Giornata Mondiale dell'Ambiente, Repubblica

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la Repubblica

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UE ANNI FA UN AVVOCATO DELL’INDIANA mi spedÏ un assegno di settantottomila

dollari. Erano soldi di mio zio Walt, morto sei mesi prima. Non mi aspettavo del denaro da lui, nĂŠ tantomeno contavo su una somma del genere, cosĂŹ pensai di destinare l’ereditĂ a uno scopo speciale, in onore della memoria di Walt. Si dĂ il caso che la mia compagna, una californiana, mi avesse promesso di partire assieme a me per una bella vacanza, in segno di gratitudine per la comprensione che le avevo dimostrato nel momento in cui era dovuta rientrare a Santa Cruz per badare alla madre novantaquattrenne, che aveva perso la memoria a breve termine. Mi aveva detto, d’impulso, ÂŤTi accompagno ovunque tu vorrai, dove saresti sempre voluto andareÂť. Al che, per ragioni che non so spiegare, risposi ÂŤAntartide?Âť. Il modo in cui spalancò gli occhi avrebbe dovuto mettermi sull’avviso. Ma una promessa è una promessa. Nella speranza di rendere l’Antartide piĂš appetibile alla mia mite californiana, decisi di spendere i soldi di Walt prenotando il piĂš lussuoso dei viaggi — tre settimane in Antartide, arcipelago della Georgia del Sud e isole Falkland, con una spedizione Lindblad-National Geographic. Versai una caparra e non senza apprensione presi a ironizzare con la californiana sul freddo indecente e i flutti del Polo Sud di cui si era fatta vittima consenziente. Le garantivo di continuo che alla vista del primo pinguino sarebbe stata felice del viaggio. Ma al momento di saldare la quota mi chiese di rimandare di un anno la partenza, se possibile. Le condizioni di sua madre erano instabili ed era restĂŹa a spostarsi cosĂŹ irrimediabilmente lontano da casa. A quel punto anch’io avevo maturato una certa avversione per il viaggio, non riuscivo quasi a ricordare perchĂŠ poi avessi proposto proprio l’Antartide. L’idea di vederlo “prima che si sciolgaâ€? era tetra e si annullava da sola: perchĂŠ invece non aspettare proprio che si sciogliesse, BVUPFMJNJOBOEPTJ dalla lista delle destinazioni? Mi scoraggiava anche la valenza di trofeo attribuita al settimo continente, una meta troppo remota e costosa per il turista comune. Era vero che vi si potevano vedere uccelli straordinari, oltre ai pinguini specie rare come il chione bianco e l’BOUIVT BOUBSDUJDVT, l’uccello canterino che vive piĂš a sud sulla Terra. Ma la fauna antartica è numericamente limitata e mi ero giĂ rassegnato all’impossibilitĂ di vedere tutte le specie avicole del mondo. Il motivo piĂš valido che potessi immaginare per il viaggio in Antartide era che non rientrava nei nostri schemi; la californiana e io sapevamo per esperienza che la vacanza ideale per noi era di tre giorni. Pensai che restando tre settimane in mare senza possibilitĂ di fuga, lei e io, potevamo scoprire in noi nuove risorse. Avremmo vissuto un’esperienza da condividere per il resto della nostra vita. CosĂŹ acconsentii a posticipare di un anno. Mi trasferii io a Santa Cruz. Poi la madre della californiana subĂŹ una brutta caduta e la californiana aveva ancora piĂš remore a lasciarla sola. Resomi conto, infine, che non era mio compito complicarle ulteriormente la vita, la esonerai dal viaggio. Per fortuna mio fratello Tom, l’unica persona con cui riuscivo a immaginare di condividere per tre settimane una cabina di dimensioni ridotte, era appena andato in pensione e si prestò come sostituto. Prenotai due letti singoli al posto del matrimoniale e ordinai stivali di gomma termoisolanti e una guida riccamente illustrata della fauna antartica. Anche cosĂŹ però, all’approssimarsi della partenza, non riuscivo a dire che andavo in Antartide, era piĂš forte di me. ÂŤA quanto pare vado in AntartideÂť, ripetevo. Tom si diceva elettrizzato ma in me non faceva che crescere una sensazione di irrealtĂ , l’incapacitĂ di provare trepidazione. Forse era perchĂŠ l’Antartide mi ricordava la morte — la morte ambientale incombente per via del riscaldamento globale, o il limite ultimo per vedere quella terra, rappresentato dalla mia stessa morte. Presi però ad apprezzare intensamente il ritmo della quotidianitĂ con la californiana, la vista del suo viso la mattina, il rumore della serranda del garage al suo ritorno dalla visita serale alla madre. Feci la valigia piĂš che altro in obbedienza all’importo giĂ versato.

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ST. LOUIS, NELL’AGOSTO DEL 1976, in una serata ab-

bastanza fresca da poter cenare in veranda con i miei genitori, mia madre si alzò per rispondere al telefono della cucina e subito chiamò mio padre. ÂŤĂˆ IrmaÂť, disse. Irma era la sorella di mio padre che viveva con Walt a Dover, Delaware. Evidentemente era successa una cosa terribile perchĂŠ ricordo me in cucina, in piedi accanto a mia madre, e mio padre che interrompe Irma, qualunque cosa stesse dicendo, e urla nella cornet-

ta, come in collera, ÂŤ*SNB NJP %JP NB Ă’ NPSUB Âť. Irma e Walt erano i miei padrini, ma non li conoscevo bene. Mia madre non sopportava Irma — sosteneva che fosse stata estremamente viziata dai genitori, a spese di mio padre, e sebbene tra i due Walt doveva essere il piĂš simpatico, un colonnello dell’aeronautica in pensione passato all’incarico di tutor in una scuola superiore, lo conoscevo soprattutto per via di un libro autopubblicato che ci aveva mandato, intitolato (PMG FDMFU UJDP, pillole di saggezza golfistica che io, leggendo tutto il leggibile, avevo letto. Chi avevo visto piĂš spesso era Gail, l’unica figlia di Walt e Irma. Era una ragazza alta, bella e baldanzosa, che quando era all’universitĂ nel Missouri spesso passava a trovarci. Si era laureata l’anno prima e aveva trovato lavoro come apprendista da un argentiere nel centro storico di Williamsburg, in Virginia. Irma chiamava per dirci che Gail, in viaggio da sola, di notte, sotto un diluvio, per andare a un concerto rock in Ohio, aveva perso il controllo dell’auto su una delle strette e tortuose superstrade del West Virginia. Anche se Irma evidentemente non riusciva a dirlo, Gail era morta. Avevo sedici anni e sapevo cos’era la morte. Eppure, forse perchĂŠ i miei non mi portarono con loro al funerale, non piansi nĂŠ mi afflissi per Gail. Mi sembrava piuttosto di avere la sua morte in testa — come se il reticolo dei ricordi di lei, cauterizzato da un ago atroce, costituisse uno spazio nullo, un’area di veritĂ essenziale, negativa. Era uno spazio troppo vietato per accedervi consciamente, ma lĂŹ, dietro un cordone mentale, avvertivo l’irreversibilitĂ della morte della mia cara cugina. A un anno e mezzo dall’incidente, quando ero matricola in Pennsylvania, mia madre mi mandò l’invito di Irma e Walt a passare un fine settimana da loro, con l’ordine inderogabile di accettare. Nel mio immaginario la casa di Dover simboleggiava l’area di veritĂ negativa che avevo in testa. Ci andai in preda a un timore che la casa non fece che giustificare. Aveva l’ordine, l’etichetta e la pulizia opprimente di una residenza ufficiale. Le tende fino al pavimento, nella loro rigiditĂ e precisione di drappeggio, lasciavano intendere che nessun fiato o movimento di Gail le avrebbe mai scomposte. La chioma di mia zia era immacolata e appariva rigida come le tende. Il biancore del viso era enfatizzato da un rossetto cremisi e da pesanti tratti di eyeliner. Appresi che solo i miei genitori chiamavano Irma Irma; per tutti gli altri era Fran, diminutivo del suo cognome da nubile. Temevo una scena madre di cordoglio, invece Fran riempĂŹ i minuti e le ore parlando incessantemente, con voce forzata, troppo alta. I discorsi — sull’arredamento della casa, l’amicizia con il governatore del Delaware, la rotta presa dalla nazione — erano squisitamente noiosi, cosĂŹ avulsi dal comune sentire. Poco alla volta Fran mi parlò di Gail alla stessa maniera: la peculiaritĂ del carattere di Gail, il suo straordinario talento artistico, l’estremo idealismo dei suoi progetti futuri. Io parlai pochissimo, come Walt. Il blaterare di mia zia era insopportabile ma avevo forse giĂ intuito che lo spazio che abitava era in sĂŠ insopportabile, e quell’altero disquisire sul nulla, senza interruzione, era il modo per riuscire a sopravvivervi, l’unico modo che aveva in realtĂ per consentire al visitatore di sopravvivervi. Fondamentalmente compresi che Fran era uscita di senno per accomodamento. A darmi tregua da lei quel fine settimana fu solo il giro in auto con Walt a vedere Dover e la base aeronautica. Walt era snello, alto, di etnia slovena, con il naso aquilino e un accenno di capelli dietro le orecchie. Lo chiamavano Pelato. Tornai da lui e Fran altre due volte durante l’universitĂ e loro vennero alla mia laurea e al mio matrimonio poi, per molti


la Repubblica

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anni, i contatti si limitarono agli auguri di compleanno per cartolina e ai resoconti di mia madre (sempre coloriti dall’antipatia per Fran) delle soste obbligate sue e di mio padre a Boynton Beach, Florida, dove Fran e Walt si erano trasferiti in un complesso residenziale che gravitava attorno al golf. Ma in seguito, dopo la morte di mio padre, mentre mia madre perdeva la sua guerra contro il cancro, avvenne una cosa buffa: Walt si prese una cotta per lei. Fran ormai del tutto demente, affetta da Alzheimer, era ricoverata in una casa di cura. Dato che anche mio padre aveva avuto l’Alzheimer, Walt aveva telefonato a mia madre in cerca di consiglio e commiserazione. A sentir lei era venuto a St. Louis di sua iniziativa e i due, stando assieme da soli per la prima volta, avevano scoperto di avere molto in comune — erano entrambi degli ottimisti innamorati della vita, a lungo sposati con un Franzen rigido e depresso — tanto che tra loro si stabilĂŹ una complicitĂ sconcertante, preludio a un’intimitĂ romantica. Walt l’aveva portata in centro a mangiare nel ristorante che le piaceva tanto e dopo, al volante della sua auto, aveva graffiato il paraurti contro il muro di un’autorimessa; i due, ridacchiando, un po’ brilli, avevano concordato di dividere a metĂ la spesa del carrozziere senza dire niente a nessuno. (Walt alla fine lo disse a me). Subito dopo la visita di Walt mia madre si aggravò e andò a Seattle a passare i suoi ultimi giorni a casa di mio fratello Tom. Walt aveva in mente di andare a trovarla e continuare quello che avevano iniziato. Lui proiettava ancora nel futuro il sentimento che li legava. Lei ne aveva una consapevolezza dolceamara, provava tristezza per le opportunitĂ che sapeva di aver perduto. Fu mia madre a rivelarmi che gioiello fosse mio zio, e furono lo sgomento e il dolore di Walt quando lei morĂŹ all’improvviso, senza che avesse potuto rivederla, ad aprire la porta alla nostra amicizia. Aveva bisogno che qualcuno sapesse che si stava innamorando di lei, conoscesse la gioia di quella sorpresa, e capisse il dolore acuto della sua perdita. PerchĂŠ anch’io negli ultimi anni di vita di mia madre avevo sentito crescere in maniera sorprendente l’ammirazione e l’affetto che nutrivo per lei e dato che avevo molto tempo a disposizione — ero divorziato, senza figli, sottoccupato e ora orfano — divenni l’interlocutore di Walt. Quando andai per la prima volta a trovarlo nel sud della Florida qualche mese dopo la morte di mia madre, seguimmo il classico iter locale: nove buche al golf del suo condominio, qualche giro di bridge con due suoi amici novantenni a Delray Beach e una sosta alla casa di riposo dove era ricoverata mia zia. La trovammo rannicchiata in posizione fetale nel letto. Walt le diede da mangiare un gelato e un budino, imboccandola teneramente. Quando arrivò l’infermiera a cambiarle un cerotto sull’anca, Fran scoppiò in lacrime, il volto contratto in una smorfia da neonato, lamentandosi che le faceva male, tanto male, che era orribile, che non era giusto. La lasciammo con l’infermiera e tornammo a casa. Molti degli arredi formali di Fran erano arrivati al suo seguito da Dover, ma ora la semina da scapolo di riviste e scatole di cereali ne allentava la stretta letale. Walt mi raccontò con pura commozione della perdita di Gail e dell’esigenza di sistemare le sue vecchie cose. Volevo prendermi qualche suo disegno? Mi avrebbe fatto comodo la Pentax SLR che lui le aveva regalato? I disegni sembravano esercitazioni scolastiche e non mi serviva una macchina fotografica, ma intuivo che Walt stava cercando un modo per disfarsi di cose che non sopportava di dare semplicemente in beneficienza. Gli dissi che ero felicissimo di prenderle. VkVSIyMjVm9sb0Vhc3lSZWFkZXJfQ2FtZXJhIyMjZ2EuY2FtZXJhIyMjU2VnbmFsaWJyaSMjIzA1LTA2LTIwMTYjIyMyMDE2LTA2LTA2VDExOjQyOjU2WiMjI1ZFUg==

