MARIO DE MARCO LE FORTIFICAZIONI DI LECCE Masserie fortificate, Torri colombarie, Torri costiere, Porte e Mura urbiche, Castello
INLAB 1
Per la cortese collaborazione si ringraziano l’architetto Mario Cazzato, il Dr. Flavio De Marco e Piero Pascali
Resti di mura urbiche XVI sec. Via Duca degli Abruzzi -Lecce
Edizioni INLAB Progetto grafico: Adriana Greco. Disegni: Piero Pascali In copertina: Lecce, Mura del Castello Carlo V e fontana dell’Armonia 2
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Presentazione Autore di tante pubblicazioni storiche, non poche delle quali riguardano Lecce, Mario De Marco questa volta ha voluto realizzare un agile testo monografico sulle opere fortificate, giunte sino a noi, di Lecce e del suo territorio municipale, assemblando organicamente le notizie sparse in suoi tanti studi e aggiungendovene altre laddove occorreva, ma soprattutto effettuando le ricognizioni autottiche, ossia operando sul campo. Sempre mosso dall’intento divulgativo, il nostro autore ha realizzato non una scarna guida al pari di tante altre in circolazione, ma pur guidando il lettore soprattutto se forestiero, ha inserito dati e descrizioni con metodo pluridisciplinare, offrendo cosÏ il senso storico alla narrazione che come sempre possiede un linguaggio fluido ed accattivante, e perciò privo di tediosa erudizione e di rimandi che 3
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il normale lettore non può, né vuole o non è in grado di effettuare. Questa pubblicazione monografica sulle fortificazioni di Lecce, di architetture militari di altre epoche, quando ancora bene o male ci si poteva difendere dalle insidie esterne, ma anche all’interno di una città che fino ad allora non era stata ancora realizzata, e per questo Mario De Marco ha voluto scrivere della Lecce d’altri tempi, di un patrimonio storico, artistico e militare, in gran parte distrutto o trasformato che gli stessi leccesi per la più parte ignorano e che continuano a trascurare lasciandolo all’inclemenza del tempo e all’insipienza di chi dovrebbe occuparsi di esso. E così via via si sta perdendo una parte non secondaria dell’identità del luogo, di una Lecce che non è solo barocco, ma crocevia di tante arti e stili anche nell’ambito dell’architettura militare che abbiamo il dovere di conservare, almeno per quel che resta, di valorizzare e di tramandare alle future 4
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generazioni. Con tali intenti Mario De Marco ha realizzato questa pubblicazione, un ulteriore atto d’amore per Lecce sua città di adozione e seconda sua piccola patria, essendo nato nella vicina Novoli da cui mai ha reciso e reciderà il cordone ombelicale.
Rita Saba
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Pianta del perimetro murario XVI secolo Veduta di Lecce del Pacichelli
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Le residue costruzioni fortificate di Lecce risalgono al periodo della dominazione angioina (1266-1442) e poi aragonese (1442-1503), quindi spagnola (1503-1734). Tali opere, ovviamente, furono realizzate con i criteri costruttivi delle diverse epoche e, almeno fino ad oltre la metà del XV secolo, ebbero tipologia medievale che, com’è noto, non era in grado di sopportare l’urto delle artiglierie. Soltanto dopo il sacco di Otranto da parte dei Turchi (1480) e in virtù del riarmo territoriale voluto dall’imperatore Carlo V, si provvedè alla realizzazione di nuove mura cittadine, torri e castelli, il tutto dotato di robusti bastioni capaci di resistere a cannoni e bombarde. Anche le masserie dell’entroterra cittadino vennero fortificate sin dall’epoca di Federico II di Svevia (XIII sec.) per il costante pericolo di pirati di ogni risma e del banditismo indigeno, che con rapide scorrerie rendevano precaria l’esistenza delle 7
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inermi popolazioni, le quali subivano saccheggi e vittime, nonché il rapimento soprattutto da parte islamica di giovani persone e di fanciulle, preda ambita dei signori d’ Oriente. E’ appena il caso di ricordare che da sempre la penisola salentina era esposta ai pericoli provenienti dal mare, soprattutto per la sua posizione geografica, specialmente fino a quando il Mediterraneo costituì l’epicentro del mondo antico.
Modello su scala Mura Urbiche Lecce
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LE MASSERIE FORTIFICATE Tra XII e XIX secolo si assiste alla moltiplicazione delle masserie anche nell’agro di Lecce. Intere comunità lavoravano in esse rendendole completamente autosufficienti e ricche, tanto da sollecitare spesso l’invidia e l’attenzione rapace di altre comunità di briganti e di pirati. Ecco allora la necessità di fortificare e difendere le masserie, che divennero spesso dimora estiva dei signori locali, senza perdere tuttavia la funzione di centro di tutte quelle attività che si svolgevano nel latifondo. La masseria fortificata divenne una delle espressioni edilizie più avanzate di difesa contro gli attacchi dei nemici. Infatti il nucleo centrale della costruzione era quasi sempre costituito da un grande edificio quadrangolare (torre) a due piani con una o più stanze intercomunicanti, era munito di ponte levatoio, saracinesca, campana, caditoie, feritoie, garitta e cinta. I vani del primo piano 9
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comunicavano con quelli del pianterreno, attraverso una botola, per mezzo di una scala a pioli e con il terrazzo tramite una scala di pietra ricavata nello spessore dei muri perimetrali. Il pianterreno era generalmente adibito a magazzino per il deposito dei viveri e armi, con l’autonomia di circa un mese. Per l’acqua non vi erano problemi poiché nella masseria, come nella campagna, numerosi erano i pozzi e le cisterne. In caso di assedio veniva alzato il ponte levatoio che poggiava su di una scalinata o sul terrazzo; attraverso le caditoie, appositamente costruite in direzione dell’ingresso e delle finestre, si faceva cadere giù olio bollente. Attraverso le feritoie si lanciavano dardi con archi e balestre, e in seguito si usarono archibugi e fucili. Val la pena ricordare che nei tempi passati la vita era insicura, soprattutto se si viveva nell’isolamento delle campagne e presso le masserie. Via via, in alcuni casi, sorsero nuovi casali, come nel caso di Merine 10
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dove addirittura l’antica parrocchiale fu fortificata con caditoie e feritoie, utilizzate dalla gente che era in chiesa e colta ivi alla sprovvista. Nel Salento non poche sono le superstiti chiese fortificate, come pure erano fortificati i palazzi dei signori o dei ricchi borghesi che abitavano nelle piccole comunità . Ritornando alle masserie ricorderemo che intorno ad esse, amministrate nei tempi antichi anche da comunità religiose, si disposero la chiesa, il mulino, il forno, il frantoio, le case dei coloni, i magazzini per il deposito delle derrate alimentari e degli attrezzi, le stalle per il bestiame, il pollaio, la colombaia, i laboratori vari per le diverse attività svolte nell’ambito delle masserie stesse, che furono centri fiorenti di vita agricola e sociale (1). Ai tempi nostri le masserie salentine, ma non solo, registrano la lunga crisi agricola e zootecnica con il preoccupante abbandono delle campagne che, nel territorio di Lecce, specialmente, soffrono 11
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antiche difficoltà per un terreno scarsamente produttivo e privo di corsi d’acqua. Non pochi, tuttavia, stanno riconvertendo l’attività delle masserie in luoghi di ristorazione e di agriturismo, curando necessariamente la conservazione e la manutenzione di queste strutture, tutte realizzate con la pietra leccese che qua e là ha consentito, data la sua morbidezza, di effettuare in rilievo alcune decorazioni. Tante in provincia di Lecce, però, le masserie abbandonate, preda delle offese del tempo e degli uomini; tuttavia qui, nel caso nostro, offriamo al lettore alcune note specifiche riguardanti le masserie fortificate esistenti nelle campagne del territorio comunale di Lecce, mentre per le analoghe e numerose strutture che ancora si conservano nella penisola salentina si rimanda alle tante pregevoli pubblicazioni che sono state realizzate dalla seconda metà del secolo scorso (2). Pertanto nell’agro di Lecce troviamo le seguenti masserie che ancora conservano 12
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non pochi elementi dell’originaria costruzione fortificata, delle strutture difensive anche per chi in maniera sparsa lavorava nei campi e in caso di pericolo poteva rifugiarsi nelle masserie, veri e proprio avamposti della città di Lecce e dei centri abitati che, allertati in tempo, potevano approntare le difese o organizzare il soccorso per coloro che erano stati assaliti da pirati o banditi.
