MAGAZINE PAMA NATALIZIO TERAMO 2018

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Cervo femmina


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MAGAZINE 2018

Merry Christmas

SOMMARIO GLI ZAMPOGNARI E LA ZAMPOGNA “ZOPPA” TERAMANA

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IL MENÙ VEGETALE DELLE FESTE

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di Nicolino Farina di Roberta Guidi

MADONNE E SANTI DELLA SCUOLA 8 FIGULA DI NOCELLA di Nicolino Farina

LA BELLEZZA DELLA POSSIBILITÀ 10 OSSIA IL CINEMA di Erminia Gullo

A TEATRO CON “I SESTINI” 12

di Lucia Ognibene

MAGAZINE MERRY CHRISTMAS 2018

TERAMO: TRE SECOLI DI TEATRO 14

Supplemento a Teramo Nostra n. 2 Ottobre 2018 - Anno 12 Aut. Tribunale di Teramo - Registrazione n. 575 del 7 Agosto 2007 Direttore Responsabile: Cosima Assunta Pagano

di Elso Simone Serpentini

Progettazione Marketing & Comunicazione di Patrizia Manente Via Luigi Longo, 21 - Teramo Foto Massimo Di Dionisio, Ugo Di Giammarco, Patrizia Manente, Vincenzo Ranalli, Antonio Santangelo

GABRIELE RUGGIERI E I SUOI 18 RACCONTI IN VERNACOLO GUERINO TENTARELLI 21

Marketing e Pubblicità Paola Manente, Patrizia Manente

di Paola Manente

Coordinamento Patrizia Manente Graphic design Imago Comunicazione Stampa EditPress - Castellalto (TE) Copyright Marketing & Comunicazione di Patrizia Manente © Tutti i diritti riservati

Questo magazine è sfogliabile on-line all’indirizzo: http://www.lelcomunicazione.it/blog/ magazine-pama-natalizio-teramo-2018/

I AUGUR NATALE N O U B DI RI E AI LETTO CI MI AGLI A ISTI ION INSERZ

nte e n a M a l o Pa

CESIRA: ARTISTA DEL PANE 16 di Patrizia Manente

di Patrizia Manente

ALESSANDRA CAMPANARO 22 CAMPIONESSA DI KARATE NATALE A CASA DI ERMINIA 23 CHEF PER PASSIONE di Patrizia Manente

LA TORRE DEL CERRANO 24 di Elisabetta Mancinelli

LA CHIESA DI S.MARIA 26 DEL CARMINE A NOTARESCO di Adriano Cruciani

RISTORANTE PER CENTENARI 28 A COLLEPARCO di Marcello Martelli

LA FIBRILLAZIONE ATRIALE 30 di Paolo Serra


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GLI ZAMPOGNARI E LA ZAMPOGNA “ZOPPA” TERAMANA di Nicolino Farina

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na mattina di domenica mi sveglio al suono di una nenia che inconsciamente mi riporta a tempi remoti ma vissuti. La melodia celestiale si fa più vicina e le pive della zampogna, prima ancora che dalla mente, sono riconosciute dal cuore. D’un lampo mi ritrovo bambino festante correre per le strette vie, incontro due zampognari che, nel gelo intenso della mattina, annunciano l’imminenza del Natale a tutta la comunità del piccolo centro storico. I musicisti pastori, vestiti come quarant’anni prima, suscitano lo stesso “quadretto”: persiane che si aprono lasciando scoprire teste canute o ragazzi col naso spiaccicato sul vetro, porte e finestre che si socchiudono per lanciare qualche offerta. In modo inequivocabile gli zampognari per noi abruzzesi sono legati alla raffigurazione della Natività. Nel presepio della cultura contadina abruzzese, vicino alla Sacra Famiglia, sono sempre posizionati gli zampognari e il resto dei pastori con i loro armenti. Personaggi misteriosi, gli zampognari rimandano a tradizioni antiche, a modi arcaici pastorali tipici dell’Abruzzo, del Molise, della Ciociaria, ma anche del sud della Grecia, della Scozia, di alcune aree iberiche e francesi e di ogni altro luogo legato strettamente alla pastorizia. Figure quasi fuori dal tempo, questi musici transumanti, vestiti con cappello a

forma di “pan di Zucchero”, corpetto di montone, pesanti mantelli di lana e calzari (cioce) legati alla caviglia con lacci di cuoio, rimandano a tempi lontani, vissuti con dignità nella povertà e nell’essenzialità. L’evento della Natività fu annunciato per primo alle persone più umili, ai pastori; per questo la tradizione abruzzese e delle terre della transumanza nel presepe inserisce immancabilmente gli zampognari. Per molti studiosi la zampogna è uno strumento tipico del Molise e poi diffusosi sull’Appennino. Nella realtà l’origine della zampogna è molto vaga, perché poche sono le notizie e ancora meno gli strumenti antichi conservati, quali al S. Cecilia di Roma, a Monaco in Germania, a Pittsburgh negli Usa e in Belgio. La zampogna che è costituita dall’ancia, dal fusto e dalla campana che amplifica il suono, in genere si riconosce tipo logicamente proprio da quest’ultimo elemento. La zampogna ha tutte le canne o bordoni che guardano in basso. Le canne sono tre più una divenuta muta: due sono digitate, rispettivamente, con la mano sinistra e la mano destra, mentre la terza suona libera. Le cornamuse, usate anticamente anche in Abruzzo


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(costruite a Piva di Mareto di Avezzano), invece hanno una canna che guarda in basso, digitata con entrambe le mani, e tre canne che guardano in alto e suonano liberi. Le zampogne italiane, secondo gli studi più recenti, sono di tre tipologie: quelle dette “Campagnole” con la campana aperta; quella detta “Avezzanese” ma fabbricata a Casellafiume (AQ); quella teramana o cerquetana detta”Zoppa”. Quest’ultima è stata classificata grazie a quella antica trovata da don Nicola Iobbi presso uno zampognaro di Cerqueto, per il museo etnografico, e lo studio condotto, documenti alla mano, da Maurizio Anselmi. Tale zampogna è detta zoppa perché è priva della chiave (elemento metallico) utile a chiudere un foro così distante che con il mignolo non si potrebbe. La “Zoppa” ha un suono più arcaico sia per come è costruita, sia per la diversa estensione musicale. Essa si costruiva, almeno a Pretara, Villa Piano, Casale S. Nicola e Forca di Valle, paesi dove ancora esistono costruttori e figli di costruttori. Per alcuni studiosi e Vito Giovannelli in primis, la zampogna in Abruzzo nasce zoppa e ad Avezzano si evolve con la chiave. In origine, infatti, la zampogna è fatta con le sole canne con un’ancia semplice e priva di campana. Le zampo-

gne evolute invece hanno il bordone conico e l’ancia doppia. La zampogna zoppa cerquetana, unica in Europa ha: la campana aperta; il ceppo (dove si attaccano le canne) cilindrico e non a tronco di cono; le canne cilindriche a pezzo unico; le decorazioni non solo sulla campana ma anche sulle canne a profilo continuo. L’origine della zampogna cerquetana è sicuramente “lu frecavente” (il frega vento), simile al flauto di pan (a 4 o 5 canne) citato anche da d’Annunzio.


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IL MENÙ VEGETALE DELLE FESTE

BURGER DI LENTICCHIE ROSSE

di Roberta Guidi • Chef Naturopata

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i stanno avvicinando le feste ed anche i nostri palati sono pronti e vogliosi di assaporare tutto ciò che di godurioso porta il Natale: torroni, pandori, panettoni, dolci tipici, e tanto altro ancora. In questa gran platea di succulenze potremmo di sicuro optare, almeno in qualche occasione, per alcune ricette più leggere e salutari anche sotto le festività. Qualche pietanza sicuramente bella da vedere ma anche buona e sfiziosa, ricca di nutrienti e di sostanze che riescano a deliziare i sensi e renderci, in egual modo, felici e soddisfatti. In questo articolo vi parlerò di ricette invernali, naturali e di facile creazione. Un menù che potremmo utilizzare per riempire la nostra tavolata della Vigilia ad esempio. Inizieremo con il presentare un antipasto molto semplice come dei tortini di segale con una maionese di rapa rossa. Un primo sfizioso: gnocchi di grano saraceno e Saragolla con salsa di rape e Ferfellone; proseguendo con un secondo colorato di mini burger vegetali; concludendo, infine, con un tortino integrale di mela e cannella. Nel particolare vi offrirò queste due ricette:

Ingredienti: • 120 g di lenticchie rosse bio • Rosmarino • Olio EVO • 50 g di pane integrale di farro raffermo • Farina per polenta istantanea bio • 1 cipollotto rosso • Sale integrale q.b. • Pepe q.b. Procedimento: Lessare in poca acqua le lenticchie insieme al cipollotto. A fine cottura sciacquare le lenticchie dall’acqua di cottura e salare. Aggiungete il pane raffermo in pezzi mentre lasciate stiepidire qualche minuto. Successivamente amalgamare bene unendo olio e pepe. Amalgamare con vigore finché l’impasto risulterà pastoso ed omogeneo. Far raffreddare in frigorifero. Successivamente porre l’impasto su di una tavolozza, formare delle palline uguali e schiacciare con le mani o usare un coppa pasta per creare dei medaglioni che passeremo nella farina di mais. Rosolare in padella antiaderente leggermente unta con olio EVO e rosmarino tritato a fuoco medio. Girare più volte fino a raggiungere la doratura. Tagliare a metà un buon panino, magari fatto in casa come quello che vedete in foto, e bruschettare leggermente la parte tagliata. Disporre la metà inferiore del panino su un bel piatto da portata e mettere la foglia di lattuga, il burger, una fettina sottile di daikon ed una buona cipolla di tropea in agrodolce. Magari terminare con una maionese di broccoli fatta in casa et voilà. Buon appetito!

TORTINO INTEGRALE DI MELA E CANNELLA Ingredienti: • 180 g di farina di grano tipo 2 bio • 50 g fecola di patate bio • 200 g di mele bio grattugiate


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• 120 ml olio semi di girasole • 1 vasetto di yogurt di riso bio al naturale • 1 b di cremortartaro bio • 150 g zucchero integrale di canna bio • 80 g mandorle bio • 3 cucchiaini di scorza di limone non trattato o bio • Un pizzico di sale integrale • 1 cucchiaio di cannella bio Procedimento: in una ciotola mescolare lo yogurt con l’olio, il sale integrale, la cannella, lo zucchero integrale e la buccia di limone. In un’altra terrina unire la farina ed il lievito e mescolare bene. Mischiare i composti ed aggiungere la mela grattugiata e le mandorle precedentemente tritate. Foderare gli stampini per muffin alti con i pirottini e versare il composto a cucchiaiate riempiendoli a metà circa. Infornare in forno preriscaldato a 180 gradi per circa 30 minuti. Una volta freddi potreste tagliarli a metà e riempirli con una deliziosa marmellata di mele fatta in casa o con una crema pasticcera delicata. BIOGRAFIA IN BREVE: Roberta Guidi si forma come Naturopata all’Istituto di Medicina Naturale di Urbino presso la Scuola Italiana di Naturopatia. Diplomata con il massimo dei voti diventa referente abruzzese dell’IMN e, annualmente, organizza seminari e conferenze sulla medicina naturale, sulla salute e sul benessere della persona a 360 gradi. Le sue competenze nel settore spaziano dalla floriterapia alla fitoterapia, auricoloterapia, moxibustione, riflessologia, consulenza individuale, intolleranze alimentari. Ma sin dagli esordi, si proietta verso la cura della cucina dando quindi spiccata attenzione allo stile

di vita alimentare dell’individuo. Di conseguenza inizia un percorso personale di cambiamento che la porterà ad un’evoluzione psicofisica che ha voluto condividere creando, ormai da 5 anni, corsi ed incontri pratici e teorici sulla cucina naturale. Perfezionatasi presso l’Accademia Chefs di San Benedetto cerca di apportare nozioni utili e creatività in cucina, utilizzando prodotti salutari con maggiore consapevolezza e competenza. Con tanta passione e, come afferma spesso lei, “con Tanto Tanto Amore!”, vuole lanciare il messaggio dell’alimentazione come fonte primaria di prevenzione e benessere. Ecco perché, ormai da anni, si batte per informare e lavorare specialmente con i più piccini, organizzando seminari nelle scuole e corsi per bambini. Docente dal 2017 presso il Polo Formazione Olistica di Chieti e dal 2018 presso l’Accademia Chefs di San Benedetto.

Tel. 339 1542873 • naturoberta@gmail.com


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MADONNE E SANTI DELLA SCUOLA FIGULA DI NOCELLA di Nicolino Farina

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maggiori scultori abruzzesi della seconda metà del Quattrocento, come Silvestro dell’Aquila, Giovan Francesco Gagliardelli, Giovanni di Biasuccio, Giovannantonio da Lucoli, Paolo Aquilano e Saturnino Gatti, a passo con i tempi, non disdegnarono di plasmare la creta, portando le statue di terracotta a un livello di eccellenza, fino ai primi decenni del Cinquecento, appoggiandosi alle botteghe e ai forni degli artigiani figuli che con la loro esperienza garantivano la buona riuscita dell’opera. Nelle botteghe di Nocella, già alla fine del Quattrocento, dovettero operare alcuni grandi maestri dell’arte scultorea abruzzese. Gli artigiani figuli camplesi, infatti, utilizzavano dei grandi forni capaci di raggiungere temperature di al-

meno 1200 gradi centigradi (molto adatti a cuocere le statue costruite con un forte spessore di creta). Queste rare “fornaci” e l’esperienza degli artigiani nocellesi erano una garanzia. Silvesto dell’Aquila, autore a Campli della “Madonna dei Lumi”, statua lignea datata 1495, doveva conoscere le botteghe di Nocella, così come molti suoi allievi che operavano nel territorio limitrofo a Campli. Attraverso gli insegnamenti “carpiti” a questi valenti artisti, i maestri artigiani di Nocella cominciarono a produrre autonomamente le statue votive, pressati magari dalle committenze delle comunità parrocchiali dei piccoli borghi agricoli dei dintorni che non potevano permettersi l’onorario dell’artista di fama. Probabilmente, però, le maestranze nocellesi, non digiuni di modellatura plastica cominciarono a sperimentare i modelli statuari semplicemente per dimostrare la loro capacità professionale, magari per impreziosire di opere d’arte la loro rinomata abbazia benedettina. La versatilità e la duttilità della creta e l’uso della policromia permetteva di raggiungere una vivacità espressionistica e una varietà descrittiva accattivante per il popolo dei fedeli. La produzione nocellese, quindi, ha un indirizzo popolare che soddisfa la gente contadina e collima con le capacità artigianali dei “vasari” camplesi. Incentrati sui principi artistici, i caratteri formali e le tipologie codificati in ambiente aquilano, i figuli di Nocella costruivano le grandi statue votive perpetuando questi concetti artistici, praticamente senza nessun cambiamento o influsso di altro canone culturale, per circa 250 anni, vale a dire fino a quando cesserà la loro produzione statuaria. Per esempio non tennero conto della scuola scultorea napoletana che sviluppava il senso di patetismo, l’aspetto di gracilità delle figure accentuato dall’andamento fluente e lineare delle figure.


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I figuli di Nocella costruiranno le loro Madonne sempre secondo i canoni espressivi rinascimentali della scuola scultorea abruzzese: quasi sempre riusciranno a caratterizzare il complesso statuario con una situazione psicologica di differenza tra l’atteggiamento della Madre e del Figlio. La Madonna appare sempre poco appariscente, seduta su un “trono”, raramente di effetto scenografico, e immersa nel gesto sacrale dell’adorazione o della preghiera. Confinata nello spazio, definito dalla forma piramidale dato dalle vesti poggianti a terra e dal manto tenuto in testa, la Madonna appare ferma, distaccata, un’icona semplice e, nello stesso tempo, grandiosa. Il Bambino sulle sue ginocchia, seduto, sdraiato o in piedi, invece, è sempre raffigurato in un atteggiamento vivace, accattivante e umano. Con l’era dell’illuminismo e l’esaltazione del Barocco della prima metà del Settecento, le chiese si riempirono di stucchi, altorilievi e statue di gesso dalle movenze ardite e “spettacolari”. A Nocella, da questo momento, non si producono più grandi statue. Oggi a Campli si conservano ancora numerose statue in terracotta di Nocella. Madonne in trono con Bambino (spesso mancante) se ne trovano nelle chiese di. S.Maria in Platea (proveniente dal convento di S. Bernardino), S. Francesco (resti), S. Giovanni in Castelnuo-

vo, S. Antonio Abate a Piane di Nocella (resti), S. Pietro in Campovalano, S. Maria a Guazzano, S. Maria ad Venalis di Roiano, S. Antonio Abate di Garrufo, S. Gennaro di Collicelli, S. Michele Arcangelo di Pastinella, Madonna del Soccorso di Fichieri, S. Maria Assunta di Campiglio. Oltre le statue di santi nelle chiese di: S. Francesco (due), S. Maria della Misericordia, S. Antonio Abbate di Garrulo (due), S. Gennaro di Collicelli, S. Liberatore di Villa Camera. Senza contare le numerose statue presenti nelle chiese della provincia limitrofe al comune di Campli.