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di imbarcarci sul volo charter per l’estrema propaggine meridionale dell’Argentina, Tom e io partecipammo al ricevimento di benvenuto della Lindblad in una sala del Ritz-Carlton. Dato che il prezzo delle cabine sulla nostra nave, la National Geographic Orion, partiva da ventiduemila dollari per arrivare a quasi il doppio, mi ero preparato a fare il viaggio con un certo stereotipo di plutocrate amante della natura — pensionati con la pelle cotta dal sole con mogli trofeo e residenza in paradisi fiscali, magari qualche volto noto della tv. Ma avevo sbagliato i conti. Scoprii che per quel genere di clientela erano previsti degli yacht speciali. La gente che gremiva la sala ricevimenti era meno appariscente di quanto mi aspettassi e meno ottuagenaria. Parecchi di noi erano semplicemente medici o avvocati e, su cento persone, di uomini con pantaloni ascellari ne vidi solo uno. La terza delle grandi paure che nutrivo a proposito della spedizione, dopo quella di soffrire il mal di mare e di disturbare russando mio fratello, era che non si dedicasse sufficiente impegno a individuare gli esemplari delle rare specie di uccelli dell’Antartide. Dopo il saluto di un componente dello staff della Lindblad, un australiano a cui la compagnia aerea aveva perso il bagaglio, e un primo giro di domande, alzai la mano presentandomi come ornitologo e chiesi se nel gruppo ce ne fossero altri. Speravo di trovare una compagine nutrita ma vidi solo due mani in aria. L’australiano che aveva definito ÂŤottimeÂť tutte le domande precedenti non elogiò la mia. Disse, restando sul vago, che sulla nave ci sarebbero stati membri dello staff che sapevano il fatto loro in ornitologia. Venni presto a sapere che le mani alzate appartenevano agli unici due passeggeri che non avevano pagato la tariffa piena. Erano una coppia di conservazionisti cinquantenni, Chris e Ada, di Mount Shasta, California. Ada aveva una sorella che lavorava per la Lindblad, e spesso le veniva offerta una cabina a prezzo stracciato dieci giorni prima della partenza, a seguito di una qualche disdetta. Questo me li fece sentire ancora piĂš affini. Pur potendomi permettere la tariffa piena, se fosse stato per me non avrei scelto una crociera con la Lindblad; l’avevo fatto per la californiana, per alleviarle l’impatto con l’Antartide, e mi sentivo anch’io un turista di lusso per caso. Il giorno successivo, all’aeroporto di Ushuaia, in Argentina, Tom e io ci ritrovammo in fondo alla lenta fila del controllo passaporti. Su sollecitazione della Lindblad, prima di partire avevo pagato la “tassa di reciprocitĂ â€? che l’Argentina impone ai turisti americani, ma Tom era stato in Argentina tre anni prima e non aveva potuto effettuare un nuovo pagamento online. Si era stampato una copia della negata autorizzazione e l’aveva portata con sĂŠ, immaginando che assieme ai timbri argentini sul passaporto gli avrebbe consentito di passare il confine. Invece no. Mentre gli altri passeggeri Lindblad salivano sui bus che ci portava a fare una crociera in catamarano per pranzo, noi restammo a supplicare un funzionario dell’immigrazione. Passò mezz’ora. Passarono altri venti minuti. Gli assistenti della Lindblad si strappavano i capelli. Infine, quando ormai pareva proprio che avrebbero autorizzato Tom a pagare la tassa una seconda volta, corsi fuori e salii sul bus, irrompendo in un mare di occhiatacce. Il viaggio non era ancora iniziato e io e Tom e eravamo giĂ fonte di problemi. A bordo della Orion, Dough, il capo spedizione, convocò tutti noi nel salone della nave e ci accolse carico di dinamismo. Doug era tarchiato, con la barba bianca, un passato da scenografo. ÂŤQuesto viaggio è il massimo!Âť disse al microfono. ÂŤIl migliore, con il migliore tour operator, nel posto piĂš bello del mondo. Sono emozionato quanto voiÂť. Si affrettò ad aggiungeSANTIAGO, LA SERA PRIMA

re che non era una crociera, ma una spedizione e ci avvertĂŹ che, all’occorrenza, lui e il capitano non si sarebbero fatti problemi a TUSBDDJBSF JM QSPHSBNNB, gettarlo via e B BOEBSF JO DFSDB EFMMB HSBOEF BWWFOUVSB. Nel corso della navigazione, proseguĂŹ Doug, due membri dello staff avrebbero dato lezioni di fotografia, e seguito individualmente i passeggeri che intendevano migliorare i loro scatti. Altri due avrebbero fatto immersioni, ove possibile, per fornirci ulteriori immagini. L’australiano che aveva perso il bagaglio non aveva perso il drone ultimo modello, dotato di videocamera ad alta definizione, che aveva ottenuto il permesso di usare nel nostro viaggio a seguito di nove mesi di battaglie. Anche il drone avrebbe fornito immagini. Era inoltre presente a bordo un cameraman incaricato di produrre un dvd che avremmo potuto acquistare alla fine. Ebbi l’impressione che altri in sala avessero un’idea piĂš chiara della mia sullo scopo del viaggio in Antartide. Evidentemente l’obiettivo era portare a casa immagini. Il marchio /BUJPOBM (FPHSBQIJD mi aveva fatto pensare alla scienza invece che alle foto, come avrei dovuto. Mi sentii ancor di piĂš la pecora nera dei passeggeri. Nei giorni successivi imparai cosa chiedere a chi si incontra su una nave Lindblad: ÂŤĂˆ il tuo primo Lindblad?Âť. Oppure, in alternativa, ÂŤMai fatto un Lindblad?Âť. Trovavo inquietanti queste formule, come se “il Lindbladâ€? fosse qualcosa di vagamente ma dispendiosamente spirituale. Doug iniziava sempre il riepilogo serale nel salone chiedendo: ÂŤĂˆ stata una giornata fantastica o è stata una giornata fantastica?Âť e aspettava l’ovazione. Ci tenne a informarci che eravamo stati fortunatissimi nella traversata dello stretto di Drake e quindi avevamo tempo di approdare con i gommoni Zodiac sull’isola di Barrrientos, vicino alla penisola antartica. Era un’occasione straordinaria, non succedeva in tutte le spedizioni Lindblad. Eravamo in tarda stagione di nidificazione del pinguino papua e del pigoscelide antartico. Alcuni piccoli avevano lasciato il nido seguendo i genitori in mare, l’elemento preferito dei pinguini nonchĂŠ loro unica fonte di cibo. Ma ne erano rimasti a migliaia. Pulcini grigi e lanuginosi correvano dietro qualunque adulto plausibile genitore implorando cibo rigurgitato, o facevano massa per salvarsi dagli skua, uccelli simili ai gabbiani che cacciano i piccoli orfani e piĂš gracili. Molti adulti si erano ritirati su un rilievo per la muta, che li costringe a stare immobili per settimane, soffrendo il prurito e la fame, finchĂŠ le piume nuove non si sostituiscono alle vecchie. Era umanamente impossibile non ammirare la pazienza dei pinguini in muta, la loro capacitĂ di sopportare in silenzio. Anche se la colonia era tutta cosparsa di guano dall’odore rancido di acido nitrico e la vista dei pulcini orfani e condannati faceva male al cuore, ero giĂ contento di essere lĂŹ. I cerotti a base di scopolamina che Tom e io portavamo sul collo avevano dissipato le mie due ansie principali. Grazie al cerotto e alle acque calme non soffrivo il mal di mare e, con l’aiuto della radio a tutto volume a coprire il mio russare, Tom si faceva dieci ore di sonno profondo da scopolamina ogni notte. La mia terza ansia però l’avevo azzeccata. Neppure una volta un naturalista della Lindblad si unĂŹ a Chris, Ada e me a guardare gli uccelli sul ponte di osservazione. Nella biblioteca della Orion non c’era nessuna buona guida alla fauna antartica, bensĂŹ decine di libri sugli esploratori del Polo Sud, ad esempio Ernest Shackleton — un personaggio che a bordo era idealizzato quasi quanto l’esperienza Lindblad in sĂŠ. Alla manica sinistra del mio parka arancione fornito dal tour operator era cucito un distintivo con un suo ritratto per il centenario del suo epico viaggio su una lancia con partenza da Elephant Island. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

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<SEGUE DALLE PAGINE PRECEDENTI U SHACKLETON RICEVEMMO UN LIBRO, si tennero presentazioni PowerPoint, gite

sui luoghi a lui collegati, proiettarono un lungometraggio che ricostruiva il suo viaggio e ci fu offerta la possibilitĂ di percorrere a piedi per tre miglia l’arduo tragitto a cui Shackleton era sopravvissuto. (PiĂš avanti ci avrebbero radunati tutti davanti alla sua tomba sotto l’occhio del nostro cameraman con shottini di whisky in mano, invitandoci a brindare alla salute dell’esploratore). Il messaggio doveva essere che noi del Lindblad non eravamo tanto diversi da Shackleton. Non sentirsi eroi sulla Orion significava solitudine assicurata. Ero grato di avere quantomeno due compatrioti con cui studiare le guide alla fauna selvatica che ci eravamo portate appresso, riconoscere dalla morfologia il prione antartico (un piccolo uccello marino), e cercare di distinguere la sfumatura del becco tipica della specie di una procellaria gigante in rapido volo. Mentre procedevamo lungo la penisola, Doug prese a ventilarci la possibilitĂ di entusiasmanti novitĂ . Infine ci radunò nel salone rivelandoci cosa stava in effetti accadendo: grazie ai venti favorevoli lui e il capitano avevano HFUUBUP WJB JM QSPHSBNNB. Avevamo la straordinaria opportunitĂ di attraversare il circolo polare antartico e ci saremmo diretti avanti tutta verso il sud. La notte prima di arrivare al circolo polare, Doug ci avvertĂŹ che avrebbe svegliato per interfono, anche alle prime luci del giorno, i passeggeri che volessero affacciarsi a vedere la ÂŤlinea magentaÂť (scherzava) nel momento in cui la attraversavamo. E lo fece, alle sei e mezza, con un’altra battuta sulla linea magenta. Mentre la nave si avvicinava rapidamente all’obiettivo, Doug si esibĂŹ in un solenne conto alla rovescia partendo da cinque. Quindi si congratulò con ÂŤtutte le persone a bordoÂť e Tom e io tornammo a dormire. Solo in seguito apprendemmo che la Orion aveva raggiunto il circolo polare antartico molto prima delle sei e trenta — in un orario in cui si esita a svegliare dei milionari, quando è troppo buio per fare foto. Venne fuori che Chris si era svegliato prima dell’alba e aveva seguito le coordinate della nave sullo schermo tv della sua cabina. L’aveva vista rallentare, virare verso ovest, quindi eseguire un’inversione di marcia e procedere in direzione nord per guadagnare tempo. Anche se Doug rappresentava l’immagine dirigenziale di un marchio con aspetti da setta, avevo simpatia per lui. Stava terminando la sua prima stagione da capo spedizione Lindblad, era palesemente esausto e sotto pressione per rendere indimenticabile il viaggio a dei clienti che, non essendo dopo tutto dei plutocrati, si attendevano che valesse la spesa. A quanto mi era dato sapere Doug era poi, oltre me, l’unico ornitologo serio al punto di tenere traccia delle specie che aveva avvistato. Aveva smesso di elencarle, ma una sera, facendo il riepilogo, mi raccontò un aneddoto divertente sulla sua disperazione per non essere riuscito a vedere neppure un BOUIVT nel corso del suo primo viaggio in Georgia del Sud. Se non fosse stato freneticamente occupato a soddisfare i bisogni di una nave di cacciatori di immagini mi sarebbe piaciuto molto conoscerlo meglio. Va anche detto che l’Antartide fu all’altezza dell’entusiasmo di Doug. Mai prima di allora mi era capitato di vedere panorami di bellezza abbacinante al punto da non riuscire a elaborarla, a registrarla come realtĂ . Un viaggio considerato a priori irreale mi aveva condotto in un luogo altrettanto irreale, ma in senso piĂš positivo. Il riscaldamento globale rischierĂ anche di compromettere la calotta occidentale del continente, ma l’Antartide è ben lungi dal sciogliersi. Su entrambi i versanti del canale Lemaire svettavano montagne scure, altissime, ma non tanto da essere semplicemente innevate; erano TFQPMUF fino alla vetta in un cumulo di neve scavato dal vento, le rocce visibili solo sulle pareti piĂš verticali. Riparata dal vento, sotto un cielo grigio solido, l’acqua era vitrea, di un nero assoluto, puro come lo spazio siderale. In mezzo alla monocromia infinita di nero e bianco e grigio sbalordiva il blu del ghiaccio polare. Qualunque sfumatura assumesse — l’azzurrognolo dei blocchi oscillanti nella nostra scia, l’oltremare dei castelli galleggianti con tanto di arcate e stanze, il celeste polistirolo dei ghiacciai in distacco — i miei occhi si rifiutavano di considerarlo un colore naturale. Ogni volta ero incredulo al punto che mi scappava da ridere. Immanuel Kant aveva collegato il sublime al terrore, ma per la mia esperienza in Antartide, dall’alto di una nave con ascensore in vetro e ottone e un ottimo espresso, era piĂš simile a un misto di bellezza e assurdo. Proseguimmo il viaggio per mari lisci e inquietanti. Nessuna

