Car te Blanche #4
1 0 4 days - 5 hours - 32 minutes M anuel Sc ano Serena Vestru cci
Car te Blanche #4
1 0 4 days - 5 hours - 32 minutes M anuel Sc ano Serena Vestru cci
Car te Blanche #4
104 giorni - 5 ore - 32 minuti
Cura redazionale e
104 days - 5 hours - 32 minutes
coordinamento del catalogo Catalogue Editing and
UniCredit Studio
Coordination Francesca Pagliuca,
Ar tisti / Ar tists
Nicoletta Scabini
Manuel Scano Serena Vestrucci
Contributi di / Texts by Maurizio Beretta
Mostra a cura di
(Head of Group Identity
Exhibition curated by
and Communications),
Francesca Pagliuca
Francesca Pagliuca (UniCredit Studio
Assistente curatore
Project Manager),
Assistant Curator
Daniele Perra, Beniamino Foschini,
Nicoletta Scabini
gli Ar tisti / The Ar tists.
Uf ficio Stampa
Traduzioni / Translation
Press Of fice
Ben Bazalgette
SEC Ar t Direction Logistica / Logistics
Pomo
Massimiliano De Sur y, Davide Locati
Design Alessandro Cavallini © Gli autori per i testi © The authors for the texts Car te Blanche è il titolo che contrassegna la collana di cataloghi e le esposizioni presso UniCredit Studio, nate per sostenere e promuovere giovani ar tisti e curatori a livello internazionale. Car te Blanche is the title of a series of catalogues and exhibitions at UniCredit Studio created to suppor t and promote young ar tists and curators internationally.
104 giorni - 5 or e - 3 2 m i n u t i 104 days - 5 hour s - 3 2 m i n u t e s M aurizio Beretta
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INTER V ISTE INTER V IE WS Francesca Pagliuc a
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P ROGETTI D ’ARTISTA ARTISTS ’ P RO JECTS
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MANUE L SC ANO
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D isegno E s pl oso E x pl oded D ra wing Beniamino Foschin i
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SERENA VESTRU CC I
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E rrore di S istema S ystem Error D aniele Perra
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RINGRA ZIAMENTI A CK NO WL EDGEMENTS
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104 giorni - 5 ore - 32 minuti Maurizi o B e re t t a Head of Group Identity and Communications
Poco più di un anno fa abbiamo inaugurato la prima edizione di Carte Blanche. In un solo anno molte cose sono successe: mostre, pubblicazioni e collaborazioni che hanno coinvolto artisti e curatori internazionali, sia in Italia che all’estero. UniCredit Studio, network di spazi espositivi all’interno delle nostre sedi, è nato per dare ai giovani degli spazi dove poter manifestare il proprio potenziale, spazi dove mettersi alla prova dando compiuta espressione ai propri indirizzi di ricerca e confrontandosi con un pubblico sempre più ampio. Il nostro intento, che si è mantenuto coerente sin dalla prima edizione, è stato creare (e, parallelamente, costruire le basi per poter sviluppare all’interno dei 22 Paesi dove siamo presenti) un progetto espressamente mirato al supporto di artisti agli inizi della loro carriera professionale. Lo abbiamo fatto perché da sempre riconosciamo agli artisti un ruolo insostituibile, per la portata dei cambiamenti che possono generare: sono portatori di nuove visioni, scardinano la prospettiva con cui leggiamo la realtà, ci aiutano a riflettere ed interagire col mondo giungendo ad un grado di maggior consapevolezza. Da qui l’importanza e la necessità di sostenerli sin dai loro esordi attraverso UniCredit Studio. Nella logica di un approccio che vuole condividere con gli artisti un percorso di crescita, quest’esposizione, già dal titolo, rende esplicito uno spostamento interessante: 104 giorni - 5 ore - 32 minuti è letteralmente un conto alla rovescia dal momento in cui gli artisti, Manuel Scano e Serena Vestrucci, e la curatrice, Francesca Pagliuca, hanno iniziato a lavorare a Carte Blanche #4. Lo spostamento sta nel dichiarare che la mostra, prima ancora della realizzazione delle singole opere, è essa stessa un processo, un organismo che cresce e si trasforma nel confronto e nella condivisione di idee, che si costruisce giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto. Le tracce di questo processo sono presenti anche nel catalogo come interventi speciali espressamente concepiti dagli artisti per un supporto cartaceo. Per la prima volta, con Carte Blanche #4, il catalogo ha al suo interno dei progetti d’artista, delle pagine che rendono la pubblicazione unica.
