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1. Di cosa parla questo Manuale. E come ne parla di Roberto Maragliano
1.1 Portar fuori e mettere in comune: è ciò che fanno i media Nella fortuna attuale dei due termini educazione e comunicazione è paradossalmente nascosto un meccanismo di rimozione che li riguarda allo stesso modo e, si direbbe, nella stessa misura. Di qui vogliamo partire, non solo perché per tradizione ogni discorso di impianto sceglie di partire da riflessioni di ordine linguistico, ma perché, nello specifico, i due termini su cui vogliamo ragionare (e farvi ragionare) sono tanto usati, oggi, quanto usurati. Possiamo renderci conto della rimozione che li riguarda andando alla loro radice etimologica. In quella greco-latina di comunicazione c’è l’idea del «mettere in comune». Nella parte latina della radice di educazione c’è l’idea del «portare fuori». Eppure, se ci confrontiamo con l’uso attuale delle due parole ne ricaviamo idee abbastanza diverse. Nel primo caso, infatti, prevale il senso del «trasmettere» e l’eventuale «messa in comune» è in un qualche modo costretta a subordinarsi a questa dimensione, tutta esterna, del processo comunicativo. Nel secondo caso, poi, si afferma il senso del «portare dentro», ed eventuali non riuscite dell’operazione dell’educare vengono perlopiù imputate a quanto si è fatto (o non fatto) agendo in quella direzione, vale a dire dal di fuori al di dentro dell’individuo; quasi mai sono chiamate in causa azioni fatte o non fatte nella direzione contraria. Avrebbe poco senso vedere in tutto ciò una sorta di degenerazione semantica, un fenomeno, cioè, che riguardi soltanto i comportamenti linguistici. Se cambiamento di senso c’è stato, nel tempo – e questo è impossibile negarlo –, conviene individuarne le ragioni in una prospettiva più ampia, soprattutto nel rapporto che, legando comportamenti sociali a comportamenti linguistici, fa di questi lo specchio dei mutamenti di quelli. Ora, nell’epoca della tarda modernità, che è la nostra da qualche decennio (qualcuno parla anche di post-modernità, ma nel termine c’è un che di ambiguo, legato all’idea del «post» come superamento), le pratiche sociali del comunicare e dell’educare (sia per ciò che attiene il mantenimento e lo sviluppo dei meccanismi della produzione/riproduzione della cultura, sia per quanto riguarda l’entità degli impegni politici, economici e ideologici che ne conseguono) hanno assunto un rilievo e un’importanza sconosciute alle età precedenti. E non è casuale la frequenza con cui viene usata una parola come «emergenza», quando ci si misura con i problemi posti da queste pratiche. Ciò vale anche se prendiamo in considerazione la componente tecnologica del problema. Anzi, vale ancora di più. Forse, è proprio questo legame sempre più stretto con la tec-
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nologia a spiegare il fenomeno dello spostamento verso il polo esterno del significato dei due termini, nel cui tratto originario prevaleva invece il polo interno. Comunicazione, oggi, fa tutt’uno con «mezzi di comunicazione». E lo stesso vale per educazione, soprattutto se facciamo riferimento al significato che sta sempre più assumendo nel mondo globalizzato, dove, come è per il termine inglese, education vale come equivalente di insegnamento: lì, appunto, la percezione dell’importanza delle pratiche dell’«immettere segni» non può essere disgiunta dalla presa in considerazione del rilievo riconosciuto agli apparati e agli strumenti che ne garantiscono il funzionamento. Dunque, si tratta solo di azioni «esterne»? Non è così, almeno per noi autori di questo Manuale, ed è bene che lo diciamo subito, a chiare lettere. Fornendo una mappa, che non vuol essere analitica né esaustiva ma soltanto esemplificativa dell’ampia varietà di connessioni operate e operabili fra comunicazione e educazione, noi autori non intendiamo assolutamente negare il ruolo che la tecnologia ha assunto e sta sempre più assumendo nel dar forma e sostegno alle azioni del comunicare e dell’educare. Al contrario, vogliamo porre tale ruolo al centro delle nostre considerazioni, in una qualche misura riconoscendole la funzione di garantire e regolare i rapporti fra i due ambiti. Ma non vogliamo cadere nell’insidia di riconoscere alle tecnologie nient’altro che il ruolo banale di veicolare contenuto, riservandoci la possibilità, come non pochi fanno, di auspicare una condizione di vita migliore, nella quale le