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Camosci foto di Antonio Santangelo
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MAGAZINE
Merry Christmas
Sommario
IL PRESEPE VIVENTE DI CASTELLALTO
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Fedele Romani
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DAL TRENO ALLA FUNIVIA
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di Patrizia Manente
di Elisabetta Mancinelli di Giovanna D’Alessandro
LE IENE MOLTO PIU’ DEI LUPI 10 DIFENDONO IL GRAN SASSO di Marcello Martelli
il CAPPELLO e la sua storia
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Palazzo Melatino
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LE USANZE NATALIZIE TERAMANE A TAVOLA
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L’ARTE ANTICHISSIMA DEI PROVERBI
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di Michela Cialini
di Luca Di Dionisio
MAGAZINE MERRY CHRISTMAS 2017 Progettazione Marketing & Comunicazione di Patrizia Manente Via Luigi Longo, 21 - Teramo Foto Massimo Di Dionisio, Ugo Di Giammarco, Patrizia Manente, Diego Pomanti, Antonio Santangelo Marketing e Pubblicità Paola Manente, Patrizia Manente Coordinamento Patrizia Manente Graphic design Imago Comunicazione Stampa EditPress - Castellalto (TE) Copyright Marketing & Comunicazione di Patrizia Manente © Tutti i diritti riservati
Questo magazine è sfogliabile on-line all’indirizzo: http://www.lelcomunicazione.it/blog/ magazine-pama-natalizio-teramo-2017/
Auguri i, E ai lettor L A T A N n ti di buo serzionis in i ic m a i agl rio speciale e un augu Cialini a Michela
Paola Manente
di Patrizia Manente di Patrizia Manente
PREMIATI I BISCOTTI FIDANI 20 di Patrizia Manente
COME SOPRAVVIVERE AL NATALE
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AZZINANO
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di Patrizia Ambrogi di Stefano Mantini
MARIA PIA AMMIRATI
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San ValentinO
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di Paola Manente
di Elisabetta Mancinelli
L’ARTISTA DELLA FRUTTA E VERDURA
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GABRIELE d’ANNUNZIO
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LA STORIA DEL PARROZZO
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ANTONIO ALLEVA
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di Patrizia Manente
di Elisabetta Mancinelli di Elisabetta Mancinelli di Cristina Scipioni
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IL PRESEPE VIVENTE DI CASTELLALTO di Patrizia Manente
L’
associazione “CASTRUM VETUS’’ di Castellalto, (presidente Amelia Contrisciani), anche quest’anno organizzerà il presepe vivente. E’ un appuntamento importante con il borgo, con le persone, soprattutto con Gesù Cristo. Un invito ad accogliere il più grande dei regali: quel dono prezioso che è la pace. L’obiettivo è quello di far rivivere l’emozione della natività per giungere al cuore della gente ed ascoltare il significato profondo della vita. All’iniziativa verrà coinvolta la popolazione di mento di serenità, per vivere il racconto di ’’una magica storia’’ simbolo di povertà e umiltà, fatta rivivere con passione e religiosità. I componenti che fanno parte del’Ass. Castrum Vetus sono: Sonia Cipollone, Paola Fiorà, Mercedes Rodriguez, Giuseppe Verrigni, Riccardo Forti, Dario Di Liborio, Massimo Maggitti, Antonio Paesani. La manifestazone si avvale inoltre della collaborazione generosa degli Amici del Presepe di Castellalto, dei volontari della Protezione Civile e dei volontari di tutte le frazioni del comune. San Giuseppe rappresentato da Giuseppe Verrigni, la Madonna da Rossella D’Ambrosio, il Bambinello dalla piccola Sofia. I figuranti saranno in tutto circa 150. Il suggestivo evento si svolgerà il 1 gennaio 2018 nel borgo di Castellalto, coinvolgendo tutto il centro storico e avrà inizio alle h.16:00. Sarà la quinta edizione e anche tutto il comune di Castellalto. Questa unione è sicuramente un esempio di solidale collaborazione e allo stesso tempo una sana aggregazione che oggi più che mai vuole fornire a tutti noi uno stimolo di alto spessore morale. E’ bello vedere coinvolta la nuova generazione che non deve dimenticare la storia dei nostri avi, ma conservare le tradizioni e i costumi di un tempo. Entrare nel vivo del presepe vivente di Castellalto significa abbandonarsi al fascino di un mondo tanto diverso dal nostro, un mondo dove l’uomo ritorna con la sua semplicità ai suoi veri valori. Lo spettacolo che si vive è così emozionante e carico di sentimenti da farci credere quasi di ritrovarsi nel passato. Un appuntamento da non perdere per trascorrere un moquest’anno sicuramente ripeterà il successo dell’anno scorso, dove tantissime persone (circa 3.000) visitarono il borgo medioevale, richiamate dai scenari e dall’atmosfera dell’antica Palestina. Con la rappresentazione di scorci di vita quotidiana tra mercati, locande e botteghe di antichi mestieri, con i profumi dei cibi semplici preparati sul momento, e che accompagneranno i visitatori lungo il percorso che, alla luce soffusa delle fiaccole, narra la storia della Natività che si snoderà tra le vie del paese. Per chi volesse fare un ristoro in loco, potrà rivolgersi all’angolo “Vin Brulè’’. Ingresso libero e servizio bus navetta. gli amici del Presepe di Castellalto
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Fedele Romani
Ricordo di Silvi e delle variopinte vele sull’antico Adriatico del poeta teramano di Elisabetta Mancinelli
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l poeta e scrittore Fedele Romani, nacque a Colledara (Te) il 21 settembre 1855, studiò nel liceo di Teramo e frequentò anche la scuola di disegno del pittore Gennaro Della Monica, affinando un talento naturale poi espresso nella produzione di caricature. Laureatosi in lettere alla Normale di Pisa insegnò prima al liceo di Teramo e poi a Firenze dove visse fino alla morte nel 1910. I suoi interessi culturali furono estremamente differenziati. Notevole l’apporto agli studi danteschi con la pubblicazione di numerosi saggi per la “Lectura Dantis”. Si occupò inoltre di dialettologia e pubblicò approfondite indagini relative alle parlate d’Abruzzo, Sardegna, Calabria e Toscana e collaborò con numerosi periodici tra i quali La Gazzetta di Teramo, il Corriere Abruzzese. Fu caro amico di Giovanni Pascoli, che gli dedicò i Poemi italici. La sua fama è legata soprattutto all’opera narrativa. Ebbe vasta risonanza la pubblicazione di Colledara: libro di memorie che descrive personaggi e vita quotidiana di varie località abruzzesi che rappresenta la sua autobiografia intellettuale. Fu anche autore di poesie nel dialetto della montagna teramana.
