Anteprima: Ci scusiamo per il disagio - In viaggio con Alberto Pagnotta

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CHIARA MENICHETTI

con fumetti di Mariano Rose e Alessio Fioriniello

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“«Io faccio le voci». Tranquillissimo, lineare, zero pressioni. Come fosse un ragazzo seduto da solo su una panchina, verso le tre del mattino, che guarda in su, verso il cielo. Tu ti preoccupi per la sua condizione psicofisica e allora gli chiedi: «Ehi, ma che fai?», per sentirti rifilare un «Io guardo le nuvole». O è ubriaco o è pazzo o è la persona che ti cambierà la vita così velocemente da non lasciarti il tempo necessario per rendertene conto.” Alberto Pagnotta oltre ad essere un attore e un doppiatore è un fenomeno del web che, al momento in cui scriviamo, vanta più di 120.ooo iscritti al suo canale YouTube. Su internet, Alberto imita, canta, intrattiene, commuove, con una voce dalla versatilità incredibile e con la passione di un bambino che non ha mai dimenticato che i cartoni animati esistono per farci sognare. Scoprite in questo libro, con un lungo racconto e degli splendidi fumetti, un personaggio che imparerete ad amare come altre decine di migliaia di persone già fanno.


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Ad Alberto, perché questo libro è dedicato proprio a lui. Non è la classica biografia, per la quale il diretto interessato ritaglia degli stralci di vita che, a suo parere, sono meritevoli di essere conosciuti. Perché se dovessimo davvero parlare di Alberto, dovremmo ritagliare un po’ tutto: è tutto da salvare, tutto da incollare, tutto da ammirare. Qua c’è la storia di un incontro mai avvenuto, di battute mai scambiate, c’è tutta la verità dell’accordo tra due anime, che un giorno si sono trovate. Alberto è stravaganza dove io sono sobrietà ed è razionalità dove io sono passione e pazzia. Ma tra queste righe non voglio parlare di me, se non di riflesso: è il ragazzo che fa ridere e commuovere Youtube, che si merita un ritratto nero su bianco. In tanti lo conoscono attraverso lo schermo, alcuni hanno avuto la fortuna di incontrarlo davvero; io ho avuto l’onore di scoprirlo nella quotidianità, tra una colazione in trasferta e un tuffo al mare i primi di giugno, nel regalino sotto l’albero di Natale e nei singhiozzi strozzati durante i film. Ed è proprio l’aver visto tutto questo di Alberto, che mi ha ispirato e spinto a scrivere di lui e con lui, perché lo percepivo, seduto accanto a me, mentre pensavo a quella che doveva essere una sua battuta, mi diceva: “ma smettila, questo non è proprio da me”, e allora io cancellavo con un sospiro, pensando che in fondo il libro era per lui e dovevo accontentarlo. Distanti, ma sempre vicini, in ogni modo in cui si possa intendere tutto questo. Scommetto che ognuno di voi vive un rapporto del genere e sa che cosa intendo. No day, but today. Questo è per te, Sbady.


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E a tutti coloro che sognano, in grande, in piccolo, che sperano in qualcosa di irrealizzabile, che custodiscono nell’anima un desiderio che si fa spazio tra cuore e mente e che sa sussurrare piano all’orecchio “non mollare mai”.

A tutti voi dico: grazie per crederci sempre. Non fermatevi mai.