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Incontri al “Premio Di Venanzo”

LA BELLEZZA DELLA POSSIBILITÀ OSSIA IL CINEMA di Erminia Gullo

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ecentemente la città di Teramo mi ha ospitata e cullata per il Premio Gianni Di Venanzo, di cui conservo un ricordo bellissimo. Quando Patrizia Manente mi ha chiesto di scrivere un articolo per questa rivista, pensavamo di proporre qualcosa che riguardasse il cinema. Quel che mi viene però difficile, in effetti, nonostante me ne occupi giornalmente, è proprio scrivere di cinema; non voglio tediare voi lettori su una qualsiasi recensione o discorso su questa meravigliosa arte. Sarebbe come avere la pretesa, o forse anche presunzione, di parlare di qualcosa che è quasi impossibile da esprimere se non per immagini.

Jean Epstein, grandissimo regista, e teorico della settima arte, rende con le sue parole fotografia perfetta di quel che intendo dire e che riporto con piacere: “Le parole slittano come saponette bagnate intorno a quello che si vorrebbe dire. Una sera una amico volendomi spiegare tutto troppo esattamente, di colpo sollevo due volte le braccia in aria e non disse più niente. Gli ho creduto, come altri sulla parola, io, su quel mutismo stanco. Sulle linea dell’interlocuzione le interferenze dei sentimenti inattesi ci interrompono. Resta tutto da dire, e si rinuncia stremati. Allora lo schermo illumina il suo silenzioso cielo altoparlante. Sicurezza di questo linguaggio che un occhio quadrato scorre crepitando…”. Quel che mi interessa sottolineare di questo scritto è l’importanza che riveste la potenza dell’immagine. Non che l’immagine cinematografica non sia anch’essa un “linguaggio” e quindi - come ogni linguaggio - strutturata secondo regole e codici, ma questi codici in alcuni casi, possono essere sostanzialmente “infranti” e resi propri nella possibilità immaginifica o di estrema meraviglia che portano con sé. In molti casi, strutturare tali immagini in un pensiero univoco o preciso, rompe tutta la magia di quello che è il cinema. Di quello che per me è il cinema. E allora, soprattutto oggi, non importa che sia la sala cinematografica a far godere dell’immagine. Quel che importa, quello di cui non si può fare a meno, è continuare a sognare in qualcosa di possibile. Di possibilità del senso. Dei sensi. Proverò a farvi “vedere” quello che intendo facendo riferimento a una fotografia “viva”: l’ultima sequenza di un film straordinario di Luchino Visconti, Morte a Venezia (1971), tratto da un racconto di Thomas Mann. Non dirò certo il contenuto, perché mi auguro che chi non lo avesse ancora visto possa recuperarlo in queste feste natalizie. Lo splendore di questa sequenza sta anche nella posizione della cinepresa: la bellezza è immortalata dall’obbiettivo. Attra-


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verso la soggettività del proprio sguardo. Dove ogni dogma viene distrutto secondo quella che è la percezione del proprio io. La cinepresa si fa occhio nell’occhio: è guardata da chi sta guardando e da chi è guardato. Non vi è nessuna morale in questo sguardo, se non il tripudio della carnalità della bellezza. Il colore del trucco che vediamo scolare sul viso del protagonista (Aschenbach, interpretato da un immenso Dirk Bogarde), non ha come solo significato la decadenza del suo stato fisico e artistico, ma è anche la testimonianza che ogni organismo vivente, fin dalla sua origine, non ha fatto altro che produrre dell’artificiale (il cui significato etimologico è “fatto con arte”). L’artificiale non è che il segno, il risultato, la traccia dell’interazione fra ogni organismo vivente e il mondo fenomenico che lo circonda. Il tentativo di fermare il tempo di Aschenbanch, l’imbellettarsi, non ha nulla di non “naturale” per raggiungere la “bellezza naturale”; nulla di “naturale” contro “l’artificiale”, ma è semplicemente l’artificiale che nel volgere del tempo tende a ricadere nel “grado zero” della natura e ad essere quindi considerato come naturale. Ciò che percepiamo come “naturale”, appunto,

non è altro che il frutto di cambiamenti continui che secondo le epoche, le convenzioni imposte, l’essere sociale, muta - in parte o del tutto - il suo significato e significante. La perfezione a cui anelava Aschenbanch, quindi, è un costrutto, e l’arte non può prescindere dall’artifizio. Senza nessuna accezione negativa. Così il trucco che cola di fronte al tramonto è la nascita di una consapevolezza mai avuta, è la fine di ogni dogma imposto. È il risultato sofferto di una ricerca, di una scoperta che non ha nessuno scopo, nessun mezzo, se non la bellezza come fine. Ossia: l’arte e la sua visione immortalata anche in senso diegetico dalla macchina da presa. E se con questo elogio dell’immagine viscontiana ancora non vi avessi convinto a guardare o riguardare questo straordinario film, vi racconto un altro aneddoto al quale la vostra curiosità non può avere scampo. La grande Silvana Mangano metteva una clausola ad ogni suo contratto cinematografico come attrice. “Se è Luchino Visconti a chiamarmi perché ha bisogno di me per un suo film, io lascio tutto e corro da lui”. Questo breve assaggio di arte Viscontiana ci fa toccare con mano quella che è la possibilità dell’immagine. Il potere che ogni spettatore può avere nell’approcciarsi al testo filmico senza nessuna forma di pregiudizio e godere, appunto, dell’arte che non è altro che smembramento di sensi, tuffo nel possibile. Buona visione.


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Associazione alla memoria di Antonella Sesti

A TEATRO CON “I SESTINI” di Lucia Ognibene

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a compagnia teatrale “I Sestini” nasce nel giugno 2017 all’interno dell’Associazione ‘’Cultura e Vangelo’’ di Villa Mosca, costituitasi nell’anno 2007. Il teatro dialettale rappresenta la principale attività e prende il nome in ricordo di Antonella Sesti, prematuramente scomparsa nell’agosto del 2003 dopo una grave malattia. Fondatori della compagnia sono Angelo Del Sordo e Lucia Ognibene, della quale sono presidente e consigliera, orientando l’attività teatrale verso il genere comico-diaAngelo Del Sordo lettale. La compagnia è composta da persone che otre alla passione per il teatro, condividono valori di amicizia, cordialità e generosità, innescando una vera e propria complicità al fine di donare un momento di serenità al proprio pubblico. Cavallo di battaglia della compagnia è la commedia comico brillante “N’upirazione a la banche e une a l’uspidale“di

Antonio Capuani, revisionata e traslata in vernacolo teramano da Angelo Del Sordo, che ne cura la regia. Il cast è composto da attori amatoriali (alcuni già affermati nel settore e altri alla prima esperienza, dando vita ad un mix di simpatia ed allegria). Con Elisa Ciapanna (anche nel ruolo di vice presidente dell’associazione), Lucia Ognibene, Angela Serafini, Massimo Lupino, la giovanissima Agnese Del Sordo, figlia della scomparsa Antonella, da cui prende il nome la compagnia. Nel gruppo anche Francesco Pascucci, i musicisti e compositori di musica popolare folk di fisarmonica diatonica (dubotte) Franco Flamminj e Mauro Del Sordo, Maurizio D’Ignazio (in arte meglio conosciuto come il Mago Popetti), volontario di clown terapia presso il reparto di pediatria dell’ospedale Mazzini di Teramo. L’intero cast ha esordito per la prima volta nel mese di maggio ultimo scorso, al teatro Marrucino di Chieti partecipando all’omonima rassegna di teatro dialettale, in occasione dei festeggiamenti del Bicentenario dalla fondazione del prestigioso teatro storico d’Abruzzo, ricevendo consensi e apprezzamenti da parte del numeroso pubblico in sala. Dal fortunato debutto, la compagnia è stata invitata a partecipare a numerose rassegne in altrettante strutture teatrali d’Abruzzo per

il 2019, e replicherà il 27 gennaio alla rassegna dialettale 2° trofeo FITA di Pescara, il 17 febbraio a Giulianova in favore dell’ANPS sezione di Teramo (Associazione Nazionale Polizia di Stato), il 3 marzo al teatro Di Iorio di Atessa in occasione della stagione di teatro dialettale, e per la prima volta I SESTINI debutteranno davanti al pubblico amico il 24 marzo presso il teatro comunale di Teramo in chiusura della rassegna di teatro dialettale 1° trofeo FITA Teramo.