L’INCANTEVOLE VILLAGGIO DELLA SILVI DI UN TEMPO descritto da Fedele Romani
Nei primi anni del ‘900 il paese aveva ancora un aspetto selvaggio: sia la spiaggia che le colline circostanti erano ricoperte di boschi, da qui il nome “Silvi” dal latino “Silvae” che indica appunto questa antica conformazione del litorale. Un litorale che all’epoca aveva colori che andavano dal verde bottiglia dei boschi circostanti al verde-turchese del mare Adriatico, quel mare che d’Annunzio chiamò “selvaggio, verde come i pascoli dei monti”. Il Romani ebbe più volte occasione nella sua vita di visitare Silvi e nel 1909 così definisce questo incantevole villaggio: “la spiaggia è tra le più belle d’Italia tutta verdeggiante di vigne e d’ulivi, tutta ridente di villette, variamente sparse ed aggruppate”.
In una di queste visite recatosi sull’altura dove sorge il paese, godendosi lo spettacolo in cui l’occhio può spaziare da una parte fino al promontorio di Ancona e dall’altra allo sperone del Gargano, così descrive le vele dipinte variopinte che solcavano le onde dell’Adriatico sottostante. “Un non so che di barbarico e orientale e dirò di turchesco… Andavano vagando qua e là per il mare le paranze delle vele dipinte a vivi colori, i quali, poiché tra essi predominavano il giallo e il rosso, formavano mirabili e liete armonie. Ogni barca o, per dir meglio ogni coppia di barche nelle acque abruzzesi, porta il sacramento: la luna, il sole, la croce… Si sentono tra i marinai frasi come queste: è uscito il sacramento, è uscito il sole, è uscita la croce per indicare che le barche con questi emblemi si sono avanzate in mare per la pesca”.
In un interessante documento del primo decennio del Novecento il poeta e scrittore Romani, che si trovava in Germania a Colonia, descrive una particolare peculiarità del magico paese: l’uva d’oro. “Nella vetrina di un negozio scorsi al posto d’onore alcune scatole d’uva fresca, d’un biondo così puro e trasparente che pareva staccata allora dalla vite”. Quell’uva, indicata col nome di “Goldhi-vauben” appunto uva d’oro, era l’appellativo usato in genere dai tedeschi nei riguardi dell’uva di Silvi. Fu essa a porgere al poeta il nostalgico saluto alla sua terra d’Abruzzo. Anche Gabriele d’Annunzio, che nel periodo del Cenacolo francavillese si recò spesso a Silvi con i suoi amici e da solo, trasse probabilmente ispirazione dalla visione delle paranze che numerose uscivano nel mare antistante il paese per la pesca quando compose questi inimitabili versi: “Rientran lente da le liete pèsche sette vele latine, e portan seco delle ondate fresche di fragranze marine.
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Son bianche, rosse, gialle e su ci raggia l’occhiata ultima il sole; s’allunga l’aura una canzon selvaggia”.
Da I Taccuini di Gabriele d’Annunzio: Silvi. “Una strada corre lungo il mare, parallela alla spiaggia, limitata da qualche pioppo. Un fiume di ghiaia, largo, si confonde coi campi è come una via di migrazione, come
un tratturo... Una torre quadrangolare di vedetta, merlata sul mare... Il mare su una spiaggia tanto sottile che sembra debba avanzarsi scorrendo su tutto il paese, fino al piè dei poggi. Le file di paranze con un solo albero e le antenne posate sul bordo, le reti tese sulla cima dell’albero a poppa e a prua. Nella sabbia le piccole viti nerastre, sarmenti secchi e torti: Silvi”.
Ricerche storiografiche di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com
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DAL TRENO ALLA FUNIVIA di Giovanna D’Alessandro
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l primo treno d’Italia sulla Napoli-Portici partì il 3 ottobre 1839. Un viaggio di otto km in undici minuti a 50 km l’ora. Presente all’inaugurazione Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, a lungo contrario alla strada ferrata nel suo regno. “Ci sono già le carrozze con i cavalli…”, questo il pensiero del sovrano. Sono passati meno di duecento anni e in ferrovia si viaggia sempre più velocemente. Siamo ormai al “treno proiettile” che va su rotaia a 440 km orari. Prossimamente, sui binari viaggeremo con la stessa velocità degli aerei e l’impatto per l’ambiente sarà zero. Non solo: la tecnologia promette altri miracoli incredibili (addirittura il “treno sottovuoto” in una capsula sparata a 1.120 all’ora). Eppure, il nostro resta un Paese a due dimensioni. Mentre da una parte cresce il servizio ad alta velocità (+276%), per i treni regionali siamo sempre in forte ritardo. Basti sapere che la Pescara-Roma è al sesto posto e il numero dei pullmans è tre volte quello dei treni. Non abbiamo ancora una seria politica dei trasporti, mentre le problematiche della mobilità urbana si affrontano con
superficialità e ritardi. Come confermano la vicenda della funivia per Colleparco e il progetto da anni nel cassetto per l’ammodernamento dello scalo ferroviario nella città-capoluogo. Insomma, siamo ancora ai tempi del re delle Due Sicilie. Eppure, il treno serve persino per combattere l’insonnia: quando Marcel Proust non riusciva a dormire, leggeva l’orario ferroviario. Per prendere sonno.
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LE IENE MOLTO PIU’ DEI LUPI DIFENDONO IL GRAN SASSO di Marcello Martelli
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e iene” battono i lupi in difesa del Gran Sasso e dell’acqua delle sue sorgenti. Non è la prima volta che la nota trasmissione televisiva prende a cuore un tema scottante, chiamando in causa l’Istituto di Fisica nucleare e i suoi esperimenti scientifici sotto la montagna. Un compito della stampa e del giornalismo d’inchiesta in particolare far luce su ogni aspetto, a cominciare dal rischio radioattività e inquinamento dell’acqua che beviamo. Perciò non è piaciuta la ruvida accoglienza di Luciano D’Alfonso, presidente degli abruzzesi. Il governatore, ripudiato il fair-play andreottiano, negli ultimi tempi adotta metodi forti con la stampa e i giornalisti che fanno il loro mestiere. Pesante lo sgarbo subito da una giovane inviata de “Le jene”, Nadia Toffa, nel servizio andato in onda il 21 u.s. Con domande scomode in merito alle autorizzazioni rilasciate dalla Regione per esperimenti ritenuti pericolosi. Nessuna risposta di D’Alfonso ai vari interrogativi (eppure straparla spesso e volentieri). Scena muta su problemi che preoccupano tutti. Non solo. Non ha esitato a mettere sbrigativamente alla porta la malcapitata giornalista, strattonandola bruscamente. Signor presidente, no a molestie per aspiranti attrici da registi intraprendenti, ma neppure l’arroganza scortese del potere a donne croniste che fanno un lavoro importante per la collettività. Opportuna la solidarietà del
presidente dell’Ordine dei giornalisti Stefano Pallotta e del segretario del sindacato Adam Hanzelewicz a Paolo Vercesi, giornalista del “Messaggero”, bersaglio verbale dello stesso governatore, durante una pubblica manifestazione. A quella dell’Ordine e del sindacato, vorrei aggiungere la vicinanza di questo vecchio cronista. Occasione propizia per estenderla al collega Primo Di Nicola, che da poco ha lasciato la direzione di un noto quotidiano abruzzese. I lettori sono ancora in attesa di leggere il suo saluto. E’ la prima volta, forse, che un direttore stimato e prestigioso lascia l’incarico senza scrivere una sola parola per comunicare le motivazioni d’una decisione
improvvisa e inattesa. Una pratica mai vista nei giornali che ho conosciuto e frequentato. Giusto che la stampa pretenda chiarezza e trasparenza dalla politica, ma l’informazione può essere esente dall’osservare lo stesso obbligo? “La parola è civiltà. E’ il silenzio che isola”. Un pensiero di Thomas Mann che conviene a tutti condividere. Al governatore e a certi editori per primi.