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opera dell’uomo in vista, sulla terra, sui ghiacci e sull’acqua, nĂŠ costruzioni nĂŠ altre navi, e sul ponte di osservazione a prua il rumore dei motori della Orion non arrivava. Stare lĂ in silenzio con Chris e Ada, a scrutare il paesaggio in cerca di procellarie, faceva sentire soli, sospinti verso la fine del mondo da una qualche corrente invisibile, invincibile, come sul Veliero dell’Alba di Narnia. Ma quando entrammo nel pack e ne fummo circondati, servivano immagini. Fu messo in moto rumorosamente uno Zodiac e venne lanciato il drone australiano. PiĂš tardi, nel fiordo di Lallemand, prossimo all’estrema latitudine sud toccata dalla nostra spedizione, Doug annunciò un’altra ÂŤoperazioneÂť. Il capitano sarebbe approdato sull’enorme nevaio alla sommitĂ del fiordo e avremmo poi potuto scegliere se fare un giro in kayak o una passeggiata sul ghiaccio. Sapevo che il fiordo rappresentava l’ultima speranza di vedere un pinguino imperatore; in viaggio era probabile avvistare altre specie di pinguini, ma gli imperatori raramente si avventurano a nord del Circolo polare antartico. Mentre il resto dei passeggeri correva in cabina a indossare il salvagente e gli stivali tecnici, portai un telescopio sul ponte di osservazione. Scrutando il nevaio, disseminato di foche mangiatrici di granchi e di piccoli di pinguini di Adelia, intravidi immediatamente un uccello dall’aspetto poco familiare. Sembrava che avesse un tassello colorato nella regione delle orecchie e una macchia gialla sul torace. 1JOHVJOP JNQFSBUPSF L’immagine ingrandita era sfocata e mossa, gran parte del corpo dell’uccello era nascosto dietro un piccolo iceberg e quest’ultimo, o la nave, fluttuavano. Prima che riuscissi a vederlo bene, l’uccello venne completamente oscurato dall’iceberg. Che fare? I pinguini imperatore sono forse gli uccelli piĂš grandi al mondo. Alti un metro e venti, famosi protagonisti de -B NBSDJB EFJ QJOHVJOJ, incubano le uova durante l’inverno antartico a distanza di centinaia di metri dal mare, i maschi si stringono l’un l’altro per scaldarsi, le femmine trotterellano o slittano in acqua per procurare il cibo, tutti eroici come Shackleton. Ma l’uccello che avevo intravisto era distante ottocento metri buoni e io sapevo di essere stato giĂ fonte di un noioso ritardo per il gruppo e di avere alle spalle una penosa serie di errori di identificazione. Che possibilitĂ avevo di puntare a casaccio un telescopio sul ghiaccio e beccare subito la specie piĂš agognata della spedizione? Mi pareva di non essermi JOWFOUB UP la macchia gialla e il tassello colorato. Ma a volte l’occhio dell’ornitologo vede ciò che vuol vedere. Dopo un momento di riflessione esistenziale, consapevole che avrei deciso il mio destino, scesi in fretta sul ponte di coperta e incontrai il mio preferito tra i naturalisti dello staff, che correva per unirsi all’operazione guidata da Doug. Tirandolo per la manica gli dissi che pensavo di aver avvistato un pinguino imperatore. ÂŤUn imperatore? Ne è proprio sicuro?Âť. ÂŤAl novanta per centoÂť. ÂŤVa bene, verificherò, disse staccandosi da me. Non mi sembrava intenzionato a far sul serio, quindi corsi giĂš in cabina da Chris e Ada, bussai energicamente alla porta e gli comunicai la notizia. Per fortuna mi credettero. Si tolsero i giubbotti salvagente e mi seguirono sul ponte di osservazione. Ormai purtroppo non riuscivo piĂš a localizzare il pinguino, i piccoli iceberg erano un’infinitĂ . Tornai in coperta dove un altro membro dello staff, una donna olandese, mi diede una risposta piĂš soddisfacente: ÂŤIl pinguino imperatore! Ăˆ una specie importantissima per noi, dobbiamo dirlo subito al capitanoÂť. Il capitano Graser era un tedesco ossuto e energico, probabilmente piĂš anziano di quanto dimostrasse. Mi chiese l’esat-


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ta posizione del pinguino. Gliela indicai con la migliore approssimazione possibile e lui comunicò a Doug per radio che la nave doveva spostarsi altrove. Sentii la reazione esasperata di Doug, era nel bel mezzo di un’operazione! Il capitano gli diede l’ordine di sospenderla. Nel momento in cui la nave prese a muoversi e io pensavo a quanto Doug si sarebbe seccato se mi fossi sbagliato sul pinguino, ritrovai il piccolo iceberg. Chris, Ada e io, in piedi accanto al parapetto, lo osservavamo con i binocoli. Ma non nascondeva più nulla, quanto meno che potessimo vedere prima che la nave si fermasse e lo aggirasse. Le radio gracchiavano impazienti. Dopo che il capitano ci ebbe incagliati nel ghiaccio, Chris vide tuffarsi in acqua un uccello che prometteva bene. Poi Ada ebbe l’impressione che fosse risalito dimenandosi sull’icebeg. Chris puntò il binocolo e dopo una lunga osservazione si voltò verso di me e disse impassibile: «Concordo». Ci demmo il cinque. Andai a chiamare il capitano Graser, che guardò nel binocolo e lanciò un grido di giubilo. «+B KB » disse, «pinguino imperatore! Pinguino imperatore! Proprio come speravo!». Disse che mi aveva creduto perché in un viaggio precedente aveva visto un esemplare isolato di imperatore proprio in quella zona. Urlò la sua gioia e prese a saltellare improvvisando un balletto, una vera e propria HJHB, poi corse ai gommoni per andare a vedere da vicino. L’imperatore che aveva visto quella volta si era mostrato straordinariamente socievole o curioso e pareva proprio che avessimo ritrovato lo stesso esemplare, perché non appena il capitano gli si avvicinò, si lasciò cadere a pancia sotto e slittò con entusiasmo verso di lui. Doug annunciò per interfono che il capitano aveva fatto una scoperta entusiasmante e che il programma era mutato. I passeggeri già in marcia sul nevaio curvarono in direzione dell’uccello, il resto di noi si ammassò negli Zodiac. Quando io giunsi sul posto erano già in azione trenta fotografi in giacca arancio, in piedi o in ginocchio, con gli obiettivi puntati su un pinguino molto alto e molto bello, vicinissimo a loro. Avevo comunque preso la silenziosa decisione di alienarmi e non scattare nessuna foto durante il viaggio, ma ora avevo di fronte un’immagine talmente indelebile che la macchina fotografica davvero non sarebbe servita: sembrava che il pinguino imperatore stesse tenendo una conferenza stampa. Mentre affrontava l’esercito dei giornalisti un gruppo di pinguini di Adelia gli occhieggiava alle spalle, quasi fossero suoi assistenti. Dopo un po’ allungò serenamente il collo e dando prova di eccezionale equilibrio e flessibilità, ma senza traccia di ostentazione, si grattò dietro l’orecchio con una zampa restando perfettamente eretto sull’altra. Poi, quasi a sottolineare quanto si trovasse a proprio agio con noi, si addormentò. La sera dopo, al momento del riepilogo, il capitano Graser ringraziò calorosamente gli ornitologi. Ci aveva riservato un tavolo speciale in sala da pranzo e ci offrì il vino. Sul tavolo c’era una targa con su scritto “Re Imperatore”. Normalmente i camerieri della nave, in maggioranza filippini, si rivolgevano a Tom e a me chiamandoci Sir Tom e Sir Jon, rendendomi un po’ vanaglorioso, alla John Falstaff. Ma quella sera davvero mi sentivo re imperatore. Per tutto il giorno ero stato fermato in corridoio da passeggeri sconosciuti che volevano ringraziarmi o congratularsi con me per aver trovato il pinguino. Finalmente ebbi una vaga idea di come dev’essere per un giocatore della squadra del liceo tornare a scuola dopo aver segnato una meta decisiva in campionato. Da quarant’anni ero abituato a sentirmi sempre l’elemento problematico nei grandi gruppi di persone. Diventare un vincitore, un eroe, anche se solo per un giorno, era per me una novità totale, disorientante. Mi chieVkVSIyMjVm9sb0Vhc3lSZWFkZXJfQ2FtZXJhIyMjZ2EuY2FtZXJhIyMjU2VnbmFsaWJyaSMjIzA1LTA2LTIwMTYjIyMyMDE2LTA2LTA2VDExOjQyOjU2WiMjI1ZFUg==

si se con il mio perenne atteggiamento asociale non mi fossi perso qualcosa di fondamentale sotto il profilo umano.

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IO ZIO, IL VETERANO dell’Aeronautica, ora sepol-

to nei ranghi a Arlington, era stato una persona socievole per tutta la vita. Walt era rimasto sempre affezionato alla sua città natale, Chisholm, nella zona dei giacimenti di ferro del Minnesota, dove era cresciuto con poche possibilità economiche. Aveva giocato a hockey al college e pilotato un bombardiere nella Seconda guerra mondiale, compiendo in volo trentacinque missioni in Nordafrica e in Asia meridionale. Autodidatta, sapeva suonare a orecchio al pianoforte tutte le melodie famose; gli elementi del suo swing a golf erano eclettici. Scrisse due memoriali dedicati alle molte grandi amicizie strette nel corso della vita. Era anche un democratico progressista sposato con una rigida repubblicana. Era in grado di intrattenere una vivace conversazione un po’ con tutti, e immaginavo che mia madre potesse immaginare che si sarebbe divertita alla follia se si fosse messa con un tipo normale come Walt, invece che con mio padre. Una sera, al ristorante del complesso residenziale nel sud della Florida, dopo una serie di cocktail, Walt mi raccontò non solo la storia sua e di mia madre, ma sua e di Fran e di Gail. Dopo aver lasciato il servizio di combattimento, mi disse, e aver fatto vita sociale da ufficiale con Fran in varie basi oltreoceano, si era reso conto di aver commesso un errore a sposarla. Non solo perché era stata viziata dai genitori; Fran era un’implacabile arrampicatrice che odiava e rinnegava le sue radici in Minnesota quanto lui esaltava le proprie; era insopportabile. «Sono stato un debole», diceva Walt. «Avrei dovuto lasciarla ma non ce l’ho fatta». Fran partorì la loro unica figlia quando era ormai sui trentacinque anni e ben presto sviluppò una tale ossessione nei confronti di Gail e un rifiuto del sesso con Walt che lui si trovò indotto a cercare conforto altrove. «Ci sono state altre donne», mi raccontò. «Ho avuto delle storie. Ma mettevo sempre in chiaro che ero un padre di famiglia e non avrei mai lasciato Fran. La domenica con gli amici facevo il pieno di alcolici e andavo a Baltimora in macchina a vedere allo stadio Johnny Unitas e i Colts». A casa Fran rivolgeva un’attenzione sempre più ossessiva e capillare all’aspetto di Gail, ai suoi compiti, alle esercitazioni di disegno. Gail era per Fran l’unico argomento di conversazione, il centro dei suoi pensieri. I quattro anni dell’università furono una parentesi di sollievo, ma non appena Gail tornò sulla East Coast e andò a lavorare a Williamsburg, Fran moltiplicò le intrusioni nella sua vita. Walt si rendeva conto che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto questo, che Gail stava impazzendo per via di sua madre senza sapere come sfuggirle. Ai primi di agosto del 1976 Walt era arrivato a un punto tale di disperazione che fece l’unica cosa possibile. Disse a Fran che tornava in Minnesota e che non voleva più vivere assieme a lei — non poteva restare suo marito — se non avesse mitigato la sua ossessione per la loro figlia. Poi fece la valigia e partì per il Minnesota. Si trovava là, a Chisholm, dieci giorni dopo, quando Gail si mise in auto di notte col brutto tempo per le strade del West Virginia. Gail sapeva che Walt aveva rotto con sua madre. Mi raccontò che era stato lui stesso a dirglielo. Walt terminò lì il suo racconto e parlammo d’altro — del suo desiderio di trovare una fidanzata tra le residenti del complesso, del fatto che si sentiva la coscienza pulita a questo proposito ora che mia madre era morta e Fran era ricoverata in casa di cura e della sua sensazione di essere troppo campagnolo,