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TERAMO TRE SECOLI DI TEATRO di Elso Simone Serpentini

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l Teatro Comunale di Teramo, costruito su progetto dell’architetto teramano Nicola Mezucelli e inaugurato nell’aprile del 1868 con Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, aveva conosciuto splendide stagioni liriche e di prosa, di operette e di varietà, con la partecipazione dei più grandi interpreti e artisti, ma anche periodi assai meno felici, nei quali era rimasto chiuso a lungo, fino a quando non era stato adibito in prevalenza a cinematografo. La manutenzione era diminuita sempre di più e la struttura ne aveva fortemente risentito, deperendo quotidianamente a vista d’occhio. Portava assai male la sua età e non si presentava certamente negli anni ‘50 in ottime condizioni. La struttura era visibilmente sofferente nei pavimenti, nei corridoi, nei palchi, nei tendaggi, nelle poltrone e in altri arredi. La scarsa manutenzione e la frequentazione di spettatori piuttosto irriverenti delle serali proiezioni cinematografiche avevano prodotto guasti rilevanti, ai quali si prometteva sempre di riparare, senza però farlo mai. Affidato in gestione a privati, il Comune se ne disinteressava da tempo. Anche l’opinione pubblica era indifferente alla sua sorte e al suo crescente degrado. Non ci fu perciò quasi nessuna reazione alla proposta, prima timida e poi sempre più caldeggiata, di un totale abbattimento, per far posto ad un nuovo moderno cinema-teatro, ma soprattutto, al piano terreno del nuovo edificio, ai grandi magazzini a prezzo fisso. Teramo voleva dimostrare a tutti i costi di non essere una “città morta” ed era presa da una crescente “ansia del nuovo”, da un desiderio di modernità di cui l’avvento della Standa, in nome del quale il vecchio Teatro dell’Ottocento venne sacrificato, fu per tutti il simbolo più evidente. Una “sapiente” campagna di stampa, una pervicace ostinazione degli amministratori, una totale disattenzione ai valori storici e culturali della vecchia struttura da parte dei cittadini, dei politici e degli intellettuali del tempo, portarono alla decisione di un abbattimento sul quale oggi ci si interroga e ci si rammarica. Martedì 1° dicembre 1959 Il Messaggero dava la notizia che il sindaco Carino Gambacorta, con accanto il ministro Giuseppe Spataro, aveva dato il primo colpo

di piccone per la demolizione del Teatro. Si verificava quindi quanto lo stesso giornale aveva scritto il 16 dicembre 1958: “solo il piccone” poteva risolvere il problema del Teatro Comunale, un locale che, per le sue sedie sgangherate e i suoi pavimenti sconnessi, era antigienico ed inadatto a poter ospitare il pubblico di una città e andava senz’altro chiuso. Il Cinematografo arrivò a Teramo la sera di sabato 1° maggio 1897. A portarcelo fu il sig. Meoli, che lo presentò nel Teatro Comunale come “Cinematografo Edison”. Furono proiettati, come riportava il Corriere Abruzzese mercoledì 5 maggio, il Treno che arriva in stazione, Una madamigella al bagno e L’Arrivo dello Zar a Parigi. La Provincia di Teramo di domenica 2 maggio 1897 scrisse che per diverse sere era accorsa una gran folla per assistere ad uno spettacolo nuovo che incuriosiva, ma che non era mancata la delusione, nonostante che, chi avesse assistito alle proiezioni in altre città, ne dicesse “mirabilia”. Sia che la macchina non fosse buona, sia che lo schermo fosse troppo piccolo, o la luce insufficiente, il pubblico era rimasto insoddisfatto e aveva accolto lo spettacolo con urli e fischi clamorosi. Il Corriere Abruzzese di mercoledì 12 maggio scrisse invece di “esperimenti riuscitissimi”, nonostante un certo tremolio, che però non era stato maggiore che altrove. Alle proiezioni aveva assistito anche una numerosa schiera di studenti liceali, accompagnati dal loro docente di fisica, prof. Francescantonio Pieriboni, il quale aveva loro spiegato i principi fisici della cinematografia. In questo libro vengono ricostruite con dovizia di particolari e con estrema cura dei dettagli le successive fasi della crescente affermazione a Teramo dello spettacolo cinematografico, scandite dalle prime proiezioni al Teatro Comunale della Compagnia Italiana di Specialità ed Elettricità Illusioni Ondiali del prof. Vittorio Merci-Pinetti, a quelle del Grande Cinematografo Europeo di Giuseppe Dacomo, che piazzava il suo cinema ambulante in piazza della Cittadella, a quelle di un altro cinema ambulante, del sig. Muratori, che allestiva il suo tendone nella stessa piazza, e poi, finalmente, dalla inaugurazione di due locali stabili. Il Cinematografo Eden fu inaugurato da Giustino Bonolis e “Cucuccio” Rolli nell’ottobre 1909. Il Cinema Teatro Apollo fu inaugurato da Domenico Vanarelli e Paolo Cugnini la sera di sabato 14 dicembre 1912. La concorrenza fra i due locali portò ad un continuo


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miglioramento dell’offerta cinematografica, che si arricchì del frequente arrivo di primarie compagnie di rivista, dei fasti dell’avanspettacolo e dell’avvento del cinema sonoro, che arrivò a Teramo la sera di giovedì 11 dicembre 1930. Anche durante gli anni delle due guerre mondiali e delle ricostruzioni post belliche i teramani non tradirono mai il loro grande amore per il cinema. Dorotea Monti, bolognese, celebre e affascinante, fu la prima donna di teatro per la quale impazzirono i teramani. Essi la videro per la prima volta e se ne innamorarono tutti nel Carnevale del 1792, quando fu solennemente inaugurato il Teatro Corradi. A lei furono dedicati inni e versi, sciolti e in rima baciata. Sotto le sue finestre si alternavano legioni di corteggiatori, le si inviavano fiori e messaggi. Da quella lontana stagione di fine Settecento, si alternarono sul palcoscenico del Corradi grandi rappresentazioni di opere liriche e notissimi interpreti, fino a quando, deperita nel tempo la struttura di un teatro privato che i proprietari non erano più in grado di rinnovare, Teramo riuscì ad avere, dopo vari tentativi andati a vuoto e grandi sacrifici, un teatro pubblico, il Comunale, inaugurato in pompa magna la sera di sabato 20 aprile 1868 con Un ballo in maschera di Donizetti e Maria di Rohan di Donizetti oltre a due Balli fantastici di Ettore Barracani. In questo libro Serpentini, dopo aver dedicato un primo volume alla storia delle proiezioni cinematografiche a Teramo, racconta quelle delle rappresentazioni di opere liriche, verso i quali i teramani hanno mostrato sempre grande interesse e sicura passione. Si susseguono anni grandiosi e stagioni più magre, con ricorrenti difficoltà economiche e organizzative, grandi allestimenti con i più celebrati artisti del canto lirico del proprio tempo, e spettacoli più modesti con ampie parentesi grigie in cui il Comunale rimaneva chiuso, e il “bel canto” sembrava irrimediabilmente scomparso. Con puntualità certosina, il volume ricostruisce anno per anno e mese per mese i vari allestimenti, con un ricco corredo di note che illustrano l’importanza e i dettagli della carriera artistica dei tanti interpreti che hanno calcato i palcoscenici teramani: quello del settecentesco Teatro Corradi, quello dell’ottocentesco Teatro Comunale (fino al suo abbattimento, avvenuto nel 1969) e del nuovo Cine Teatro Comunale che prese il suo posto, quello del Cinema Teatro Apollo. Il volume si spinge nella sua ricostruzione storica fino