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Da Carlo VIII ai giorni nostri
il CAPPELLO e la sua storia di Michela Cialini
L’
esatto inizio della storia del CAPPELLO è difficile da stabilire con precisione. Tuttavia è possibile tracciare un excursus ripercorrendo le tappe (e le date) principali che hanno caratterizzato questo accessorio estetico e funzionale al tempo stesso. Prima che comparissero i cappelli, le donne medievali utilizzavano i veli, le cuffie, ma anche cappucci. Le donne, fin dall’antichità e in tutte le civiltà, hanno raccolto le loro chiome in questo modo. La funzione principale del copricapo infatti era quella di proteggere la testa e con essa i
capelli. I cappelli dovevano inoltre coprire anche una zona del corpo considerata troppo erotica: il collo. Il primo cappello compare verso la metà del Quattrocento con Carlo VIII che durante una visita a Roma indossò un copricapo di feltro dotato di una falda. Tuttavia solo a partire dal Settecento il cappello diventa un capo d’abbigliamento indispensabile, soprattutto nei guardaroba delle donne. Il Settecento è l’epoca degli eccessi: qualsiasi cosa era utilizzata come decorazione di cappelli. Nonostante ciò, a fine Settecento, a causa della Rivoluzione Francese che associa il cappello alle classi nobiliari, questo accessorio subisce un calo di popolarità che recupererà grazie all’Inghilterra. Fra l’epoca della Reggenza e quella Vittoriana, i cappellini da donna tornano a vivere un periodo di grande splendore, mutando di anno in anno ed essendo sempre
all’avanguardia. All’inizio dell’epoca della Reggenza si parla di una moda molto bucolica, da pastorella: troviamo ampli cappelli in paglia, siano essi semplici o decorati, con nastri da essere legati sotto al mento per garantire che il cappello non si muova. Nel corso della Reggenza, la falda del cappello utilizzata per coprire il viso, si va via via riducendo. Nel 1840 la falda sparisce del tutto scoprendo anche la parte posteriore del collo. Si tratta di un’inversione del senso della tradizione, che consente a questo accessorio di essere sempre più alla moda. Dal 1860 il cappello diventa solo un ornamento di tipo grazioso e prezioso. Nasce il cappello costituito da sete, nastri, arricciature e pizzi in una composizione elegante e delicata. Tuttavia per le uscite in campagna rimane intramontabile il cappello di paglia, con ampia falda e nastro. Si parte dalla Francia e dall’Inghilterra per arrivare poi alla grande produzione italiana dell’Ottocento e del Novecento. Da qui in avanti i modelli dei cappelli si moltiplicano, così come le decorazioni e gli stili, le stoffe e i materiali. Troviamo cappellini per ogni occasione: cappellini da giorno, cappellini da sera, cappellini pomeridiani e cappellini adatti alle funzioni religiose. In questo periodo la moda attinge anche dal cappello maschile, in particolar modo alla struttura del cilindro. Negli anni successivi, il cappello continuerà a mutare
con la moda, riprendendo misure più discrete. Tuttavia le guerre danno una svolta alla moda femminile facendo tramontare il cappellino da donna nell’ uso quotidiano; infatti già dagli anni sessanta diviene appannaggio di una classe lontana dalla gente comune.
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È importante ripercorrere la storia della cappelleria per ricordare e valorizzare la tradizione del cappello dato che quest’ultimo è stato ed è tuttora simbolo culturale e sociale, nonché segno di personalità.
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Palazzo Melatino Tra storia e nobiltà di Luca Di Dionisio
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alazzo Melatino è uno dei palazzi dalla storia più significativa per Teramo, sia per i resti di molteplici epoche, sia per la gloria del casato di cui porta il nome. I più antichi resti risalgono all’epoca romana, quando c’era una domus, segno della crescente ricchezza dell’allora Interamnia Praetutiorum. Ad una
prima pavimentazione più antica, in epoca augustea si costruisce sopra una nuova pavimentazione, più ricca e decorata. Nel periodo altomedievale, pur con la crisi seguita alla fine dell’Impero romano, la domus dimostra ancora la sua capacità attrattiva, seppur con una
nuova destinazione d’uso, come dimostrano i resti delle dolia, grandi vasi per contenere granaglie e legumi. Il periodo più buio, però, è nel 1156, con la distruzione della città ad opera del conte di Loretello. Per quasi un secolo il palazzo si trova nell’abbandono fin quando, nel 1232, Matteo I Melatino acquista dal vescovo-conte di Teramo Silvestro la proprietà dei ruderi; in pochi anni tali ruderi si trasformano nella casa della famiglia nobiliare più importante del medioevo teramano. I Melatino sono una famiglia nobiliare di origine longobarda e vantano una nobiltà d’armi. Nel corso dei vari secoli ottengono numerosi possedimenti in tutta
la provincia e nel XIII secolo, con l’acquisizione della casa, iniziano ad influenzare sempre di più la vita di Teramo. Famiglia ghibellina, i Melatino si scontrano con i De Valle, guelfi, e le lotte per il potere cittadino portano anche all’uccisione di Andrea Acquaviva, proprio in questo palazzo, da parte di Enrico Melatino, dopo che l’Acquaviva, inizialmente favorevole ai Melatino, aveva cambiato alleanza. È da riferirsi alla vendetta degli Acquaviva la famosa lapide “A lo parlare agi mesura”. Nonostante la sempre crescente violenza politica, i Melatino riescono a farsi conoscere anche oltre confine, difatti Berardo Melatino arriva a diventare podestà di Firenze nel 1347. Nel 1372 Roberto IV restaura il palazzo, dandole l’attuale fisionomia. Le faide contro i De Valle e la tradizione nobiliare longobarda di suddividere l’eredità ad ogni figlio (si sono contati, in una generazione, fino ad 80 eredi diretti), però, riducono notevolmente il potere della famiglia, la quale si estingue con l’ultima erede Vincenza che, nel XV secolo, si sposa con Giovanni Berarducci, donando a questa famiglia anche la casa. Nel XIX e nel XX secolo è proprietà della famiglia Savini. Nel 1902 la casa dei Melatino viene inserita nella lista dei Monumenti nazionali italiani. È divenuta proprietà, nonché sede, della Fondazione Tercas nel 1996. Attualmente è sede di iniziative culturali e di una mostra permanente di circa 180 opere in maiolica e porcellana di Castelli, provenienti dalla collezione Gliubich.