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Masseria Melcarne
Masseria Monacelli 14
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LE MASSERIE FORTIFICATE NELL’AGRO LECCESE - MASSERIA ROMATELLE: Del tardo XVI secolo, nel tempo ha subito non pochi mutamenti strutturali. E’ sita nel feudo di Cerrate, a tre miglia dalla famosa abbazia, verso il litorale adriatico, nei pressi della spiaggia di Casalabate. Possiede quattro cortili con fabbricati rustici e la torre a due piani con due locali attigui. La torre, a scarpata, si articola con un pianterreno e, oltre il cordolo, col piano superiore coronato da merlatura. La struttura masserizia appartenne all’ Abbazia di S. Maria di Cerrate, possedeva 340 tomoli e due stoppelli di terreno variamente coltivati. - MASSERIA LA CARROZZINA: Insieme alle masserie Mele, Mosca, Le Case, Reca e Zundrano si trova nella fascia compresa tra Lecce e il litorale di San Cataldo. Ancora nel 1755 apparteneva al 15
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monastero di Santa Maria della Nova di Lecce. Qui si nota la torre cilindrica a due piani, un tempo munita di ponte levatoio. Alla struttura originaria, così com’è accaduto per le altre masserie, sono stati aggiunti nuovi ambienti, ossia stalle per gli ovini, un deposito-fienile, e possiede il pozzo, l’abbeveratoio e il forno. Questa masseria coltivava un’estensione di 91 tomoli e 4 stoppelli a cerali e seminativo. -MASSERIA SPECCHIA MEZZANA: Si raggiunge dalla tangenziale est di Lecce, uscendo laddove c’è l’indicazione “litoranea”, che è parallela alla provinciale Lecce-San Cataldo. Percorsi 8 km, in direzione del mare, si imbocca a destra un breve tratturo che conduce alla masseria di recente restaurata, ma alterata e privata di vari elementi architettonici. Casa, cortili, capanne e una torre, la più alta della zona, un tempo munita di ponte levatoio e di caditoie, oggi dai proprietari 16
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è abitata durante l’estate. Questa torre, alta 12 metri, è a due piani ed ha forma quadrangolare. La masseria provvedeva alla coltura di 59 tomoli e mezzo di terre seminatorie. - MASSERIA MELE: Si trova a breve distanza dalla masseria Specchia Mezzana, in fondo ad un tratturo che si innesta sul lato opposto della strada. Anche qui restauri e distruzioni, con ambienti che si sviluppano su tre lati dell’ampio cortile. Qui si continuano ad allevare ovini e bovini. Costruita via via nel tempo, questa masseria nei suoi paraggi conserva un pozzo con una interessante edicola, nel passato affiancata da tre pile-lavatoi in pietra leccese. All’interno, in un largo spiazzo rettangolare recintato, si erge la torre rettangolare a tre piani, di cui l’intermedio nel passato ospitava un granaio. In origine all’altra torre si accedeva tramite un ponte levatoio, sostituito poi da una scala in pietra. Solo una caditoia è restata sul 17
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prospetto principale, le altre sono state distrutte. La masseria sui 135 tomoli di propria pertinenza ne coltiva 55 a seminativo, il resto era macchioso e agreste. Qui tra bovini e ovini nel periodo piÚ florido si allevavano oltre un centinaio di animali. -MASSERIA LI RONZI: Del XV secolo, ovviamente nel tempo ha subito non poche trasformazioni. Non molto distante dall’Adriatico, possiede vari locali ed una torre a due piani, rinforzata da contrafforti angolari, con caditoie ai quattro lati. Si notano nel complesso masserizio alcune aggiunte risalenti alla seconda metà del secolo scorso. La torre possedeva il ponte levatoio, poi distrutto, due pozzi, la cisterna, un ampio cortile e abitazioni per i contadini. Ricadente nel feudo del monastero di S. Giovanni Evangelista di Lecce, tenuto dalle Suore Benedettine, la masseria Li Ronzi coltivava variamente 881 tomoli di terreno e gestiva pure un 18
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importante allevamento zootecnico, bovini e ovini, che superava il centinaio di capi di bestiame. -MASSERIA ALARI: Ad essa si giunge percorrendo un viottolo che si diparte dalla strada Lecce-Frigole e giunge nella località “Le Rene” dove, appunto, sorge il complesso masserizio sorto nella metà del XVI secolo. Al centro di un ampio cortile si innalza la torre quadrangolare a due piani, alla quale poggiano abitazioni realizzate nel secolo scorso. La struttura masserizia è in precarie condizioni, eccezion fatta per la torre, restaurata, dotata di caditoie in asse con le finestre e l’ingresso. Questa masseria coltivava 24 tomoli di terreno a seminativo, a vigneto e, soprattutto a oliveto. -MASSERIA SAPONARELLI: Un tempo posseduta dal Capitolo Diocesano, questa masseria, del XVI secolo, è sita nelle pertinenze di Lecce, ossia sulla strada Lecce-Surbo. Essa si articola 19
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intorno alla torre a due piani, munita di caditoie, e con locali attigui realizzati via via nel tempo. Possedeva la stalla per ovini, un frantoio sotterraneo un po’ distaccato dalle abitazioni. E’ in discreto stato di conservazione. Il terreno, ripartito in 16 “chiusure” delle quali 3 seminatorie, ricopriva una superficie di 11 tomoli. Poi, ancora, possedeva 13 “chiusure” olivetate e il suolo di queste avanzante, esteso per 15 tomoli e 12 stoppelli, era destinato probabilmente a colture varie. -MASSERIA MOSCA: Il complesso, del XVII secolo, è a breve distanza dalla masseria Mele, di cui si è detto. Tale masseria è in completo degrado per i tanti crolli soprattutto dei locali dislocati lungo i lati del cortile, ed è crollato pure quello che un tempo fu il frantoio sotterraneo. Anche in degrado si nota la torre a base rettangolare, a due piani; un tempo il ponte levatoio fu poi sostituito da una scala in muratura, antistante al prospetto 20
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principale. Delle caditoie di difesa non ne resta alcuna, mentre nel parapetto del terrazzo sono conservate feritoie per ogni lato. La masseria disponeva di 104 tomoli di terreno, utilizzati per circa la metà per la coltivazione di cereali, mentre il resto era macchioso e, quindi, incolto. -MASSERIA RAUCCIO: Dalla strada LecceSan Cataldo, imboccando un breve viottolo, si giunge a quella che fu la masseria Rauccio, che da Torre Rinalda, sull’Adriatico, dista circa 2 km. Dell’originario complesso masserizio, della metà del XVII secolo, oggi resta soltanto la torre a due piani, difesa un tempo da caditoie e dal ponte levatoio che fu sostituito da una scala in muratura. Questo complesso masserizio originariamente fu posseduto dai Padri Domenicani del convento della SS. Annunziata, alla periferia di Lecce. Nello spazio della masseria si notano i resti di una cappella, un pozzo e, nei pressi, una cilindrica 21
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torre colombaria. A Rauccio l’attività principale era quella zootecnica, e qui nel ‘700 si allevavano oltre 250 capi di bestiame, tra ovini e bovini. -MASSERIA LI COCCIOLI: Qui si giunge percorrendo la strada Surbo-Torre Rinalda e, al sesto km dal paese, si devia a sinistra percorrendo per 2 km una stradina asfaltata. Sorta nel XVI secolo, questa masseria nel tempo si trasformò e si ingrandì, ed ora essa risulta dall’accorpamento di due preesistenti masserie, “Curti vecchi” e “Casa”. Oltre alle costruzioni per il ricovero di animali e prodotti della terra, possiede la torre a due piani, munita di feritoie e caditoie e, nel passato, dal ponte levatoio poi sostituito da una scala in muratura per accedere al primo piano. Da notare un enorme camino che si diparte da un vano di servizio e a destra, prima dell’ingresso, appare la cappella del XVIII secolo. Degna di note, infine, è la cilindrica torre colombaria poco distante, coronata da un 22
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parapetto a finestrelle. Il patrimonio agrario di questa masseria comprendeva 182 tomoli di terra, coltivati essenzialmente a seminativo e ad uliveto. -MASSERIA BARONE VECCHIO: La masseria, del 1600, è abbandonata ma in discreto stato di conservazione. Si incontra lungo la strada SurboTorre Rinalda, a circa 3 km dal mare. Tra il cortile e il giardino si innalza la torre a scarpata, a due piani, munita di caditoie. La struttura possiede la stalla per i bovini e un ampio ovile. Al pian terreno della torre si accede da due entrate, mentre al primo piano tramite una scala in pietra. Sul lato destro furono costruite le case per i contadini. In origine il complesso masserizio fu dei Padri Gesuiti di Lecce che sui 117 tomoli e 7 stoppelli originari, poi per varie vicende ridotti a 93 tomoli, coltivava essenzialmente cereali e oliveto. In antico questa masseria si chiamò “Torre Vecchia”. 23
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-MASSERIA LI CUCCHIARARI: Realizzata tra il XVI e il XVII secolo, questa masseria ora completamente abbandonata, sorge sulla strada Lecce-S. Cataldo, a circa 2 km dal mare. Sebbene in precario stato di conservazione, essa conserva una massiccia torre a due piani, dotata di caditoia in asse con l’ingresso. Al primo piano in passato si accedeva tramite il ponte levatoio poi sostituito da una scala in muratura. Ora lateralmente, a sinistra, si scorgono due finestre al primo piano ed un’altra al pian terreno ove vi è pure un’entrata. La masseria nel ‘700 possedeva 475 tomoli di terreno, di cui 125 coltivati a seminativo, mentre la parte restante era macchiosa. Allevava poi 60 capi di bestiame, prevalentemente ovino. -MASSERIA LA GROTTA: La masseria, del XVII secolo, si trova lungo la via Surbo-Torre Rinalda, a circa 2 km dall’Adriatico. Tuttavia a circa 200 metri da essa sorgeva un omonimo insediamento 24
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masserizio, di cui resta qualche rudere. Un tempo si dotava di un ampio cortile, di un recinto e di una stalla per ovini, di pozzo con abbeveratoio e di alveare. Due costruzioni turriformi, munite di caditoie, difendevano la masseria che fu tenuta da vari enti religiosi di Lecce. Il suo patrimonio agrario era costituito da 743 tomoli ove si coltivavano cereali e olivi, ma non poco era il terreno incolto poiché macchioso. -MASSERIA MÈNDULE: Percorrendo la strada Surbo- Torre Rinalda, al quinto km, dove si incontra una curva, poi si deve imboccare sulla strada un viottolo che, affiancando la masseria Barrera, dopo circa un km ci fa giungere alla masseria Mèndule, realizzata alla fine del XVI secolo. Col tempo, com’è ovvio, il complesso masserizio ha subito diversi interventi strutturali, e fino ad alcuni anni fa era operativa. All’originaria torre seicentesca a due piani si aggiunse poi una casa palazziata, e 25