troppo grezzo, per le vedove eleganti del condominio. Mi chiesi se avesse omesso l’epilogo della sua storia perché era scontato: dopo l’incidente in West Virginia che non avrebbe mai potuto essere scisso dalla sua fuga in Minnesota e dopo che Fran aveva perduto l’unica persona al mondo che contasse per lei, imprigionata per sempre in una ossessione monomaniacale, un mondo di dolore, Walt non aveva avuto altra scelta che tornare da lei dedicandosi, da allora in poi, ad accudirla. Capii che la morte di Gail non era stata semplicemente “tragica” nel banale senso del termine. Aveva in sé l’ironia e l’inevitabilità della tragedia classica, aggravata dai venti e più anni che Walt aveva dedicato ad ascoltare Fran e solo la tenerezza della sua sollecitudine nei suoi confronti l’aveva lenita. Walt era davvero una brava persona. Aveva un gran cuore che aveva donato tutto alla moglie malata e fui commosso non solo dalla tragedia, ma dalla comune umanità dell’uomo che ne era al centro. Provai anche meraviglia. Per tutta la vita avevo avuto, nascosto davanti agli occhi, in mezzo alla rigida morale e alla riservatezza svedese della mia famiglia paterna, un individuo normale, che aveva delle avventure sentimentali, andava in auto a Baltimora con gli amici e accettava con coraggio il suo destino. Mi chiesi se mia madre avesse visto in lui quello che vedevo io ora e lo avesse amato per questo, come me. Il pomeriggio successivo telefonò Ed, l’amico di Walt, chiedendogli di andare a casa sua con i cavi per ricaricare la batteria della macchina. Andammo e trovammo Ed per strada accanto a un’enorme auto americana. Sembrava moribondo — aveva un orribile colorito giallastro e si reggeva a malapena in piedi. Disse che era stato un mese malato e che ora si sentiva molto meglio. Ma quando Walt ebbe collegato i cavi all’auto e gli chiese di accendere il motore Ed gli ricordò che era troppo debole per girare la chiave (però pensava di poter guidare). Entrai io in macchina. Non appena provai ad accendere il motore mi resi conto che il problema era ben più grave della batteria scarica. La macchina di Ed non dava la minima reazione e lo feci presente. Ma a Walt non andava bene come erano collegati i cavi. Fece marcia indietro con la sua macchina e schiacciò un cavo sull’asfalto. Prima che riuscissi a fermarlo aveva strappato via la pinza e se la prese con me. Cercai di riattaccare la pinza con l’aiuto di un cacciavite ma non gli andava bene come facevo. Cercò di togliermela di mano urlandomi contro, gridando. «Maledizione Jonathan! .BMFEJ[JPOF! Non così! Dammi qui! Maledizione!». E intanto si era accasciato sul sedile accanto alla guida. Walt e io ci litigammo il cacciavite, che non volevo mollare; anche io ero arrabbiato con lui. Quando ci calmammo ed ebbi riparato il cavo come voleva lui, girai di nuovo la chiave dell’auto di Ed. Nessuna reazione. Dopo quella prima visita mi sforzai di andare tutti gli anni in Florida a trovare Walt e di chiamarlo ogni qualche mese. Infine si trovò una fidanzata, un vero tesoro. Anche quando il suo udito peggiorò e la mente prese a offuscarsi riuscivo a tenere una conversazione con lui. Ci furono altri momenti intensi tra di noi, come la volta che mi spiegò quanto fosse importante per lui che io un giorno raccontassi la sua storia e gli promisi che l’avrei fatto. Ma direi che non siamo mai stati più vicini che nel giorno della sfuriata per il cavo delle batteria. In quello sfogo c’era qualcosa di incredibile. Era come se Walt avesse dimenticato — fosse stato spinto a dimenticare, forse dalla palese mortalità di Ed e della sua auto, forse dalla rifrazione del suo amore per mia madre attraverso la mia persona — che lui e io non avevamo una vera storia comune, non avevamo trascorso nella vita in totale più di una settimana assieme. La sua sfuriata era quella di un padre al figlio. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE


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<SEGUE DALLE PAGINE PRECEDENTI

A CALIFORNIANA AVEVA AVUTO RAGIONE a temere le condizioni atmosferiche, faceva piĂš freddo di quanto le avessi fatto credere. Ma io avevo avuto ragione sui pinguini. Dalla penisola antartica, che ne ospitava un’impressionante quantitĂ , la rotta della Orion ci condusse di nuovo a nord e poi a est, fino all’isola della Georgia del Sud, dove erano presenti in numero esorbitante. La Georgia del Sud è uno dei principali siti di riproduzione del pinguino reale, una specie alta quasi quanto il pinguino imperatore e dal piumaggio ancor piĂš appariscente. Vedere un pinguino reale nel suo ambiente mi pareva in sĂŠ ragione sufficiente non solo per aver intrapreso il viaggio; mi sembrava ragione sufficiente per essere nato su questa terra. Devo ammettere che ho una passione per gli uccelli. Ma sono convinto che un visitatore proveniente da un altro pianeta osservando il pinguino reale accanto a un esemplare, anche il piĂš perfetto, della specie umana, con sguardo scevro da ogni possibile attrazione sessuale, definirebbe il pinguino senza possibilitĂ di dubbio la specie piĂš bella. E non solo l’ipotetico extraterrestre. A tutti piacciono i pinguini. Dritti su se stessi, pronti a cadere a pancia in giĂš, agitando le pinne in gesti ampi quasi fossero braccia e avanzando a passettini o zampettando arditi sui piedi carnosi, ricordano i bambini piĂš di qualunque altro animale, grandi primati inclusi. Essendosi evoluti su coste remote i pinguini antartici sono anche raro esempio di animali che non hanno affatto timore di noi. Quando mi misi a sedere a terra i pinguini reali mi si avvicinarono al punto che avrei potuto accarezzarne le piume lucide, morbide come una pelliccia. Il loro piumaggio aveva la nitidezza e l’intensitĂ di colore esagerate che normalmente si percepiscono solo sotto l’effetto di stupefacenti. Le colonie di papua e di pygoscelis non erano il posto ideale in cui sedersi, per via del guano. Ma i pinguini reali, erano piĂš puliti, per dirla come un naturalista della Lindblad. A St. Andrews Bay, in Georgia del Sud, dove erano ammassati, stretti l’uno all’altro, mezzo milione di reali adulti e di soffici pulcini, alle mie narici arrivava solo aria di mare e di montagna. Anche se tutti i pinguini hanno il loro fascino — basta pensare ai ciuffi di piume stile glam-rock sul capo del pinguino macaroni, ai saltelli a piedi paralleli con cui il pinguino crestato scala o discende pazientemente un ripido pendio — mi piacevano soprattutto i reali. Associavano una ineguagliabile armonia estetica all’intensa energia sociale del gioco infantile. Dopo aver raggiunto la riva emergendo e inabissandosi come delfini un gruppo di reali correva via dai frangenti a pinne larghe e tremule, come se l’acqua fosse troppo fredda. Un esemplare solitario, in piedi in acqua bassa, fissava l’orizzonte cosĂŹ a lungo che ti chiedevi quali pensieri gli attraversassero la mente. Due giovani maschi che seguivano caracollando una femmina indecisa, si fermavano a vedere chi era piĂš bravo ad allungare il collo o si scambiavano vani colpi con le pinne. Avevano dei becchi pericolosamente aguzzi, ma preferivano combattere con ali innocue. A St. Andrews l’attivitĂ ferveva soprattutto ai margini della colonia. Dato che una gran quantitĂ di pinguini era intenta alla cova o alla muta, la colonia principale appariva straordinariamente calma. Osservandola dall’alto mi venne in mente Los Angeles vista da Griffith Park un fine settimana di primissima mattina. Una megalopoli assonnata di pinguini ritti in piedi. A pattugliare le grandi arterie erano i chioni, strani uccelli immacolati col corpo di piccione e i costumi da avvoltoio. Persino il suono straordinario emesso dai reali — un grido rauco e festoso in crescendo, che ricordava le cornamuse, le trombette di carnevale o il rumore simile al latrato di un cane che si sente su certi aerei, ma che in realtĂ non somigliava a nulla che avessi mai sentito — aveva un effetto rilassante provenendo da migliaia di pinguini. Nel ventesimo secolo gli esseri umani fecero un favore ai pinguini arrivando quasi a sterminare molte delle balene e delle foche con cui erano in competizione per il cibo. La popolazione dei pinguini crebbe e la Georgia del Sud recentemente è diventata un luogo ancor piĂš ospitale, perchĂŠ la rapida ritirata dei ghiacciai mette a loro disposizione terra adatta alla nidificazione. Ma i vantaggi arrecati dall’umanitĂ ai pinguini potrebbero avere vita breve. Se il cambiamento climatico continua ad acidificare gli oceani l’acqua raggiungerĂ un pH tale da impedire agli invertebrati marini di sviluppare il guscio; uno di essi, il krill, costituisce la dieta principale di molte specie di pinguini. Il cambiamento climatico sta anche riducendo rapidamente i ghiacci che circondano la penisola antartica e forniscono una piattaforma per le alghe su cui il krill si nutre d’inverno e che lo hanno finora protetto dallo sfruttamento commerciale su larga scala. Navi officina delle dimensioni di superpetroliere potrebbero presto arrivare dalla Cina, dalla Norvegia, dalla Corea del

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Sud per aspirare il cibo da cui dipendono non solo i pinguini ma molte balene e foche. Con il nome di krill si indicano dei crostacei delle dimensioni e del colore di un mignolo. Stimarne la presenza numerica in Antartide è difficile ma una cifra spesso citata, cinquecento milioni di tonnellate metriche, rendono la specie forse il massimo ricettacolo di biomassa animale del mondo. Purtroppo per i pinguini, molti paesi considerano il krill un buon alimento, sia per gli esseri umani (si dice abbia un gusto accettabile) e soprattutto per i pesci d’allevamento e il bestiame. Stando ai dati attuali, il pescato annuo del krill non raggiunge il mezzo milione di tonnellate, con la Norvegia al primo posto nella raccolta. La Cina ha però annunciato l’intenzione di portare il suo pescato a due milioni di tonnellate l’anno e ha iniziato a costruire navi idonee. Come ha spiegato il responsabile del Gruppo per lo sviluppo agricolo cinese, ÂŤil krill fornisce proteine di ottima qualitĂ che possono essere trasformate in cibo e medicinali. L’Antartide è una stanza del tesoro per tutti gli esseri umani ed è opportuno che la Cina vada e ne abbia una parteÂť. L’ecosistema marino antartico è effettivamente il piĂš ricco del mondo; è inoltre l’ultimo rimasto sostanzialmente intatto. Il suo utilizzo commerciale è monitorato e regolato, quantomeno formalmente, dalla Commissione per la conservazione delle risorse viventi marine antartiche. Ma le decisioni della commissione sono soggette al veto di ciascuno dei suoi venticinque membri e uno di essi, la Cina, ha un passato di ostruzionismo nei confronti della designazione di alcune grandi aree marine protette. Un altro, la Russia, ha mostrato di recente aperta intransigenza non solo ponendo il veto alla creazione di nuove aree protette, ma ponendo in discussione l’autoritĂ stessa a stabilirle. CosĂŹ il futuro del krill e con esso il futuro di molte specie di pinguini, dipende da incertezze moltiplicate da incertezze: quanto krill esiste in realtĂ , in che misura sia in grado di adeguarsi al cambiamento climatico, se possa essere pescato senza ridurre alla fame altra fauna, se la raccolta possa essere regolamentata, e se la cooperazione internazionale sull’Antartide sia in grado di reggere a fronte dei nuovi conflitti geopolitici. Non c’è incertezza sul fatto che le temperature globali, la popolazione globale e il fabbisogno globale di proteina animale crescono velocemente.