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104 days - 5 hours - 32 minutes M au ri z i o B e re t t a Head of Group Identity and Communications
Just over one year ago we celebrated the first edition of Carte Blanche. Much has happened since then: exhibitions, publications and collaborations with artists and curators from around the world, both in Italy and abroad. UniCredit Studio, the network of exhibition spaces located within our branches, was created to provide young artists with outlets in which to achieve their full potential. These are places where they can test their abilities, give full expression to their chosen areas of artistic exploration and engage an ever-broader public. Our initial objective, which was achieved from the program’s inception, was to support artists at the start of their professional careers, while laying the foundation to develop similar projects in each of the 22 countries in which we operated. We felt this was important because we believe that artists are capable of generating change and serve a vital role in society. They offer new vision and transform the way we interpret reality. They can shape our perceptions of the world around us and enable us to achieve higher levels of awareness. This is why we created UniCredit Studio as a place to nurture artist’s work from the earliest stages in their development. Given that our approach involves collaborating with artists in the midst of a seminal period of professional growth, the title of this exhibition evokes the essence of the work. 104 days - 5 hours - 32 minutes is, literally, a countdown, which began the moment the artists, Manuel Scano, Serena Vestrucci, and the curator, Francesca Pagliuca, started their work on Carte Blanche #4. Before the creation of the first work of art, the exhibition was an evolving composition, shaped by the exchange of ideas – a cohesive body of work developed day after day, hour after hour, and minute after minute. The traces of this process are also present in the catalogue as special interventions expressly conceived by the artists to be included in the pages. The Carte Blanche #4 catalogue is in fact the first in the series to contain specially prepared artists’ projects: pages which thus make the publication unique.
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Free Jazz di un mondo sommerso Una conversazione con Manuel Scano Free Jazz from a hidden world A conversation with Manuel Scano Vivere in temperatura artistica Una conversazione con Serena Vestrucci Living at an artistic temperature A conversation with Serena Vestrucci
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Free Jazz di un mondo sommerso Una conversazione con Manuel Scano Fran c e sc a Pa gl i u c a
Francesca Pagliuca: Il processo di realizzazione dell’opera è spesso affidato al caso, penso ai dipinti e ai disegni che prendono forma lasciando scorrere per ore pennarelli e matite sui fogli. Agisci indirettamente predisponendo un dispositivo e lasciando che delle macchine, costruite da te, dipingano e disegnino. Si tratta per la maggior parte di ventilatori dotati eccezionalmente di bracci meccanici, alle cui estremità applichi pennarelli, matite o colori. Sulla carta (fogli A4 legati assieme per formare un unico grande supporto) si accumulano tracce, sedimentano strati di colore. Mi racconti come è nata la prima opera di questo ciclo e che derive ha sviluppato? Manuel Scano: Il primo di questa serie di “macchinari” era composto da un insieme di elementi casalinghi. Un pezzo di plastica da imbianchino tagliato a forma di vela di circa 150 cm era collegato alla griglia di protezione di un ventilatore a colonna con oscillazione orizzontale. Due fili di cotone cadevano dalle estremità della vela scendendo per circa 120 cm. Fissati ai fili un mazzo di pennarelli di tipo carioca. La vela, gonfiata dal ventilatore, muoveva in maniera irregolare i pennarelli, che danzando producevano sul foglio una serie infinita di segni e movimenti. Il primo disegno è stato il risultato di una sovrapposizione di segni di circa 7 giorni, 24 ore su 24. Dopo un certo numero di sperimentazioni mi sono fermato per circa 2 anni, riprendendo nel 2010 un nuovo ciclo dove sviluppavo discorsi precedentemente iniziati: lavorare alla sovrapposizione/accumulazione temporale di diversi tipi di segni in parte casuali e imprevedibili, ma comunque tesi a comporre con metodo un’immagine astratta, cercando così di modulare segni e volumi come si potrebbero sistemare le note sul pentagramma di un ipotetico spartito free jazz. FP: Questa tipologia di opere nasce da processi che restano invisibili, racchiudono una complessità che non è immediatamente intuibile. Mi piace l’idea che, pur lavorando con gli oggetti, ciò che fai è tentare di andare oltre questi ultimi. È come stabilire un perimetro e cercare costantemente di oltrepassarlo, senza sapere esattamente cosa si