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tale accorpamento delle originarie difese mostra sul prospetto principale, che guarda il cortile, tre caditoie, mentre altre due appaiono sul lato che guarda verso Surbo. Non si tratta, quindi, di una vera e propria torre ma di un edificio fortificato, il cui perimetro è recintato da conci tufacei. Poco distante, ben conservata, si erge una massiccia torre colombaria cilindrica, recante lo stemma gentilizio della famiglia Riccio. -MASSERIA SOLICÀRA: Sita nell’omonima località, si incontra sulla strada Lecce-Torre Chianca e, recentemente restaurata, viene abitata dai proprietari durante l’estate. Realizzata nel tardo Cinquecento, questa masseria un tempo era assai attiva per la produzione e la trasformazione dei prodotti agricoli, avendo due trappeti e un mulino. L’aspetto difensivo ci è testimoniato dall’accorpamento di due edifici turriformi che ora esprimono una casa palazziata, che è preceduta da 26
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una chiesetta monocuspidale risalente alla fine del XVIII secolo. Alquanto esteso era il suo patrimonio agrario, ben 303 tomoli, produceva cereali, ulive e frutti, ma 18 tomoli erano infruttiferi poiché macchiosi e boschivi. Ciò nel XVIII secolo, epoca in cui si allevavano 168 capi di bestiame tra ovini, bovini ed equini. -MASSERIA PALADINI PICCOLI: Sulla strada Lecce- Torre Chianca, all’incrocio per Torre Rinalda, a circa 4 km dall’Adriatico, si incontra questa masseria del XVI secolo, dotatasi nel tempo di nuovi ambienti. Il tutto, sebbene abbandonato, è in discrete condizioni. La casa, che ora appare palazziata, è il risultato dell’accorpamento di un’antica torre a due piani con una costruzione successiva pure a due piani. Ai due lati del piano terra, compreso quello principale, ossia il prospetto, con caditoie, sono accorpate delle arcate che insieme ad un contrafforte sul lato posteriore 27
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garantiscono la staticitĂ della costruzione. Al primo piano del prospetto si accede tramite una scala in muratura che, evidentemente fu realizza in sostituzione del ponte levatoio. Nelle vicinanze del complesso masserizio si incontra una bella torre colombaria cilindrica, con un cornicione a mensolette ed una finestra. Uno spazio vuoto ci dice che un tempo ivi era incastonato lo stemma dei Guarino, evidentemente trafugato. Il terreno agrario della masseria ammontava a 62 tomoli e 9 stoppelli, il tutto coltivato con olivi, seminativo e in maniera promiscua. Qui si allevavano pure 120 capi di bestiame tra ovini e bovini. -MASSERIA PROVENZANI: Del XVI secolo, nel feudo di Cerrate, si sviluppa su due lati di un ampio cortile con capanne e recinti per bovini. Possedeva un forno ricavato in una costruzione a secco, trulliforme. Nel tempo, come sempre 28
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è avvenuto altrove, il complesso masserizio si è trasformato rispetto all’impianto originario. La torre, del XVI secolo, appare ampliata e strutturata come casa palazziata fortificata; essa è a due piani e si scorgono i segni di una caditoia e del ponte levatoio, di poi sostituito da una perpendicolare scala in muratura. Poco distante dal fabbricato si incontra una torre colombaria cilindrica. Sui 356 tomoli e 6 stoppelli la masseria coltivava l’ulivo e i cereali, ma oltre 200 di questi tomoli erano macchiosi e paludosi. 7 i capi di bestiame. -MASSERIA BARRERA: Si raggiunge percorrendo la strada Surbo-Torre Rinalda, in località San Marco. Si conserva discretamente ma è del tutto abbandonata. Le due costruzione turriformi oggi si presentano assemblate e così ecco una casa palazziata, fortificata, a due piani con caditoie. La prima torre, del XV secolo, possiede due caditoie ed essa si collega alla seconda, del 29
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XVIII secolo, tramite una scala interna di pietra che sostituisce l’originario ponte levatoio. La seconda costruzione-torre è coronata da parapetto mensolato ed anch’essa possiede caditoie. Nella masseria esisteva un trappeto e si allevavano circa un centinaio di capi di bestiame, prevalentemente ovini; il suo patrimonio agrario consisteva in 204 tomoli, 6 stoppelli e un’orte, terreno non tutto coltivabile ma da cui si ricavavano cereali e frutti di alberi vari. -MASSERIA ARIA SANA: Sorge nell’immediata periferia della città di Lecce sulla strada che porta alla marina di S. Cataldo. In completo abbandono e in rovina, in origine era una torre-masseria, trasformatasi però in dimora rurale palazziata nel XIX secolo. Nei pressi si innalza una torre colombaria, pur essa in rovina. -MASSERIA ALCAINI: L’insediamento masserizio, del XVII secolo, è in completo 30
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abbandono e sorge nei pressi dell’abbazia di S. Maria di Cerrate, sulla strada Squinzano-Torre Rinalda, avendo percorso una via interpoderale. Questa masseria, oltre alla stalla ed all’ovile, nonché il recinto per gli ovini, possiede un cortile, un piazzale ed un giardino, e pure alcuni alveari ricavati tra conci di tufo. Si dota di due costruzioni turriformi, accorpate; quella munita di caditoie è del XVIII secolo, l’altra della metà dell’Ottocento. Di media consistenza il suo patrimonio agrario di 120 tomoli coltivati per quasi la metà in seminativo e oliveto, mentre il resto era costituito da terre macchiose. -MASSERIA MONACELLI: E’ sita sulla strada Squinzano-Torre Rinalda, a circa 2 km dall’Adriatico. E’ in località Giampaolo, in prossimità della omonima masseria. Attualmente dell’antica struttura architettonica avanza una cappella del 1785, dedicata alla Natività di Gesù Cristo, che appare a destra dell’ingresso della 31
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masseria. Avanzano, poi, un locale provvisto di granai ipogei, un edificio a due piani addossato alla torre pur essa a due piani, munita di due caditoie e, in antico, con un ponte levatoio. Questa masseria possedeva pozzo, frantoio sotterraneo, stalla per bovini, recinto per ovini, due alveari e un ampio giardino. Realizzato in più tempi, il complesso masserizio è in discrete condizioni strutturali. Fu posseduto dal convento di S. Giovanni d’Aymo dell’Ordine dei Predicatori di Lecce. Possedette 87 tomoli di terreno agrario, prevalentemente ulivetato. -MASSERIA GHIETTA: Del XVI secolo, è in completo stato di abbandono ma in discrete condizioni statiche. Si raggiunge dalla strada Surbo-S. Maria di Cerrate. Possiede una torre a due piani e con cinque caditoie. Più volte rimaneggiata, questa masseria ha una cappella con locale attiguo di epoca posteriore. Il tempietto è dedicato a S. Maria degli Angeli e fu costruito nella metà del 32
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Settecento. La masseria possedeva case, capanne, pozzo, forno e trappeto, fu dei Padri Teatini e del Capitolo di Lecce, coltivava a uliveto i suoi 159 tomoli di terreno agrario. Altre masserie, non fortificate, nell’agro di Lecce: -LO ZUNDRANO, poco distante dall’abitato di Acaya. -BASCIUCCO, recentemente restaurata ma in abbandono, si raggiunge tramite un breve tratturo sulla litoranea Frigole-San Cataldo. -MOSCA, si raggiunge dalla superstrada LecceBrindisi tramite un breve tratturo che si innesta nei pressi del cavalcavia per Trepuzzi. In completo stato di abbandono, si conserva discretamente. -GIAMPAOLO, in completo stato di abbandono e in gravissime condizioni statiche, si raggiunge dalla strada Lecce-Casalabate, imboccando un trattuto che si apre all’altezza dell’incrocio con la strada Squinzano-Torre Rinalda e costeggia la masseria Monacelli. 33
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Masseria Ghietta
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LE TORRI COLOMBARIE TERRITORIO DI LECCE
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Nella campagna leccese troviamo le superstiti torri colombarie ove, ovviamente venivano allevati i piccioni protetti da leggi rigorose già nell’età di mezzo, e di ciò ne dà testimonianza il Codice di Maria d’Enghien, nel XV secolo. Oltre alle torri colombarie esistenti nelle masserie già menzionate, nell’agro di Lecce ne furono realizzate altre di forma cilindrica, eccetto una che è quadrangolare. Le torri colombarie rientrano a pieno titolo nella dotazione della difesa militare poiché grazie all’allevamento e all’addestramento dei volatili si poteva comunicare celermente il pericolo, e ciò è avvenuto da epoche immemorabili e, addirittura, sino alla prima guerra mondiale. E’ però appena in caso di ricordare che in tempo di pace i piccioni viaggiatori svolgevano il ruolo del 35
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servizio postale. Spesso isolate o poco distanti dal complesso masserizio, come abbiamo già annotato, altre volte furono inglobate nei giardini ospitando al loro interno numerose coppie di volatili, prevalentemente destinati all’alimentazione umana. Tali costruzioni, a volte decorate da rilievi di coronamento, furono di forma prevalentemente circolare, ma a volte pure quadrata, mancavano sempre di copertura proprio per favorire l’accesso degli uccelli. In tempi recenti le torri colombarie, però, per la più parte sono state trasformate essendo state munite di porte e finestre. L’allevatore che voleva raggiungere le nicchie interne delle torri ad esse accedeva essendo salito fino in cima con una scala a pioli poggiata all’esterno, indi si calava dentro la costruzione percorrendo la scala in muratura che si sviluppava in maniera elicoidale lungo la parete, e ciò per accudire i nidi. Alla 36
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colombaria, quindi, mancavano altre entrate, e tanto per impedire l’accesso agli animali predatori e ai malintenzionati ivi giunti per rubare i colombi. Le merlature, le cornici a sbalzo e agettanti oltre ad assolvere una funzione decorativa costituiscono gli “appollatoi” per il via vai dei colombi. In prossimità della torre colombaria spesso veniva collocata una vasca abbeveratoio-bagno di pietra. Delle numerose torri piccionaie oggi ne restano nel Salento appena una settantina, abbandonate, in degrado, poiché di colombi non se ne allevano più, e poi di queste costruzioni tante ne sono state distrutte o sono crollate per vetustà e per gli agenti atmosferici. Sul litorale adriatico prevalgono le torri cilindriche, mentre su quello jonico quasi tutte sono quadrangolari. Per fornire al lettore qualche ricognizione nel luogo in cui furono costruite le torri colombarie, e laddove ancora esistono, riteniamo utile dare qualche ulteriore indicazione, 37