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LE USANZE NATALIZIE TERAMANE A TAVOLA di Patrizia Manente
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repariamoci al Natale, la grande festa dell’anno, che riscalda il cuore e rilancia il rito della tradizione. Con al primo posto la tavola e le sue specialità. Ogni territorio ha i suoi piatti che esaltano la convivialità delle feste trascorse nell’intimità della famiglia. Quando tornano puntualmente le tradizioni e le ricette che si tramandano da una generazione all’altra. Anche se le mode tentano
LI FRITTE
di cambiare persino la tavola, ma la tradizione riesce ad avere sempre i suoi spazi. Anzi, diciamolo: non c’è Natale senza i piatti delle brave cuoche d’un tempo. Fra questi non mancano quasi mai alla Vigilia o a Natale, gli antipasti di fritti prevalentemente a base di verdure: finocchio, sedano, cavolfiore, zucchine, carciofi ma anche di baccalà e olive all’ascolana.
Il piatto è stato preparato da mia madre
Adele Di Franco
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UNO DEI DOLCI TIPICI TERAMANI: LI SFUJATELLE
L
e sfogliatelle costituiscono il dolce natalizio più raffinato e più difficile da preparare, perché richiede tempo, tanta dedizione e soprattutto ingredienti genuini. A tutt’oggi è fortissima usanza nel territorio abruzzese sia delle massaie più esperte che quelle più giovani.
Foto di Patrizia Manente
Il dolce è stato preparato da
Stefania Di Battista
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L’ARTE ANTICHISSIMA DEI PROVERBI di Patrizia Manente
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osa può esserci di meglio per conoscere veramente un popolo che osservarlo nella vita di tutti i giorni, nelle sue minuzie e nelle sue manifestazioni più spontanee? Solo in questo modo può emergere la vera natura della gente semplice, ma autentica, che ha accumulato un patrimonio di esperienza di vita (fatta di lotte, sacrifici e rinunce) talmente significativa da poter essere espressa e tramandata attraverso la saggezza dei suoi detti popolari, utilizzando il proprio colorito linguaggio. E’ così che nascono i proverbi e i modi di dire: dalla filosofia spicciola della gente comune; dall’arte esercitata o espressa da artisti sconosciuti, che giorno dopo giorno, massima dopo massima, ci guidano nel percorso dell’esistenza confermandoci quanto sia vero il detto ’’Niente c’è di nuovo sotto il sole’’. Il ciclo vitale si ripete continuamente, le generazioni cambiano ma l’uomo è sempre lo stesso: nasce, vive, muore. La natura umana è mutevole e contradditoria, capace di gesti eroici, ma anche di tante piccole meschinità. Nessuno può sfuggire alla saggezza dei proverbi: né i potenti, né gli umili ne sono immuni. Infatti i proverbi non fanno altro che lodare le buone azioni e castigare le cattive, mettendoci in guardia sui pericoli che si annidano ad ogni angolo e che solo con l’esperienza
l’uomo può schivare ma soprattutto sembra venire a galla da essi un mascherato fatalismo, che suggerisce un modo di comportamento e che vorrebbe stare a significare ‘’Vivi e lascia vivere’’; perché nessuno è perfetto, neanche chi conosce a memoria tanti proverbi. In realtà il proverbio non ti impedisce di sbagliare, ma forse ti aiuta a non ripetere ostinatamente i tuoi errori quando, ad azione compiuta, sembra quasi ricordarti dispettosamente ‘’Te l’avevo detto’’. Fortunati quelli che facendone tesoro riescono a prevenire guai più grossi. ‘’Sbagliando s’impara’’ e ‘’Meglio nascere fortunati che figli di gran signore’’. I motti, gli adagi, i detti, le sentenze proverbiali che vanno per le bocche di tutti, se appropriatamente vengono ricordati, sono una guida al vivere umano; e, tutto quello che si diceva tanti secoli fa è tutt’ora ancora valido. Nel libro dei proverbi antichi di Salomone si trova scritto che essi erano stati raccolti: per conoscere sapienza ed ammaestramenti; per ricevere insegnamento di buon senso, di giustizia, di giudizio e di dottrina; per dare avvedimenti semplici, e conoscenza ed accorgimento ai fanciulli; il savio li udirà, e ne accrescerà la sua scienza, e l’uomo intendente ne acquisterà buoni consigli e governo; - per comprendere le sentenze ed i bei motti, le parole dei savii, e i loro detti oscuri. - Nella scelta dei proverbi indicati in questa rubrica si è voluto ricercare tra i più simpatici, bizzarri ed espressivi, dai toni ora sarcastici, ora metaforici. La forma dialettale, vivace e genuina, si adatta in perfetta armonia con il proverbio, perché la loro mescolanza rende l’omogeneità di tradizioni, di intenti e di culture. Attenti però a non prenderli sotto gamba, non ci inganni la loro parlata spontanea: ‘’Voce di popolo voce di Dio’’.
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- Puleture de piatte, unore de coche. - Pulitura di piatto, onore di cuoco. - L’amore nen vò bbellazze, l’appetite nen vò la salze. - L’amore non vuole bellezze, l’appetito non vuole la salsa. - Tre cose nen vè apprezzate: la forze de lu facchine, lu cunzje de lu puveròme e la bbellazze de la puttane. - Tre cose non vengono apprezzate: la forza del facchino, il consiglio del pover’uomo e la bellezza della puttana. - L’arte de tate è mezze ‘mbarate. - L’arte del padre è mezza imparata. - Triste a chj nen tè ninde, ma cchjù triste a chj nen tè nisciune. - Triste a chi non possiede nulla, ma più triste a chi non ha nessuno. - Lu male cià simbre stàte e ce sarà, lu bbene se ce stà …starà de llà. - Il male c’è sempre stato e ci sarà, il bene se ci sarà… lo si troverà nell’aldilà. - A la prim’acque d’ahoste, lu ricche e lu povere s’arcunòsce. - Alla prim’acqua d’agosto, il ricco e il povero si riconoscono dagli abiti. - A stu monne tutte pàsse, tutte se làsce, tutte fenìsce dandr’a ‘na casce.
- A questo mondo tutto passa, tutto si lascia, tutto finisce dentro a una cassa. - Chj làsce la strada vicchje pe ’lla nove, sa calle che làsce, ma ’n sa calle che tròve. - Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quale lascia, ma non sa quella che trova. - La ciuàtte dìce ca li fija su a è li cchiù bille. - La civetta dice che i suoi figli sono i più belli. - Si chiude nà porte e sa apre nù purtone. - Si chiude una porta ma ti si può aprire un portone. - Fatìje poche, e ‘llu poche che tì da fa fàllu fa all’iddre. - Lavora poco, e quel poco che devi fare fallo fare agli altri. - Lu cchjù dure a scurtecà a è la cote. - Il più duro a scorticare è la coda. BIBLIOGRAFIA: - Proverbi e modi di dire abruzzesi, di Tommaso Bruni, finito di stampare novembre 1985. - Proverbi italiani (Club degli Editori), a cura di Stefano Benvenuti,Salvatore Di Rosa, 1980.