al primo decennio del Duemila, quando il teatro lirico a Teramo è caratterizzato da esigenze e da caratteristiche del tutto nuove e diverse in una realtà sociale, economica e culturale completamente differente. La prima rappresentazione in prosa di cui si ha notizia come certamente avvenuta in un teatro teramano, che però non si sa bene quale fosse né dove fosse collocato, risale alla sera di domenica 12 giugno 1768. Andò in scena la festosa commedia intitolata l’Amar da cavaliere ossia la Doralice, di Francesco Cerlone, per la decorazione della scena e “per l’illuminazione a spese del Preside, riuscita assai dilettevole”. Da quella sera si ebbero a Teramo magnifici allestimenti e altri meno attraenti, che si alternarono agli spettacoli lirici e a quelli di varietà, prima nel Teatro Corradi, sorto nel 1792, e poi nel Teatro Comunale, inaugurato la sera di sabato 20 aprile 1868. Successivamente, si ebbero ottimi spettacoli di prosa prima all’Arena Carboni, aperta nel maggio 1880, poi al Cinema Eden, quando, a partire dall’aprile 1910, non si limitò più a proporre proiezioni cinematografiche e diventò anche teatro, e infine al Cinema Teatro Apollo. Hanno calcato i palcoscenici dei teatri teramani quasi tutti i più grandi artisti del teatro di prosa (meno la celebre Adelaide Ristori, ma non escluse le sue più grandi rivali), i più noti interpreti e le primarie compagnie, oltre ad un esercito di filodrammatici locali, posto che l’amore per il teatro, sia pure con grandi fiammate che a volte si spegnevano rapidamente per altrettanto rapidamente riaccendersi, è stato nel corso dei decenni sempre grande. L’interesse del pubblico, e perciò anche l’affluenza in teatro, hanno risentito a volte di periodi di “magra”, a volte coincidenti con momentanee difficoltà organizzative e scarse disponibilità economico-finanziarie degli impresari, locali e forestieri. Ma in genere si può dire che la quantità e la qualità degli spettacoli sono state sempre di grande livello. Sono state rappresentate le più note opere del repertorio nazionale e internazionale, sono stati acclamati i più grandi artisti., In questo volume, che segue ai suoi precedenti lavori sull’abbattimento del Teatro Comunale (Solo il piccone), sul cinematografo e sul varietà (Teramo e il cinematografo) e sul teatro lirico e di operette (Teramo e il teatro lirico), Serpentini ci propone un’avvincente cavalcata che, partendo dal ‘700 e arrivando fino ai giorni nostri, costituisce una particolareggiata e dettagliata ricostruzione di quasi tre secoli di teatro di prosa a Teramo.


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CESIRA ARTISTA DEL PANE di Patrizia Manente

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esira Pinciotti, ovvero la “reginetta del pane e dei dolci naturali”. Teramana-doc con genitori montoriesi, fin da piccola ha sempre avuto una grande passione per la musica e il canto, tramandata dal padre, suo compagno nei duetti in famiglia. A sette anni già cantava come solista nel coro della parrocchia e fra le voci bianche del paese. Quindicenne appena, entra come mezzo soprano nella storica Corale Beretra diretta dal maestro Manlio Patriarca. A diciassette anni supera l’esame di ammissione presso il conservatorio Casella dell’Aquila ed inizia i suoi studi di canto lirico, ma poi prosegue gli studi con insegnanti privati. Per molti anni

appassionarsi alla panificazione naturale. Una passione che la prende totalmente, tant’è che inizia uno studio per affinare quella tecnica, frequentando corsi con grandi maestri nazionali ed internazionali. Passano gli anni e l’amore per l’arte del pane cresce sempre di più, fino a decidere di aprire il blog “Cucinar cantando con Cesira”.

Dove raccoglie le sue ricette, condivide le conoscenze e insegna ciò che sa, riscuotendo un notevole successo. In tanti scoprono il suo talento e, contattata da diverse scuole di cucina, dove tiene corsi di panificazione, pizza e dolci della tradizione. E basta citarne uno per tutti: i famosissimi “Bocconotti montoriesi”.

continua lo studio del canto con esibizioni in diversi posti in Abruzzo e fuori. Poi, viene improvvisamente presa da un’altra grande passione: la cucina. Sua madre, grande donna e cuoca eccellente, non le lascia spazio, ma Cesira, per apprendere, scruta di nascosto tutti i suoi segreti di cuoca provetta. All’età di ventotto anni, Cesira si sposa dopo un lungo fidanzamento e finalmente conquista una cucina tutta per sè. Dove mette in pratica quanto ha appreso da sua madre. Tra una ricetta e l’altra inizia ad


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GABRIELE RUGGIERI E I SUOI RACCONTI IN VERNACOLO

renderebbe pesante il testo, pertanto si lascia al lettore il compito di prendere dimestichezza e dare alla parola il suono a lui più familiare. Dopo poco tempo si acquisisce una padronanza della lettura del vernacolo e in automatico si abbina alla parola la pronuncia dovuta. Un sistema valido è quello di rileggere più volte dove necessario, per dare la giusta interpretazione ai dialoghi e comprendere il significato delle parole e quindi pronunciare con la propria inflessione dialettale. Esercitazione utile anche come ricerca, per valutare il sistema di scrittura, dare suggerimenti ed esprimere un giudizio.

Lu Meràcule de lu ponde

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abriele Ruggieri, nato a Teramo, il 26 febbraio 1958, risiede a Villa Vomano. Ha conseguito la maturità Tecnico Industriale nel 1976, indirizzo che gli ha permesso di avere un’attività nel settore Termotecnico da quasi quarant’anni. Per lavoro ha girato gran parte del territorio della provincia di Teramo, entrando in molte case e a contatto con diverse realtà, anche artigiane e artistiche locali. Attraverso i racconti degli anziani, la memoria storica dell’Abruzzo, ha conosciuto usanze e tradizioni dei nostri paesi, ha ascoltato tanti dialetti e ha sviluppato la passione che si porta dentro. L’interesse per il dialetto nasce con il desiderio di raccontare il passato, attraverso le storie e i suoni del suo tempo. La passione per le tradizioni, il fascino dell’antico non sono sentimenti nuovi per Gabriele, ma già presenti dentro di lui da diversi anni ed in parte espressi in altri ambiti. La scelta di raccontare attraverso il dialetto le nostre storie, le nostre tradizioni è motivata da un presupposto di sua convinzione, ossia quello di accorciare le distanze e i tempi emotivi, mettendo il lettore al centro del racconto, consentendogli di entrare in intimità con la storia che sta leggendo, ritrovando un linguaggio familiare, fatto di suoni che inducono ricordi, suscitando emozioni immediate. La stesura dei racconti sperimenta la scrittura della lingua abruzzese, avvalendosi della lettura di autori in vernacolo, seguendo le indicazioni del padre della scrittura del dialetto teramano, lo studioso e linguista Giuseppe Savini, e del suo saggio di grammatica. Ha constatato che se non si ha dimestichezza con le letture dialettali, il primo approccio non dà un risultato soddisfacente, perché si tende a pronunciare le parole come nella lingua italiana e questo genera la sensazione che il testo sia incomprensibile o che sia stato scritto male. In realtà il nostro dialetto ha suoni diversi dalla lingua Italiana, le vocali possono essere aperte, chiuse, tendenti verso il suono di un’altra vocale, indistinte ecc. Riprodurre graficamente ogni singolo fonema

Com’arcundàve màmme, hàsse ere ‘na giuvenettâlle, tenave ‘na quindicina d’anne, abbetave de llà da lu ponde “Val Vomano”, lo a la massarìje de lu prèdde, vicine a lu muline. Ere ‘nu sàbbete a matine e accumbagnave Renata la cugnata so’ che tenave d’arpartì pe’ Rome. La fermate de lu puštale štave anninze a la candine de Medee, vicine a lu ponde. Ere appâne arrevite lò a la fermate, avave appujte la rrobbe che purtave, quande passò n’òmmene a cavalle; a lu trotte, nen currave assì. A ‘lli jurne pe’ ‘lla štrade passave ‘na machene ogne tande, ‘nu cavalle ogne tande e ce se faciave case quande vedìje cacchedùne. A metà ponde lu cavalle argerò, arvenne arrete e poche dope arpassò n’andra vodde, lu deštine vulave alluscì. Da la parte oppošte venave ‘nu puštale piane de ggende, a mmezze ponde lu cavalle se ‘mbezzarrò, sbattò condre lu puštale e vulò sotte a lu fiume ‘nghe l’òmmene su sopre. Lu pustale sfunnò lu parapette e armanò ‘mbìliche ‘ncime a lu ponde, mezze dandre e mezze fore. Lu cavalle che cascò de sotte murò subbete, l’òmmene ere vive, fu purtate a lu spedale, ma dope mbu’ de mise de sufferenze, murò pure hàsse; s’ere rotte la šchjne. Li passeggire ere de Chijte e jave ‘mpellegrinagge a San Gabbrijele, ‘llu mumende de l’imbàtte tutte quinde

