nero mentre le stesse, di colore rosso, sono indossate dai rappresentanti delle più alte cariche civili. I popolani e i contadini indossano un altro tipo di calzatura, la “Perones”, scarpa con una tomaia in pelle alta alla caviglia. Senza dubbio bisogna riconoscere che i Romani sono stati grandi maestri “calzolai, tuttora fonte di ispirazione da par-
te di stilisti della moda. Ma i tacchi quando nascono? Nel XVI secolo in Francia emerge la moda, lanciata da Caterina de’ Medici, delle scarpe con il tacco dette “Souliers à pont”. Da questo momento in poi, la tecnica del tacco si è sviluppata continuamente fino a raggiungere ottimi rapporti tra altezza ed equilibrio che caratterizzano la maggior parte delle scarpe attuali. Si inizia a parlare quindi di scarpa come vezzo e della Francia come fulcro della moda. Nel periodo post-bellico, infatti, la moda viene guidata dalla Francia con la rivoluzione dettata da C. Chanel. A ruota, anche l’Italia inizia ad assumere pian piano il suo ruolo da protagonista grazie a S. Ferragamo, che sarà uno dei più influenti designer di calzature del XX secolo; è celebre la sua scarpa con la zeppa in sughero, considerata ancora oggi un must per molte donne. Dal 1950 in poi inizia l’ascesa della moda italiana a Roma, Firenze e Milano con la conseguente competizione per aggiudicarsi il titolo di Capitale della Moda. Sono questi gli anni in cui si sviluppano le decolleté, scarpe prettamente femminili caratterizzate da uno stiletto molto alto. Per questo motivo provocatoriamente C. Chanel e R. Massaro lanciano sul mercato una décolleté col tacco basso conferendole maggiore eleganza. Se negli anni ’50
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la moda è molto femminile e classica, nel decennio successivo tutto cambia. Negli anni ’60 lo sguardo è rivolto a Londra, è qui che si concentrano tutte le nuove tendenze, trionfa lo stile androgino. Le scarpe tornano ad essere basse: abbiamo ballerine e stiletti, i cosiddetti “kitten”, e poi ancora gli iconici zoccoli Dr. Scholl e stivali alti fino al ginocchio. Negli anni ’70 l’Italia ritorna ad essere protagonista nel campo della moda trionfando con la creatività e la qualità del proprio Made in Italy delle firme più prestigiose: Armani, Valentino, Ferrè e Versace. È in questo periodo che i tacchi cominciano ad assumere quelle forme stravaganti che siamo abituati a vedere anche oggi! La moda degli anni ’80 è esagerata, colorata, rock, punk. I simboli di questo periodo sono gli scaldamuscoli anche sopra le scarpe col tacco, le scarpe da ginnastica ma anche le jelly shoes e le scarpe colorate in pvc. Vige l’assoluta comodità in fatto di calzature. Il tutto inizia con Madonna che si impone nel panorama femminile come dettatrice di stile e icona giovane della moda dell’epoca. Gli anni ’90 sono invece caratterizzati da una moda più austera e minimal dove domina il nero. Gli anfibi di Dr Martens o della Cult
diventano la calzatura più rappresentativa del periodo. Negli ultimi anni invece, saltano tutte le regole e, complice la globalizzazione del mercato e con esso delle abitudini, la moda segue qualsiasi tipo di tendenza utilizzando colori, forme, materiali e tessuti di ogni tipo non perseguendo nessun diktat e dando slancio ad ogni tipo di fantasia. L’assenza di canoni ha portato alla presenza di eccessi, basti pensare alle zeppe di Alexander McQueen e a quelle indossate da Lady Gaga che innalzano fino a 35/40 centimetri. Si parla di una vera e propria venerazione per i tacchi alti. Inoltre è opportuno segnalare come il tacco a spillo sia ritornato di moda e ormai possiamo dire che probabilmente non passerà mai più, è diventato a tutti gli effetti un’icona intramontabile.