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oltre i riferimenti già annotati a proposito delle masserie fortificate. - Lecce: sul viale della Repubblica, un tempo fuori le mura e quindi in aperta campagna, si scorge una malandata torre colombaria, nei pressi dell’ex Manifattura Tabacchi, di forma cilindrica, completamente abbandonata, probabilmente del XVI secolo. - Lecce: sulla strada Lecce-San Pietro in Lama, in prossimità dell’Istituto Tecnico Agrario, troviamo la cilindrica e tozza torre colombaria, forse del XIV secolo, unica nel suo genere poiché si sviluppa pure in maniera ipogea. Sul lato che guarda a est si scorge una statua della Vergine, acefala. - Cavallino: nell’agro di questo paese, alle porte di Lecce, sulla strada Lecce-Maglie in corrispondenza della salita per San Donato, si incontra quel che resta di una torre 38
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colombaria cilindrica e stemmata, purtroppo in parte demolita per far posto ad una casa colonica. Il luogo è da tempo abbandonato - Nardò: finora abbiamo solo citato torri colombarie cilindriche, ma nell’agro di Nardò, nelle vicinanze della masseria Brusca sorge la colombaia impostata su di una piramide quadrangolare tronca e, oltre il cordolo divisorio, si innesta la parte parallelepipeda del torrino, con armoniose centine festonate. La struttura si conclude con un cornicione a sbalzo. Per concludere questa parte dello scritto va detto che masserie e torri colombarie sorsero per iniziativa e a spese dei privati pur rientrando, dopo il sacco di Otranto, nel fenomeno più vasto del riarmo territoriale che, specificatamente, fu a carico dello Stato e dei Comuni, anche se la nobiltà dette il suo contributo riadattando o costruendo ex novo opere fortificate, palazzi, castelli e pur anche mura. 39
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Torre colombaria, zona ex Manifattura Tabacchi Lecce Viale della Repubblica
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IL RIARMO TERRITORIALE. INCURSIONI TURCHE E PIRATESCHE IN TERRA D’OTRANTO. La costruzione coordinata delle prime opere di difesa in Terra d’Otranto è da attribuire ai Normanni, indi all’imperatore Federico II. Nell’arco di due secoli si provvide alla fortificazione di molte città e ciò avvenne soprattutto durante il regno di Carlo I d’Angiò, al quale si debbono le prime torri costiere atte a prevenire gli assalti di pirati e saraceni. Ripetiamo che nel 1480 gli Ottomani misero a sacco Otranto, sterminarono la popolazione e solo circa un anno dopo abbandonarono la città non tanto per la reazione armata di nobiltà e truppe regie, quanto, invece poiché erano restati senza rifornimenti non bastando quelli ricavati dalle tante incursioni che funestarono molti luoghi del Salento. Tra ‘400 e ‘500 si ricorse al riarmo territoriale di Terra 41
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d’Otranto essendoci la preoccupazione che potesse ripetersi la tragedia idruntina, se non peggio ancora, ma le architetture militari sino ad allora strutturalmente medioevali mutarono radicalmente onde contrastare l’uso delle artiglierie ottomane, le più potenti dell’epoca. Dato l’interesse dello Stato aragonese, cioè del Regno di Napoli, le nuove fortificazioni furono sostanzialmente realizzate nei territori e città demaniali (Lecce, Otranto, Gallipoli, Taranto e Brindisi) e sulle coste, lasciando al libero intervento feudale il compito di munire l’entroterra, ovviamente ciò avvenne rendendo più esosa la fiscalità, ossia le cosiddette “decime”. Tutti erano convinti, tra ‘500 e ‘600, che la Terra d’Otranto fosse l’estremo avamposto contro i turchi infedeli e i pirati di ogni genere, le cui scorrerie il regno napoletano malamente riusciva ad arginare e di qui, pertanto, la necessità di riarmare questa terra di frontiera. Particolarmente 42
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le popolazioni rivierasche vivevano sotto l’incubo del turco, ritenuto il male supremo, l’incarnazione del demonio che bisognava combattere per la difesa del bene e della fede. Le cronache del tempo ci narrano di paure, di eccidi, di miracoli per pericoli scampati, di atti di eroismo in una guerra senza tregua che spopolò gli insediamenti costieri. Giorno e notte lungo le coste, attraverso il sistema difensivo, di torri e masserie fortificate che via via si stavano costruendo, nei casali, nelle città che si munivano di mura bastionate e di artiglierie, ovunque vi fosse un utile posto di osservazione si vigilava. Spesso la paura determinava comprensibili ansie ed esagerazioni, si spiavano i movimenti delle navi avversarie, ogni vela che appariva all’orizzonte poteva essere quella di un vascello nemico. A onor del vero, dopo il sacco di Otranto, la politica spagnola fu particolarmente attiva a fortificare soprattutto le 43
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coste con torri e piazza-forti, potenziò la propria flotta, irrobustì le guarnigioni e aumentò il numero delle artiglierie. Questo sistema difensivo fu di natura nazionale ed ebbe di conseguenza alti costi che gravarono sui comuni e sulle città. Ma tutto ciò non fu sufficiente dato l’elemento sorpresa delle scorrerie islamiche e piratesche, sicché nel 1571 il preside di Terra d’Otranto e di Bari istituì il “battaglione”, ossia una milizia territoriale capace di accorrere tempestivamente nei luoghi ove erano approdati i nemici che già dovevano fare i conti con le truppe feudali. Intanto l’economia languiva poiché la vita era incerta e il commercio via mare era pressoché inesistente. Rapide e inaspettate furono le incursioni turche e piratesche nelle coste e nell’entroterra di Terra d’Otranto, ove si rifornivano depredando e traendo in schiavitù tante persone, giovani donne soprattutto, e nessuno veniva risparmiato dalla furia omicida e distruttiva. 44
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Il 17 luglio 1535 Castro fu saccheggiata e ciò si ripeté nel giugno di due anni dopo. Nel 1544 gli Ottomani si impadronirono delle isole di Lipari e Cariati, e non si contano i luoghi saccheggiati tra il 1554 e il 1562 da famosi pirati, quali Ariadeno Barbarossa e Dragut, nonché dai pirati provenienti dal Magreb, contrastati a terra da Ferrante Loffredo e sul mare dalla flotta imperiale al comando di Andrea Doria e dai vascelli veneziani. Un nuovo sbarco a Otranto fu tentato nel 1545, ma due anni dopo, in pieno inverno, 5 galeotte giunsero alla torre Culimena, indi assaltarono il castello di S. Pancrazio uccidendo tanta gente e traendone molti in schiavitù, ottenendo di alcuni un immediato riscatto. Sempre nel 1547 venne attaccata la terra di Salve ma, essendosi gli abitanti salvati dentro le mura del locale fortilizio, Dragut, che comandava la spedizione, preferì saccheggiare buona parte del basso Salento e il tempio di S. Maria di Leuca. Sempre Dragut in questo periodo operò 45
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un’incursione nella terra di Vaste, sbarcò presso Racale, ma fu respinto da Ferrante Loffredo. La battaglia di Lepanto, nel 1571, costituì una svolta per l’equilibrio delle forze di mare che i Turchi sconfitti disastrosamente non avrebbero più ripreso il predominio nel Mediterraneo, ma i cristiani ancora una volta non seppero sfruttare sino in fondo il successo clamoroso per le invidie i disaccordi tra le varie potenze marinare. La flotta turca, però, non cessò di compiere incursioni lungo le marine di Terra d’Otranto. Se pur si espresse con irrilevanti scaramucce, nel 1584 e nel 1620, di fatto aveva esaurito le sue forze, avendo delegato tuttavia le incursioni ai pirati barbareschi che costituirono un male endemico, insieme ad altri di ogni risma, per la Terra d’Otranto. Sia pure per sommi capi, per dare il senso della precarietà in cui vivevano le genti di Terra d’Otranto, riferiremo alcuni degli episodi più salienti che la funestarono tra tardo ‘500 e ancora fino al ‘700. 46
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Nel 1575, ancora una volta, Castro subì l’assalto e la razzia del bassà Lustembai, che portò via 200 prigionieri. Pochi anni dopo, nel 1594, furono minacciate Taranto e Otranto, senza esito. Nel 1624 i corsari algerini sbarcarono a Leuca e bruciarono il tempio mariano, poi devastarono Castrignano. Due anni dopo Leuca fu nuovamente saccheggiata e le coste di Terra d’Otranto subirono non poche devastazioni. Nel 1630, sempre i corsari algerini, presero il castello di Maruggio, devastarono il casale e fecero prigionieri alcuni abitanti. Nel 1673 toccò a Torchiarolo ove vennero fatti 50 prigionieri e, nello stesso anno, venne assaltata Vernole. Il tormento continuava, non si contavano assalti a masserie e centri abitati. Nel luglio 1691 i pirati assaltarono Specchiolla, presso S. Vito dei Normanni, il 21 agosto 1689 era toccato ancora a Leuca un ulteriore saccheggio da parte dei turchi, che nel 1711 si spinsero a Cerrate saccheggiando la chiesa e le vicine masserie dalle quali portarono 47
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via 48 persone e alcuni carri carichi di cibarie. Nel 1714 gli islamici razziarono nella zona di Acaya e, tre anni dopo, nella zona di Vanze. In questo contesto misero e depresso, economicamente inibito dall’insicurezza del commercio marittimo e dallo spopolamento territoriale, ma anche dalla rapacità feudale, proliferò il brigantaggio che fu un altro male endemico del Viceregno, dalla fine del ‘500 alla metà del ‘600, con tante bande organizzate e con la delinquenza spicciola che commetteva ogni sorta di delitto, agguati, stupri, omicidi, furti, taglieggiamenti, etc. La vita era veramente insicura per tutti, e basta consultare a tal proposito le cronache dell’epoca e i registri dei morti per rendersi conto di quali cause si moriva. Di tanto in tanto veniva spettacolarmente giustiziato qualcuno, ma il fenomeno criminale, se pur attenuandosi dopo il 1640, non venne tuttavia spento. L’esistenza di questo male endemico in Terra d’Otranto è la misura di una profonda crisi che non sarebbe stata risolta nei secoli successivi. 48
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Otranto, Carta Aragonese del XVI secolo
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LE TORRI COSTIERE Sin dalla più remota antichità in Terra d’Otranto si innalzarono torri di vedetta e di difesa contro i nemici provenienti dal mare. Così fecero i romani, ciò avvenne tra X e XI secolo sui litorali mediterranei allorché imperversavano i navigli saraceni. Spesso intorno alle torri sorgevano casali e città, ma si dovette attendere l’epoca svevoangioina per la realizzazione di un razionale e permanente sistema di difesa e di segnalazione, fumo di giorno, fuochi nella notte, onde il Regno di Napoli appariva circondato da un efficace cordone di torri costiere, alla cui guardia e manutenzione accudivano i giustizieri delle varie terre, ma soprattutto gli abitanti dei casali e città. Il problema della difesa costiera si complicò e divenne più grave con l’espansione islamica, essenzialmente dopo il 1453 allorché i turchi conquistarono Costantinopoli e subito dilagarono nei Balcani. 50