troverà fuori ed abbandonando un rifugio sempre diverso. Imprevedibilità e metodo, come caos e ordine. Come queste due anime convivono / si incontrano o si scontrano nella tua ricerca? Pensando al progetto realizzato a Barriera, l’ordine sembra aver preso il sopravvento, forse solo temporaneamente… MS: L’installazione a Barriera si pone come il tentativo di esplicitare la forte componente evocativa che hanno gli oggetti se messi in relazione tra di loro in un modo particolare, lasciando il più possibile spazio al rapporto immaginativo che si instaura tra fruitore e opera. Il visitatore era invitato in maniera implicita a partecipare al meccanismo di trasformazione dei vari elementi dell’ installazione. Ci si trovava estranei. “Figuranti” di uno “spettacolo” a tratti inquietante, di un ecosistema dove circolarità e ripetitività erano alcune caratteristiche che ricordavano una o più circostanze della quotidianità. 12
FP: Trovo interessante la messa in discussione dell’autorialità (che si lega senza dubbio all’importanza rivestita dalla dimensione del caso), ma penso abbia una magia particolare in relazione alla presa di autonomia degli oggetti. Se viviamo in un mondo dove la tecnologia è invisibile, disciolta nel quotidiano, dove anche gli oggetti stanno perdendo il loro peso, tu rimarchi la loro presenza, il movimento, il rumore, l’ingombro, la loro elementare meccanicità. È corretto pensare al riscatto di un mondo sommerso? MS: L’idea di “riscatto di un mondo sommerso” è appropriata in quanto, nel mio caso, si tratta spesso di rapportarsi agli oggetti cercando di reinventarli, di trovare in loro quelle caratteristiche che ne esaltano le qualità nascoste. Riconosco che la cosa che mi stimola è cercare di far funzionare qualcosa. E quando funziona, è meraviglioso. FP: La serie di sculture “Patjupa (Under De Carlo)” celebra una forma di riscatto di materiali poveri, come quelli da imballaggio, materiali che non hanno una valenza autonoma in quanto servono per proteggere opere d’arte, oggetti “preziosi” a cui è stato attribuito un valore particolare. In questo capovolgimento c’è anche una riflessione che tocca il sistema dell’arte /del mercato? Penso sia presente questo tipo di riflessione anche legandola al fatto che queste sculture sono state estemporanee, non esistono più. Nessuno potrà mai comprarle. MS: Mi trovavo in quel periodo a lavorare come magazziniere per uno dei più importanti galleristi italiani. Usare come materiale per le mie sculture ciò che all’interno della galleria veniva identificato come scarto o inutile, mi era sembrato all’epoca, la più alta forma di riscatto. In quei momenti fantasticavo pensandomi prigioniero. Costretto ai lavori forzati, cercavo instancabilmente quei pochi momenti di distrazione delle “guardie” per potermi esprimere “liberamente”, per restituirmi qualche secondo d’evasione, sbeffeggiando così l’autorità di turno. Queste sculture sono il frutto della necessità di reinventare, capovolgendo i rapporti di potere. FP: Parlando della tua ricerca fai spesso riferimento alla musica, ed in particolare la musica jazz. Che parallelismi / influenze vi leggi? MS: Uso alcune caratteristiche del linguaggio musicale, e in particolare dell’improvvisazione free jazz, per pensare. E come se lavorassi al l’illusorio tentativo di fare musica a tre dimensioni cercando di usarne l’intrinseca complessità “narrativa”. Considero molte mie opere profondamente ispirate dalla musica di Conlon Nancarrow e Eric Dolphy e dal loro approccio atipico e sbilenco alla composizione. In particolare Out to Lunch e Out There di Dolphy e le composizioni per piano meccanico di Nancarrow rappresentano per me scoperte fondamentali. 13
Free Jazz from a Hidden World A conversation with Manuel Scano Fran c e sc a Pa gl i u c a
Francesca Pagliuca: Your process of creating a work is often entrusted to chance: I’m thinking of the paintings and drawings that take shape by setting pencils and markers loose on sheets of paper for hours. You act indirectly, setting up a device and letting these machines that you build draw and paint. Often these are oscillating fans to which you add mechanical arms, the ends of which hold felt-tip pens, pencils or paints. On the paper (A4 sheets bound together to make a major single surface) traces are accumulated and layers of paint settle. Can you tell me how the first work in this cycle came about and how it then went on to be developed? Manuel Scano: The first of that series of “pieces of machinery” was made out of a collection of household elements. A piece of a plastic painter’s drop cloth cut in the shape of a sail about 150 cm long was tied to the protective grille of a pedestal fan with horizontal oscillation. Two cotton threads were attached to the end of the sail, each about 120 cm in length. The threads were then tied around a number of magic markers. The sail, filled by the air from the fan, moved the