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CI SCUSIAMO PER IL DISAGIO: IN VIAGGIO CON ALBERTO PAGNOTTA Correva l’anno 2017 Stazione di Pesaro. Ore 05.50. È aprile, ma fa davvero freddo. Una ragazza sulla ventina corre come una disperata con un trolley fucsia appresso. Alcune onde rosse le ballano sulle spalle, la tutina a fiori che indossa le sta malissimo ed è in netto contrasto con il giacchetto di jeans di taglio maschile. Nessuno la rincorre, ma nessuno sembra nemmeno aspettarla. Una manciata di persone, tutte in attesa di un treno o dell’altro, assistono noncuranti a quella che potrebbe essere una corsa epica, stile Forrest Gump, per capirci. Correre è tra quelle attività che oscillano incessantemente tra il semplice e il complicato: perché in realtà si tratta di saltellare, spingendosi in avanti e cercando di mantenere un ritmo perlopiù costante. Ma quando tutti i “te l’avevo detto che non sei capace nemmeno di prendere un treno da sola” si agganciano a quella che dovrebbe essere la maniera più efficace per non pensare, allora la faccenda si fa più complessa. Questo potrebbe sembrare, effettivamente, l’incipit di un romanzo giallo, imbottito di azione, cosparso d’amore e suspense, se non fosse che quella pazza sono io. Diciannovenne, alla ricerca di una preghiera abbastanza potente, che faccia tardare la partenza del treno di almeno due minuti. Roma mi aspetta, e mi auguro che anche il treno lo faccia. Non so come, ma ci riesco. Mi spingo trascinando lentamente gambe e trolley fino alla mia carrozza, poi, finalmente, mi abbandono sul sedile. Nel compiere questa banalissima


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azione (che ora come ora sembra tutto tranne che facile), travolgo con il trolley il ragazzo seduto di fronte a me che, grazie a Dio, non mi riserva la solita espressione contrariata che incrocio ogni qualvolta decida di investire qualcuno con il mio bagaglio fucsia con le paillette sul manico. In ogni caso, odio gli Intercity notturni, tanto quanto odio i postumi dopo l’ennesima sbornia. Appunto dalla regia (perché stage direction fa troppo figo per un libro così) : mai bere per festeggiare in anticipo… soprattutto se nel giro di qualche ora devi salire su un maledettissimo treno. Però vado a Roma. A fare che, vi chiederete? Le Olimpiadi della filosofia! E, no… non devo spiegare il concetto nietzschiano di “eterno ritorno” saltando la corda. Un saggio filosofico, redatto in lingua straniera, mi sembra più che sufficiente. In realtà non so nemmeno come sia finita qui. Passare la fase d’istituto e quella regionale non è stato difficile, mi sono divertita: ma Roma non me l’aspettavo proprio. Non sono una filosofa, non so concettualizzare il dolore, a malapena so imprecare quanto il mignolo del piede destro va a sbattere contro una delle gambe della scrivania. Però mi ripeto che sarà un’esperienza e che tornerò cambiata. Perché quando si parte e si sta lontani da casa anche solo per qualche giorno, si ritorna sempre un po’ diversi. Magari non nell’aspetto o negli atteggiamenti più superficiali, ma nel profondo, in quell’Io di cui tutti parlano ma che in pochi conoscono davvero. I viaggi ti cambiano la vita, semplicemente perché incontri persone. E le persone ti stravolgono, se ti lasci stravolgere.


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Ma torniamo al treno, anzi sul treno perché ho perso un polmone per salirci e quindi rimaniamoci. Ho quasi travolto quel ragazzo con il trolley… poi magari mi scuso. Però ora vorrei chiudere gli occhi per un istante, ascoltare il mio pezzo preferito della playlist nel telefono e maledirmi in silenzio per tutto l’alcool in circolo. E invece no, perché lui, proprio il simpatico travolto sopracitato, ha deciso di guardarsi i Simpson a volume un po’ troppo alto. Sollevo le palpebre che avevo precedentemente abbandonate a loro stesse, mi preparo il classico discorsetto da acida seriale e rimango di sasso. La voce di Homer non sembra proprio provenire dal telefono.

Ce l’ho… in carrozza!

… fatta! Eccooooooooomi!


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“Se mi fissi ti cancello” Libera Reinterpretazione di Se mi lasci ti cancello Ore: 06.10. Lo fisso con un’espressione tra l’entusiasmo e la confusione. Sarò onesta, non è che guardi i Simpson più di tanto. Vi prego, non giudicatemi. Rimane il fatto che ho davanti a me Homer e non so proprio che dirgli. Me lo aspettavo più grosso, più giallo e pure più sciatto. E invece no, se ne sta sulle sue, avvolto in una pseudo sciarpa di due, o tre o quaranta collezioni fa e continua a parlare al telefono. Alza lo sguardo, sembra accorgersi dei miei occhi puntati su di lui, simil-riflettori, e lo riabbassa di colpo. (Grazie per essere rimasto folgorato dalla mia persona, è stato lo stesso per me). Ed ecco che abbassa il tono di voce, ora sussurra. E non c’è cosa che io detesti di più delle frasi pronunciate sottovoce. O aspetti di scendere dal treno, o mi racconti la storia della tua vita. Appunto dalla regia: farla finita con “Gossip Girl”: chi si fa gli affari propri campa cent’anni. Occhiali neri sul naso e la strategia del “guardo se mi guarda” può avere inizio. Se lo scopro a fissarmi, ho una buona scusa per intavolare la conversazione. Ore 06.30. Niente. Continua a starsene al telefono, a inviare quelli che presumo siano messaggi vocali. E pare si tratti sempre di Homer.