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Di fronte a questa situazione gli Stati cristiani restarono inerti, vani furono gli appelli del Papa per organizzare una crociata, e solo l’Austria e Venezia contrastarono l’espansione ottomana, ma perché dovevano difendere i propri interessi. Per scongiurare gli attacchi repentini e inaspettati dei turchi e pirati, come si è detto, privati e Università, ossia i Comuni, costruirono torri di vedetta situate in posizioni strategiche e panoramiche. Queste difese spesso vennero realizzate negli stessi luoghi di più antiche torri romane o bizantine, o sveve o angioine. L’imperatore Carlo V, assai preoccupato per l’espansionismo islamico, decise di proteggere le coste dell’Italia meridionale con una serie di torri di vedetta. Nel 1532 il viceré don Pedro di Toledo emanò un’ordinanza con la quale obbligava i privati a erigerne altre. Tuttavia l’ordine fu disatteso. Il perdurare delle insidie nemiche, a cui erano esposte soprattutto la Terra d’Otranto e la Calabria, 51
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indussero la corte napoletana a deliberare la costruzione generale di torri marittime per conto e sotto la direzione dello Stato, e a tal proposito gli ordini vennero impartiti nel 1563, a ben 77 anni dall’eccidio idruntino. A quell’anno risalgono, infatti, le prime istruzioni della R. Camera e del viceré don Parafan de Ribera ai governatori principali, ai quali si comandò che nessuna opera doveva costruirsi senza l’assenso della R. Corte e che tutte le fortificazioni esistenti, riconosciute di pubblica utilità, dovevano essere espropriate con equo indennizzo. I regi ingegneri avrebbero stabilito la costruzione delle torri su tutte le coste dello Stato, disponendo che le fortificazioni fossero in vista l’una all’altra, in modo da costituire una continua linea difensiva e di avvistamento. Circa le ingenti spese di costruzione si imputò alle Università interessate l’importo di ciascuna o più torri, ma l’intoppo fu costituito dal fatto che si tenne 52
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conto di vecchi censimenti, ma poiché tanti centri abitati contavano una popolazione minore a causa dell’emigrazione per il pericolo turco, sorsero tante contestazioni e controversie. Ciò comportò la costruzione di poche torri costiere in Terra d’Otranto, come altrove, lo Stato non attingeva affatto dalla fiscalità generale, ma gravava proprio sui comuni più colpiti dalle scorrerie, comuni che non ebbero alcun finanziamento dallo Stato. Comunque le prime torri del Salento risalgono al 1565, ma se ne realizzarono poche e con estenuante lentezza, altre non furono nemmeno cominciate per la carenza finanziaria di tante comunità. Si ricorse ai ripari imponendo a tutti i centri abitati del regno, esclusi quelli lontani 12 miglia della marina e ad alcune categorie di abitanti, schiavoni e albanesi, che pagavano la metà, dapprima l’imposta di 7 grani e un cavallo (moneta centesimale), indi di 22 grani a famiglia. E così il denaro affluì nelle 53
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casse dello Stato, terminarono le controversie e le Università ebbero modo di rivalersi delle spese di fabbrica e di quelle assai gravose del servizio di guardia. I lavori, pertanto, ebbero un sollecito impulso tant’è che nel 1569 era stata portata a termine la costruzione di quasi tutte le torri delle provincie dell’Adriatico. Ma le cose non andarono tutte per il verso giusto, nel senso che non mancarono imbrogli, anzi una “torropoli” per il fatto che tanti costruttori usarono materiali scadenti che comportavano a tempi brevi il crollo della costruzione. E questi disonesti, d’accordo con banditi locali e perfino con i pirati, di notte abbattevano le costruzioni per poi nuovamente ricostruirle, guadagnando così altro denaro. L’esempio più noto di mala costruzione ci è dato dalla torre detta del Fiume (Quattro Colonne), nella marina di S. Maria al Bagno, crollata eccetto i quattro spigoli angolari, per imperizia costruttiva 54
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e per materiali scadenti. Col passare del tempo i costi di costruzione delle torri erano aumentati, sicché per far fronte alle nuove necessità nel 1573 fu riproposta l’imposizione di 22 grani a famiglia, cessata nel 1570. La nuova imposizione non dette risultati di rilievo, e anche a causa dei subappalti la costruzione delle torri non proseguì. Sorsero liti e controversie e nuovamente i lavori stazionarono mentre, intanto, le incursioni turche continuavano a tormentare le popolazioni rivierasche del regno partenopeo. Aumentò ancora l’imposizione fiscale nel 1581 per consentire l’avvio dei lavori per la costruzione di torri nel Salento e altrove, ma il denaro non bastava, per cui nel 1586 si ebbe una ulteriore imposizione fiscale che restò in vigore per altri ventidue anni e, nonostante l’enorme afflusso di denaro nelle casse regie non risultavano ancora terminate le torri di Terra d’Otranto, ove bisognò attendere il 1748 perché qui vi fossero terminate. 55
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Ma delle 80 torri nell’estrema propaggine d’Italia un secolo dopo tante erano già in rovina o occupate da privati. I sorveglianti e i cavallari mal pagati spesso disertavano il servizio con grave pregiudizio della sicurezza, la cui gestione economica fu sempre fortemente passiva, e per questa categoria di persone sulle esauste popolazioni fu imposta una tassazione a parte. Dopo il lungo susseguirsi di incursioni, le torri costiere vennero impiegate come posti di guardia per reprimere il contrabbando o come cordone sanitario per difendersi dalle epidemie. Con decreto del 21 febbraio 1629 furono concesse alle amministrazioni della guerra, della marina e delle poste. Con l’unità d’Italia vennero via via definitivamente abbandonate e di esse oggi continua lo scempio per le intemperie e da parte degli uomini.
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Le “Quattro Colonne�, S. Maria al Bagno
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LA TIPOLOGIA Sino a tutta la prima metà del XVI secolo le torri furono di varie forme, per lo più cilindriche, e quelle fabbricate nella prima metà di detto secolo dai privati e dalle Università furono anche di notevole ampiezza, perché erano erette non solo per la difesa, ma anche come luogo di rifugio in caso di improvviso sbarco dei nemici. Le torri marittime costruite dalla R. Corte, e progettate dall’architetto napoletano Giovanni Tommaso Scala furono invece quadrangolari, probabilmente per rendere più efficace la difesa: le artiglierie, infatti, erano piazzate su quasi tutti i lati, eccezion fatta per alcune torri a nord di Gallipoli o sulla costa brindisino-leccese, queste costruzioni regie erano di dimensioni piuttosto modeste, sicché potevano contenere pochi armati in considerazione del fatto che non assolvevano scopi difensivi, 58
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e poi perché venivano evitate dagli invasori, preoccupati soltanto di operare rapide razzie e subito scomparire. Le torri più grandi erano state costruite dai privati anche per garantire il rifugio delle genti del luogo, oppure dallo Stato per farne sede di comando di altre torri, e sia per ammassare soldati, armi e vettovaglie, nonché per dar rifugio ai cavallari, i quali perlustravano il territorio circostante e, in caso di pericolo, qualora non ci si poteva avvalere di segnali fumogeni, luminosi o acustici, prodotti questi ultimi da campane e corni, velocemente raggiungevano i casali e altre fortificazioni per allertare del pericolo. Il costo per i cavallari gravò sulle Università e spesso il loro numero esiguo venne integrato da volontari che in alcuni luoghi, muniti di barca perlustravano le coste frastagliate ove si potevano nascondere gli assalitori. 59
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Per ovvie ragioni di sicurezza le torri marittime erano prive di ingresso alla base, sicché ad esse si accedeva dal piano superiore tramite una scala lignea che veniva abbassata dall’interno solo in presenza di amici. Le imponenti scale in muratura furono realizzate allorché era ormai da tempo passata ogni minaccia sia dal mare e sia da parte dei briganti provenienti dall’entroterra. Ogni torre possedeva una cisterna che raccoglieva le acque piovane dal lastrico solare, ed essa era situata sotterranea al centro della base della struttura che, non essendo colma di pietrame, offriva un ampio vano al pian terreno. Altre volte, invece, la cisterna era collocata all’esterno, quasi sempre nel muro di basamento. Le torri più antiche appaiono costruite con pietrame informe, possiedono base troncoconica coronata da còrdolo, generalmente, su quale si innesta la parte cilindrica che sviluppa all’interno un ambiente voltato. Questa forma strutturale venne 60
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soppiantata da quella quadrangolare, ideata dagli ingegneri regi già nella seconda metà del ‘500. Se le torri marittime più antiche appaiono piccole e di modestissimo volume (400 mc. circa) cilindriche e abbarbicate sulla costa alta e rocciosa a sud di Otranto, fino all’omonimo Capo, con esclusiva funzione di vedetta, quelle parallelepipedali, che si incontrano lungo il litorale neretino, su costa bassa e scarsamente difendibile, si presentano imponenti e possenti (4000 mc. di volume, circa). Esse documentano una evidente derivazione dalle torri delle masserie fortificate e dalle analoghe torri costiere di altri Stati italiani. Consentivano, poi, una migliore segnalazione, la difesa dai pericoli provenienti dal mare e dall’entroterra infestato da briganti che taglieggiavano i contadini e masserie spesso lontane dai centri abitati. Le torri tipiche del regno, ossia quelle quadrangolari, sono comunque le più numerose di Terra d’Otranto, e 61
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la loro altezza media si aggira intorno ai 12 metri, mentre l’interno è di circa 25 mq dato il notevole spessore murario ed anche per la realizzazione della scarpa, che all’esterno offre una inclinazione del 5%, idonea alla solidità della struttura ed alla funzione delle caditoie, quasi sempre tre per lato, raramente cinque, realizzate in controscarpa con una inclinazione dell’8% verso l’interno. Sobria e senza orpelli decorativi appare la struttura di queste torri, che vennero erette con esclusivi scopi di funzionalità. Altrettanto poderose furono le torri innalzate alle fine del XVI secolo nel Capo di Leuca: Torre dell’Omo Morto e quelle di Porto Badisco; insolita forma ottagonale palesa l’immensa torre di S. Giovanni di Ugento, eretta nel 1565.