pens in an irregular fashion, which as they danced around, left an endless series of marks and movements on the sheet. The first work was the result of the overlapping of signs after about seven days, 24 hours a day. After a certain number of experiments, I stopped for about two years, returning to it in 2010 with a new cycle, focusing on the idea of developing the work I had previously started: working on the temporal overlapping/accumulation of various types of markings, partly random and unforeseeable, yet at any rate designed to create an abstract image through the use of a method, thus trying to modulate signs and volumes just as the notes could be placed on the stave of a hypothetical free jazz score. FP: This type of work draws on processes which remain invisible, which withhold a form of complexity which is not immediately understandable. I like the idea that, despite working with objects, what you do is to try and go beyond them. It’s like establishing a perimeter and constantly trying to go beyond it, without knowing exactly what you will find out there, abandoning a different form of refuge time after time. Unpredictability and method, like chaos and order. How do these two forces cohabitate / meet or clash in your research? Drawing on the project in Barriera, there order seemed to have got the better hand, although perhaps only temporarily… MS: The installation in Barriera was an attempt to bring out the strong evocative component that objects have when placed in relationship between each other in a special way, leaving as much space as possible to the imaginary relationship which is created between the onlooker and the work. The visitor was implicitly invited to take part in the transformation mechanism of the various elements of the installation. We find ourselves excluded by it. We are mere “walk-on” parts in a “performance” which is at times disarming, an ecosystem in which circularity and repetitivity are only some of the characteristics reminiscent of one or more circumstances of everyday life. FP: I find it interesting how authorship is questioned here (undoubtedly bound up with the 14
importance attributed to the dimension of chance), but I believe it has a particular magic in relation to the objects’ acquisition of autonomy. While we live in a world where technology is invisible, dissolved into everyday life, one in which even objects are losing their own weight, you instead underline their presence, movement, noise, volume, and their elementary mechanicalness. Would it be right to think in terms of the redemption of a hidden world? MS: The idea of the “redemption of a hidden world” is appropriate insofar as – in my case – it is often a matter of relating to objects, trying to reinvent them, to draw out those characteristics within them that highlight their hidden qualities. I recognise that what stimulates me is trying to make something work. And when it works, it’s wonderful. FP: The series of sculptures “Patjupa (Under De Carlo)” celebrates a form of redemption of “poor” materials, like packaging: materials which have no autonomous value insofar as they are used to protect works of art, “precious” objects to which a particular value has been attributed. In this tableturning, is there also a reflection which concerns the art system/market? I believe this kind of reflection may be found, also linking it to the fact that these sculptures were extemporaneous: they no longer exist. Nobody will ever be able to purchase them. MS: At the time, I found myself working as a warehouse assistant for one of the most important Italian gallerists. Using that which within the gallery was looked upon as useless waste as the material for my sculptures seemed to me to be the highest form of redemption at the time. At that time I would imagine myself as a prisoner. Subjected to forced labour, I relentlessly sought out those precious moments of the “guards’” distraction in order to be able to express myself “freely”, in order to lay claim to a few seconds of evasion, mocking the power of authority. These sculptures are the result of that need to reinvent, to turn the prevailing power relationships on their head. FP: When speaking of your research, you often make reference to music, and to jazz in particular. What parallelisms/influences do you see in it? MS: I use certain characteristics of the musical language – and in particular that of free jazz improvisation – in order to think. It’s as if I were working on an illusory attempt to create threedimensional music, trying to exploit the intrinsic “narrative” complexity. I consider many of my works to be profoundly inspired by the music of Conlon Nancarrow and Eric Dolphy, and by their atypical and lopsided approach to composition. In particular Out to Lunch and Out There by Dolphy and the compositions for mechanical piano by Nancarrow represented fundamental discoveries for me.