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Ore 06.35. Mi metto a sbattere le ciglia nel tentativo che mi noti. Mi accorgo di avere ancora gli occhiali addosso. Appunto dalla regia: accettare di essere meno furba dei bambini che sperano di imparare qualcosa guardando “Dora l’esploratrice” sarebbe un gesto di grande onestà verso me stessa. Ore 06.45. I veri appassionati delle love-story trasmesse nel primo pomeriggio ora si immaginano il casuale sfiorarsi delle mani, nel magico momento in cui il cielo assume quella tonalità tra il rosa e il celeste chiarissimo, quando il cuore aspetta solo di battere in piena sintonia con un altro. E sarebbe probabilmente finita così, se la mia impazienza non avesse avuto la meglio. Aspetto che sollevi lo sguardo. Gli sorrido. Mi sorride, confuso. “Disturbo?” “Magari io. Forse parlavo a voce troppo alta”. Voce bellissima. Tipo quelle dei narratori all’inizio dei film, quelle che ti stordiscono, che ti cullano quando al cinema stai scomodo su una poltrona troppo piccola, circondato da coppie di innamorati che si sbaciucchiano al ritmo delle battute che teoricamente non dovresti perderti se davvero ti interessasse qualcosa del film, no? Cioè spiegatemi la necessità di risucchiarvi le anime mentre Rose del Titanic, che sta già iniziando a sentire un certo freddino, dice a quel bellimbusto del suo ragazzo che preferisce essere la puttana di Jack


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piuttosto che la moglie del suddetto bellimbusto. Posso capire un bel grido di rivalsa, sprigionato da quella suffragetta che è dentro ognuna di noi, oppure un bell’applauso, ma la pomiciata non la giustifico. Torniamo però a quel timbro dolce, rassicurante, che a pensarci bene non ha nulla a che vedere con quello del capo famiglia Simpson. Ritiro la precedente affermazione sui romanzi del mistero: qui si tratta veramente di un giallo. E, in assenza della signora Fletcher, e pure di Don Matteo (che saluto concettualmente con indescrivibile affetto) tocca a me intervenire. “Ma figurati, quale disturbo! È che ho sentito la voce di Homer Simpson, e mi sembrava provenisse proprio… *cerca di dirmi qualcosa* sì, insomma, che fossi tu… *tenta di fermarmi* sicuramente mi sono sbagliata e se così fosse dovrei anche chiederti scusa… (se mi interrompe lo fucilo) ma visto che non ci conosciamo mi sento quasi in diritto di lasciare stare, capisci…” Si mette a ridere (appena entriamo in confidenza glielo dico che non deve prendermi in giro quando sono già abbastanza in imbarazzo). “Io faccio le voci”. Tranquillissimo, lineare, zero pressioni. Come fosse un ragazzo seduto da solo su una panchina, verso le tre del mattino, che guarda in su, verso il cielo. Tu ti preoccupi per la sua condizione psicofisica e allora gli chiedi: “Ehi, ma che fai?”, per sentirti rifilare un “Io guardo le nuvole”. O è ubriaco o è pazzo o è la persona che ti cambierà la vita così velocemente da non lasciarti il tempo necessario per rendertene conto.