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LE TORRI COSTIERE DI LECCE La costa a sud di Brindisi è bassa e sabbiosa fino a Otranto e di tanto in tanto è caratterizzata da piccole lagune. La prima fortificazione marittima che si incontra in questa parte del territorio leccese è: - Torre Specchiolla, Comune di Lecce, località Casalabate, a metri 3 sul livello del mare. Tipica del regno, tre caditoie, discretamente conservata e non abitata, ha subìto molti interventi di restauro. Della metà del XVI sec., venne realizzata con pietrame informe. Ha gli spigoli in conci squadrati e pareti in pietra irregolare. Nella parte che guarda il mare, nel corso dei restauri, sono state ricavate due ampie aperture. Si raggiunge dopo 10 km da Casalabate, lungo la litoranea, deviando per un tratto di strada 63
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che porta alla spiaggia. Comunica a vista con Torre S. Gennaro a nord e con Torre Rinalda a sud. - Torre Rinalda, Comune di Lecce, località: tra “posto dei Trepuzzini” e Specchia Milogna; sorge ad un metro sul livello del mare. Tipica del regno, possiede, base quadrata troncopiramidale e venne realizzata nel XVI secolo con conci di carparo regolari. Oggi ridotta ad un rudere, conserva due finestrelle, ancora intatte, rispettivamente sul lato che guarda il mare e sul lato nord. Si scorge un residuo di volta a botte e la traccia della canna d’acqua dal terrazzo alla cisterna. - Torre Chianca, Comune di Lecce, località: “Case di Simìni”, si innalza a due metri sul livello del mare. Questa torre è ormai un grosso rudere a base troncoconica, con 64
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corpo cilindrico. Eretta nel XVI secolo, tipologicamente è analoga alle piccole torri circolari a sud di Otranto. Venne realizzata con conci prevalentemente irregolari. Si nota un ingresso alto sul lato a monte ed è ancora riscontrabile un attacco di finestra. Si raggiunge percorrendo la via Adriatica ed è in collegamento visivo con Torre Rinalda a nord e con Torre Veneri a sud. - Torre Veneri, Comune di Lecce, località Bacino, sorge a tre metri sul livello del mare. Costruita nel tardo XVI secolo, è in pessimo stata di conservazione. Più volte ha subìto restauri e sorge su di un lieve sperone roccioso. Di struttura troncopiramidale dalla base fino al còrdolo sopra le finestre del primo piano, prosegue in forma parallelepipedale. La disposizione delle aperture è simile a quella delle torri del regno. Al primo piano, 65
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che ha volte a crocera, si trovano il pozzo ed il camino, nonchÊ una scala in muratura che porta al terrazzo. Il pian terreno è voltato a botte e ad esso ora si accede da un varco che è stato aperto nello spazio della cisterna. Ancora una scala in pietra conduce al primo piano. Costruita con conci regolari, questa torre richiama la tipologia di quelle erette sulle coste tirreniche dallo Stato della Chiesa. Comunica a vista con Torre Chianca a nord e ad essa si accede deviando nel bosco della nuova litoranea. La struttura, a sud, guardava la Torre di S. Cataldo, scomparsa nel XIX secolo, sulla cui area si alza il Faro ormai da tempo in disuso
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Torre Specchiolla
Torre Rinalda 67
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- La Torre di Belloluogo Abbandonate le masserie fortificate e le torri marittime esistenti nel territorio leccese, ci approssimiamo alla città dove ancora, nella campagna dell’immediata periferia odierna si innalza la Torre di Belloluogo, alta 14 metri, realizzata nella seconda metà del XIV secolo e che si raggiunge lungo la via Vecchia Surbo, nella campagna a destra. Essa venne costruita da Gualtiero V o da Ugo di Brienne per scopi difensivi e di vedetta secondo i criteri dell’architettura militare angioina. E’ perfettamente cilindrica e delle difese originarie conserva il coronamento merlato idoneo per arcieri o balestrieri, resti di un recinto esterno con feritoie, la cui muratura, a qualche metro dalla struttura cilindrica, guarda a picco sul fossato che è come in antico colmo d’acqua. Un tempo possedeva il ponte levatoio, ma probabilmente nel Settecento fu sostituito da un ponticello in 68
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muratura. Costruita in uno spazio ameno, “in un dilettevole giardino- dice l’Infantino- di delizie de’ Principi di Taranto”, da cui Belloluogo, appunto, questa struttura all’inizio e per quasi un secolo ebbe una funzione prettamente militare ma poi, però, essenzialmente con Maria d’Enghien (1367-1446), contessa di Lecce e regina di Napoli, si trasformò in dimora suburbana durante l’estate essendo stato realizzato nelle contigue cave un ninfeo, dove la contessa e le sue dame si rinfrescavano in acque limpidissime. Costituita da due livelli, con ambienti voltati a botte e collegati da una scala a chiocciola, la torre manomessa nel tempo è stata recentemente restaurata, almeno per ciò che resta, ed essa evoca tante suggestioni. Al suo interno troviamo alcune stanzette al primo piano, ed una cappellina lunettata e al cielo dipinta di azzurro, ove appaiono interessanti affreschi con scene della vita di S. Maria Maddalena, del Calvario, i quattro 69
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Evangelisti, sette profeti e un Cristo benedicente. Lo stile di queste pitture, di scuola napoletana, è sicuramente “moderno” per l’epoca in quanto già travalica i canoni bizantini e, per certi aspetti, prelude al gusto rinascimentale. Scoperto nel 1929, il Ninfeo della Torre di Belloluogo risulta costituito da una piccola grotta artificiale che si trova nelle cave contigue alla torre, e tale grotta venne verosimilmente realizzata nell’alto medioevo da monaci bizantini, eremiti, che qui si ritiravano per pregare. L’ambiente è ornato di conchiglie e su una delle volte reca la seguente iscrizione latina, certamente di epoca posteriore, di cui diamo la traduzione, ossia: Allorché il padrone gode la grotta e l’acqua, uccide la superbia dell’Ottomano. Questo luogo, in origine di preghiera come si è detto, fu poi trasformato nel tardo Quattrocento in ninfeo, che appare caratterizzato da tre arcate che si concludono in una grande abside. 70
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Tante le croci greche e latine incise sulle pareti, dove pure appaiono iscrizioni greche. Più giù una conca colma d’acqua dove evidentemente Maria d’Enghien e le sue dame facevano il bagno, e quest’acqua veniva attinta da un pozzo assai profondo che ancora si scorge. Indipendenti dal Ninfeo troviamo due ambienti scavati nella roccia, di cui uno a pianta rettangolare e chiuso da una volta decorata da foglie d’acqua. L’altro, più profondo al quale si accede scendendo da una scala, è una sorta di cisterna che raccoglieva le acque piovane, usate al tempo per irrigare i campi circostanti. Allorché Lecce divenne città demaniale, nel XVI secolo, e quindi non avendo più Conti, la torre di Belloluogo perdette la funzione di residenza estiva e per parecchio tempo in essa furono carcerati i nobili, prima di essere trasferiti a Napoli per rispondere del reato di rei di Stato.
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- La Torre del Parco La seconda testimonianza dell’architettura militare angioina, a Lecce, è costituita dalla Torre del Parco che è ormai inserita nel tessuto urbano, ed essa si raggiunge fiancheggiando l’Istituto delle Suore Marcelline e si scorge alla fine della via don Minzoni. Questa torre, sorta a suo tempo fuori le mura cittadine, fu eretta nel 1419 dal diciottenne Giovanniantonio del Balzo Orsini (1387-1463), figlio di Raimondello e di Maria d’Enghien, il quale ne fece la propria sicura dimora e struttura di avvistamento dei pericoli provenienti dal mare Adriatico, che ben si scorge dalla sua cima. Alta quasi 30 metri e di forma cilindrica, al pari della più antica Torre di Belloluogo, fu munita di salde difese oggi del tutto scomparse. Era circondata da un profondo e largo fossato, da una robusta merlatura, da piombatoi e fromboliere. Nel XVI secolo Ferrante Loffredo, Preside di 72
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Terra d’Otranto, la adattò all’uso delle artiglierie. Alla torre si accedeva tramite un ponte levatoio, sostituito nel XVIII secolo da un arco a muratura che raggiungeva, anziché il primitivo ingresso, il davanzale di una fromboliera del secondo piano, trasformato in ingresso. Il complesso della Torre del Parco comprendeva diverse unità produttive ed edilizie. Queste ultime erano costituite, oltre che dalla torre, dalle cappelle di S. Biagio e di S. Venera, la chiesa di S. Giacomo, varie abitazioni e un grande spazio dove il 25 aprile si teneva la fiera di S. Giacomo. Gli spazi produttivi comprendevano cinque giardini dove si coltivavano agrumi, ulivi e tanti alberi da frutto, nonché zafferano, lino e cereali. Questo enorme complesso, che nel tempo ha subito molti rimaneggiamenti, si estendeva per oltre 40 ettari, ma con la morte di Giovanniantonio del Balzo Orsini fu via via smembrato. Nella torre Giovanniantonio non solo vi abitava, ma ivi teneva il tribunale del Concistorium Principis, vi 73
Le fortificazioni
teneva la zecca, le prigioni dal 1456 al 1461; nel sottostante giardino allevava gli orsi, emblema della sua famiglia, nella torre, ancora, si tenevano feste memorabili, qui vi era il centro del potere della città. Scomparso Giovanniantonio la torre fu munita di difese per contrastare l’urto delle artiglierie e si dotò pure di bombarde e cannoni. Dal 1463 fu dimora dei viceré di Napoli, ma già verso la fine del Settecento appariva ormai negletta e solo nel 1819, essendo stata acquistata dai Conti Romano fu ristrutturata ed oggi ben restaurata ospita convegni ed incontri culturali. Recentemente sono stati riportati alla luce, e opportunamente restaurati, gli affreschi della cappelletta esistente nel piano nobile. Le pitture, risalenti ad epoche e mani diverse, sono di mediocre fattura. Raffigurano immagini di Santi, S. Giovanni Battista, S. Barbara, S. Giorgio, S. Caterina d’Alessandria, la Trinità, indi di epoca più tarda, e di minori dimensioni, alcune scene cristologiche, S. Domenico e i Misteri del Rosario. 74
Le fortificazioni
Torre del Parco - Lecce
Torre di Belloluogo
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- La cinta muraria Nel passato, in ogni epoca, i centri abitati si sono muniti di fortificazioni ed essenzialmente di mura di cinta per difendersi dai nemici e dai male intenzionati. E proprio le mura costituivano la barriera più importante per le antiche popolazioni di ogni latitudine, a Sparta, a Micene, Gerusalemme, a Troia, a Roma come altrove, ed anche nel Salento a Lecce come a Cavallino, a Muro Leccese, a Manduria, a Vaste tanto per fare alcuni esempi, restano ancora le tracce di mura ciclopiche, magistralmente costruite per renderle più sicure oppure perché i nemici le avevano distrutte. La più antica notizia, e prova, di cui si ha la certezza circa le mura di difesa di Lecce risale al periodo messapico, ossia al IX secolo a.C., e si sa che la città ebbe questi baluardi pure nelle epoche successive senza soluzione di continuità fino al XVI sec. , sempre rinnovando la propria 76
Le fortificazioni
cintura muraria o per l’espansione edilizia o per precedenti distruzioni, oppure per aggiornare i criteri costruttivi. Dopo il sacco di Otranto del 1480, come si è detto, per volere dell’imperatore Carlo V si operò il riarmo territoriale a Lecce, estrema propaggine della penisola italiana venne particolarmente fortificata, sicché le potenti mura progettate da Gian Giacomo dell’Acaya per gran parte del loro circuito ricalcarono il percorso della cinta messapica, realizzata 19 secoli prima. Delle mura leccesi del 1540 oggi restano pochi tratti, non tutti ben conservati, ossia nella via Duca degli Abbruzzi, da circa la metà di via Manifattura Tabacchi a porta Rudiae proseguendo per via Adua fino al Circolo Tennis, con l’intervallo della chiesa di S. Luigi e l’Arco di Trionfo, indi dopo una breve interruzione su via Calasso e voltando a destra su viale De Pietro. Questo tratto murario, ben restaurato, si conserva pressoché integro col poderoso bastione di S. Francesco. Qualche 77