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QUANDO A FONTE REGINA SI BEVEVA L’ACQUA DELL’AMORE di Luca Di Dionisio
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l quartiere di Fonte Regina, oggi, è un quartiere popoloso ed è molto trafficato. Non sempre è stato così, piuttosto la storia ci racconta di un’aperta campagna ritiro delle più importanti personalità teramane, fin dall’epoca romana. È stata infatti ritrovata in questo quartiere la cosiddetta Venere di Fonte Regina, tutt’ora visibile al museo Costume rinascimentale
Giovanna D’Aragona
archeologico di Teramo, fra i resti di una domus con annessi impianti termali, segno che in quell’epoca la ricca borghesia considerava l’attuale Fonte Regina un luogo deputato per il proprio buen retiro. Con la fine dell’Impero romano, la vocazione da luogo tranquillo per le più importanti personalità teramane non svanisce. È in questa zona che sorgeva il casino del vescovo dove, nelle caldi estati, la massima autorità religiosa della città (e, per diversi secoli, anche civile) veniva a ritirarsi, tra le placide campagne ed il fiume Vezzola, tenuto a bada dagli argini. Nella zona c’era anche una torre del vescovo, di cui già al tempo di Nicola Palma era scomparsa ogni traccia. Nello scorrere dei secoli ci sono alcuni eventi da ricordare: il primo, il più importante, anche perché ha dato nome al quartiere, è ovviamente l’arrivo della Regina Madre Giovanna d’Aragona, con la figlia, anche lei di nome Giovanna. Questa storia si ricollega a quella della Fonte della Noce. Le due Regine, in visita a Teramo, trovarono squisite le verdure dell’Acquaviva (al tempo tutta la riva sinistra del Vezzola, in corrispondenza dello sviluppo rinascimentale di Teramo) e, chiedendo da dove venisse quell’acqua, fu loro risposto che veniva dalla Fonte della Noce. Da qui deriva anche la leggenda secondo la quale chi beve da questa fonte rimane innamorato della città e non riesce a staccarsene. Il secondo episodio è il pranzo patriottico tenuto nel 1799, durante l’occupazione francese, tenuto, fra gli altri, da Melchiorre Delfico. La scelta di questo luogo era ovviamente significativa, in quanto si voleva sottolineare il nuovo potere illuminista, di contro al potere religioso. L’altro pranzo patriottico si tenne nella piazza di Sopra (l’attuale piazza Martiri). È del periodo della costruzione della stazione il già citato ritrovamento della Venere di Fonte Regina. Dopo il ritorno dei Borboni, ed ancor più dopo l’unità d’Italia, moltissime cose sono cambiate a Teramo, fra queste anche la vocazione del quartiere di Fonte Regina.
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ECCO COME FARE LA COTOGNATA IN CASA di Graziano Celani
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a “cotognataâ€? è stata fatta con le pere cotogne. Ricetta per 6 kg: lavare le pere bene e poi sbucciarle. Tagliare a pezzetti nelle parti morbide e poi metterle a bollire. Scolati i pezzetti, passarli in una griglia per i pomodori a fori grandi. Il tutto va poi messo in una pentola con lo zucchero e il succo di limone. I pezzi puliti di cotogna sono diventati 3 kg. Occorrenti 4 limoni medi non trattati e 2 kg. di zucchero. La pentola sul fuoco si gira sempre, fino alla cottura. Usare guanti di plastica per evitare gli schizzi bollenti. La cucchiara va girata per h. 1,30. Aggiungere un bicchiere di Varnelli (anice secco) a fuoco spento. Poi si versa il tutto su una tavola ricoperta da fogli di carta da forno. Si stende ben bene tutto e poi si lascia riposare per un paio di settimane. A questo punto si taglia a pezzi e poi incartare con carta forno e sopra la carta pane. Infiocchettare e le tavolette sono pronte. Ben conservate, durano per un anno intero. Ottime da abbinare ai formaggi e anche come energetici. Meglio: si mangiano per il piacere di mangiarle.