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PREMIATI A RIMINI I BISCOTTI FIDANI SENZA GLUTINE di Patrizia Manente
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ostituita nel 2016, Fidani Healthy Food ha radici profonde: l’azienda nasce infatti come evoluzione della società Pan di Zucchero, laboratorio di pasticceria di Annamaria Fidani, con oltre venti anni di esperienza e ricerca nel settore. Anni nel corso dei quali sono state messe a punto ricette uniche nel loro genere: preparazioni di alta qualità, sane, moderne e innovative, nel pieno rispetto di tradizione e artigianalità. Da sempre Annamaria
Fidani si è dedicata con tenacia, passione e intelligenza al benessere dei propri Clienti. Attualmente la gamma Fidani consta di 18 prodotti. Dopo il successo ottenuto a Londra con la crostata d’uva, dove le raffinate specialità FIDANI hanno conquistato calorosamente il pubblico inglese, vincendo così il primo premio assoluto per la sezione food al Bella Vita Expo, ancora un importante riconoscimento per le specialità ‘’free-from’’ Fidani. Cresce il Palmares di FIDANI Healthy Food, interessante realtà nel panorama dell’alimentazione sana e gustosa, che, dopo il successo di pochi mesi fa oltremanica, compie un nuovo importante passo verso la conquista di un pubblico sempre più ampio. La linea di biscotti senza glutine, ha ottenuto il 21 Novembre 2017 il 1° Premio nella categoria biscotti “Gluten Free & Lactose Free Awards “ nell’ambito di Gluten Free Expo, Salone Internazionale del mercato e dei prodotti senza glutine, che ha chiuso i battenti a Rimini registrando un record in merito a presenze e interesse da parte del pubblico.”Siamo particolarmente onorati di questo riconoscimento, ha dichiarato Francesco Capaccioni, direttore commerciale FIDANI Healthy Food, che posiziona ancora una volta le nostre specialità al vertice del gusto, oltre che dell’alimentazione free-from preparata in modo attento e con un’accurata selezione delle materie prime’’.
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COME SOPRAVVIVERE AL NATALE di Patrizia Ambrogi
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rriva il Natale con tanta abbondanza culinaria. Essere abruzzese, significa avere la possibilità di godere le feste con piatti squisiti e unici, ma ahimè calorici. Tanto calorici. A cominciare dal timballo, una vera leccornia, ma con tutte quelle scrippelle e carne, anche con una sola porzione si può arrivare a coprire il fabbisogno calorico dell’intera giornata. Poi, verdure fritte, cotolette di agnello: autentici attentati alle coronarie. E i dolci? Vogliamo parlare dei dolci? Cagionetti, candidamente fritti con ripieno di castagne e rhum (tra gli innumerevoli ingredienti) che solo al consumarne uno ti becchi una marea di calorie. E le sfogliatelle? Aspetto delicato, ma consistenza aggressiva con strutto e marmellata tra gli ingredienti principali. E i bocconotti? Forse i più “contenuti” da un punto di vista calorico, ma sempre dolci restano.
STRATEGIA ANTI-CALORIE Quando arriva il Natale, i propositi di una buona condotta alimentare sono sempre tanti ma decisamente e inesorabilmente di fronte a cotanta beatitudine questi vanno a farsi benedire e allora ci dobbiamo rassegnare a un Natale di privazioni? Assolutamente no. Vale la pena tentare qualche piccolo stratagemma che, se seguito, permette di passare quasi indenne la festività più dolce dell’anno. • Innanzitutto non mangiare più volte al giorno, rispettare quindi la cadenza dei pasti e attenersi a quelli: colazione, spuntino metà mattina, pranzo e cena, magari iniziando i pasti principali con la frutta e la verdura che, ricchi in fibre e acqua, danno un senso di sazietà. • Non riempire il piatto fino a colmarlo, magari assaggia-
re diverse portate, anche tutte se sono veramente meritevoli ma consumate in quantità inferiori, e, importante, mai chiederne il bis. • Bere molto, ma acqua però! Quindi laddove possibile meno alcool. • Considerato che le pietanze saranno tante si potrà fare a meno del pane, o almeno cercare di contenerlo al minimo, in questo modo si potranno gustare anche meglio le pietanze. • Se si è indugiato la sera prima sull’agnello, il giorno dopo è da tenersi leggeri privilegiando verdura e frutta, il nostro corpo è una ragioniera inappuntabile che conta ciò che entra così come ciò che esce in maniera rigorosa. • Importante poi l’attività fisica, il movimento, che serve a mantenere il nostro corpo efficiente anche equilibrando le calorie in eccesso. Se ci si è concessi un torrone e un pepatello di troppo allora compensare con del sano movimento, camminata veloce, giro in bicicletta, scale, palestra, tutte attività che aiutano a bruciare le calorie di troppo. Dopo questo breve prontuario di pratici consigli, un ultimo forse il più importante, se proprio non si è riusciti a rinunciare a nulla, neanche all’ultimo panettone allora passate le feste è da rimettersi in riga, ma fondamentale: astenersi da diete drastiche improvvisate, le fai da te, che danno risultati di “weight cycling” in cui si perde massa magra, per intenderci quella soda e muscolosa, per poi riprendere peso sostituito dalla massa grassa, la massa adiposa, che in queste diete yo-yo purtroppo accade, affidatevi ad un buon programma di dimagrimento che si ottiene associando al piano nutrizionale anche l’esercizio fisico. dott.ssa Patrizia Ambrogi Master di 2° livello in “Nutrizione personalizzata: basi molecolari e genetiche” Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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AZZINANO TRA MURALES E GIOCHI ANTICHI di Stefano Mantini
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zzinano, frazione di Tossicia, residenza della nota pittrice Annunziata Scipione, è un borgo unico e fiabesco. Dove i muri delle case raccontano attraverso decine di murales, che animano e colorano il paese con la rappresentazione dei giochi di una volta. L’origine del paese risale al XII secolo, anche se tracce
di insediamenti nella zona risalgono all’epoca del Neolitico. Situato alle pendici del versante teramano del Gran Sasso, all’interno del Parco Nazionale e Monti della Laga. Nel 2.001 partì l’iniziativa per dipingere i muri delle case, promossa dalla Pro Loco, ideata da Luciano Marinelli e condivisa con orgoglio dalla comunità locale. Azzinano fa parte del Club Nazionale dei Paesi Dipinti definita “la Luzzara della Valle Siciliana” per i suoi muri classificati “Muri d’Autore”. Un’arte fresca e fantasiosa, intrisa di creatività ed ironia. Per affreschi che possono significare proteste, disagi, ricordi, racconti del passato. Così un paesino da anonimo borgo, diventa “opera d’arte”. Per i numerosi turisti che la visitano sono tante le emozioni di questo museo all’aperto. Dove la bellezza dei numerosi murales colorati parlano, ricordano la storia e la cultura del borgo. Per tramandare un interessante e originale patrimonio artistico.