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LL’ORA DEI PASTI LA ORION mi ricordava inevitabilmente il sanatorio de -B NPOUBHOB JODBOUBUB: la corsa tre volte al giorno alla sala mensa, l’ermetico isolamento dal mondo, i volti immutabili ai tavoli. Al posto di Frau StÜhr, che storpiava in Erotica l’&SPJDB di Beethoven c’era il sostenitore di Donald Trump con la moglie. C’era l’allegra coppia di alcolizzati. C’era la reumatologa olandese, il suo secondo marito reumatologo, la figlia reumatologa e il fidanzato reumatologo della figlia. C’erano quelle due o tre coppie che ogni volta che si saliva sugli Zodiac riuscivano sgomitando a essere i primi della fila. C’era l’uomo che per speciale concessione aveva portato con sÊ un apparecchio radio e passava la vacanza dentro la biblioteca della nave in cerca di contatti con altri radioamatori. C’erano gli australiani, che per lo piÚ stavano per conto loro. Conversando a tavola, chiedevo alle persone il perchÊ del viaggio in Antartide. Appresi che molti erano semplicemente devoti alla Lindblad. Alcuni, durante un altro Lindblad, avevano sentito dire che il Lindblad in Antartide era il miglior Lindblad, fatta forse eccezione per il Lindblad nel Mare di Cortez. Una coppia molto simpatica, un medico e un’infermiera, Bob e Gigi, stavano festeggiando il venticinquesimo anniversario


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di matrimonio con un anno di ritardo. Un altro passeggero, un chimico in pensione, mi disse che aveva scelto l’Antartide solo perché era ormai a corto di posti in cui non fosse mai stato. Fui lieto che nessuno rispondesse per vedere l’Antartide prima che si sciolga. La sorpresa fu che per quasi tutto il viaggio né i membri dello staff né i passeggeri pronunciarono mai le parole “cambiamento climatico” a portata del mio orecchio. Certo, saltavo molte delle conferenze tenute a bordo. Per dimostrare di essere un ornitologo duro e puro dovevo stare sul ponte di osservazione. L’ornitologo duro e puro resta tutto il giorno a mordere vento e salsedine, lo sguardo fisso nella nebbia o nella luce abbagliante, nella speranza di cogliere qualcosa di insolito. Anche quando l’intuito ti dice che là fuori non c’è nulla, il solo modo di esserne certo è di dedicare tempo all’osservazione di ogni briciolo di avifauna all’orizzonte, ogni singolo prione (potrebbe essere un prione tortora) che sfreccia tra le onde di colore identico, ogni singolo albatros errante (potrebbe essere un albatros reale) in dubbio se valga la pena seguire la scia della nave. In osservazione a volte ti viene nausea, spesso ti congeli, e quasi sempre ti annoi a morte. Dopo avere accumulato trenta ore contando un solo uccello marino degno di nota, una MVHFOTB CSFWJSPTUSJT, lasciai perdere e mi dedicai alla più socievole pulsione di giocare a bridge. Gli altri giocatori, Diana e Nancy e Jacq, venivano da Seattle e facevano parte di un book club che contava altri membri sulla nave. Feci amicizia con loro come con Chris e Ada. In una delle prime mani che giocammo feci uno scarto stupido e Diana, formidabile avvocato fallimentarista, ridendo di me, definì la mia giocata PSSJCJMF. Mi piacque per questo. Mi piaceva il linguaggio sboccato al tavolo. Quando la mia compagna, Nancy, proprietaria di un concessionario di carrelli elevatori, era alle prese con il primo DPOUSBUUP EJ TMBN del viaggio e io sottolineai che il resto delle mani erano sue, sbottò con un «fammi fare il mio gioco, stronzo». Mi disse che andava inteso in senso affettuoso. Il terzo giocatore, Jacq, anche lui avvocato, mi raccontò che Nancy aveva scritto una pièce teatrale prendendo spunto dalla cena tenuta a casa di Diana il Giorno del ringraziamento, nel corso della quale il marito di Diana, gravemente malato, era morto nel letto in salotto. Jacq aveva l’unico tatuaggio che avessi visto addosso a un passeggero. Come ne -B NPOUBHOB JODBOUBUB i primi giorni della spedizione furono lunghi e memorabili, quelli successivi più simili a una massa confusa in accelerazione. Dopo la gratificazione dell’incontro con gli anthus (erano bellissimi e socievoli ) non mi interessava più visitare le basi dei balenieri abbandonate. Arrivati al quinto giorno in Georgia del Sud persino nella voce di Doug si avvertiva una nota di stanchezza nel proporre l’ennesima gita in kayak. Sembrava di sentire Vladimir e Estragon quando, quasi al termine di (PEPU, dopo aver esaurito ogni pensabile distrazione, decidono di mimare l’albero. Verso la fine dell’ultimo giorno di viaggio, che avevo trascorso per lo più al tavolo da bridge, mentre fuori giravano centinaia di uccelli marini potenzialmente interessanti, scesi nel salone per una conferenza sul cambiamento climatico. La teneva l’australiano del drone, che si chiama Adam e ad ascoltarlo c’era meno della metà dei passeggeri. Mi chiesi come mai una conferenza così importante fosse stata relegata all’ultimo giorno. La spiegazione edificante fu che Lindblad, che si fa vanto della propria coscienza ambientalista, voleva che tornassimo a casa infervorati a fare di più per proteggere le meraviglie della natura di cui avevamo goduto. L’appello di Adam in apertura suggeriva altre spiegazioni. «Il questionario di gradimento non è la sede adatta per esprimere le vostre convinzioni sul cambiamento climatico», disse con un VkVSIyMjVm9sb0Vhc3lSZWFkZXJfQ2FtZXJhIyMjZ2EuY2FtZXJhIyMjU2VnbmFsaWJyaSMjIzA1LTA2LTIwMTYjIyMyMDE2LTA2LTA2VDExOjQyOjU2WiMjI1ZFUg==

risolino imbarazzato. «Ambasciator non porta pena». Passò a chiederci quanti di noi fossero del parere che il clima terrestre stesse cambiando. Tutti in sala alzarono la mano. E quanti di noi pensavano che questo fosse dovuto all’attività umana? Ancora una volta si levarono gran parte delle mani, tranne quella del sostenitore di Donald Trump e quella del radioamatore. Dalle ultime file giunse la voce burbera di Chris: «E quelli che non la considerano una questione opinabile?». «Ottima domanda», disse Adam. La sua relazione ripropose con enfasi le tesi del documentario 6OB TDPNPEB WFSJUË inclusa la “mazza da hockey”, il famoso grafico dell’aumento delle temperature, l’altrettanto famosa immagine dell’America mutilata della Florida dal futuro aumento del livello del mare. Ma il quadro di Adam era ancor più cupo di quello di Al Gore, perché il pianeta si sta riscaldando molto più velocemente di quanto anche i più pessimisti si aspettassero dieci anni fa. Adam citò la partenza dell’Iditarod senza neve, l’inverno maledettamente caldo in Alaska, la possibilità che il Polo Nord rimanga senza ghiaccio nell’estate del 2020. Osservò che mentre dieci anni fa si sapeva che l’ottantasette per cento dei ghiacciai della penisola antartica si stava ritirando, oggi si parla del cento per cento. Ma la sua riflessione più cupa riguardava il fatto che gli studiosi del clima, essendo scienziati, erano costretti a limitarsi a ipotesi ad alta probabilità statistica. Nell’elaborazione dei modelli delle future condizioni climatiche e nelle previsioni sull’aumento delle temperature devono sottostimare il fenomeno, prendendo come riferimento la temperatura raggiunta in più del novanta per cento dei casi, invece della temperatura media. Così lo scienziato che prevede con sicurezza un riscaldamento di cinque gradi (Celsius) alla fine del secolo, magari in privato, dopo qualche birra, confessa che in realtà si aspetta che sia di nove gradi. Pensando in Fahrenheit — sedici gradi — provai pena per i pinguini. Ma poi, come spesso accade nei dibattiti sul cambiamento climatico quando dalla diagnosi si passa ai rimedi, il pessimismo divenne tragicomico. Seduti nel salone di una nave che consumava tredici litri di carburante al minuto ascoltavamo Adam esaltare i vantaggi del fare la spesa nei mercati a Km zero e del sostituire le lampadine a incandescenza con quelle a led. Ci disse anche che l’istruzione femminile universale avrebbe ridotto le nascite a livello globale e che eliminando le guerre si sarebbero liberate risorse economiche tali da poter convertire l’economia globale all’energia rinnovabile. Quindi chiese se ci fossero domande o commenti. Chi era scettico sulla responsabilità umana nel cambiamento climatico non aveva interesse a discutere, ma un sostenitore convinto di questa tesi si alzò per dire che amministrava molti condomini e aveva notato che gli inquilini che beneficiavano di sussidi statali tenevano la temperatura in casa troppo alta d’inverno e troppo bassa l’estate perché non pagavano le bollette e quindi, per combattere il cambiamento climatico, sarebbe stato opportuno addebitargliele. Al che una donna rispose pacata: «Penso che i super ricchi sprechino molto di più delle persone sotto sussidio». La discussione si interruppe subito dopo — dovevamo tutti fare i bagagli. Alle sei la sala tornò a riempirsi, di più questa volta, per l’evento clou della spedizione: la proiezione di una serie di diapositive cui i passeggeri erano stati invitati a contribuire con tre o quattro dei loro scatti migliori. L’istruttore di fotografia che teneva la presentazione si scusò in anticipo in caso qualcuno non avesse gradito i brani scelti come colonna sonora. La musica — )FSF $PNFT UIF 4VO, #VJME .F 6Q #VUUFSDVQ — di certo non era d’aiuto, ma tutta la proiezione fu deprimente. Avvertii quel senso di menomazione che mi trasmette sempre la nostra cultura dell’immagine: si può comprimere la vita in una sequenza fotografica riducendola a fram-

menti minuti quanto si vuole, anche molto ravvicinati, ma alla fine la percezione più forte che ne ho è di quello che manca. Era anche purtroppo palese che tre settimane di corso del /BUJPOBM (FPHSBQIJD non avevano dato come risultato immagini di quella freschezza. E l’effetto cumulativo era tristemente inferiore alle ambizioni. Le diapositive intendevano cogliere un’avventura vissuta assieme, in comunità, come Shackleton e i suoi uomini. Ma ci mancavano il lungo inverno antartico, i mesi trascorsi a dividersi la carne di foca. Il rapporto verticale tra la Lindblad e i suoi clienti era stato troppo pressante per incoraggiarci a stringere legami orizzontali. Così ne venne fuori una presentazione che sembrava uno spot amatoriale per la Lindblad. Il contesto pretenzioso rovinò persino le immagini che avrebbero dovuto più starmi a cuore da fotografo amatoriale, quelle che fissano i volti amati. Quando mio fratello mi mostrò in privato la foto che aveva scattato di Chris e Ada seduti in gommone (Chris che faticava a togliersi del tutto il broncio, Ada col sorriso aperto), mi ricordai la gioia di averli trovati a bordo. Era una foto molto significativa — per me. Caricatela sul sito della Lindblad e perde tutto, scade a livello di spot. Che senso aveva avuto il viaggio in Antartide? Scoprii che per me l’obiettivo era il contatto con i pinguini, lasciarmi travolgere dai paesaggi, stringere qualche nuova amicizia, aggiungere trentuno specie avicole alla mia lista e onorare la memoria di mio zio. Era sufficiente a giustificarne i costi in termini economici e di emissioni di CO2? Ditemelo voi. Ma la presentazione mi è stata utile di rimando, focalizzando la mia attenzione su tutti i minuti non fotografati in cui ero stato vivo durante il viaggio — quanto era meglio annoiarsi e avere freddo osservando gli uccelli rispetto a essere morto. Un vantaggio ulteriore emerse la mattina successiva, dopo che la Orion aveva ormeggiato a Ushuaia e Tom e io fummo lasciati liberi di girovagare da soli per le strade. Scoprii che tre settimane sulla Orion con le stesse facce ogni giorno davanti agli occhi mi facevano apprezzare intensamente qualunque volto non fosse stato a bordo, soprattutto quelli più giovani. Ero tentato di gettare le braccia al collo di tutti i giovani argentini che incontravo. È vero che l’azione più efficace che la maggior parte degli esseri umani possono intraprendere singolarmente, non solo per combattere il cambiamento climatico, ma per conservare la biodiversità del pianeta, è rinunciare a procreare. Può darsi che nulla possa arrestare la logica della priorità dell’uomo: se le persone vogliono carne e c’è del krill a disposizione, si pescherà il krill. Può anche darsi che i pinguini, per la loro somiglianza ai bambini, ci portino a ragionare in termini diversi sulle specie poste a rischio dalla logica umana: anche loro sono figli nostri. Anche loro meritano le nostre cure. Eppure immaginare un mondo senza giovani equivale a immaginare di vivere su una nave Lindblad per sempre. La mia madrina aveva vissuto una vita così dopo la morte della sua unica figlia. Ricordo il sorriso quasi folle con cui una volta mi confidò il valore in dollari delle sue porcellane Wedgwood. Ma Fran era pazza già prima che morisse Gail; era ossessionata dalla replica biologica di se stessa. La vita è precaria e la si può frantumare tenendola troppo stretta, oppure amarla, come l’amava il mio padrino. Walt perse la figlia, i suoi compagni d’arme, sua moglie e mia madre, ma non smise mai di improvvisare. Lo vedo al pianoforte, nel sud della Florida, lanciare larghi sorrisi mentre strimpella brani di vecchi musical e le vedove del suo condominio ballano. Anche in un mondo di persone che muoiono continuano a nascere nuovi amori. ª +POBUIBO 'SBO[FO GJSTU QVCMJTIFE JO The New Yorker 5SBEV[JPOF EJ &NJMJB #FOHIJ