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MADONNA DELLE GRAZIE
oasi di spiritualità di Vincenzo Di Gennaro
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l santuario mariano della Madonna delle Grazie, posto a sud del nucleo antico di Teramo, riveste un ruolo di primaria importanza nel circuito dei siti religiosi della provincia. Nel tempo dell’appena concluso anno giubilare, ha offerto a ogni pellegrino un adeguato contesto in cui alimentare e fortificare la propria spiritualità. Gli ottocen-
to ex voto conservati, parte di una collezione ben più ricca, sono testimonianza di una devozione che per i cittadini assume un valore identitario, e che nel passato ha travalicato i confini abruzzesi per diventare, in epoca borbonica, culto ufficiale di Stato. Il centro da cui si irradia questo legame spirituale è la statua (più correttamente il gruppo scultoreo) scolpita in legno e dipinta nel Quattrocento dalle sapienti mani di un artista di origine aquilana, Giovanni di Biasuccio, che hanno fatto dell’opera un vero capolavoro dell’arte rinascimentale italiana. Possiamo aggiungere che la Madonna delle Grazie rappresenta una delle vette artistiche di un filone iconografico in cui si specializzarono gli scultori abruzzesi di XV e XVI secolo, ossia la Madonna assisa in trono che adora il Bambino distesole sul grembo. Si tratta di un tema, presente anche nella pittura del periodo (basterebbe pensare alla cosiddetta Pala di Brera di Piero della Francesca) ma che nelle creazioni sculto-
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ree, soprattutto lignee, dei maestri abruzzesi assume una valenza particolare. Il legno policromato aiuta certamente ad amplificare la capacità comunicativa del soggetto rappresentato, poiché la facilità della lavorazione di alcune essenze arboree permette di raggiungere un effetto realistico delle forme, che nelle mani degli intagliatori abruzzesi diventa mirabile traduzione di carni vere e di espressioni mimiche credibili. Osservando la Madonna delle Grazie, quello scambio di sguardi creato tra la Madre e il Figlio fa vivere la sensazione di assistere a un vero dialogo, in cui Lei sussurra la sua preghiera per i penitenti accorsi ai suoi piedi, mentre dalla bocca del Bambino fuoriescono incontenibili risa fanciullesche. Siamo davanti a una particolare rappresentazione della Natività di Gesù, tutta concentrata nel vitale rapporto Madre-Figlio. Dai banchi del santuario i pellegrini contemplano l’esaltazione della natura umana di Cristo: un Bambino rappresentato nei minimi particolari anatomici, dai capelli ancora radi, alle piegoline di grasso che segnano dita e gambe, fino alla commovente lingua che guizza fuori dalla boccuccia sorridente. Ma l’aspetto più sorprendente di quest’opera risiede forse nel volto di Maria. La giovane madre, finemente abbigliata come una nobildonna, che risponde pienamente ai canoni di bellezza rinascimentale, sembra animata in volto da un’espressione ben diversa dal tradizionale senso di pacatezza, di serenità che siamo abituati a leggere in un’immagine natalizia. La Madonna delle Grazie dichiara tutta la sua umanità di donna e di
madre in quello sguardo lievemente turbato, che vuole essere rassicurante e protettivo verso il Piccolo, ma che sembra già conoscere il destino tragico, seppur salvifico per l’Umanità, di quel Bambino, il suo bambino. Possiamo dire che in un’unica opera si concentra tutta l’esperienza mariana legata a Cristo, dalla nascita del Figlio di Dio alla sua morte: il Fanciullo è disteso sulle gambe della Madre nudo come lo sarà, nell’iconografia della Pietà, l’Uomo spiccato esanime dalla croce. Il sicuro contatto dell’artista con la committenza, probabilmente cittadina, e l’ambiente religioso destinato ad accogliere il simulacro mariano, i frati francescani dell’Osservanza bernardiniana (probabilmente i veri ispiratori di questo genere di sculture), ha trasformato una scultura alta 168 cm in un capolavoro di stile e di spiritualità.