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Vivere in temperatura artistica Una conversazione con Serena Vestrucci Fran c e sc a Pa gl i u c a
Francesca Pagliuca: Serena, per iniziare parlami della tua formazione. Dove hai studiato, le persone, gli incontri, le esperienze che sono state importanti per iniziare ad impostare la tua ricerca… Serena Vestrucci: Hai presente quando ripeti in continuazione una parola e arrivi a quel punto in cui non capisci più cosa significhi? È strano: succede sempre. “Formazione”. “Forma-zione”. “Form-azione”. Penso che ogni singolo momento contribuisca a quello che è l’aspetto della propria forma. Come escluderne alcuni? In base a quale selezione? Io credo che le rughe che già stanno iniziando a segnare il mio viso siano disegni di ogni singolo giorno di sole preso in vita mia + ogni singola risata + ogni singolo corrugamento + + +++ . Quando avevo ancora più o meno cinque o sei anni, in tv davano Il mistero della pietra azzurra. A me piaceva moltissimo, ma a casa invece si guardava Eduardo De Filippo, Don Camillo e Peppone e il Tenente Colombo. Quando proprio ci si voleva lanciare più sull’internazionale allora si tirava fuori Hair, Milagro e Blow up. Io non capivo perché quei ragazzi giocassero a tennis senza pallina e perché un comunista andasse d’accordo con un prete, ma vedevo i miei farsi grossissime risate e allora, tutto sommato, mi divertivo anch’io. L’ultimo anno di scuola materna le maestre ci hanno letto minuziosamente l’Odissea, per preparare una piccola recita. Ho studiato come costruirmi una lancia in cartone ricoperta di una bellissima carta adesiva oro e ho iniziato a vestirmi con delle tuniche colorate a tempera ricavate dalle federe dei cuscini e tagliate in basso con le forbici a zigzag. Mi sono formata pensando che i cavalli sono marroni perché sono tutti di legno e dentro ci sono piccoli uomini nascosti. A questi, con gli anni, si sono aggiunti altri uomini importanti che mi aiutano a lavorare, a pensare a me, e a guardare le grandi opere fatte dai grandi artisti. Uomini che nel mio stesso momento stanno scalando la montagna coltivando questo desiderio, sempre. Ogni tanto mi ripeto le parole di Garutti: “Il vero problema è che le opere devono essere anticipatrici e scardinatrici. Se non è così non ti deve bastare, troppo facile fare un bel lavoro… non basta.” FP: Ad un primo sguardo i tuoi lavori danno una sensazione di leggerezza, nelle forme, nei colori, nei titoli stessi – penso a KISS (Keep it simple and stupid) e a Se lavorassi per 10 Euro all’ora, quest’opera ne costerebbe 5. Penso anche al fatto che ritieni necessario segnalare il tempo impiegato a realizzarli, che diventa a tutti gli effetti parte integrante dell’opera. Una sensazione di leggerezza che però nasconde riflessioni attente, niente affatto ingenue. C’è una consapevolezza forte che ti porta a intaccare, dall’interno, il processo stesso di ideazione e realizzazione di un’opera (che spesso vive del contributo di terzi), ma anche la sua stessa gestione (penso a Lavoro in prestito). SV: Ho letto, non mi ricordo dove, che nell’arco di una vita perdiamo in media un mese e mezzo di tempo ad aspettare al semaforo rosso. Mi chiedo sempre come ognuno di noi occuperebbe altrimenti tutto questo tempo e immagino un’opera da pensare e realizzare 16