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INCONTRO CON LA SCRITTRICE MARIA PIA AMMIRATI di Paola Manente
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a ‘’memoria condivisa’’ filo conduttore dell’incontro con la direttrice di Rai Teche Maria Pia Ammirati. Si è svolto nella sala dell’Archivio di Stato organizzato dalla Sezione della FIDAPA BPW Italy di Teramo. La scrittrice ha presentato il suo ultimo romanzo‘’ Due mogli - 2 agosto 1980, edito da Mondadori, sul tema della strage di Bologna. Il libro tratta il tema dell’ineluttabilità, della normalità di un giorno qualsiasi,
che viene interrotto da un vile atto terroristico che trasforma una calda giornata d’agosto in una tragedia collettiva, che verrà raccontata nei libri di storia dove si intrecciano le vicende umane e personali delle vittime, dei sopravissuti, delle forze dell’ordine, dei tassisti che si sono trasformati in soccorritori, dei corpi e delle macerie. Il dibattito è stato moderato dal giornalista del quotidiano ‘’La Città’’ Simone Gambacorta, che ha presentato il libro. La direttrice di Rai Teche ha avuto modo anche di parlare dell’importanza degli archivi della Rai, che sono tra i più grandi al mondo e che costituiscono un’importante fonte di studio della storia contemporanea. Al dibattito hanno partecipato molte personalità del territorio, segno che la sezione teramana della Fidapa, costituita a giugno, (Presidente Laura De Berardinis) si sta radicando sul territorio. Un sentito ringraziamento a Carmela Di Giovannantonio, direttrice dell’Archivio di Stato per aver ospitato l’evento, alle socie e ai rappresentanti di enti ed istituzioni teramane.
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San Valentino
le origini, le leggende, la storia e la sua diffusione nel mondo di Elisabetta Mancinelli
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an Valentino, vescovo romano martire patrono di Terni, viene venerato dalle chiese: cattolica, ortodossa e anglicana. Valentino nacque a Terni nel 175 d.c. e dedicò la sua esistenza alla comunità cristiana della sua città in cui infuriavano le persecuzioni contro i seguaci di Gesù. Fu consacrato vescovo di Terni nel 197 d.c. dal Papa Feliciano. Quando l’imperatore Aureliano ordinò le persecuzioni contro i cristiani, Valentino fu obbligato a convertirsi al paganesimo e, poiché rifiutò di rinunciare alla fede cristiana, fu imprigionato e flagellato lungo la via Flaminia lontano dalla città per evitare tumulti e rappresaglie dei fedeli. La Chiesa, nel 496 accolse come esempio d’amore questo Santo per sostituire una antichissima festa pagana, i Lupercalia: una festività religiosa romana che si celebrava il 15 febbraio, in onore di Fauno nella sua accezione di Luperco (in latino Lupercus) secondo la quale in tale data, i romani innamorati rendevano omaggio al dio protettore del bestiame dall’attacco dei lupi, affinchè garantisse alle coppie un anno di fertilità. I Lupercalia venivano
celebrate nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, i fondatori di Roma, Romolo e Remo sarebbero cresciuti allattati da una lupa.
STORIA DELLA FESTA La Storia della festa di San Valentino protettore degli innamorati è contornata da diverse leggende. La prima narra che Valentino legato teneramente alla giovane figlia del suo “carceriere” alla quale aveva miracolosamente ridato la vista, prima di essere decapitato inviò un messaggio di addio alla ragazza che si chiudeva con le parole “dal tuo Valentino”. Da questa leggenda e questa frase deriverebbe l’espressione usata in questa occasione “Sii il mio Valentino (be my Valentine)”. La seconda leggenda della Storia di San Valentino è legata ad una rosa. Un giorno Valentino porse una rosa a due giovani che stavano litigando, invitandoli a tenerla unita nelle loro mani, e pregando il Signore affinchè il loro amore durasse in eterno. I due così fecero e se ne andarono riappacificati, per poi tornare dal Vescovo tempo dopo per far benedire le loro nozze. La Terza leggenda di San Valentino narra che Sabino, un centurione romano di religione pagana, innamoratosi di una fanciulla cristiana Serapia, non ricevette la mano della ragazza dai genitori. La giovane gli suggerì di andare dal Vescovo Valentino per avvicinarsi al Cristianesimo facendosi battezzare. Mentre erano in corso le preparazioni per il battesimo di Sabino e le successive nozze, Serapia si ammalò di tisi Il giovane, sconvolto, chiese a Valentino di non essere separato dalla ragazza ormai in fin di vita e di unirli in matrimonio. Al momento della benedizione del vescovo i due giovani si spensero insieme, restando uniti per l’eternità. Valentino è considerato il patrono degli innamorati probabilmente poiché fu il primo religioso che celebrò l’unione tra un legionario pagano e una giovane cristiana.
LA FESTA NEL MONDO La festa di San Valentino, simbolo d’amore, il 14 febbraio, si è diffusa nei paesi di cultura anglosassone e poi in tutto il mondo.
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a forma di cuore che viene donato al proprio innamorato con una dichiarazione d’amore o una frase romantica. Ma vi sono anche altre usanze: in Olanda il dono tipico è il cuore di liquirizia; in Spagna, i fidanzati donano alla propria donna le rose rosse, in Danimarca un mazzo di fiori bianchi in Giappone, avviene il tradizionale scambio di cioccolatini, anche tra amici, mentre in Cina sono le donne a donare fiori o cioccolatini al proprio fidanzato. La storia di San Valentino è ancora avvolta nel mistero a metà tra realtà e miti, che però hanno un unico fattore comune, l’amore, che ogni anno celebriamo il 14 febbraio. Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com
La ricorrenza si festeggia in Inghilterra, come negli USA, con il tradizionale scambio di biglietti, il cui uso risale probabilmente al XIX secolo quando negli Stati Uniti cominciò ad essere prodotta e commercializzata questa tradizionale piccola missiva: il valentine. Un bigliettino solitamente
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L’ARTISTA DELLA FRUTTA E VERDURA di Patrizia Manente
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omina Di Giuseppe, nata a Teramo, fin da ragazza ha sempre avuto dimestichezza nel tagliare con divertimento la frutta e la verdura. Poi nel 2013 ha acquistato il suo primo coltellino e da dilettante ha iniziato con la sua creatività a intagliare la frutta e la verdura. Successivamente, ha voluto perfezionarsi in una tecnica particolare ed ha frequentato tre corsi da intaglio tenuti da l’esperto Andrea Lopopolo di Controguerra. I corsi sono sempre organizzati nei ristoranti, soprattutto dell’Ascolano.