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TROPPE TASSE E NON HAI PIU’ SOLDI? IL RIMEDIO SI CHIAMA “BARATTO” di Giovanna D’Alessandro
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on si contano più i balzelli che hanno prosciugato quasi tutte le tasche. Nei piccoli come nei grandi Comuni è già operante una soluzione nuova. Lo strumento miracoloso si chiama “baratto amministrativo” e sta già dando una mano un po’ a tutti. Dal governo centrale, sempre più a corto di mezzi per fronteggiare le esigenze dei territori, ai sindaci che così possono dare risposte alle attese delle popolazioni. Il nuovo strumento è inserito nella legge “Sblocca Italia” per dare ai Comuni una nuova possibilità. Strade abbandonate? Piazze malridotte? Edifici pubblici cadenti? Verde da curare? Tanti i problemi e quasi sempre i Comuni non sono in grado d’intervenire per mancanza di personale e di risorse finanziarie. Mentre, dall’altra parte, numerosi i cittadini che non pagano
più le tasse comunali per la crisi o perché disoccupati e senza lavoro. Ma ora ecco il rimedio (pescato nello scrigno della fantasia italica) chiamato “baratto amministrativo”. Fra i primi a capire che potesse funzionare il sindaco di Chieti (Umberto Di Primio) capoluogo e poi di Tollo, piccolo centro abruzzese. Quest’ultimo ha subito varato il regolamento, mettendo mano in questo modo alle tante esigenze delle dodici contrade e dei quindici km quadrati d’un territorio da ripulire e tenere in ordine. Sindaci tutti uniti per salvare i contribuenti morosi e anche la faccia, la loro, per i troppi problemi locali irrisolti. Mentre ai cittadini non resta che bussare alla porta del Comune, indossando l’abito da lavoro. Se davvero con le tasse da pagare non ce la fanno più.
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IL POLITTICO DEL DUOMO A RISCHIO
adottato dai cittadini di Paola Di Girolamo
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semplare iniziativa del Lions Club per amare e conservare i gioielli di famiglia. Mobilitazione esemplare per salvare il Polittico di Jacobello Del Fiore, capolavoro dell’arte quattrocencentesca, in pessimo stato di conservazione nel Duomo di Teramo. E’ scattata, per fortuna, una benemerita opera di salvataggio e tutta la città ha praticamente “adottato” il Polittico a rischio. Come conferma la studiosa di storia dell’arte Raffaella Morselli, che ha fatto la sua parte svelando passato-presente dell’opera e del suo celebre autore, già al centro in passato di molteplici studi, a cominciare da quelli dello storico Nicola Palma. L’appello degli studiosi è stato subito raccolto dal Lions e dal suo presidente Michele Capomacchia, grazie alla convenzione sottoscritta con una grande azienda (la Bricofer operativa presso il centro commerciale Gran Sasso). Dove verranno raccolte le adesioni dei molti cittadini sensibili difensori dei tesori artistici della città. Soddisfatto
il Vescovo Michele Seccia nel ricevere la convenzione dalle mani del presidente Capomacchia, teramano d’adozione, che meglio di un indigeno riesce sempre a dare intelligenti prove di “teramanità”. Un “cemento” efficace per una città assetata di nuovi alleati ed energie per riaffermare ruolo e identità. Interessante scoprire ciò che l’ex prefetto Capomacchia sta facendo nel suo orticello lionistico, rilanciando con prestigiose personalità la missione del club, attraverso la cultura della legalità e l’arte (il salvataggio del Polittico ne è conferma eccellente). Come importante è il dibattito socio-culturale che il Lions propone fra gli aderenti e sul territorio. L’aria di entusiastica partecipazione che da ospite respiro, mi fa pensare che questo carismatico ex prefetto-servitore dello Stato di grande esperienza (che con la teramanissima signora Nadia ha sposato pure Teramo), potrebbe essere la figura idonea nel Palazzo di città o in altro importante ruolo istituzionale. Candidato sindaco? No, meglio commissario con pieni poteri, ammesso che l’interessato sia propenso a scendere in campo.