tecnologie siano meno presenti, e con loro, il bagaglio di ‘brutture’ che esse possono eventualmente veicolare. Il principio che ci accomuna e al quale non vogliamo né sapremmo rinunciare è che la tecnologia dà forma a comunicazione ed educazione, è la loro forma. Dunque, esterno e interno interagiscono, nella nostra prospettiva. Chi pensa comunicazione ed educazione dentro una certa matrice tecnologica li pensa in un determinato modo, chi li pensa dentro un’altra matrice tecnologica li pensa diversamente. Più in particolare: chi pensa un contenuto, della comunicazione come dell’educazione, lo pensa dentro una particolare forma, e questa in buona parte è fornita dalla tecnologia, che fa da cornice a quel pensare, strutturandolo in un determinato modo. Dunque, c’è anche il movimento che dall’interno va verso l’esterno. Sappiamo, così ragionando, di rischiare e di andare «controcorrente», perché facciamo saltare l’alibi frequentemente usato, sia in un campo sia nell’altro, di addossare sulle «cattive tecnologie», sulle «cattive maestre» ogni responsabilità di quel che l’uomo non riesce (o è costretto) a essere. Ma non demordiamo. Se abbandonassimo il punto di vista sulle e delle tecnologie, buona parte dei nostri discorsi si sfalderebbero, subirebbero la deriva della banale disputa ideologica: pro e contro le macchine, pro e contro l’uomo. Personalmente, poco mi importa che dagli umanisti io sia visto come tecnologo e dai tecnologi come umanista, mi considero un umanista attento alle tecnologie (della comunicazione e della formazione), uno che saltella lungo la linea di confine, un piede qua un piede là, come nella bella immagine finale de Il pellegrino di Chaplin. E così, tratto e penso i contenuti della comunicazione e della formazione dentro le forme che danno loro le tecnologie-matrici: e queste forme, per me, sono anche mentali, sono forme di pensiero, modi di percepire il mondo, punti di vista. Su questo, i cinque autori del Manuale concordano pienamente, e in questo si distinguono da altri che trattano argomenti simili o prossimi.
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Sarebbe improprio allora (noi, almeno, la pensiamo così) parlare di comunicazione allo stato puro, così come lo sarebbe il voler parlare di educazione escludendo dall’orizzonte la presenza delle soluzioni materiali (che sono molto più che sola materia) attraverso cui queste pratiche si realizzano. Diciamo e ribadiamo, dunque, che con la loro azione i mezzi segnano e talora addirittura determinano i due campi del comunicare e dell’educare, di qualunque natura e rilevanza e visibilità tecnologiche essi possano essere, dal gesto corporeo a Internet. E diciamo pure che nel segnare/determinare questi campi, i mezzi trattano forma e contenuto del sapere. Non c’è elemento di conoscenza che prescinda da una qualche matrice tecnologica. E su questo tornerò (torneremo) frequentemente. Ma attenzione! Il rilievo che vogliamo concedere alle tecnologie non significa che guardiamo solo agli aspetti esteriori del comunicare e dell’educare. L’ho già anticipato, ma voglio ribadirlo. Noi, qui, guardiamo anche e soprattutto ai momenti interni di quelle attività e a come quei momenti interni intervengono sulla forma e la materia dei momenti esterni. Si tratta allora di chiarire bene cosa positivamente si intende, o meglio cosa noi intendiamo qui per tecnologia. Preparatevi, le risposte saranno più di una. • In un’accezione più immediata – che però è lontana dalla nostra – tecnologia equivale a strumento: così, se uno parla di tecnologia digitale o tecnologia telematica l’altro intende subito (e nient’altro) computer e rete. • Un modo più denso e impegnativo di intendere il termine, relativamente più vicino al nostro, chiama in causa anche le dimensioni del sapere, soprattutto di quello strumentale: dunque, riprendendo l’esempio di prima si potrebbe pensare al sapere necessario per far funzionare computer e rete. • Noi, invece, puntiamo decisamente più in alto, intendendo la tecnologia non solo come apparato strumentale, e non solo come il sapere necessario a farlo funzionare, ma anche come l’insieme dell’elaborazione teorico-scientifica che fa da garanzia e sostegno alla messa a punto delle strumentazioni e dei modi del loro uso; pertanto, prendiamo in considerazione non solo il sapere che permette di utilizzare un computer e la rete e quello necessario a capire cosa sono come strumenti, ma anche il sapere che ci dà conto di come e quanto essi coinvolgono l’identità di chi li usa. Aspetto, quest’ultimo, di enorme rilievo per la delimitazione dello spazio di problemi che è proprio del comunicare e dell’educare. E allora, parlando di tecnologia digitale o telematica, diventa cruciale considerare quanto e come la sensibilità, i modi di pensare e i modi di agire degli utenti di questi mezzi siano segnati da quelle esperienze, e come e quanto i saperi stessi, generati e veicolati in quegli ambienti, ne portino ugualmente i segni e la forma. IL TERMINE