Romina ha ottenuto tre validi attestati. Per chi volesse approfondire, basta cercare la pagina FB di Romina. Anche per ordinare cestini o altre decorazioni di frutta e verdura in occasione di compleanni e feste in genere. fb
Frutta che Passione
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GABRIELE d’ANNUNZIO
primo market- promoting del nostro paese di Elisabetta Mancinelli
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oeta, romanziere, giornalista, drammaturgo, aviatore, deputato sindacalista e infine anche francescano, insuperabile trasformista in margine alle sue fatiche letterarie, militari e politiche d’Annunzio fu anche il primo market-promoting d’Italia, un inimitabile creatore di etichette e marchi di fabbrica. Infatti tra un’ode, una favilla, un cartiglio, un romanzo il Vate contribuì alla fortuna di molte imprese commerciali e industriali, dando nome a prodotti e ideando slogan pubblicitari. Alcuni esempi: la penna Aurora che gli deve il suo nome, il motto del dentifricio Gengival: “A dir le mie virtù basta un sorriso”, anche il nome Rinascente dei grandi magazzini costruiti accanto al Duomo di Milano dopo un disastroso incendio, lo suggerì lui ai fratelli Bocconi. Nel 1900 Pietro Marchese apre a Genova una pasticceria dove produce dei dolci scoperti durante un suo viaggio in Inghilterra, i “sugar wafer”. La sua piccola azienda crebbe col tempo, arrivando ad essere una delle prime Industrie dolciarie italiane e nel 1920 viene registrata come “S.A.I.W.A.” (Società Accomandita Industria Wafer e Affini), il cui nome venne coniato da Gabriele d’Annunzio, che contribuì anche ad alcune campagne pubblicitarie. “Queste vostre novissime scatole di biscotti fini superano in finezza e in bontà le migliori di Inghilterra. Son troppo squisite per me. Vi ringrazio, Vi
lodo”. Vittoriale, 11 marzo 1929 – GdA – marinaio. Esiste anche un uso pubblicitario della letteratura, dove temi, figure e citazioni vengono ripresi con lo scopo di nobilitare la pubblicità e il prodotto. Nel primo dopoguerra, Gabriele d’Annunzio, fu un attivo testimonial pubblicitario e nello stesso tempo fu pubblicitario di sé stesso. A tempo perso, in margine alle sue fatiche letterarie, militari e politiche, Gabriele d’Annunzio fu anche il primo, pagatissimo market – promoting del nostro paese. Infatti fra un’ode e una lauda, una favilla e un cartiglio, il Vate contribuì alla fortuna di molte imprese industriali e commerciali, battezzando prodotti e ideando slogan. Il motto dannunziano “Fisso l’idea” è uno dei molti motti pensati e realizzati per la pubblicità: fu creato per gli inchiostri “SANRIVAL” nel 1921. Gabriele d’Annunzio in questo modo poté ringraziare la ditta per avergli riempito così generosamente il calamaio disseccato. Ebbe un estro particolarmente felice nel battezzare i liquori AURUM, PRUNELLA, CERASELLA, SAN SILVESTRO e nell’associare un prodotto a raffinatezze culturali solo per pochi: allorchè le distillerie Luxardo di Zara, gli chiesero di trovare un nome suggestivo per il loro cherry – brandy, si ricordo’ che la Dalmazia, cinque o sei secoli D.C era abitata dai Morlacchi. E sulle mensole dei bar fecero la loro apparizione le bottiglie, di un bel rosso rubino, di SANGUE MORLACCO. «Tutto cominciò nella Taverna dell’Ornitorinco di Fiume, durante l’occupazione della legione dannunziana. Una sera entrarono i giornalisti del quotidiano britannico che in uno dei propri editoriali inveiva contro l’impresa fiumana, additando il poeta come un tiranno barbaro che succhia il sangue dei poveri Morlacchi, un popolo che viveva nell’entroterra dalmata. Anziché adirarsi, Gabriele D’Annunzio, levando il calice colmo del brandy, rispose: “Ecco l’unico sangue che io bevo. Dei Morlacchi il sangue morlacco. D’ora in poi si chiamerà Sangue Morlacco“. Di qui, l’incarico a Pietro Luxardo di creare un’etichetta speciale per la vendemmia di marasche del 1919, con manoscritto “Il liquore cupo che alla Mensa di Fiume chiamavo Sangue Morlacco“». Così Pietro Luxardo, presidente della distilleria di famiglia rico-
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stituita sui Colli Euganei nel 1947 dallo zio Giorgio, nota altresì per il distillato Maraschino, racconta la genesi del marchio di liquore che vide protagonista il nonno Pietro, all’epoca giovane irredentista sostenitore della causa fiumana, poi trucidato dai partigiani di Tito. Al Vate, ha ricordato l’imprenditore «si attribuisce anche il nome dei cioccolatini Fiat prodotti dalla Majani, degli orologi Veglia della Borletti».
realtà l’attrice si chiama Francesca Romana Rivelli) indirettamente a d’Annunzio: sarebbe stato proprio il poeta abruzzese, infatti, a coniare questo nome di battesimo e a usarlo per la protagonista della tragedia “La figlia di Jorio” (1904). Tuttavia, secondo il Dizionario Storico dei Nomi italiani della Utet, all’anagrafe italiana risultava già nel 1900 una persona registrata con quel nome.
LA RINASCENTE: Nel 1865 i fratelli Luigi e Ferdinando Boc-
coni aprono, in via Santa Radegonda a Milano, il primo negozio in Italia dove si vendono abiti preconfezionati. Nel 1917 il
SCUDETTO: Il triangolino tricolore che, dal 1925, viene applicato sulle maglie della squadra che vince il Campionato italiano di calcio, fu “inventato” da Gabriele d’Annunzio. Il simbolo, infatti, si ispira allo “scudetto” che il Vate aveva voluto applicare alla divisa indossata dagli italiani in una partita di calcio organizzata durante l’occupazione di Fiume.
TRAMEZZINO: Nacque a Torino (per la precisione, presso il caffè Mulassano) nel 1925 ed era farcito con burro e acciughe.
VELIVOLO: “Che va e par volare con le vele”: questo è il si-
gnificato della parola velivolus (velivolo), il “vocabolo di aurea latinità” che secondo d’Annunzio (poeta diventato anche esperto aviatore) è perfetto per indicare il nuovo mezzo di trasporto. È il 1910 e durante una conferenza sul “Dominio dei cieli”, il Vate ne spiega dettagliatamente le ragioni: «La parola è leggera, fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti; di facile pronunzia, avendo una certa somiglianza fònica col comune veicolo, può essere adottata dai colti e dagli incolti».
AUTOMOBILE: (AL FEMMINILE) Quando fu inventata,
l’automobile era declinata quasi dappertutto al maschile. Accadde in Francia (dove si passò al femminile solo dopo l’intevento dei linguisti), in Spagna (dove ancora oggi ha mantenuto il genere originale) e, fino al 1926, anche in Italia. Quell’anno, infatti, D’Annunzio (che all’epoca era riconosciuto come
grande magazzino viene distrutto da un incendio e ricostruito: per l’occasione Gabriele d’Annunzio lo ribattezzò Rinascente.
VIGILI DEL FUOCO: Alla nascita, nel 1935, il Corpo Nazionale creato per svolgere servizio anticendio e di protezione civile, derivò il nome dall’analogo corpo francese: i pompieri. Tre anni più tardi - in piena autarchia culturale - il francesismo fu abbandonato e sostituito da “Vigile del Fuoco”: anche in questo caso l’idea fu di Gabriele d’Annunzio, che si ispirò ai “vigiles” dell’antica Roma. IL MARCHIO SAIWA: All’inizio era una piccola pasticceria
nata a Genova nel 1900. La sua specialità erano i sugar wafer, biscotti inglesi che il titolare aveva imparato a conoscere durante un viaggio in Gran Bretagna. Nell’arco di vent’anni la produzione aumenta, si amplia la distribuzione e... la “piccola pasticceria” diventa una delle prime produzioni industriali di prodotti da forno. Cambia sede e nome: nel 1922 diventa - su suggerimento di d’Annunzio che è un soddisfatto consumatore - la Società Accomandita Industria Wafer e Affini. Era nata (dall’acronimo) la SAIWA.