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SANTA ELISABETTA E LA SUA STORIA di Elisabetta Mancinelli
L’etimologia Il significato più probabile del nome Elisabetta è: “il Signore è giuramento” essendo il nome composto da El “Signore”, sheva “sette” e nishba “egli giurò”. Le sante e le beate che portano questo nome sono numerose tra le più note si ricordano: santa Elisabetta, madre di Giovanni il Battista, commemorata il 23 settembre e sant’Elisabetta d’Ungheria, regina e religiosa, ricordata il 17 novembre. Elisabetta secondo i Vangeli fu madre di san Giovanni Battista, cugina di Maria e moglie del sacerdote ebreo Zaccaria. I due coniugi ebbero il figliolo in età avanzata e Zaccaria ne ebbe l’annuncio dall’arcangelo Gabriele mentre svolgeva il suo servizio nel Tempio di Gerusalemme. Al sesto mese di gravidanza, Elisabetta ricevette la visita di Maria, che nel corso dell’Annunciazione era stata avvertita che sua cugina era incinta. All’udire il saluto di Maria, Elisabetta riconobbe Maria come la madre del Salvatore salutandola con le famose parole “benedetta fra le donne” e “madre del mio Signore”. Nel luogo in cui abitava Elisabetta nella località di Ain Karem nella periferia di Gerusalemme è stata costruita la chiesa cattolica della Visitazione. Essa fa riferimento all’episodio evangelico della visita di Maria alla cugina Elisabetta, come raccontato dall’evangelista Luca, al ter-
mine dell’incontro la madre di Gesù rispose con la preghiera del Magnificat. SANTA ELISABETTA D’UNGHERIA FESTEGGIATA IL 17 NOVEMBRE Elisabetta, figlia di Andrea II re d’Ungheria e di Gertrude, nobildonna di Merano, ebbe una vita breve. Nata nel 1207 venne promessa in sposa a Ludovico figlio ed erede del re di Turingia. All’età di 4 anni fu portata alla sua corte nel castello di Warburg ed ivi educata. Aborriva le gale e gli abbigliamenti superflui ed ebbe sin da bambina una particolare inclinazione alla pietà e alla carità. Allorché andava in Chiesa portando in testa una corona d’oro arricchita di gemme, nell’entrare se la levava e se la rimetteva dopo che n’era uscita. Si sposò nel 1221 a quattordici anni e divenne madre a quindici. Dopo il primogenito Ermanno vennero al mondo due bambine: Sofia e Gertrude, quest’ultima data alla luce già orfana di padre, Elisabetta rimase infatti vedova a 20 anni. Il marito Ludovico IV morì ad Otranto in attesa di imbarcarsi con Federico II per la crociata in Terra Santa. Elisabetta provò sommo dispiacere per la sua morte ma si rassegnò al volere divino e da allora il suo unico scopo fu l’educazione della prole e l’attività caritatevole già incoraggiata dal marito. Ma la suocera e i cognati, contrari alla sua scelta di povertà, la costrinsero ad lasciare il castello e ad abbandonare i figli e cercare rifugio a Marburgo in una modesta casa. Di-
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venne terziaria francescana, si spogliò di tutti i suoi beni con i quali fece costruire un ospedale per gli infermi a cui dedicò tutta se stessa visitando gli ammalati due volte al giorno e attribuendosi sempre le mansioni più umili. Morì a 24 anni il 17 novembre del 1231 a Marburgo. È stata canonizzata da papa Gregorio IX nel 1235. La santa patrona dei terziari francescani al seguito di Francesco di Assisi, è ritenuta anche protettrice degli infermieri, società caritatevoli e fornai. Suo emblema è il cesto di pane. In Abruzzo vi sono significative testimonianze del culto della Santa: a Crecchio, vicino al centro storico sorge un Santuario dedicato a Santa Elisabetta. La chiesa ha origini molto antiche, così come la venerazione degli abitanti per la Santa. Danneggiata negli anni 1943-1944, è stata ricostruita nel 1955. Al suo interno è possibile ammirare una statua quattrocentesca della Santa ed alcuni ex voto del XIX secolo. A Sulmona la Chiesa di San Francesco della Scarpa, costruita nel 1200 dai francescani e ampliata per volontà di Carlo II d’Angiò nel 1290 in maniera da diventare “la più importante chiesa francescana medievale d’Abruzzo”, è impreziosita da una tela cinquecentesca, di Olmo Giovanni Paolo, raffigurante appunto la Visitazione di Maria a S. Elisabetta. A Spoltore nella chiesa di San Panfilo nell’altare della Madonna degli Angeli, in stile barocco, accanto al grande
dipinto della Madonna degli Angeli, i frati francescani posizionarono anche le statua di Santa Elisabetta d’Ungheria. A San Giovanni in Venere, nella facciata dello splendido portale in pietra e marmo detto della Luna del sec. XIII, una delle lastre di marmo bianco scolpito rappresenta la Visitazione di Maria incinta di Gesù che si incontra con Elisabetta che attende Giovanni Battista. Infine a L’Aquila nel Museo Nazionale d’Abruzzo un pregevole dipinto rappresenta la santa in piedi, in posizione frontale; nelle mani giunte tiene una sottile croce d’oro, il rosario le pende dalle dita della mano sinistra mentre con il braccio sorregge un libro. La figura si staglia su un fondo blu stellato d’oro nella parte superiore, cosparso di rose bianche e rosse nella parte inferiore.