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rudere si trova ancora sul lato di sinistra del Liceo Scientifico “C. De Giorgi”. Va detto che la costruzione, a Lecce delle mura cittadine, con scarpa, controscarpa, bastionate e munite di feritoie e, in cima, di spazi merlati per collocarvi gli affusti di cannone, nonché il castello, opere volute da Carlo V, vennero realizzate sotto i governatori Scipione Di Summa ma soprattutto Ferrante Loffredo e, ritornando alle mura la loro costruzione fu voluta non perché erano malconce, ma in quanto non erano adatte a reggere l’urto delle artiglierie. Va ancora detto che le fortificazioni leccesi del XVI secolo non assolsero alcuna difesa poiché la città restò immune da attacchi nemici. Per completare le opere di fortificazione leccesi occorsero ben 24 anni, e il perimetro murario misurava 3000 passi e contava 20 baluardi. Mura e castello erano circondati da ampi fossati che si potevano superare per mezzo di quattro ponti levatoi, relativi alle 4 porte di accesso alla città, più due analoghi ponti 78
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che mettevano in comunicazione il castello con la città e la campagna. Tuttavia già nella metà dell’Ottocento iniziarono i primi abbattimenti delle mura per consentire l’espansione edilizia, perché l’inclemenza del tempo le rovinava e non vi era alcuna manutenzione, poi in quanto i fossati erano diventati cloache a cielo aperto, con grave pregiudizio della salute pubblica poiché ivi veniva scaricato ogni genere di rifiuti. Finalmente tra tardo Ottocento e gli inizi del secolo scorso si decise di eliminare questo sconcio abbattendo la più parte delle mura e così con il materiale di risulta si colmarono i fossati. Si ricavò, pertanto, nuovo suolo che, essendo demaniale, si aprì al tempo una speculazione edilizia per accaparrarsi nuove aree edificatorie sulle quali da Porta Rudiae, e quindi sul viale Gallipoli e sul viale Lo Re, fino a Porta San Biagio, i signori leccesi più facoltosi fecero sorgere villini in stile eclettico, altrimenti detto Liberty. 79
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Mura urbiche interno
Mura urbiche esterno 80
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LE PORTE DI LECCE Le ricerche archeologiche unanimamente sono concordi in merito al fatto che la cinta muraria di Lecce realizzata nel XVI secolo, nonostante gli allargamenti effettuati nei secoli, complessivamente poco si discosta dal tracciato di epoca romana, e c’è pure chi ipotizza sin dal periodo messapico. Nell’età di mezzo, comunque, nelle mura cittadine si aprivano quattro porte, ossia Porta Rudiae, Porta Romana, Porta S. Martino e Porta S. Biagio, alle quali corrispondevano altrettanti rioni, volgarmente detti pettàci che, nella lingua greca, appunto, vuol dire rione. I quattro quartieri leccesi possedevano una limitata autonomia amministrativa e i propri rappresentati facevano parte dell’Università, ossia della civica amministrazione. Peregrino Scardino, il dotto sacerdote di San Cesario, nel suo famoso Discorso intorno all’antichità e 81
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sito della fedelissima città di Lecce, pubblicato nel 1607, ecco cosa riferisce a proposito delle porte leccesi: “Si divide la città in quattro parti dette dai leccesi portaggi e ciascuno di questi ha la sua uscita fuori. Vi è tra l’Occidente e il Settentrione la porta detta di Rugge perché da quella si andava all’antica Rudia. Verso Tramontana si trova la porta detta di San Giusto, ch’era anticamente appellata Porta Romana; forse cambiò dopo il nome, perché da quelle se n’uscì fuora alla volta di Roma San Giusto, seguace di San Paolo…. Paramisi quella di San Martino incontro all’Oriente, donde è il cammino alla contrada marittima di San Catalo… La quarta verso Austro è dimandata Porta San Biagio” che prospetta sulla via che conduceva e conduce alla Torre del Parco.
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Porta San Martino
Riproduzione dell’abbattuta Porta San Martino Si ipotizza che questa porta, ovviamente con denominazione diversa e a noi sconosciuta, esistesse già in epoca romana e forse fu rifatta al tempo di Maria d’Enghien; comunque di essa è documentata l’esistenza sin dal 1261 e poi divenne tristemente famosa per le forche che si innalzavano fuori. Priva di decorazioni e abbellimenti, la 83
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porta era sormontata da merli, come ci mostra il Pacichelli in una immagine del 1703, ed essa si apriva al termine dell’attuale via Matteotti, o giù di lì, portando alla marina di S. Cataldo e alle strade interpoderali che conducevano alle masserie dell’ampia campagna di Lecce. Poiché la politica murattiana, agli inizi dell’Ottocento, aveva soppresso tanti ordini religiosi, questa sorte toccò pure quello dei Celestini, a Lecce, il cui convento era contiguo alla loro chiesa, cioè S. Croce. Questo convento, con decreto del 28 novembre 1811, fu destinato ad ospitare la Regia Intendenza, per cui si abbatterono alcuni ambienti e se ne costruirono altri e tali lavori furono compiuti tra il 1827 e il 1842. Sul restante spazio, spianato, sorse una via, ora XXV Luglio, e venne realizzato il giardino pubblico.
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Come si suol dire, Porta San Martino, ormai più che un rudere, stonava nella nuova sistemazione del luogo, per cui con delibera comunale del 16 gennaio 1826 si decise di abbatterla perché costituiva “una sconcezza che deturpava la vista del palazzo dell’Intendenza”, poi sede della Prefettura, che prospetta su via XXV Luglio, ma per controversie sorte con i proprietari di stabili contigui, la porta venne abbattuta alla fine dell’anno successivo e il suo sito, acquistato dalla famiglia Libertini, consentì a questa di completare il proprio palazzo, il cui prospetto si allinea con quello della ex Intendenza, ora Prefettura.
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Porta Napoli.
Porta Napoli In antico detta S. Giusto, Romana, Reale e infine di Napoli, era la porta da cui si intraprendeva la via consolare per Napoli e costituiva un punto di arrivo importante, sicché per questo rappresentò un confine privilegiato tra il mondo esterno e lo spazio urbano. Questa porta esisteva già in età romana, ed era quella principale trovandosi al punto 86
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di incontro della via Appia-Traiana con le mura antiche di Lecce, ove inizia il cardo, ossia l’attuale via Palmieri. La porta di denominò S. Giusto nel medioevo, e si dice che fu così chiamata in quanto essa fu attraversata dal discepolo dell’apostolo Paolo per essere condotto al luogo del supplizio, probabilmente lo stesso dove fu martirizzato S. Oronzo, luogo che fu individuato ove ora sorge la chiesa extraurbana di S. Oronzo fuori le mura (Capu de Santu Ronzu) lungo la via Adriatica, a qualche km dalla città. Questa porta venne abbattuta e sul suo sito fu realizzata Porta Napoli da Gian Giacomo dell’Acaya nell’ambito della costruzione della nuova cinta muraria, nel 1548. Questa maestosa e imponente costruzione, d’ordine corinzio, è alta m.20,28. Possiede colonne binate, avente base attica e il capitello barocco. Porta, si, ma anche Arco di Trionfo così come si usava nell’antica Roma, e ciò in onore dell’imperatore asburgico Carlo V 87
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che aveva voluto il riarmo territoriale, facendo costruire a Lecce nuove mura, torri costiere e il castello. Questa porta, o Arco di Trionfo, ha sul frontone triangolare scolpite le insegne araldiche imperiali, con trofei e panoplie. Tra il frontone e l’arco è incisa l’epigrafe dedicatoria, in latino, di cui se ne dà la traduzione: “All’Imperatore Cesare Carlo V, sempre augusto trionfatore, la prima volta nelle Indie, la seconda nelle Gallie, la terza in Africa; soggiogatore dei cristiani ribelli, terrore e persecutore dei Turchi; accrescitore della cristianità in tutto il mondo con le azioni e con le deliberazioni, per volontà di Ferrante Loffredo, comandante incaricato a respingere i Turchi e gli altri nemici di Carlo da tutta la costa dei Salentini e degli Iapigi; il senato ed il popolo leccese con devozione dedicarono quest’arco alla Sua Maestà e Grandezza.1548.” 88
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Porta Rudiae
Porta Rudiae Da tempo immemorabile, forse dall’alto medioevo, la porta ebbe questa denominazione perché da essa si raggiungeva Rudiae (Rusce nel vernacolo leccese), patria del grande poeta latino Quinto Ennio, distrutta nel 1147 dal re normanno Guglielmo il Malo, e mai più ripresasi, nell’ambito di una guerra civile. I superstiti abitanti dell’antica 89
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città messapica si rifugiarono a Lecce radunandosi nel rione che faceva capo alla porta, per cui vennero detti “rusciari” (Rudini). Alcuni anni dopo la contessa Albiria ne trasferì un buon numero presso Pulsano, dove fondarono il casale di Lizzano, altri diedero vita al casale di Lizzanello, toponimi, questi, che richiamano la voce Lecce, al tempo pronunciata Lezze, e derivante dal latino Liciae. Ricostruita nel 1703 su disegno di Giuseppe Zimbalo, nel sito della vetusta e diruta porta medioevale, ma dedicata a S. Oronzo, la gente continuò a chiamarla, fino ad oggi, Porta Rudiae, ed essa di stile classicheggiante per tanti aspetti si esempla a Porta Napoli, altra porta superstite della città. L’arco di Porta Rudiae si apre tra due colonne per ogni lato, con capitelli corinzi, e termina con la statua di S. Oronzo che benedice i forestieri. Il simulacro del Santo poggia sul fastigio che contiene l’iscrizione latina dedicatoria. 90
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Sull’architrave appaiono i busti, con didascalie, dei mitici personaggi che fondarono la città: Malennio figlio di Dasumno e nipote di Salo; Dauno, figlio di Malennio; Euippa, sorella di Dauno e, infine, Lizio Idomeneo il quale secondo la leggenda, avrebbe rifondato e dato il nome alla città. Ai lati dell’iscrizione centrale, su basamenti poggiati sulle colonne, appaiono le statue di S. Domenico, a destra, e di S. Irene a sinistra. La ricostruzione della porta, nel XVIII secolo, apporta una novità, poiché essa abbandona l’antica denominazione di Rudiae per quella di S. Oronzo, da circa mezzo secolo patrono di Lecce, i cui abitanti ancor oggi la chiamano Rudiae o Rusce, ignorando, certo per tradizione, la nuova denominazione. Riteniamo pertanto utile pubblicare la traduzione dell’iscrizione dedicatoria, che è in latino: “A Dio Ottimo Massimo. A Sant’ Oronzo Patrono della città e della provincia, affinché colui che 91
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proteggeva la città desse anche il nome alla porta. Prospero Lubelli, patrizio leccese, curò di ricostruire questo nuovo arco che guarda l’antica Rudiae. E poiché egli non lesinò il proprio denaro perché questo monumento sorgesse più maestoso di quello antico che era quasi crollato, il sindaco Cesare Belli, suocero ed erede dello stesso, con consenso unanime del Primo Cittadino e del Municipio di Lecce e per volontà del popolo, volle che qui fosse ricordato il nome (sebbene altrimenti avesse ordinato nel suo testamento).1703.” Per avere un’idea di come si presenta Porta Rudiae, detta Rugge fino al tardo XVII secolo, occorre tener conto della raffigurazione di Lecce che appare sull’altare di S. Irene, nella omonima chiesa di Lecce e poi l’incisione del Pacichelli del 1703, ma realizzata almeno dieci anni prima.