MILITE IGNOTO:
un’autorità in campo linguistico) dichiarò che «automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza». E automobile (femmina) fu.
ORNELLA: L’attrice Ornella Muti deve il suo nome d’arte (in
Alcuni attribuiscono a d’Annunzio anche la definizione di “milite ignoto” con cui, dal 1921, viene indicato il militare italiano non identificato, caduto nella Prima Guerra mondiale, sepolto presso l’Altare della Patria a Roma. Non esistono, tuttavia, documenti che provino che l’espressione sia stata effettivamente coniata dal poeta, mentre è accertato che proprio d’Annunzio abbia svolto un ruolo fondamentale nella scelta, tra le salme non identificabili recuperate nei campi di battaglia, di quella che sarebbe poi diventato il simbolo di tutti i caduti e i dispersi del primo conflitto mondiale.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com
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LA STORIA DEL PARROZZO di Elisabetta Mancinelli
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l Parrozzo nasce ed affonda le sue origini nella società agricola. Era un antico pane delle mense contadine che, i pastori abruzzesi ricavavano dalla meno pregiata farina di mais, veniva poi cotto nel forno a legna. Nacque come dolce natalizio negli anni Venti per iniziativa del pescarese Luigi D’Amico titolare di un caffè del centro che ebbe l’idea di renderlo dolce e di produrlo nel suo laboratorio, rielaborando la ricetta senza stravolgerne le caratteristiche originali, infatti s’ispirò all’antico pane delle
D’Amico, ispirato dalle forme e dai colori di questo pane e facendo rimanere la forma inalterata, aveva riprodotto il giallo del granturco con quello delle uova e aveva adoperato una copertura di finissimo cioccolato per imitare lo scuro delle bruciacchiature caratteristiche della cottura nel forno a legna. La prima persona alla quale Luigi D’Amico fece assaggiare il Parrozzo fu Gabriele d’Annunzio glielo inviò a Gardone, il 27 settembre unitamente ad una lettera: “Illustre Maestro questo Parrozzo il Pan rozzo d’Abruzzo vi viene da me offerto con un piccolo nome legato alla vostra e alla mia giovinezza”. Il dolce trovò ampio consenso da parte del poeta che, dopo averlo assaggiato, scrisse a D’Amico questo sonetto dialettale in sua lode. “È tante bbone stu parrozze nov e che pare na pazzie de San Ciattè, c’avesse messe a su gran forne tè la terre lavorata da lu bbove, la terre grasse e lustre che se coce e che dovente a poche a poche chiù doce de qualunque cosa doce . Benedette D’Amiche e San Ciattè …” Sulla scatola a ricordare le nobili origini del Parrozzo letterario, compaiono i versi scritti dal poeta pescarese: “Dice Dante che là da Tagliacozzo, ove senz’arme visse il vecchio Alardo, Curradino avrie vinto quel leccardo se abbuto avesse usbergo di Parrozzo”. Correva l’anno 1927.
La ricetta:
mense contadine utilizzando anche uno stampo a forma di cupola che ricordasse appunto le pagnotte contadine. Il Parrozzo fu ideato e preparato per la prima volta nel 1919 da Luigi D’Amico amico di D’Annunzio, il quale volle dare forma d’arte ad una trasposizione dolciaria di un’antica ricetta abruzzese fatta col latte delle greggi profumato di timo e di menta insieme alle mandorle della montagna: un pane rustico detto “Pan rozzo”: pagnotta semisferica che veniva preparata dai contadini con il granoturco e destinata ad essere conservata per molti giorni.
Tritare 200 grammi di mandorle, aggiungete 150 grammi di semolino e la buccia di un limone grattugiato. Mescolate il tutto. Montate i bianchi di sei uova a neve con una punta di sale e aggiungete i bianchi montati, assieme ai rossi delle uova e a duecento grammi di zucchero, alle mandorle ed al semolino. Rivestite di carta stagnola uno stampo a campana. Versate il composto mettete in forno per 3/4 d’ora a 180-200 gradi. Dopo la cottura ponete il parrozzo su un foglio di carta assorbente. Guarnite il Parrozzo quando sarà freddo con della cioccolata che avrete precedentemente sciolto e lasciate solidificare. Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com
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ANTONIO ALLEVA Poeta per vocazione di Cristina Scipioni
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ntonio Alleva è nato a Nocella di Campli. Poeta, vive da poeta ogni giorno. Le sue scelte sono sempre subordinate alla passione per la letteratura e la scrittura, intese come potenti vocazioni, come ineludibili richiami. Alleva ha incontrato nel suo destino la poesia e l’ha seguita come un corrimano verso l’atavico tentativo dell’individuo di dare un senso profondo all’esistenza, certo di avere con essa a disposizione uno strumento di conoscenza di sé e del mondo. L’autore camplese scrive dall’età di sedici anni, fino ai quaranta (quando pubblicò il suo primo libro, Le farfalle di Bartleby). Ha mantenuto anonima questa attività, che ritiene la sua principale attività. Difatti, essa ha sempre prevalso sul lavoro necessario per vivere e già dagli anni ‘70 (all’epoca impegnato politicamente nonché corrispondente provinciale de L’Unità) rinunciò a più rassicuranti carriere pur di preservare libertà mentale e tempo quotidiano da dedicare alla scrittura. Ha svolto vari
mestieri: venditore di libri, impiegato, funzionario della Cgil, correttore di bozze, pony express, portiere di notte. Dall’inizio degli anni ‘90 si occupa di pubblicità locale. Come quasi tutti gli artisti, Antonio ha scontato sul piano economico - sociale la sua vocazione in un ambito, quello poetico, ben poco gratificato dall’attenzione pubblica. Tappa fondamentale, sia per l’uomo che per il poeta, è stato il ritorno al villaggio, a Nocella di Campli, avvenuto alle soglie del Duemila, durato poi quindici anni (adesso Alleva vive a Giulianova). Quel villaggio che attraverso i suoi libri è diventato simbolo della sua poetica, ormai ben nota negli ambienti della poesia italiana. Con Ultime corrispondenze dal villaggio, la sua ultima raccolta pubblicata per i prestigiosi tipi di Il Ponte del Sale, Alleva si è congedato da Nocella. Un congedo maturo, frutto di quei quindici anni di intense riflessioni esistenziali e di scrittura protetta dal prezioso silenzio del suo paese natale. (L’ultimo libro di Antonio Alleva è disponibile presso le librerie di Teramo e Giulianova. Lo si può ricevere anche a casa senza spese inviando una mail a ilpontedelsale@libero.it).