Tecnologia È tecnologia l’insieme di strumentazioni fisiche e concettuali che occupano e qualificano l’ampio spazio che intercorre tra la scienza e la tecnica, che per un verso contribuiscono a dare operatività alle innovazioni scientifiche e per un altro verso aspirano a dare una base di scientificità alle innovazioni tecniche. Tra queste due anime della tecnologia c’è continua oscillazione, raramente equilibrio. Nel clima culturale settecentesco di cui danno testimonianza gli enciclopedisti francesi, col determinarsi di una prima pronunciata attenzione per le novità che veniva-
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no dal mondo della tecnica, dell’artigianato e della nascente industria, e con la scelta di accostarle alle acquisizioni proprie della tradizione filosofica e scientifica, un simile equilibrio sembra potersi imporre. Ma non è stato così nei tempi successivi, fatta esclusione per alcune limitate fasi, come quella di fine Ottocento, segnata dal predominio delle filosofie di ispirazione positivistica. Nel corso del Novecento, a un periodo di egemonia della scienza sulla tecnica, intesa quest’ultima come mera applicazione, è subentrato un altro periodo, che confluisce nel presente, all’interno del quale la tecnologia sembra poter sopravanzare e rendersi talora indipendente dalla scienza: un fenomeno, questo, che in più ambiti di riflessione e azione ha alimentato disagi e preoccupazioni e che sta alla base della formulazione di tante distopie, cioè utopie negative o contro-utopie. Se al centro di tanti timori c’è stata, fino a qualche anno fa, la prospettiva di una scomparsa traumatica della società stessa, prodotta da una tecnologia distruttiva sfuggita al controllo, oggi questo senso di smarrimento sembra essere indotto dai rischi ai quali l’individuo ritiene di essere esposto per la sempre più invasiva immissione di tecnologia nel suo spazio privato, e nel suo stesso corpo. All’angoscia provocata dalla bomba è subentrata quella per un regime di comunicazione inteso come sempre più asfissiante e omologante, tale da compromettere gli spazi di libertà e di crescita autonoma della soggettività, e, su un diverso versante, per una inarrestabile artificializzazione del regime di vita del singolo. C’è, comunque, chi ritiene che su questi fronti l’azione educativa possa svolgere importanti azioni di sdrammatizzazione e di conseguente incremento dei livelli di consapevolezza, sia educando alla tecnologia, dunque al suo uso sapiente e consapevole, sia facendo della tecnologia stessa, criticamente intesa, una risorsa per l’educazione. Per il suo massiccio uso al plurale, il termine richiede ulteriori puntualizzazioni. Tecnologie e media (al singolare medium) sono parole che frequentemente viaggiano assieme, oggi, e il più delle volte appaiono intercambiabili. Ciò rischia di far generare disguidi e disorientamenti, soprattutto se questa seconda parola viene intesa come equivalente dell’espressione «mezzi di comunicazione di massa». Va chiarito, allora, che media è una parola di derivazione latina reintrodotta nell’uso comune tramite la sponda fornitale dalla lingua anglo-americana, che ce l’ha riproposta depurata di ogni aspetto che rimanda al paranormale (dove il medium è inteso come il soggetto che fa da intermediario fra i vivi e lo spirito dei morti) e centrata sul ruolo di intermediazione che si riconosce al mezzo materiale e al suo portato psicologico (dove, allora, ai media si attribuisce il ruolo di intermediare tra il soggetto e il mondo circostante, tra il soggetto e gli altri soggetti, tra il soggetto e se stesso). Saranno media, in questa accezione, tutte le risorse che compensano i limiti di conoscenza/esperienza/comunicazione dell’uomo o ne amplificano la portata: per fare esempi immediati, dagli occhiali (che appartengono alla categoria, in quanto compensano i limiti fisici del singolo) al microscopio. Ripetiamolo: sono inclusi, nella dizione, tutti i