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“Beh sì, ecco, è un po’ evasiva come risposta”. Prendo posizione, perché è straordinario, e forse è ancora più assurdo il fatto che lo faccia passare come qualcosa di ordinario. Voglio saperne di più, devo saperne di più. Un risolino, le labbra si incurvano e si intravedono i denti: sembra quasi in imbarazzo. Si sistema i capelli indietro, massaggiandosi la fronte come se avvertisse delle gocce di sudore. Ma siamo su un Intercity, alle sei del mattino, con un’aria condizionata che permette ai viaggiatori di potersi gustare l’ebbrezza di un rinfrescante soggiorno in Scandinavia. (E se preferite una narrazione più esplicita: fa un freddo che si muore). “È che non mi piace parlare di me”. Lo dice con dolcezza, si può percepire persino una nota di timidezza nella voce, ma questo non rende meno fastidioso il contenuto della frase. Non può non volere parlare di sé con me. Cioè sì, sono una sconosciuta ancora un po’ brilla, ma ho un viso affidabile, sono veramente una tipa a posto. Dovrei spiegargli che «non volere parlare di sé» con me equivale a non volersi confessare durante una full-immersion di una settimana in un convento di suore. È sbagliato, eticamente scorretto. E non si tratta soltanto di essere «così insoddisfatti della propria vita, da dover ripiegare sulle intriganti esistenze degli altri»… come sosterrebbe mia madre… ma più di un desiderio di leggere attraverso gli occhi di quegli sconosciuti che si siedono proprio davanti a noi, sul treno, e che in realtà ci accompagnano attraverso un tragitto, che è solo parte di un viaggio più grande. Perché la signora con la maglia color senape e la treccia un po’ spettinata, che accarezza quello che presumo sia il suo gattino, e che intravedo appena, avrebbe sicuramente una bella storia da raccontarmi, se solo glielo chiedessi.


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Ma adesso c’è lui davanti a me, un ragazzo di cui non so nulla (e, se continuiamo su questa linea, di cui non saprò mai nulla) che, forte di questa sua particolarità, mi fa sentire meno sola, in un mondo in cui le persone fanno a gara per essere le une perfettamente identiche alle altre. “Concedimi almeno di sapere come ti chiami. Giuro che non lo racconto in giro”. Appunto dalla regia: accertarsi di avere a che fare con una persona che concepisce e accetta il concetto di ironia/ sarcasmo, al fine di non risultare saccente o arrogante, è il primo passo per socializzarci. Ride di gusto mentre allunga la mano verso di me: “Alberto”. “Alberto…?” “Pagnotta. E tu?” “Chiara”. “Chiara…?” “Chiara è più che sufficiente”. Rimaniamo per qualche secondo con le mani incollate l’una nell’altra e la cosa non mi imbarazza più di tanto: è davvero strano, per una che detesta il contatto fisico. “E così fai le voci”. Interrompo quell’atmosfera da libro di Nicholas Sparks, ripartendo proprio da dove ci eravamo interrotti, perché «dove eravamo rimasti?» non mi è mai piaciuto. Un cliché, persino un tantino ipocrita: ogni donna sa dove è stato messo un punto e virgola in un particolare discorso. Perché è proprio lì che è stato eretto il grande aeroporto per viaggi mentali di cui ognuna di noi si occupa con dedizione.


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“Sì, più che altro doppio e imito voci già esistenti”. “Genere? Oltre Homer Simpson ovviamente”. “Non saprei, Pixar, Disney…” “Davvero? Puoi farmi la voce di…” “Partiamo bene…” lo accenna appena, ma lo avverto benissimo: fingo comunque di non averlo sentito. “Non vorrei essere invadente” (e invece volevo esserlo davvero, mannaggia a me!). “Figurati. Magari fra poco ti faccio sentire qualcosa, non vorrei disturbare gli altri passeggeri che stanno riposando”. Vorrei tanto dirgli che la sua precedente imitazione di Homer Simpson ha allietato anche il macchinista, ma rischierei di risultare antipatica e non mi pare proprio il caso. “A che altezza ti fermi?” gli chiedo. “Un metro e settantacinque. Il medico ha detto che arrivato a quest’età non posso più sperare di crescere”. “Questa era pessima”. “Volevo essere simpatico”. “Mi ricordi mio padre”. “Mi sembra di essere in un film”. “Se la conversazione continua così finisci in un libro”. “Scrivi?” “Dalla prima elementare, all’incirca”.