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dere la Via Lattea o che loro (e noi) si perda in salute fisica e mentale a causa dell’inquinamento luminoso dell’ambiente. Vorremmo evitare entrambe le cose, se possibile, ma non sarĂ facile, perchĂŠ ormai la notte sta morendo in molte parti del mondo. Il fantastico lavoro di misura, da decenni, dell’inquinamento luminoso da parte di due italiani, Fabio Falchi e Pierantonio Cinzano, e del loro gruppo, lo dimostra in modo spettacolare. Il problema generato dall’inquinamento luminoso è evidente. Il cielo buio naturale ha una luce diffusa che varia di un fattore circa 1000 tra una notte di cielo coperto in una zona perfettamente buia (come d’inverno nei boschi della Siberia) e una notte di luna piena, per esempio in mezzo al mare o al Sahara. Una qualunque illuminazione stradale, invece, crea una luce diffusa anche fino a duecentomila volte la luce naturale del cielo. La causa fisica dell’inquinamento sono sempre i fotoni, naturalmente: prodotti in modo artificiale (non dalle stelle o dal sole, riflessi dalla luna), riempiono la notte, diffondendosi nell’atmosfera anche a causa di polveri o umiditĂ . Ma il danno è molto piĂš grande che rubare la visione delle stelle agli astronomi professionisti, come quelli dell’Istituto nazionale di astrofisica, che se la cavano spostando i telescopi dall’Italia in deserti montagnosi lontani da tutto e tutti, o ai benemeriti astrofili, che cercano il buio nella collina dietro casa. L’inquinamento luminoso ruba il cielo a tutti noi: a Milano, anche senza nebbia, è difficile capire se sia sorta la Luna. Le conseguenze sono pesanti, dal punto di vista della salute umana, dell’impatto sull’ecologia e, naturalmente, dello spreco di energia. Lo studio sistematico, a livello mondiale, viene da riprese notturne da satelliti che fanno misure in verticale dall’orbita bassa, prese in momenti di buona trasparenza dell’atmosfera. La parte impegnativa del lavoro è mettere insieme in modo coerente e ben calibrato i dati di superfici diverse e sempre piĂš vaste, correggendo perfino la curvatura della Terra. Ma il risultato è fantastico e offre uno splendido ripasso congiunto di geografia fisica, politica e antropologica: si vedono gli Stati Uniti divisi tra le praterie luminose a quadretti e le buie montagne dell’Ovest, ma anche Himalaya, Tibet e deserto del Gobi, la separazione tra le due Coree, la strana diffe-

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renza tra Sardegna e Corsica, oppure la serpentina del Nilo che brilla nel buio del deserto. Oltre alle “normaliâ€? luci diffuse di cittĂ , centri commerciali, villaggi e strade, si scoprono sorgenti meno ovvie, come la flotta giapponese che pesca i gamberi, o i pozzi di petrolio e gas, ma anche batterie di serre per agricoltura forzata o piste da sci violentemente illuminate per la gioia di grandi e piccini. Rari i casi di luci naturali, come eruzioni vulcaniche o incendi di foreste. L’indice di colore nelle carte è intuitivamente proporzionale al livello di inquinamento luminoso: gli astronomi possono lavorare solo dove è nero, mentre nelle zone al di sopra del giallo/arancione, per esempio, non si vede piĂš la Via Lattea d’inverno o, peggio, d’estate, quando è piĂš brillante. Nel bianco, il massimo di inquinamento, l’occhio umano non si adatta piĂš al buio. La luce che sostituisce il buio, infatti, ammazza la produzione naturale di melatonina nel corpo umano, anche se è solo una lampadina sul comodino, immaginatevi in una strada di Las Vegas. La melatonina serve a regolare il ritmo circadiano di alternanza notte e giorno del nostro organismo, che da qualche milione di anni fino a poco fa era abituato che di notte fa buio. Adesso sappiamo che l’alterazione del ritmo circadiano è una potenziale causa diretta di malattie oncologiche, oltre che indiretta di altre patologie, fisiche e mentali. Pensavamo di salvarci coi Led, eccellenti risparmiatori di energia. Purtroppo quelli finora disponibili emettono luce con forte componente blu, molto piĂš stressante della riposante luce rossastra delle care vecchie lampadine a filamento, che sono però un disastro dal punto di vista energetico. Naturalmente, non se la cavano meglio gli animali (e le piante). L’inquinamento luminoso ha effetti evidenti sulle abitudini di alcune specie (gabbiani e storni notturni a Roma, per esempio), e piĂš difficili da misurare in altre specie che devono orientarsi nelle migrazioni, nell’equilibrio predatori-prede e molto altro. Nonostante l’Italia non sia certo al primo posto al mondo per reddito o per produttivitĂ , purtroppo scopriamo che è invece una delle nazioni piĂš gravemente colpite dall’inquinamento luminoso. Certo, la causa principale è l’alta densitĂ abitativa del nostro paese, per esempio rispetto alla Francia, o alla Germania, che hanno ancora vaste zone abbastanza buie. In Italia, l’energia usata per l’illuminazione pubblica è passata dai mille GWh di cinquant’anni fa ai seimila GWh attuali, e nelle regioni piĂš industrializzate, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, l’aumento è ancora maggiore. Alle luce pubblica bisogna aggiungere tutte le altre sorgenti luminose private, dai centri industriali agli shopping center. Ma sembra che ci sia una nota di speranza. Le misure di Falchi e Cinzano dicono che l’inquinamento luminoso non è aumentato di conserva con l’energia dispersa nella illuminazione pubblica o privata. Anzi, sembra che, almeno, abbia smesso di crescere. Forse le leggi che molte regioni si sono date o si stanno dando hanno qualche effetto. Impongono misure molto semplici e a costo zero, come adoperare lampade rivolte verso il basso o del colore giusto. Oppure sono leggi che favoriscono risparmi banalmente imponendo, per esempio, di spegnere davvero le luci non necessarie. Per il futuro, bisognerĂ fare anche attenzione alle lampade a Led, controllando bene il loro uso e la loro direzionalitĂ . Un gigantesco passo avanti verrĂ dall’arrivo, ormai imminente, delle auto a guida automatica: loro non hanno bisogno di fari e neanche di violente luci stradali. "DDBEFNJB EFJ -JODFJ

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CENDERETE DAI COLLI ALBANI calpestando terra negra punteggiata di borra-

gine, poi sarete nella piana delle acque vive ai piedi dei Lepini con le fortezze preromane sugli strapiombi, quindi verranno i boscosi Ausoni che hanno dato all’Italia il nome antico e, subito dopo, i cavernosi Aurunci dalle spettacolari fioriture a picco sul mare. Vi perderete nei labirinti di Gomorra che un tempo fu Campania Felix, poi la vista spazierĂ sui monti del Lupo e del Picchio e gli altri della costellazione sannitica, avanti nell’Italia dimenticata degli Osci, degli Enotri e degli Japigi, fino al GJOJT UFSSBF di Brindisi e all’Apulia della grande sete. Volevo che il mio ultimo viaggio per 3FQVCCMJDB, quello sui selciati e i sentieri dell’Appia antica, avesse un sigillo speciale. Qualcosa che, anzichĂŠ chiudere una storia, ne aprisse una nuova, meglio se raccontata da altri. L’avevo promesso ai lettori. Ed ora eccolo qui, il libro sulla Gran Via restituita agli italiani dopo la traversata a piedi del 2015. Sentivo di doverlo fare, piĂš per senso civico che per letteratura. Per qualcosa che va oltre il diritto individuale allo spazio e diventa dovere verso la propria Terra. Ăˆ per questo che nel racconto, in uscita il 9 giugno, c’è la descrizione e la mappatura (anche in versione online) dell’itinerario offerta ai camminatori. Ed è per questo che lo stesso giorno succederanno altre due cose: l’apertura al Parco della Musica di Roma, nell’ambito della “Repubblica delle ideeâ€?, di una mostra sulla Regina Viarum, costruita in gran parte con nostri materiali, e l’uscita di un nuovo dvd con sottotitoli in inglese, utile anche ai viandanti stranieri. SarĂ il regalo finale dei quattro dell’Appia antica: Riccardo Carnovalini, Alessandro Scillitani, Irene Zambon e chi scrive. Ora davvero l’Appia potrĂ essere il nostro Cammino di Santiago. Ma con importanti differenze. Il tracciato italico non si apparta per valli solitarie. Non è costellato di ostelli e di confortevoli punti di sosta. Non ha alle spalle una letteratura recente. Ăˆ una strada ancora tutta da attrezzare. Una strada che chiede la riconquista di uno spazio selvaggio o dilapidato dall’incuria degli Italiani e ci ordina di resistere all’oblio, a costo di combattere con l’asfalto, i guard-rail e le recinzioni abusive. SĂŹ, per accedere alle meraviglie nascoste dell’Italia si deve fare talvolta del lavoro sporco, perchĂŠ l’ambiente non è solo bosco e idillio di brughiere, ma anche cittĂ , periferia, fabbrica, banlieue. Il cammino vero si fa nel mondo, non fuori dal mondo. Non è arroccamento in riserve indiane. E cosĂŹ come sopporta vesciche, graffi e punture di tafani, il vero esploratore accetta anche zaffate di tubi di scarico, insulti e diffidenza. La viandanza è immersione, non decollo verso altezze rarefatte; è contaminazione, metamorfosi. Può essere paracarro, campo di frumento, cava di pietra, metanodotto, muretto a secco, greto, tratturo, passaggio a livello, uliveto, pelle di serpente. E poi, non è vero niente che “tutte le strade portano a Romaâ€?. Semmai “tutte le strade partono da Romaâ€?, perchĂŠ è Roma lo straordinario punto zero di un conteggio delle miglia che innerva come una ragnatela l’Europa e lo spazio mediterraneo. Chi taglia a piedi un territorio come l’I-

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talia del centro-sud vede molte cose che altri non vedono, specialmente i politici di scarpa lustra. Credere che siano le periferie a dover accorgersi del centro è qualcosa che con l’antica Roma aveva poco o nulla a che fare. Ma forse tutto questo nostro Paese, nato troppo in fretta, andrebbe riletto a rovescia. A noi è bastato poco per capire che la Linea Magica che aveva portato a sudest il segno di Roma nel cuore del Mare Nostrum ora portava verso l’Urbe il segno della camorra. In pochi mesi, dopo il nostro passaggio, Roma e Brindisi perdevano i loro sindaci, decapitate dalla politica o dalla magistratura, e la terra dei Casalesi era investita da inchieste pesanti. A tutt’oggi tra Roma e il Casertano, undici su trentanove Comuni attraversati dalla Gran Via sono commissariati, con la provincia di Latina che — con una concentrazione anomala di appalti sospetti — si fa anello di congiunzione fra Gomorra e la Capitale. Tutto questo non lo capisci con i droni e gli smartphone, ma usando i piedi. Sono loro il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante. I piedi non sono arti, ma organi di senso che mandano alla testa una strepitosa quantitĂ di segnali. Nello stesso tempo la strada ribalta schemi e pregiudizi. Proprio nelle terre piĂš malfamate è facile trovare i segni di