solo esclusivamente durante i momenti trascorsi davanti al semaforo rosso. Poi penso che gli eschimesi hanno una sola parola per definire il rosso ma ne hanno trenta per il bianco. Ultimamente sto pensando ad un’opera da dimenticare. Non capisco come relazionarmi al fatto di fare esperienza di qualcosa che possa poi venir dimenticato. Sto pensando a quando non si hanno le cose sott’occhio e si inizia a rielaborarle e trasformarle e falsarle. Diventano tutt’altro. Diventano mostri. FP: Mi piace che usi la parola “cose”. Mi fai pensare ad un libro di Remo Bodei, “La vita delle cose”: l’uso del termine “cosa” rimarca la presenza di un legame di tipo affettivo e relazionale; invece “oggetto” mette in campo una dimensione di possesso. SV: Mi piace parlare di “cose” perché ho sempre pensato che bisognerebbe rivalutare questa parola, finora considerata grossolana. Mi piacerebbe che si iniziasse a non considerarla come termine vago e indefinito, ma come il più leggero dei modi possibili per parlare di precisi oggetti presi in esame. Parlare di “cose” mi rimanda ad una forma di leggerezza. La leggerezza di chi non dice tutto, ma lo fa intendere lasciandolo nel sottinteso: “da cosa nasce cosa”… FP: In un progetto di cui mi hai parlato (per un’opera non ancora realizzata) rifletti su un aspetto che tocca il mercato dell’arte, ed in particolare le variabili che dovrebbero determinare il prezzo di un tuo lavoro. Chi è intenzionato a “possedere” un tuo lavoro, viene chiamato in causa a intervenirvi direttamente e questo comporta un coinvolgimento diverso dal mero possesso. Ti va di raccontarlo? SV: Ho preso parte ad un concorso per il quale ci veniva chiesto un progetto di un’opera da realizzare in ceramica entro un budget di 1500 Euro. Per la prima volta mi sono trovata di fronte ad un meccanismo di lavoro opposto a quello che solitamente adotto: in questo caso si doveva partire dal materiale e da lì risalire ad un’idea. Il problema che mi sono posta è stato quello di pensare a qualcosa che potesse essere fatto solo ed esclusivamente in ceramica. Nutro la convinzione che un’opera funziona quanto più “non può che essere così”. In questa specifica occasione: non può che essere di ceramica. O meglio, forma, dimensione e titolo devono essere legittimati dalla ceramica. Da questi punti ha iniziato a delinearsi un percorso che ha portato a Chi riempie paga e i cocci sono suoi. Il progetto prevede la realizzazione di una sfera cava di ceramica smaltata, colorata, di circa 60 cm di diametro. Ancora non so come stabilire un prezzo per i miei lavori, il loro corrispondente valore economico. Lascio così che sia l’opera stessa a deciderlo. Chi fosse interessato all’acquisto di questa scultura deve riempirla completamente di monete, disponendo della possibilità di scegliere la stima del conio da inserire nell’apposita fessura. La somma complessiva di tutte le monete determina il prezzo di vendita. Possedere l’opera significa allora andare ad intervenire sul suo peso specifico, modificandolo: il peso del suo valore 17
è stabilito dal volume del suo stesso spazio interno e all’acquirente è affidato il ruolo di completare il lavoro al posto mio, determinandone la cifra. L’atto della compravendita sancisce il momento in cui verrà conclusa l’opera. Alla fine il mio progetto non è stato quello selezionato dalla giuria e per ora vive in forma di racconto aspettando il momento in cui verrà finanziato e prodotto. O forse invece questo non avverrà mai e continuerò a mostrarlo nella sua dimensione di storia. FP: Trovo che il tuo sia, in ultima analisi, un discorso sull’arte e, proprio per questo, ha una portata potenzialmente inesauribile. Un discorso sull’arte che ha però il pregio di parlare una lingua comprensibile, nelle modalità in cui prende forma. Privilegi infatti materiali semplici, che hanno spesso connotazioni ludiche, come coriandoli, fogli, plastica colorata e pennarelli colorati. SV: Non esiste un momento in cui parlare di arte e al termine del quale si finisce di parlare di arte. È un continuo discorrere o un mai cominciare. Non credo nella difficoltà del conversare sull’arte: parlare di arte è parlare di ogni cosa in una certa maniera. In temperatura artistica. Non si tratta di parlare di arte, ma di parlare artisticamente di tutto. Un lavoro parla al mondo di una realtà. Allora Arte non è più il momento del fare, ma del vivere. Ho sempre pensato che chiunque, in situazioni pubbliche, non sia in grado di accorgersi di stare dando le