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“Sei simpatica”. “Sembra uno di quei complimenti forzati con cui si descrivono le ragazze brutte, quando si vuole evitare di offenderle”. “Viaggi parecchio”. “Preferibilmente senza biglietto”. “Una sognatrice”. “Semplicemente spendi meno”. “Non ti credo. Mask off”. “Mi stai accusando di recitare?” “Se lo facessi, avremmo anche questo in comune”. “Studio recitazione”. “E ti piace?” “Sei uno dei primi che non mi chiede se sono brava”. “Vorrei potertelo dire io. A pelle, ti direi che lo sei”. “Adulatore… A proposito, le sai fare Adelina e Guendalina Bla Bla de Gli Aristogatti?” “Ci risiamo…” “Guarda che quando bisbigli ti sento!”


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VOGLiO SAPERE TUTTOOOOO!

Be’… io faccio le voci! Le… voci?


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Posso portarti un altro caffè? Ho appena speso gli ultimi otto euro che avevo…

E fammelo doppio!

un bicchiere d’acqua?

Cosa ti porta da queste parti?

Non proprio, mio caro Ambrogio…

A caccia di autografi?

Uno che inseguo da tanto.

Veramente mi chiamo Saverio. … sono qui con un obiettivo. Hai voglia di raccontar-Tuuuuuutto ebbe inizio con una foto su instagram e un messaggio.

“È arrivato. Sarà presente a Venezia.”


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è dal 2005 che vengo alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia.

Ho incontrato star di altissimo calibro…

… e ho condiviso con loro momenti indimenticabili.

Quest’anno invece la missione era una e una sola.


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Calpestavo il suolo che anche lui (probabilmente) aveva percorso.

Dalla documentazione risultava che il mio idolo, l’attore che più di tutti mi aveva ispirato, era in città.

Respiravo la sua stessa aria. Ammetto di essermi fatto trascinare dall’emozione…

… forse dalla fantasia.

Ma non è facile incontrare chi ti ha cambiato la vita, chi ti ha fatto crescere ed emozionare “solo” con il proprio lavoro.


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Forse prevaleva la gioia, forse il sano terrore, non saprei dire‌ ‌ sapevo solo di dover ideare un piano.

Uno per incontrarlo!

E il piano prevedeva la mimetizzazione assoluta.


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Corpo di mille sargassi, mio buon Jim!

Pagnottania, terra di giusti!

Vorremmo coinvolgerla in un nuovo progetto, Signor Carrey, lei e Maurizio Costanzo!

Jim, un giorno tutto questo sarà tuo.

Alla fine optai per qualcosa di più pratico ed “elegante”. QUESTA. E’. SPARTA!! Mmm...


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Perfetto. il primo passo poteva dirsi compiuto. Trasformazione riuscita.

Era tempo di agire. Alla pagno-gondola!


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CHIARA MENICHETTI,

nata a Pesaro nel 1998, si trasferisce nel 2017 a Firenze per frequentare la facoltĂ umanistica di Progettazione e gestione di eventi culturali. Proprio qui, nei viaggi in treno tra Pesaro e Firenze, prende vita Ci scusiamo per il disagio - In viaggio con Alberto Pagnotta che abbraccia intrinsecamente tante delle sue passioni, quali arte, cinema e spettacolo, attraverso il filo rosso del suo percorso: la scrittura.


“Più persone, nell’incontrarmi, cominciarono a chiedermi se fossi davvero io quell’Homer Simpson del canale YouTube e ho iniziato ad ironizzarci su. Hai presente la scena di Alla ricerca di Nemo quando Bob, Ted e Phil insistono con Marlin sulla questione «Ma tu sei un pesce pagliaccio, sei un comico! Racconta una barzelletta!»? Ecco, con me funziona più o meno nello stesso modo: «Ma tu sei Alberto Pagnotta, sei un doppiatore! Fai Homer Simpson!»”

EURO 18,00

Chiara incontra Alberto Pagnotta sul treno... senza conoscerlo... ma lei è curiosa per natura e da ciò nasce una rocambolesca chiacchierata di scoperta di uno dei più interessanti fenomeni della rete degli ultimi anni. Un attore, un doppiatore, uno youtuber... ma soprattutto una splendida persona!

www.manfont.com www.facebook.com/ManFontComics www.youtube.com/user/AlbertPagnos88


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