‘nvucò lu sande, tutte quinde prehò San Gabbrijele che ie facesse la grazzie che nni facesse cascà ju sotte a lu fiume. Lu Puštale se fermò jušte ‘ntembe, come se ‘na mane avesse frenate la corse, ci fu ‘nu pàneche ggenerale, pe’ calà ruppò pure li vìtreje, la paure ere tande, lu ponde se ‘mbijò de gende che se desperave, ere tutte vive, sole mbu’ de ferite e tanda paure; quande li


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passeggire s’arpijo da lu štupore, se rendò conde tutte quinde che San Gabbrijele j’avave fatte la grazzie. Ere lu diciotte Settembre de lu 1937, l’autiste ere Vittorio Orsini, ‘nu ggiovene de vendesett’anne, venave da Chieti, da lu quartire Sand’Anne, ‘nghe lu puštale piâne de ggende derette a lu Sanduarije, avave appane ‘mbuccate lu ponde de Sora Pasqua quande succedò l’incidende, l’imbatte ‘nghe lu cavalle je fece perde lu cuntrolle de lu mezze. San Gabbrijele l’aiutò. Da ‘lla vodde tutte l’hìnne, prime ‘lla cumetive e mò li generazione successive li fije o li nepute, lu diciotte Settembre, ‘nghe lu puštale va ‘mpellegrinagge a lu Sanduarie de San Gabbrijele, repercurrenne la štessa štrade che fice lu jurne de lu meràcule. A lu 1966, ‘nghe l’inderessamende de Don Arduino Pompei parroco di Villa Vomano, a l’inizie de lu ponde fu innalzate ‘na štàtue de San Gabbrijele de l’Addullurate a ‘memorie de lu Meràcule. L’Autište Vittorio Orsini, fine a l’anne prime che muresse, ossie fine a lu 1999 e lu nepote dope, ha cundenuite ‘lla tradizione. A lu repasse da lu Sanduarije, se farme tutte la cumetive a Villa Vomano sotte a la štatue de San Gabbrijele, a l’imbocche de lu ponde pe’ unurarle ‘nghe ‘na prehìre e depone ‘nu mazze de fiure.

Li jurne de la merle ‘Na vodde, tande tembe fa, jennare ere lu mâse cchjù furte dell’anne, ere ‘llu cchjù vìcchie, tenave la bbarva longhe e li capille tutte bijnghe; cummannave simbre hàsse e tutte quinde lu chiamave “lu generale”, ere tande putende e permalose che se ‘ngazzave pe’ lu sci e pe’ lu no. Ogne vodde che cacche cose je jave šturte, se l’appejave ‘nghe lu monne ‘ndire, jacciave li laghe, gelave li fusse, ‘ccedave li lemane, frâdde, nâve; li maletìmbe te li faciave capà. Ma lu tembe passave pure pe’ hàsse e cumenciave a perde li forze, li luddeme hìnne s’ere abbijte a calmà; lu frâdde ere suppurtabbele, tand’è che li cìlle fredduse, che durande l’immerne jave jù a li pahìse cchjù chille, cumengiò abbetuarse e ‘nze ne jave cchjù. La merle ere nu cèlle bianghe ‘nghe lu bbecche gialle, ere abbetuate a li mattetà de jennare, ma lu tema-

ve, peccà patave lu frâdde, tenave ddo hammâtte sìcche-sìcche e quande faciave lu frâdde assì, je se jacciave li pite. Ogne vodde che fenave lu mase de jennare, la merle mettave a fešte, svulazzenne e ciuffulenne pe’ li fratte e li cambagne. Ultemamende s’ere accorte ca jennare perdave li forze e abbìjo a ‘ndicipà li festeggiaminde, quasce a sbeffeggiarle. A jennare ‘ngne tande calave che la merle facesse la svâlde, ere simbre hàsse lu “generale de l’inverne”, ‘llu cchjù furte; pretendave rispette e je tenava da’ ‘na lezione pe’ armattela ‘n righe, ma ormaje li jurne je štave a finì … a ‘lli timbe, jennare tenave vendotte jurne. Prime che je scadesse lu tembe, jo da febbraje che ere lu cumbare a su’ e se scagnave li piacire, je disse: «Combà,

me serve ddo-tre jurne, ‘ca tinghe da fa’ ‘nu despette a ‘nu cèlle». Combà! jaspunnò febbraje , pìjete chille che te serve, tra de noi vi vedenne! E se pijò tre jurne. ‘Nghe ‘lli tre jurne jennare, pe’ da’ ‘na lezione a la merle, fece tre jurne de maletembe; frâdde, ggele, nâve, fu’ li jurne cchjù brutte de tutte l’anne, ma la merle furbe, pe’ sfuggi a la morta certe, se ‘mbiccò dandre a lu cumìgnule de ‘nu cammine e lasciò sole lu bbecche da fore, jušte p’arfiatà… lu fume je rennave calle. Passate li tre jurne e finite lu mâse de jennare, la merle arsciò fore, ere vive, ma care j’ere cuštìte, ere devendate nire de fuliggine, sole lu becche s’ere salvate, pruvò a ‘rlavarse, ma lu nire ‘nze ne jo’. Da ‘lla vodde, lu mâse de jennare devendò de trenduna jurne e febbraje armanò ‘nghe vendotte; la merle che prime ere bianghe devendò nire e li luddeme tre jurne de jennare è simbre li jurne cchjù frìdde dell’anne. Écche peccà si chiame “li jurne de la merle”.


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Strada dei Parchi - A24 - L’Aquila/Roma


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GUERINO TENTARELLI Il pittore “metafisico” di Patrizia Manente

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uerino Tentarelli, pittore per vocazione. Fin da ragazzo a Roseto, dove è nato, ha coltivato la passione per l’arte e il disegno tecnico, iniziando dai murales. Trasferitosi a Roma per lavoro, ha potu-

to ammirare le opere dei grandi maestri del passato. Caravaggio uno dei suoi preferiti e fra i pittori moderni Salvator Dalì. Tornato in Abruzzo, ha ripreso a dipingere utilizzando la tecnica ad olio. Dopo vari incitamenti e critiche positive, ha deciso di continuare, cercando un proprio stile e percorso creativo. Convinto che prima di iniziare bisognava apprendere almeno le basi del disegno e le tecniche pittoriche classiche, ha studiato e preso lezioni da artisti già quotati, uno fra tanti il prof. Massacesi. Provando e riprovando nel disegnare e dipingere figure e ritratti, attratto dal surreale e dal metafisico,

raccontando storie attraverso la pittura con personaggi senza tempo, liberi di muoversi nello spazio, senza vincoli e senza regole. Per non dimenticare i concetti della pittura classica, a volte dipinge anche nature morte o quadri su commissione, copertine di libri comprese. Nel frattempo ha esposto diverse volte in ambito locale e regionale.


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ALESSANDRA CAMPANARO CAMPIONESSA DI KARATE di Paola Manente

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lessandra Campanaro, nata a Giulianova 17 anni fa, ha iniziato con il karate all’età di 10 anni dopo aver praticato pallavolo ed atletica. Ricorda perfettamente il giorno in cui ha fatto la prima lezione, provata per caso, ed è scattata immediatamente la scintilla che le ha fatto amare questo sport. Fin da subito si è iscritta alla Scuola Karate Italia di Mosciano Sant’Angelo, che ha diverse sedi anche a Giulianova, Alba Adriatica, Teramo e Notaresco. Ha frequentato i primi anni a Giulianova e poi ha continuato a perfezionarsi nella sede principale di Mosciano. La Scuola Karate Italia è diretta dal maestro Gianni Visciano e dai suoi collaboratori Stefania e Pierpaolo Visciano, Francesco Andrenacci ed è associata alla FIK (Federazione Italiana Karate) e vanta tra i suoi allievi diversi campioni italiani, europei e mondiali. Il karate è uno sport che le ha permesso di crescere e superare molte delle sue paure, dandole più sicurezza. Gli allenamenti sono molto impegnativi, più volte la settimana, da combinare anche con gli impegni scolastici. Ma quando indossa il suo karategi tutta la stanchezza e lo stress quotidiano scompaiono, trovando una carica incredibile. Il 2018 per Alessandra è stato un anno molto importante a livello agonistico e, dopo diverse gare in tutta Italia, ha conquistato il titolo di campionessa italiana nella categoria Cadetti B femminile (16-17 anni) a Montecatini Terme. Ciò che le ha dato la possibilità di essere convocata nella Nazionale Italiana di Karate FIK per andare a disputare i Campionati Europei organizzati dalla IKU (International Karate Union) in Russia nella cit-