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Porta San Biagio.
Porta San Biagio Il prospetto di questa porta che guarda sul viale Lo Re, dove subito dopo si scorge il monumento ai Caduti, fu rifatta nel 1774 dedicandola a San Biagio, Vescovo di Sebaste, che la tradizione locale senza alcun fondamento storico ritiene nativo di Lecce. Questa porta si compone di fornice di passaggio con arco a tutto sesto, larco m.4,10, 93
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come quello di Porta Rudiae, che introduce nella via dei Perroni. Indi due colonne binate per lato, poggianti su basamenti e sormontate da capitelli dorici e dalla trabeazione con metope e triglifi che si interrompe al centro, dove si scorge un blasone e ai lati due stemmi identici della città di Lecce. Ancora piÚ su un’aggettante cornice separa il registro inferiore da quello superiore, ove appaiono due volute decorate da festoni. Al centro si erge il fastigio, sormontato dalla statua di San Biagio tra due volute. Incorniciata dal fastigio si legge l’epigrafe dedicatoria, in latino, che ricorda pure la data di costruzione della porta, eretta al tempo di Ferdinando IV di Borbone.
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Dell’iscrizione latina ecco la traduzione: “A Dio Ottimo Massimo. I cittadini e i forestieri avevano a lungo desiderato un accesso da questo lato pari alla bellezza della città. Finalmente per sollecitudine di don Tommaso Ruffo, dei nobili del Regno, governatore della provincia e in essa comandante delle fortezze dell’invittissimo re Ferdinando IV, don Oronzo Nicola Prato illustre per stirpe e per valore, per la seconda volta sovrintendente della patria, con il denaro pubblico costruì nell’anno del Signore 1774 e pose una statua a San Biagio, protettore della stessa.”
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Porta San Biagio, particolare
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Il Castello
Castello Carlo V di Lecce
Ora ai limiti del centro storico, ma in effetti nell’abitato cittadino, si raggiunge da Piazza S. Oronzo avendo percorso la via Roberto di Biccari e attraversando via XXV Luglio. Realizzato per volere di Carlo V per scongiurare le invasioni turche, di cui la piÚ funesta fu quella che nel 1480 causò 97
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il sacco di Otranto, per esso si lavorò per ben dieci anni, ossia dal 1539 al 1549, e qui rifulse l’ingegno del grande architetto militare Gian Giacomo dell’Acaya. La costruzione sorse ove già esisteva ed esiste la torre angioina del XIV secolo più volte rimaneggiata, ma qualcuno dice che questa torre quadrangolare, la cui sommità si scorge ponendo le spalle al Teatro Massimo, sia stata costruita due secoli prima da re Tancredi, conte di Lecce, se non prima ancora dal suo antenato il conte Accardo. Questo torrione non svolgeva soltanto funzioni di difesa, ma come si può constatare annovera stanze di buona fattura che, verosimilmente, ospitavano gli incontri della nobiltà cittadina. Prima della costruzione del castello, nello spazio che ora esso occupa sorgevano il convento dei Celestini e la prima chiesa di S. Croce, dove fu sepolta Maria d’Enghien, ma con la distruzione della sua tomba non si è mai saputo ove ne siano stati traslati i resti 98
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mortali. Il possente castello, che mai fu attaccato da nemici, è formato da due corpi trapezoidali irregolari concentrici, di epoca diversa, separati da un cortile intermedio. Possiede tra poderosi bastioni rispettivamente a sud-est, a nord-ovest e nord-est, era interamente circondato da un ampio fossato che venne colmato nel 1872. Al castello si accede da due ingressi, di cui uno è rivolto verso la città, mentre l’altro guardava la campagna e che, pertanto fungeva da porta esterna di Lecce. Entrambi presentano le feritoie laterali per farvi scorrere le catene del ponte levatoio. La porta più interessante del castello è certamente quella che guardava la campagna, in direzione del mare da cui potevano aggiungere i nemici. Tale porta ora guarda il Palazzo delle Poste, nella Piazza Giuseppe Libertini, e su di essa appare l’insegna araldica di Carlo V, stemma che pure sormontava la porta che si apriva e si apre al centro abitato, 99
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ma che poi è stato rimosso e collocato su di un muro del cortile. Sotto lo stemma che guarda il Palazzo delle Poste troviamo una iscrizione latina che parafrasa un’espressione della Storia naturale di Plinio, ed essa costituisce un omaggio a Carlo V. L’iscrizione tradotta, così dice: “(Carlo V) regge ogni cosa sotto il suo dominio tra entrambe i soli, quello agli antipodi di Occidente ed il nostro ad Oriente”. Altre iscrizioni latine sono venute alla luce nel castello durante i recenti lavori di recupero e restauri, nonché nuovi ambienti, cappelle e reperti, e sicuramente in prosieguo non mancheranno sorprese. Nei secoli in castello di Carlo V è stato occupato da varie milizie, spagnole, russe, turche, francesi, svizzere e borboniche, qui durante l’effimera rivoluzione del 1799 trovarono rifugio i giacobini. La fortezza di dotava di fetide carceri sotterranee, e qui nel 1755 alcuni ambienti furono dati in affitto dalla regia corte a ventiquattro 100
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famiglie civili. Passato ogni pericolo di invasione, non pochi ritennero inutile la presenza del castello che si voleva abbattere in vista di una lucrosa speculazione edilizia, per cui venne preso a pretesto il decoro urbanistico, ma questi progetti demolitori più volte proposti, per fortuna non approdarono a nulla. Con l’Unità d’Italia il castello fu sede del Distretto Militare, e ciò per circa centoventi anni, fino a quando, il 30 aprile 1983 i militari l’abbandonarono restituendolo così alla città che d’allora ad oggi ivi organizza incontri culturali. Nel 1884 alle mura del castello, lato nord-ovest, si addossarono il Teatro Politeama, indi nel 1908 il Teatro San Carlino e tre anni dopo, sul lato nord, il Teatro Apollo. Il 5 dicembre 1898 fu inaugurato il Mercato Coperto addossato sul lato sud-ovest del castello, mercato progettato dall’ing. Pasquale Ruggeri e dotato di una artistica tettoia metallica stile Liberty, ma il tutto venne smontato nel 1977 101
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per liberare le mura della fortezza da ciò che si riteneva ingombrante e anti igienico. Oggi il castello di Carlo V, a Lecce, opera ricca di tante memorie e avvenimenti, costituisce un punto di attrazione della città , per storia e architettura militare, simbolo di antiche paure ma pure di certezza di sicura difesa.
Castello Carlo V
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Le fortificazioni
L.G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti descritti e illustrati, vol. I (il solo edito), la città Tipografia Campanella, Lecce, 1874. Ristampa con postille di N. Vacca a cura del Centro Studi Salentini, Lecce, 1964. M. DE MARCO, Monumenti leccesi. Le iscrizioni latine, Formamentis, Lecce,2010. M. DE MARCO, Torri e Castelli del Salento. Itinerario costiero, Capone Ed., Cavallino, 1994. C. DAQUINO, Le masserie del Salento, Capone Ed., Cavallino, 1994. AA. VV., Le masserie fortificate a nord di Lecce, a cura del Comune di Trepuzzi e dell’Archivio di Stato di Lecce, Torgraf, Galatina, 1985. AA. VV., Il castello di Lecce, a cura del Centro Culturale “S. Amminarato”, Capone Ed., Cavallino, 1983. M. CAZZATO, Lecce, la quarta porta, Congedo Ed., Galatina, 2013.
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Le fortificazioni
INDICE Presentazione
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3
Le Masserie fortificate
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9
Le Masserie fortificate nell’agro leccese..
pag.
15
Le Torri colombarie del territorio di Lecce
pag.
35
e piratesche in Terra D’Otranto
pag.
41
Le Torri costiere
pag.
50
La Tipologia
pag.
58
Le Torri costiere di Lecce
pag.
63
La Torre di Belloluogo
pag.
68
Torre del Parco
pag.
72
La Cinta Muraria
pag.
76
Le Porte di Lecce
pag.
81
Il Castello
pag.
97
Bibliografia
pag.
103
Il riarmo territoriale, incursioni turche
105
Le fortificazioni
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SI RINGRAZIA
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