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un’ospitalitĂ da Grecia antica. Quanto piĂš, verso il magnifico capolinea, i segni dell’archeologia si rarefanno, tanto piĂš la temperatura umana aumenta. E poi, quanta varietĂ e bellezza in piĂš rispetto a Santiago. La via italiana non è solo campagna, pietre miliari e basolato. Ăˆ donne ai balconi, pasta alle melanzane, rospi schiacciati, vento nei canneti, la mamma e Padre Pio. Pane cafone, fiori su un guard-rail, caffè alla nocciola e cani perduti. Ăˆ argine, solco di carri sulla roccia viva, tiglio solitario, cantoniera abbandonata, cancello con la scritta ATTENTI AL CANE. L’Appia è fatamorgana, fantasma meridiano che galoppa nei campi di colza inondati di sole. Proprio dove ti schianta con le sue devastazioni, l’Italia del Sud si fa perdonare con una fritturina di paranza o col pane cotto con patate, aglio, peperoncino ed erbe di campo. Se passerete a piedi in questo mondo appartato, sismico e fertile, dai sapori ancora pieni, sappiatelo: sopporterete tentazioni peggio di Sant’Antonio. Tutto cospirerĂ per farvi desistere. Ma almeno inghiottirete il Paese a forchettate. Ruminerete insieme cibo, storia, flora, fauna e paesaggio. Melanzane fritte e Federico di Svevia, Aglianico e canti ebraici di Oria, carciofi alla giudia e Satire di Orazio Flacco. L’Appia non è solo i suoi celeberrimi chilometri iniziali. Ăˆ molto di piĂš. Per cominciare, essa è il solo cammino europeo leggibile nei due sensi. Mentre Santiago ha un significato POF XBZ, la via romana racconta due grandiose storie parallele. La strada verso Brindisi appartiene alle legioni, quella verso Roma agli apostoli Pietro e Paolo, al Cristianesimo che sbarca in Occidente. Essa è continuitĂ di storia, un asse che riassume la storia d’Italia ben oltre l’epoca romana, parla dei popoli del mare, dei Greci, dei Saraceni e degli Ebrei. Narra di Svevi e Longobardi. Evoca la Resistenza e le repressioni borboniche, l’epopea garibaldina e la devastazione degli anni Sessanta. C’è molto di piĂš che sul $BNJOP spagnolo. L’Appia è il portale d’accesso a un arcipelago unico al mondo di mausolei, anfiteatri, ville, opere di difesa, stazioni di sosta, locande. Camminandoci sopra, potrete sentire il passo delle legioni e il flusso delle mercanzie, il raglio degli asini e le grida dei traghettatori, e questo vi aiuterĂ a scrivere una rapsodia italiana persino piĂš autentica del rinomato Grand Tour. Essa sarĂ per voi un modello insuperato di CSFWJUBT rispetto alla viabilitĂ contemporanea tormentata da svincoli, rotonde e sottopassi. Un esempio unico di lavori pubblici ben fatti e buona manutenzione. L’Appia è unica. Un marchio di formidabile richiamo internazionale. Ai camminatori dico: ora tocca a voi scrivere la storia. Basteranno i vostri piedi, un buon tagliaerba e qualche cartello. L’Appia non è il Colosseo. Ăˆ una scommessa leggera, a fronte di un investimento pesante. Ve ne accorgerete: ci vuole poco per riprendersi l’Italia. ÂŞ3*130%6;*0/& 3*4&37"5"

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PIEDI, GLI OCCHI, IL CUORE DI PAOLO RUMIZ e dei suoi compagni di viaggio: cosa avrebbe potuto chiede-

re di piĂš la vecchia Via Appia, regina delle strade? SembrerĂ strano, ma era da un tempo infinito che nessuno prendeva l’Appia per il suo verso: che è quello di essere una strada. Una strada da percorrere tutta, senza badare ai confini tra le regioni o i comuni, tra lo spazio pubblico e l’aggressione dei privati (abusivi o no), tra il bello e il brutto, tra la storia e la sua negazione, tra il monumentale e il demenziale. Come tutti i pellegrinaggi religiosi, il Cammino di Santiago promette, a chi lo percorre con fede, indulgenze e remissione dei peccati. Agli italiani che la percorreranno con incrollabile fede nella propria umanitĂ l’Appia promette, invece — oltre ai piaceri della carne e dello spirito irresistibilmente cantati da Rumiz — la conversione alla saggezza piĂš alta, e meno diffusa: quella dell’uso sostenibile del nostro territorio, della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, del primato dell’interesse pubblico su quello privato. Oltre sessant’anni fa è stato Antonio Cederna a fare dell’Appia uno specchio del Paese: uno specchio capace di svelare la struggente bellezza dell’Italia lontana dai feticci del turismo globale, ma anche l’abisso di stoltezza con cui abbiamo distrutto quella bellezza. Intervenendo all’assemblea di Confindustria, dieci giorni fa, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini ha detto che ÂŤsiamo un Paese che ha investito tantissimo in tutela. Abbiamo fatto bene: abbiamo vinto quella battaglia, abbiamo punte di eccellenza. Ma non abbiamo investito altrettanto in valorizzazioneÂť. Ecco, percorrere l’Appia significa sbattere contro l’evidenza del contrario: non abbiamo affatto vinto la battaglia della tutela. E rischia di fare enormi danni una retorica che fondi su questo abbaglio la stagione di una valorizzazione pigliatutto. Questo è il punto: l’idea (fortissima, popolare, vincente) dell’Appia come del nostro Cammino di Santiago non deve ridursi a un brand, a un Grande Progetto, a un format fatto di segnaletica e app per l’iPhone, magari con la partecipazione decisiva delle societĂ che hanno sventrato il Paese con Grandi Opere inutili. E che il concorso appena bandito per altri dieci supermusei preveda che l’Appia venga sottratta alla soprintendenza e sia invece affidata a un superdirettore (che potrebbe essere benissimo un esperto di marketing, come è accaduto per la Reggia di Caserta) cui dovrebbe spettare anche la tutela paesaggistica e archeologica è passo decisivo in quella pessima direzione. ChissĂ se un giorno potrĂ tradursi in realtĂ un altro modo di pensare: chissĂ se avremo mai una soprintendenza unica per tutta l’Appia, da Roma a Brindisi. Una soprintendenza popolata di diecine di giovani archeologi capaci di scavare, sistemare, tutelare e raccontare ai cittadini la nostra storia straordinaria. Una struttura capace di produrre insieme difesa del territorio, ricerca, conoscenza e piacere diffuso: capace di farci attraversare questa strada unica al mondo non come clienti o consumatori, ma come pellegrini della conoscenza gratuita. Non come numeri da esibire nelle statistiche ministeriali, ma come persone: alla ricerca di quel ÂŤpieno sviluppo della persona umanaÂť (articolo 3 della Costituzione) che è il vero scopo di ciò che chiamiamo patrimonio culturale. Un progetto carico di futuro: e che magari sarĂ realizzato da un ministro per i beni culturali che da bambino avrĂ percorso tutta l’Appia con gli occhi spalancati, il cuore aperto e il cervello acceso. E con in tasca il libro di Paolo Rumiz.

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quello. E se ancora non esiste, qualcuno si sbrighi a inventarla. Perché il riscaldamento globale è il problema esistenziale numero uno, e non è pensabile che la tecnologia (che ha contribuito a crearlo) non riesca a fare niente per risolverlo. La madre del TPMV[JPOJTNP, come Evgeny Morozov ha ribattezzato l’attitudine miracolistica nei confronti del progresso elettronico, è sempre incinta. Però stavolta il tema è troppo serio anche per gli ottimisti professionali della Silicon valley. La domanda da un milione di dollari dunque resta: possiamo trovare una via d’uscita ingegneristica al labirinto in cui ci siamo cacciati, tra l’altro, a forza di spingere sull’acceleratore dei Suv e sbranare bistecche dal costo ambientale proibitivo? La lista di Jason Pontin, direttore-editore della 5FDIOP MPHZ 3FWJFX, il mensile del leggendario Massachusetts Institute of Technology, inizia con un classico rivisitato: «Il OVPWP nucleare. Si tratta dell’unica tecnologia per produrre energia che è DBS CPO OFVUSBM, può essere impiegata su larga scala e non ha il problema dell’intermittenza, tipica dell’eolico e del solare. Sistemi come i reattori nucleari a sali fusi, non esattamente nuovi ma mai utilizzati, hanno il potenziale di renderlo sicuro e molto più economico». Pontin cita poi i metodi di manipolazione genetica: «Come il celebre Crispr-Cas9, consentono di creare colture come grano o riso che potranno sopravvivere anche a picchi di calore, tempeste e siccità di un clima impazzito. Caratteristica importante perché nel 2050 saremo 9,6 miliardi e i rendimenti dei raccolti si stanno già fermando». Quindi adattarsi, più che risolvere. Infine parla di intelligenza artificiale: «Si potranno creare migliori modelli predittivi per sostenere lo sviluppo dell’energia eolica e solare. Perché se sai quando farà bello o ventoso si potrà far incontrare l’offerta con la domanda energetica e sarà più facile aumentare la percentuale di energia proveniente dalle fonti rinnovabili». Idee che sottoscrive anche Stewart Brand, decano dei tecnologi californiani, vero autore del 4JBUF BGGBNBUJ TJBUF

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GPMMJ fagocitato da Steve Jobs, evidentemente in modalitĂ risparmio energetico (ÂŤMi piacciono tutteÂť, si limita a rispondere). Una cosa in cui Pontin non crede affatto e che liquida come cosmesi lessicale è invece il ÂŤcarbone pulitoÂť, ossia una serie di procedimenti per ridurne l’impatto ambientale (ÂŤdavvero non capisco come possano renderlo economicoÂť). Quella del costo è una delle tradizionali obiezioni al HFPFOHJOFFSJOH, la serie di interventi tecnologici, dal catturare il CO2 e stivarlo negli oceani a schermare la terra dal sole, per ridurre il riscaldamento. L’altra grande controindicazione — oltre all’essenziale ignoranza sul se funzioneranno — ha a che fare con l’B[[BSEP NPSBMF, ovvero puntare su rimedi a valle, intervenire sui sintomi invece che sulle cause, di fatto autorizzando l’umanitĂ a continuare ad alzare a manetta l’aria condizionata, come se non ci fosse un domani. Eppure, non piĂš tardi un paio di settimane fa, in una saletta del Future of Humanity Institute dell’universitĂ di Oxford, tutto meno che un covo di creduloni, ho assistito a un seminario dove un relatore tedesco spiegava a un manipolo di scienziati tra cui il direttore dell’istituto Nick Bostrom i vantaggi del TPMBS SBEJB

UJPO NBOBHFNFOU. In pratica una specie di aerosol di solfato spruzzato da palloni aerostatici per creare un’intercapedine vaporizzata tra sole e terra, con lo scopo di raffreddarla. Un fisico dell’istituto aveva fatto i conti (ÂŤi solfati, ai prezzi correnti, dovrebbero costare circa un miliardo di sterline all’anno. L’intero progetto una decinaÂť) e, spalmando la bolletta tra i paesi piĂš ricchi, li aveva trovati sia congrui che sostenibili. PerchĂŠ la vera preoccupazione si chiama UFSNJOBUJPO TIPDL, l’eventualitĂ per cui lo scudo sia disattivato di colpo provocando un super-rialzo di temperatura dalle conseguenze devastanti. Interpello Pontin: ÂŤCredo che a un certo punto dovremo togliere del carbonio dall’ambiente, perchĂŠ non riusciremo a rispettare il tetto dei due gradi di aumento. Chiamiamolo HFPFOHJOFF SJOH o in qualsiasi altro modo ma prima di realizzarle, queste idee dovranno essere approfonditamente studiate e regolate da trattati internazionaliÂť. Tutto può aiutare, e possiamo sperare in sorprendenti sviluppi. Però la speranza non è mai una grande strategia. Andrew Revkin, che insegna alla Pace University e scrive di ambiente sul /FX :PSL 5JNFT, parla di SFBMJUZ HBQ, riferendosi allo scarto tra la realtĂ e le sproporzionate aspettative che sembriamo nutrire circa l’effetto che sortirĂ installare piĂš pannelli solari sui tetti delle nostre case. Le tecnologie che cita come piĂš utili alla causa non hanno direttamente a che fare con l’ambiente: ÂŤPenso soprattutto a internet. Tra tanti esempi DigitalGreen, una no profit indiana che usa Youtube per insegnare ai contadini tecniche di coltivazione, o Terrapattern e PicturePile che, ognuna a suo modo, consentono un monitoraggio per immagini del cambiamento climaticoÂť. L’ultimo esperto è Alec Ross, consulente sull’innovazione per l’amministrazione Obama e autore de *M OPTUSP GVUVSP (Feltrinelli): ÂŤTutti i nostri progressi tecnologici non serviranno a niente se distruggiamo l’ambiente, per questo un vero balzo avanti sull’energia pulita è piĂš importante di qualsiasi altra ricerca. Se c’è una tecnologia universalmente disponibile è il solare. In particolare mi piace la cosiddetta benzina solare, ovvero quel procedimento che, attraverso una fotosintesi artificiale, trasforma, a impatto zero, l’energia in un carburante a impatto zero. Oppure, sul fronte nucleare, i piccoli reattori raffreddati al sodioÂť. Il catalogo delle possibilitĂ , ovviamente, è ampio. Dai pannelli solari galleggianti, sistemati nei bacini d’acqua, a una conversione in massa al vegetarianesimo, dal momento che le greggi producono dall’8 al 18 per cento delle emissioni globali, tante quante escono dagli scappamenti delle auto. Tutto legittimo tranne l’illusione, quella sĂŹ catastrofica, che esista una scorciatoia. ÂŞ3*130%6;*0/& 3*4&37"5"