spalle a qualcun altro, disturbandone la vista, non è certamente un artista. Io vedo nell’arte l’incredibile forza di renderci meno selvatici verso la vita e verso gli altri. Mi piacerebbe che la gente imparasse a fare attenzione alle cose, ad accorgersi della loro presenza. È una questione di sensibilizzazione. E di volontà: bisogna volerlo fare. E l’arte lo vuole fare perché è nella sua stessa natura il toccare con mano sensibile il mondo. Trovo nell’arte davvero un potere straordinario. Mi piace pensare che sia lo stesso che altri vedono nella chimica, nella filosofia, nell’architettura, nella musica… Ti posso chiedere ora in che senso parli di materiali semplici? È interessante! Mi piace! Perché io, al contrario, non direi che quelli che prediligo siano materiali semplici. Se penso solo all’uso che si è fatto della carta nei secoli dei secoli… È sicuramente un materiale povero, nel senso di non pregiato, ma io non lo sento davvero come semplice. Forse paradossalmente mi viene da pensare che sia più semplice il marmo: dopo quel tot di scalpelli che si possono utilizzare, non so quale raggio di varianti di lavorazione può offrire. Ho vissuto a Berlino per due anni. Il mio appartamento, come molti altri di Neukölln e Kreuzberg, era riscaldato con la stufa a carbone. Allora andavo a fare la scorta di una tonnellata di carbone nero per tutto l’inverno. Prima con della carta di giornale e poi con dei piccoli ceppi di legno: è così che mi hanno insegnato ad accendere la stufa. In effetti sono d’accordo con te. Sono semplici se penso che sono materiali sufficienti alla sopravvivenza, ai -20 gradi berlinesi. Mi piace pensarli semplici se, come in questo modo, legati alla necessità. 18
FP: Materiali semplici, nel senso di facilmente reperibili. In un testo hai usato una frase che mi ha fatto pensare: “il mio lavoro entra ed esce dal letto”. SV: Mi capita sempre che la sera mi vengano in mente milioni di possibilità, di immagini, di situazioni, si soluzioni. Sono euforica e ne parlo a quante più persone possibili, pensando di aver trovato qualcosa, convinta di svegliarmi il giorno dopo e iniziare a lavorare in quella direzione. Al momento non te ne rendi conto, e pensi che possa andare bene. Poi è a letto che il tutto si sistema. Proprio nella fase precedente all’addormentarsi sono più rilassata e diventa chiaro quanto c’è da togliere, da eliminare, da alleggerire. Si tratta di lasciare che venga fuori da solo. Il titolo, la forma… tutto. FP: La sensazione è che l’urgenza di fare ti porta ad impiegare quello che hai attorno. Questo non significa che ti adegui a quello che trovi, ma anzi riesci ad innescare determinati processi e riflessioni partendo da ciò che ti circonda. Mi descriveresti il tuo ambiente di lavoro? SV: Ovunque sia, c’è la radio accesa. Mi rendo conto che è davvero una condizione indispensabile affinché io possa lavorare. Condivido lo studio con altri artisti e capita di trovarli in completo silenzio. Io non riesco neanche ad iniziare a pensare nel silenzio: ogni oggetto che ho sul tavolo, per terra, appeso al muro mi appare spento, immobile, faticoso. Se la radio non funziona, non funziono neanche io. La radio è compagnonevole: è quella presenza che né ti costringe a chiacchierare, né pretende il tuo sguardo. Ricordo che l’opera di Fischli&Weiss che più apprezzai alla mostra organizzata dalla Fondazione Trussardi era quella stanza in cui una piccola radio trasmetteva le notizie del giorno prima. La radio è la contemporaneità per eccellenza e ogni volta che la uso ripenso a quel magico dislivello temporale. FP: Come arrivi alla scelta di un determinato materiale? SV: Non posso non pensare alle cose che entrano volontariamente o involontariamente nella mia vita. Funziona come con le persone: non avrebbe alcun senso pensare di innamorarsi di un uomo peruviano se nel luogo dove si è non se ne trovano. Nel momento in cui sentiamo di