tà di Oryol dal 17 al 21 ottobre scorso. Oltre al titolo italiano, ha vinto anche il titolo di campionessa italiana nella specialità kata a squadre femminile Cadetti, con le sue compagne Michela Baldini e Chiara Di Nicola, perciò convocata in nazionale. L’esperienza agli europei è stata indimenticabile. Vedere migliaia di atleti delle varie nazioni europee all’inizio l’ha spaventata un po’ ma poi ritrovata la giusta concentrazione e determinazione è riuscita nella doppia impresa di vincere anche l’oro nella specialità kata singolo femminile Cadetti B. che nella specialità kata a squadre femminile Cadetti insieme a Michela Baldini e Chiara Di Nicola. Una grande soddisfazione che ha condiviso insieme alla sua squadra, ad altri ragazzi della Scuola Karate Italia e della nazionale italiana che è la nazione che ha vinto più medaglie. Hanno vinto anche il titolo europeo i suoi compagni della Scuola Karate Italia Paola Campeti nella categoria Seniores femminile, Noemi Fiorà nella categoria Cadetti A femminile, Manuel Di Pancrazio nella categoria Esordienti maschile e vice-campione europeo Alessandro Danesi nella categoria Cadetti B maschile. Dopo la trasferta in Russia ha ripreso quasi subito gli allenamenti perché riiniziano le gare per il Campionato Italiano e per la eventuale convocazione in Nazionale per il Campionato mondiale di karate IKU che il prossimo anno si terrà in Brasile ad ottobre.


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NATALE A CASA DI ERMINIA CHEF PER PASSIONE di Patrizia Manente

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e si vuole bene a qualcuno, preparare un bel pranzo, una buona cena è un modo splendido per dirglielo. Come ogni volta fa Erminia Iannetti, che ha gusti semplicissimi e prepara pietanze con una cura tutta particolare. A cominciare dall’estetica del piatto; poi, la location, la scelta della forchetta e della pietanza. Senza trascurare il colore dei cibi, del piatto e del bicchiere, come la qualità del vino. Quando ha ospiti in casa, l’obiettivo è solo uno: sorprendere e stupire. Da sempre un pò ambiziosa, non si è mai accontentata negli acquisti degli abiti che le proponevano e voleva essere “al top”. Per essere diversa, distinguersi e farsi ammirare. Il suo amore per la cucina e il cibo, le è stato trasmesso fin da piccola, quando ammirava la sua cara mamma mentre stendeva la sfoglia

Tortino di baccalà

Insalata di baccalà

Zuppa ceci e castagne

Pan di spagna con crema pasticcera e fragole

con il matterello. Oppure la nonna quando preparava la “pizza dolce” tradizionale per il suo compleanno. Erminia fin da piccola, assaggiando il buon cibo, diceva: ‘’Un giorno sarò anch’io in grado di realizzarlo?”. Obiettivo raggiunto: ci è voluto un po’, ma ora sa realizzare i piatti più prelibati, uno per ogni occasione. L’amore e la passione per la cucina sono sempre fortissimi. Tant’è che il suo desiderio è diventare sempre più brava, anche nel capire i gusti di amici e commensali. Per sentirsi gratificata.


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LA TORRE DEL CERRANO Una sentinella a guardia del mare di Elisabetta Mancinelli

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a torre di Cerrano, situata a poca distanza dall’abitato di Pineto a ridosso del confine con Silvi, rappresenta il più imponente dei fortilizi costieri rimasti in Abruzzo. Si erige su una piccola collina bagnata dalle acque marine e circondata da una pineta dagli alberi secolari, guarda direttamente sul mare e si mostra in tutta la sua imponenza. Il fortilizio, a forma quadrata con muraglie piramidali costruite in laterizio, fa pensare allo scopo difensivo della sua costruzione mentre la merlatura e la torretta terminale di più recente costruzione, costituiscono un abbellimento architettonico dei costruttori. Deve il suo nome al torrente che scende dalle colline di Atri sino alla marina. Nel nome un toponimo “Torre del Cerrano” che è divenuto il simbolo della storia e dell’identità di questo territorio.

LA STORIA Si pensa erroneamente che la costruzione sia stata realizzata intorno al 1560 quando il viceré Parafan De Ribera Duca di Alcalà emanò l’ordine di costruire lungo tutto il litorale otto torri di avvistamento con lo scopo di segnalare tempestivamente ogni tentativo di incursione in mare. Importanti documenti mostrano invece come la Torre fosse preesistente e che era presente durante l’impero romano

probabilmente prima del XIII secolo. Proprio di fronte alla Torre si trovava quello che da molti ricercatori viene indicato come l’antico porto della città di Hadria probabilmente di epoca romana; nonostante distasse diverse miglia dal mare la cittadina aveva un suo approdo che dovette essere uno dei più influenti Foto Torre ante 1915 (da V. SCORDELLA, La Foglia racconta. di tutto l’Adriatico. Un antico documento che Storie e misteri. – tipografia Hatria, Atri, 2014, p. 139) attesta l’esistenza del porto di Atri proviene dal geografo augusteo Strabone: che scrive “il torrente Matrinus, che scorre dalla città di Atri, con l’omonimo porto” (Geografia V, 4, 2) . Anche lo storico Paolo Diacono nell’ VIII secolo, nel descrivere i centri della costa abruzzese e marchigiana, documenta in modo impietoso la decadenza di Atri ricca e potente in epoca romana al punto da muovere secondo alcuni la sua flotta da guerra contro Taranto “In qua sunt, scrive, civitates Firmus, Asculus et Pinnis et iamvetustate consumpta Adria, quae Adriatico pelago nomendedit”. Lo storico tuttavia non fa menzione della presenza del porto segno che era stato cancellato dal tempo o dal mare. Nel 1251 il Cardinale di Ascoli donò alla guelfa Atri il privilegio di ricostruirlo. Altro documento importante per la datazione della torre risalente al 1294, è quello in cui Carlo D’Angiò mostra la sua decisione di ricostruire la Torre di Cerrano e delle due “Torri di Montepagano ed Atri” in quanto ritenute funzionali all’attività logistica. La scelta cadde sulla foce del torrente Cerrano dove i lavori iniziarono di gran lena tanto che alla fine del secolo erano in piena efficienza e con tutta probabilità vi furono sbarcati i blocchi di pietra d’Istria giunti per la costruzione della Cattedrale di Atri. Anche in un documento del XVI sec. dal procuratore dell’Università, Bartolomeo di Cola Sorricchio, viene menzionato il porto di Atri e ipotizzato che il culmine dell’attività del porto fosse intorno al VII secolo a.C.


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Nel 1447 Venezia devastò i porti del Regno di Alfonso I d’Aragona compreso quello di Atri a Cerrano che subì gravissimi danni soprattutto nella torre di difesa. Nel 1516 il comune, dato che l’approdo era totalmente rovinato e quindi inservibile, decise di ricostruirlo a breve distanza più piccolo. Ma i lavori non cominciarono in quanto in quel periodo iniziarono sulla costa atriana le incursioni dei Turchi che giungevano all’improvviso con le loro feluche veloci saccheggiando e devastando i piccoli centri costieri. Per difendere il territorio Girolamo di Acquaviva, duca di Atri e il viceré Don Pedro De Ribeira decisero di dotare la costa di un sistema di torri difensive di avvistamento tra cui una massiccia torre di guardia fortificata alla foce del torrente Cerrano. Cessate le incursioni dei Turchi la torre perse la sua importanza. Negli anni ’20 fu ceduta da un nobile ufficiale di marina al marchese De Sterlich, poi fu di proprietà della famiglia Marcucci da lui discendenti che, non senza rammarico, negli anni ’40 la cedette alla Provincia di Teramo. Ristrutturata è divenuta sede di un laboratorio di biologia marina.

GLI STUDI Dopo secoli di dimenticanza nel 1982 un’esplorazione condotta da un equipe di archeologi subacquei, è stata effettuata nel tratto antistante la torre . E’ venuto alla luce un oppidum sommerso di cui sono stati individuati colonne in pietra, travi, tratti delle strade lastricate i resti di un molo a forma di “L” oltre ad opere murarie e vari manufatti.

Il fratino - Foto di Marco Cirillo

Purtroppo i fondali sabbiosi rendono molto difficili le immersioni, ma si spera che continuando la campagna di scavi, l’antico porto si potrà svelare in tutto il suo splendore.