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NA CULTURA NON PUĂ’ sopravvivere a

lungo senza una base agricola sostenibile e un’etica dell’uso della terraâ€?. A sostenerlo, lo scienziato australiano Bill Mollison, fondatore della QFSNBDVMUVSF, ovvero QFSNB OFOU DVMUVSF BOE BHSJDVMUVSF (in italiano, permacultura), il sistema di progettazione architettonica, sociologica, culturale che mette al centro il rapporto con l’agricoltura e il territorio. La Giornata mondiale dell’ambiente celebra questa necessitĂ di riannodare i fili, anche attraverso il cibo, anello terminale del ciclo produttivo che comincia con la semina dei campi. Ce ne siamo dimenticati, eppure “mangiare è un atto agricoloâ€? (cfr. Wendell Berry). Mangiamo insalate insacchettate nella plastica, carni tritate ricavate dalle carcasse dei polli, frutta coltivata senza un grammo di terra nelle vicinanze. Aggiungiamo e togliamo dagli alimenti che introduciamo ogni giorno lattosio, glutine, selenio, calcio, uova, arachidi, glucosio, come se da questa pratica ossessiva dipendesse la formula dell’eterna giovinezza, salvo scoprire che la donna piĂš longeva del mondo, centosedicenne piemontese di Pallanza, mangia tre uova tutti i giorni, “uno crudo e due cottiâ€? (sicuramente non da galline di batteria) con buona pace del colesterolo cattivo. PiĂš che intolleranze e allergie, può la salubritĂ di ciò che mangiamo. Per questo l’agroecologia ha cosĂŹ tanta presa su donne — in quanto madri ma anche semplicemente piĂš attente — e giovani. Il mix benefico di benessere animale, salvaguardia della terra e piacere dei gusti originari conduce inevitabilmente al recupero di pratiche antiche e salvifiche, a partire dalla reintroduzione di razze e varietĂ rustiche, resistenti a malattie e privazioni. E poi niente irrigazioni forzate, erba e fieno al posto dei trinciati di mais, libertĂ di razzolare invece dei capannoni-lager, rotazione delle colture per restituire al terreno ciò che ha consumato nel ciclo vegetativo precedente, trappole ormonali biologiche per ingannare gli insetti dannosi, e a mo’ di concime del sano letame, distante anni luce dalle deiezioni degli allevamenti intensivi, tanto acide da dover essere smaltite come rifiuti speciali. Per celebrare degnamente la festa planetaria dell’ambiente, organizzate un picnic sull’erba rigogliosa dei pascoli di tarda primavera: la prosa bucolica di un casaro e della sua toma d’alpeggio vi faranno dimenticare d’incanto tutti i formaggini industriali ingollati nell’ultimo decennio.

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Esattamente trent’anni fa, insieme ad altri scienziati, coniò la parola “biodiversitĂ â€?. Oggi, a ottantasette anni, dopo aver studiato per una vita la relazione tra perdita di habitat e tasso di estinzione di una specie, il decano dei biologi americani ha in tasca la ricetta per salvare il nostro pianeta: trasformare metĂ della Terra in una riserva naturale. “Lo so, sembra un obiettivo impossibile, ma vi assicuro che è assai piĂš raggiungibile di quanto si immagini. Del resto è l’unico modo che abbia- però, avevo pochissime informazioni su come tali danni possano innescare delle specie e favorire la diminuzione di biodiversitĂ . Nel 1963, con Robert MacArthur dell’UniversitĂ di Princeton, descrivemmo per la primo per far sĂŹ che la biosfera non estinzioni ma volta in modo chiaro la relazione tra la perdita di habitat e il tasso di estinzione delle specie. Solo a cominciare dal 1986, quando con altri scienziati inil termine biodiversitĂ , si iniziò a valutare piĂš esattamente i venga distrutta: è la nostra casa troducemmo danniÂť. E perchĂŠ ha scritto “MetĂ della Terraâ€? soltanto ora? ÂŤStudi recenti hanno mostrato che un quinto dei vertebrati, gli animali vivente, distruggerla vuol dire meglio studiati (uccelli, mammiferi, pesci, anfibi, rettili), è ormai a rischio estinzione, anche se con sfumature diverse (da “vulnerabileâ€? a “minacciaa “seriamente minacciatoâ€?). Tutti i nostri sforzi di conservazione hanno condannare la nostra stessa spe- toâ€? avuto come risultato un rallentamento del tasso di estinzione, ma solo per un quinto di questo gruppo a rischio. La causa principale dell’estinzione delle specie è la distruzione degli habitat. Se un habitat si riduce, il numero di cie all’estinzioneâ€? specie che quell’habitat può sostenere diminuisce approssimativamente

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OTTANTASETTE ANNI EDWARD O. WILSON, il

decano dei biologi americani, ha ancora voglia di combattere per difendere il Pianeta. E di avanzare teorie controcorrente. Lo fece nel 1975, con 4PDJPCJPMP HJB MB OVPWB TJOUFTJ, libro in cui proponeva che ogni comportamento sociale umano può avere basi biologiche. Torna a farlo ora con .FUĂ‹ EFMMB 5FSSB (Codice edizioni-Le Scienze, traduzione di Simonetta Frediani, dal 9 nelle librerie): per salvare la vita, sostiene Wilson, dobbiamo trasformare metĂ della Terra in una riserva naturale. Anche i due Pulitzer vinti raccontano di uno scienziato che ha sempre fatto la spola tra biologia animale e societĂ : nel 1979 fu premiato per il saggio 4VMMB OBUVSB VNBOB, nel 1991, insieme a Bert HĂślldobler, per 'PSNJDIF TUPSJB EJ VO FTQMPSB[JPOF TDJFOUJGJDB. Nato in Alabama, Wilson ha passato la maggior parte della sua vita a studiare quei piccoli insetti. ÂŤSono creature meravigliose, da cui ho imparato tantissimo. All’inizio ho lavorato per decifrare il codice “chimicoâ€? con cui comunicano all’interno delle colonie. Come molti insetti e altri piccoli organismi, lo fanno con segnali a base di feromone. Dimostrai che era possibile programmare una colonia per creare caste con diverse specializzazioni, per esempio l’accudimento dei piccoli, l’assistenza alla regina o la costruzione del nidoÂť. Professor Wilson, lei ha avuto una carriera rapida e brillante: a ventinove anni era giĂ professore ad Harvard, per oltre mezzo secolo ha girato il mondo studiando animali ed ecosistemi. Quando ha capito che l’essere umano rappresentava ormai una minaccia per la biodiversitĂ ? ÂŤBastò la mia prima settimana nelle foreste tropicali del Messico e dell’America centrale: mi resi subito conto dei danni arrecati dall’uomo. All’epoca,

con la radice quarta dell’area: se si vuole salvare l’80 per cento delle specie si deve preservare il 50 per cento dell’area originaleÂť. Questo dunque spiega la tesi del suo ultimo libro: traformare metĂ della Terra in una riserva naturale totale. ÂŤSĂŹ, è l’unico modo che abbiamo per salvare la maggior parte delle dieci milioni di specie che costituiscono la biosfera, la nostra casa viventeÂť. Davvero pensa che sia praticabile? E quale metĂ della Terra andrebbe protetta? Le aree piĂš selvagge o il 50 per cento di ogni Paese? ÂŤNon solo è possibile, ma anche piĂš facile di quanto si immagini. In tutto il mondo oggi sono protetti il 15% delle terre emerse e il 3 per cento dei mari. Ma rimangono molti altri territori ricchi dal punto di vista biologico che se trasformati in riserve ci permetterebbero di raggiungere il 50 per cento. Per il mare è piĂš facile: molti studi dimostrano che si vietasse la pesca in mare aperto, la produttivitĂ delle acque costiere finirebbe per aumentareÂť. Alla fine del secolo la popolazione umana potrebbe raggiungere quota dieci miliardi. Le persone dovranno concentrarsi nel restante 50 per cento della Terra? ÂŤGli esseri umani possono rimanere dove sono. L’esperienza ha dimostrato che quando le aree piĂš ricche di biodiversitĂ sono preservate dall’urbanizzazione e dall’aumento di popolazione, uomini e natura sanno coesistere. Inoltre, è sempre piĂš forte in tutto il mondo l’abbandono di territori poco popolati a favore delle cittĂ Âť. Lei è ottimista sul futuro demografico del pianeta. ÂŤSĂŹ, e dovrebbero esserlo anche gli altri. Ovunque nel mondo, dove le donne hanno ottenuto un qualche grado di indipendenza economica, il numero di figli per donna scende a picco. Se la tendenza attuale continuerĂ , la popolazione umana mondiale raggiungerĂ probabilmente un picco di undici miliardi per poi iniziare a diminuireÂť. Ma i consumi procapite continuano a crescere. Come faremo a preservare il 50 per cento del pianeta se la nostra impronta ecologica diverrĂ sempre piĂš grande? ÂŤIn realtĂ , anche il consumo pro capite è destinato a diminuire. L’impronta ecologica (e cioĂŠ l’ammontare di territorio richiesto per soddisfare le esigenze di ogni individuo) ora vale in media circa due ettari, ma probabilmetne nei prossimi anni si restringerĂ anzichĂŠ ampliarsi. Grazie ai progressi di biologia, robotica, nanotecnologie e alla rivoluzione digitale le persone vorranno prodotti piĂš piccoli, che consumano meno energia, che richiedono meno riparazioni e che hanno un impatto meno distruttivo sulla naturaÂť. I governi hanno hanno fatto molta fatica a trovare un accordo sul taglio delle emissioni di CO2. Come pensa che possano decidere in tempi brevi di “chiudereâ€? metĂ della Terra? ÂŤCi credo perchĂŠ i benefici saranno enormi: per la qualitĂ della vita, per la sopravvivenza delle generazioni future e anche per il controllo del cambiamento climaticoÂť. Ma politici e opinione pubblica ne sono consapevoli? ÂŤOra il cambiamento climatico è visto come un problema di vita o di morte per gli esseri umani. Presto anche il salvataggio del resto delle specie viventi sarĂ percepito allo stesso modo. La mia esperienza è che ovunque nel mondo, se ci sono educazione e opportunitĂ , le persone percepiscono la natura come importante per la propria vita quotidiana, ma addirittura cruciale per l’esistenza umana a lungo termineÂť. Narratore di storie, creatore di miti, e distruttore del mondo vivente: cosĂŹ lei definisce l’Uomo. In “MetĂ della Terraâ€? scrive che se continueremo a eliminare specie viventi al tasso attuale, presto la nostra era, che qualcuno chiama Antropocene visto l’impatto sul pianeta, sarĂ seguita dall’Eremocene, l’era della solitudine, in cui l’essere umano sarĂ circondato solo da specie allevate o coltivate per la propria sopravvivenza. Ma se invece dovessimo ruscire a fermare la distruzione, come potremmo chiamare il futuro? ÂŤContinueremo a chiamarlo Olocene, cosĂŹ come si definisce il periodo alla fine delle ere glaciali, quando la nostra specie si diffuse su un pianeta pieno di promesse e di bellezzaÂť. Il Wwf scelse il panda. Molti indicano il gorilla di montagna. Se lei, professor Wilson, dovesse suggerire un animale simbolo della perdita di biodiversitĂ , quale indicherebbe? ÂŤ)PNP TBQJFOT. Alla fine saremo noi a soffrire e a tramontare come specie per l’incosciente distruzione della biosfera: ha impiegato tre miliardi e mezzo di anni per evolvere, è da lei che dipende la nostra sopravvivenzaÂť.

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