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DALLA PREVENZIONE ALLA RICOSTRUZIONE i terremoti ci trovano sempre impreparati di Enzo Saraceni
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ofisticate elaborazioni statistiche, gas radon, osservazioni satellitari, monitoraggi di faglie, movimenti dei pianeti, purtroppo non sono in grado di allertare la popolazione su un probabile evento sismico, né tantomeno prevederne l’intensità. L’unica certezza su cui possiamo sperare e che il 30 ottobre ha salvato vite umane, è che l’evento avvenga nelle ore diurne quando la gente è fuori casa, le scuole non sono aperte, chi è in casa è in grado immediatamente di mettersi in salvo. Oppure che le strutture portanti gli edifici in cui viviamo e lavoriamo siano in grado di resistere agli scuotimenti indotti dalla accelerazione proveniente dal sottosuolo, dovuta a spostamenti di grandi superfici orografiche tipiche del nostro appenino centrale e meridionale. Altre nazioni, che non provengono da un retaggio millenario come il nostro, riescono a difendersi da queste catastrofi devastanti, uscire indenni da sismi di intensità maggiore di quelli accaduti in Italia, gestire la sicurezza e porla all’attenzione delle masse, inculcarla ad adulti e bambini, addestrare la popolazione come comportarsi al momento dell’evento inaspettato. La nostra attenzione alla prevenzione è invece pressoché nulla. Basta una pioggia intensa per provocare disastri ambientali e perdita di vite umane o una mareggiata che mette in ginocchio l’economia dell’intera costa Adriatica. Le Amministrazioni Comunali della costa, dura constatazione, non sembra mostrino interesse a dotare il territorio di piani di emergenza ad alto valore strategico,
sui quali predisporre uno sviluppo urbanistico ecocompatibile. Onde istituire un sistema informatizzato per la popolazione e i volontari della protezione civile sui rischi latenti (sisma, alluvioni etc.), e fornire tutte le informazioni e i comportamenti da assumere in caso di calamità. Lo Stato centrale che dovrebbe accorgersi in anticipo che viviamo su un territorio in continuo spasmodico movimento, purtroppo prende coscienza ed emana decreti legge a raffica il più delle volte incomprensibili e integrati con altrettante raffiche di circolari chiarificatrici che non fanno altro che creare ulteriori confusioni e ritardi: vedi il “sistema L’Aquila” tanto decantato e che nella realtà vede, dopo sette anni dal sisma del 2009, solo il 5% del Centro Storico recuperato, ma privo di servizi efficienti. Solo in questi giorni si sta realizzando il “cavidotto intelligente” all’interno del quale alloggiare le tubazioni idriche, fognanti etc... che dovranno servire il centro storico e dintorni. Si spera che il commissario straordinario Errani dia un’impronta diversa alla ricostruzione dei centri abitati distrutti e danneggiati dagli eventi sismici del 24 Agosto e del 30 Ottobre. Si confida in una corretta e giustificata organizzazione della messa in sicurezza degli immobili danneggiati costituenti pericolo per la pubblica incolumità e che non si esasperi all’inverosimile (foto fontana di Piazza Santa Maria Paganica a L’Aquila) l’impiego di puntellamenti non necessari che hanno rappresentato in alcuni
Fontana piazza Santa Maria Paganica - L’Aquila
Miglioramento sismico aggregato Acciano - L’Aquila
casi solo un ricco business per imprese e amministratori senza scrupoli. Si spera che un “sistema responsabile” che non sia il “sistema L’Aquila” e che non si identifichi con il “sistema Emilia”. Viste le circostanze catastrofiche del sisma che ha interessato le regioni del centro (diverso per intensità e danni dal sisma che ha colpito la provincia Ferrarese) si individuino con chiarezza e senza interessi privati le priorità dei terremotati di Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo; si formino con diligenza le figure professionali competenti che dovranno gestire il post-sisma, si classifichino i tecnici e le imprese specializzate senza lasciare all’improvvisazione e all’opportunismo la progettazione e la ricostruzione del patrimonio edilizio distrutto,affinché possano tornare alle origini i borghi e i monumenti storici, che rappresentano una parte importante dell’eccellenza del nostro bel paese.
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