mezzi (non a caso si usa sovente il termine media anche al singolare), non solo certuni rispetto a certi altri. Ecco allora che appare improprio dare un significato universale alla dizione «mass media»: questi sono un sottoinsieme particolare della famiglia dei media, e designano determinati strumenti (la radio, il cinema, la televisione, ma per non pochi aspetti anche la stampa, che funge da matrice), il cui sviluppo è stato impetuoso dagli anni Trenta agli anni Ottanta del secolo scorso, nel mondo occidentale, e che hanno contribuito a imporre un’idea di «comunicazione pubblica» come processo centralizzato, unidirezionale, omologante. Va dunque chiarito, a questo proposito, che non tutti i media utilizzati massicciamente, oggi, sono di questo tipo. Non lo è il telefono come non lo è Internet, i quali hanno in comune il fatto di essere media interattivi, reticolari, personalizzanti. Ma va pure detto che ci sono spazi di ‘mediazione’ personale anche all’interno delle pratiche di ricezione dei mass media, peraltro interpretate nella maggioranza dei casi secondo i criteri della
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comunicazione totalizzante e omologante: è indubbio infatti che la scelta del telespettatore di sintonizzarsi su un canale o un programma piuttosto che su un altro e di concedere maggiore o minore attenzione a un messaggio, condividendolo o no, oppure, sul versante della produzione televisiva, la volontà di realizzare programmi che, nell’interpretare i gusti inespressi ma presenti nel pubblico, realizzino elevati indici di gradimento, non possono essere collocate dentro ottiche totali, al contrario ne documentano le continue possibili fuoriuscite. Vero è che i media interattivi sono talora usati anche come mass media (e viceversa, come ho appena detto), ma questo non autorizza a ridurre lo spazio di significazione del termine media e ad attenuarne il valore di «messa in forma dell’esperienza».
1.1.1 La scrittura, ad esempio Proviamo a vedere un caso specifico, e così iniziamo a saggiare il terreno elettivo di questo Manuale. Indubbiamente la scrittura è una tecnologia. Ma in che senso? In molti sensi, che vanno a collocarsi diversamente sui livelli di significato di cui abbiamo detto, e che, di conseguenza, coinvolgono diversamente l’aspetto educativo e comunicativo della questione. La prima accezione di scrittura coincide con l’indicazione dei mezzi attraverso cui tale tecnologia si manifesta, e questi sono sia di tipo intellettuale sia di tipo fisico/strumentale. Per intenderci: in «uno che scrive» presupponiamo il possesso dell’alfabeto (almeno nel nostro mondo), e di un set di strumenti (penna e foglio, gesso e lavagna ecc.). E perché un individuo diventi «uno che scrive» la società (la nostra società) prevede uno spazio e un tempo specifici, quelli della prima scolarizzazione, dove, appunto, si fa interiorizzare l’alfabeto e si insegna a usare penna e foglio (e gesso e lavagna). Nel significato intermedio, scrittura e tecnologia di scrittura equivalgono all’insieme delle procedure che fanno funzionare l’attività dello scrivere e la rendono funzionale a concreti scopi comunicativi. Qui si va al di là della semplice dimensione strumentale: «uno che scrive» è uno che conosce e fa conoscere tramite scrittura, dando dunque ai suoi pensieri quella specifica forma. Siamo portati a ritenere che attraverso una scolarizzazione completa si possa ottenere da ogni individuo questo risultato: ma ciò vale, tante volte, più per le intenzioni dichiarate che per le realizzazioni ottenute. Comunque vadano le cose, è considerato legittimo scandalizzarsi se un diplomato della scuola secondaria o, peggio, un laureato non sanno scrivere (anche se è tuttora presente, in specifiche zone degli apparati dell’istruzione, l’idea che il «saper scrivere» non sia insegnabile, con il che si negherebbe alla scrittura il suo essere tecnologia: ma questo è, a ben vedere, un altro discorso, che, se venisse accettato, renderebbe inutile questo stesso Manuale!). L’accezione più elevata di scrittura come tecnologia prende in considerazione, assieme agli strumenti e alle procedure per utilizzarli, la presa di coscienza dei modi di vedere, agire, pensare che sono propri di chi scrive, vale a dire della sua mentalità e, soprattutto, la presa di coscienza di come questa mentalità si differenzi da quella di chi non scrive (o anche da quella di chi scrive con strumenti e procedure del tutto diversi da quelli con-