L’AREA MARINA PROTETTA “TORRE DEL CERRANO” Nell’aprile del 2010 è stata istituita con Decreto ministeriale l’Area Marina Protetta Torre del Cerrano: uno specchio d’acqua protetto dove coltivare le preziose risorse del mare che si estende nel tratto teramano, fra due Comuni Pineto e Silvi fino a tre miglia nautiche e delimita sette chilometri di costa. Per la protezione e la valorizzazione dell’ambiente una rete di oasi sottomarine provvede alla salvaguardia, al ripopolamento e allo studio dell’ecosistema marino. La struttura lavora con uno staff di specialisti in diversi settori dalla biologia alla chimica effettuando una vasta gamma di ricerche che vanno dal costante controllo delle acque marine e fluviali alla ricerca dei batteri patogeni nei pesci e molluschi fino allo studio delle alghe. Da antico baluardo contro i Turchi, la Torre è divenuta una preziosa sentinella preposta alla tutela dell’ambiente marino della nostra regione. Per soddisfare la curiosità e l’interesse storico, il Consorzio di Gestione dell’Area Marina Protetta organizza visite guidate alla Torre che permettono di scoprire i suoi ambienti e ammirare dal punto più alto della Torre un suggestivo panorama. Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com


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LA CHIESA DI S.MARIA DEL CARMINE A NOTARESCO

da un controsoffitto stuccato e dipinto da Concezio D’Ascenzo nel 1898, per volontà del committente Giuseppe Savini. Nella parete posteriore erge un piccolo campanile a vela, con finitura superficiale in intonaco colorato, si eleva al di sopra di un corpo retrostante rispetto alla Chiesa e presenta una monofora con campana. Nella cantoria in

Un gioiello d’arte di Adriano Cruciani

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etta anche più semplicemente Chiesa del Carmine, è un piccolo edificio religioso che presenta una struttura in laterizio con copertura a capanna, si trova nel centro storico di Notaresco, a poca distanza dalla Chiesa dei S.S. Pietro e Andrea. Sopra il portale d’ingresso, sormontato da una semplice lunetta rimasta vuota, c’è una cornice a croce greca dai bracci semicircolari nel quale è incastonata l’effige della Madonna con Bambino. L’interno, a navata unica, è suddiviso in tre campate sormontate

contro facciata è conservato un organo a canne di grande pregio storico e artistico, risalente al XVIII secolo. Lo strumento misura (cm. 400 x 258 x 130) ma, la totale assenza di cartiglio ne impedisce una precisa datazione e attribuzione. La struttura è romanica mentre l’interno è del XVI secolo. La Chiesa del Carmine è stata restaurata nel 1.988, con progettazione e direzione dei lavori affidate all’architetto Luigi Formicone di Notaresco.


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RISTORANTE PER CENTENARI A COLLEPARCO

gari nelle vicinanze dell’Università di Colleparco o al suo interno, un ristorante specializzato con menù scientificamente controllati da esperti studiosi della materia. Per pasti e menù che assicurano una salute minimo centenaria.

di Marcello Martelli

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inomata come “capitale della buona tavola”, la città di Teramo ha ottime prospettive per diventare “metropoli della dieta” e Colleparco collina degli ultracentenari. Miracoli della scienza e dell’Uni-

versità, visto che è già tutto pronto per lanciare il progetto della longevità con in campo autorità mondiali del comparto alimentare. Una iniziativa scientificamente seria e importante, che raccoglie la partecipa-

zione di dodici selezionati ricercatori provenienti da tutto il mondo. Si impegneranno a lungo nello studio del cibo e dei regimi alimentari, che non porteranno all’immortalità, ma a invidiabili traguardi di lunga vita e buona salute certamente sì. E’ ormai confermato: l’invecchiamento dipende da noi e dallo stile di vita. Né si esclude che presto possa vedere la luce, ma-

Quando negli anni ’60 esplose la mania delle diete, qualcosa di simile fecero a Parigi in un ristorante con medici travestiti da camerieri. Dove, prima di sedersi a tavola, bisognava sottoporsi a visita medica. Al “referto” dei dietologi seguiva il menù. Poi, il cameriere (autentico, questa volta) portava in tavola il pranzo, rigorosamente in linea con il numero delle calorie che ciascun cliente poteva ingerire. Peccato che all’angolo della strada, a Parigi, c’era una “rosticceria tentatrice” con vetrina ricca di golose specialità, che spesso attiravano i clienti appena usciti dal ristorante dietetico con un leggero appetito. Avvisati: importante, adesso, non ripetere lo stesso errore a Colleparco con l’ipotetico ristorante per centenari. Dove si entra con l’avallo degli esperti. Niente più sofisticazioni e falsi a tavola. Tutto sarà controllato e garantito, accompagnandoci verso un traguardo centenario. E, per ora, può anche bastarci.


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LA FIBRILLAZIONE ATRIALE La parola al medico specialista del cuore

L

a fibrillazione atriale è l’aritmia di più frequente riscontro nella pratica clinica. La possibilità di insorgenza di tale disturbo aumenta con l’età, infatti il 10% della popolazione degli ottantenni ne è affetto. La persona colpita da fibrillazione atriale può percepire la sensazione di battito irregolare ed accelerato (cardiopalmo) ma può anche non accorgersi di nulla in quanto l’aritmia può decorrere con un battito cardiaco non particolarmente accelerato ed in quanto tale non essere percepita. Alcune persone hanno un andamento intermittente dell’aritmia, ovvero possono avere fasi di aritmia della durata di minuti, ore ed anche giorni alternate a fasi di ritmo normale (forme parossistiche) o possono avere l’aritmia costantemente (forme persistenti e croniche). E’ molto importante riconoscere l’aritmia in quanto è possibile in tal modo evitare la sua maggiore complicazione, ovvero la formazione di un coagulo di sangue (trombo) all’interno del cuore e la sua possibile migrazione in altri organi con effetti molto dannosi, come ad esempio l’insorgenza di ictus cerebrale. Infatti una persona su quattro ricoverata per ictus cerebrale è affetta da fibrillazione atriale di cui non è a conoscenza. E’ quindi di fondamentale importanza effettuare una diagnosi, la quale sarà agevole se si presentano sintomi prolungati e vi è la possibilità di effettuare un elettrocardiogramma, più difficile in caso di sintomi sfumati ed intermittenza dell’aritmia. Per quest’ultimo caso, esistono attualmente dei piccoli registratori cardiaci delle dimensioni di un fiammifero che è possibile inserire sotto la cute del paziente mediante una siringa, con una minima quantità di anestetico locale, per rendere la procedura indolore. Tali registratori hanno una durata della batteria di 3 anni e possono registrare au-

tomaticamente le aritmie ed immagazzinarle nella loro memoria elettronica, per essere successivamente lette dal medico. Effettuata la diagnosi, la cosa più importante è evitare la formazione dei trombi, e questo è possibile con la terapia anticoagulante orale, attualmente effettuata con i nuovi anticoagulanti orali, che rispetto ai precedenti non necessitano di prelievi ematici periodici e che quindi non impattano sulla qualità della vita. Oltre a questo, soprattutto nelle forme intermittenti, si può effettuare una terapia allo scopo di abbreviare o far scomparire gli episodi di aritmia. Si possono utilizzare i farmaci antiaritmici oppure ricorrere ad una tecnica denominata “ablazione”. Questa consiste nel posizionare all’interno del cuore degli elettro-cateteri (fili elettrici) attraverso le vene e con poca invasività, in quanto l’accesso venoso è ottenuto tramite delle punture a livello delle vene dell’inguine. Si procede quindi ad erogare energia per riscaldare il tessuto cardiaco coinvolto nell’aritmia e conseguentemente a neutralizzarlo, oppure a raffreddarlo a temperature molto basse con azoto liquido creando una sorta di congelamento dei tessuti coinvolti. In quest’ultimo caso si parla di “crioablazione”. La crioablazione presenta il vantaggio di tempi di esecuzione più brevi, a parità di efficacia. Il Centro di Aritmologia e Cardiostimolazione di Teramo, di cui sono responsabile, esegue le procedure di crioablazione, con grande soddisfazione dei pazienti e del personale anche perché è l’unico centro della Regione ad eseguirlo. In conclusione si può affermare che le persone affette da fibrillazione atriale hanno delle ottime possibilità terapeutiche e che è possibile migliorare la qualità della loro vita nella grande maggioranza dei casi. Dott. Paolo Serra Responsabile dell’U.O.S. Aritmologia e Cardiostimolazione Ospedale Mazzini Teramo


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