amare qualcuno abbiamo inevitabilmente attuato una scelta determinata da un’offerta che ci si presenta in uno specifico momento e in uno specifico spazio della nostra vita. Probabilmente se da domani andassi a vivere in Islanda inizierei ad interessarmi ai gas, alle loro proprietà, ai loro usi. Ora, invece, sono in treno di ritorno a Venezia dove sto chiudendo proprio in questi giorni un lavoro che mi ha vista impegnata negli scorsi tre mesi. Io lo considero un quadro, una veduta della città. O meglio, un’operazione con cui vedere potenzialmente infiniti quadri. Ho costruito a quattro mani una piccola barca di legno, per due persone. Si intitola Paesaggio 2011. 19
Living at an artistic temperature A conversation with Serena Vestrucci Fran c e sc a Pa gl i u c a
Francesca Pagliuca: Serena, to start with, tell me about your training. About where you studied, the people, meetings and experiences that were important in terms of starting to set up your research approach… Serena Vestrucci: You know what it’s like when you repeat a word so often that you get to a point that you no longer understand what it means? It’s funny: it always happens. “Training”. “Train-ing”. “Tray-ning”. I believe that every single moment contributes to shaping an artist’s training. Why should some of them be left out? On the basis of what kind of selection? I believe that the lines that are already starting to cross my face are drawings traced by every single day I’ve spent in the sun + every single laugh + every other kind of wrinkling + + +++ . When I was still about five or six years old, on TV they used to show Il mistero della pietra azzurra (“Nadia – The Secret of Blue Water”). I absolutely loved it, but in my house people watched Eduardo De Filippo, Don Camillo e Peppone and Columbo. When we really wanted to get international they would roll out Hair, The Milagro Beanfield War and Blow Up. I didn’t understand why those kids were playing tennis without a ball, and why a communist got on with a priest, but I saw my parents falling over with laughter and so all in all, I enjoyed myself too. In the last year of nursery school, the teachers read us The Odyssey from start to finish as part of the preparation for a school recital. I set about making myself a cardboard spear all coated in beautiful sticky gold paper and I began dressing up in tunics covered in poster paint, made out of pillowcases snipped along the bottom with pinking shears. I grew up thinking that horses were brown because they were all made of wood and there were little men hiding inside them. Over the years, other important men joined them: ones who helped me work, think about myself and look at the great works created by great artists. Men who at the very same time as me are climbing mountains, nourishing this desire, forever. Now and then I repeat Garutti’s words to myself: “The real problem is that a work must be anticipatory and mould-breaking. If it isn’t, then it is not enough. It’s all too easy to come up with a nice work… but it’s not enough.” FP: At first glance, your works give a sensation of lightness, in the forms, colours, and even in the titles – I’m thinking here of KISS (Keep it simple and stupid) and Se lavorassi per 10 Euro all’ora, quest’opera ne costerebbe 5 (“If I worked for € 10 an hour, this work would cost € 5”). I’m also referring to the fact that you feel it to be necessary to state the time taken to produce them, which for all intents and purposes becomes an integral part of the work. A sensation of lightness which however conceals carefully-pondered reflections, not in the least naïf. There is a strong awareness that leads you to tap into the very process of ideation and creation of a work from the inside (often also drawing on the contributions of third parties), and also of its management, like Lavoro in prestito (“Work on Loan”). SV: I read somewhere that over a lifetime, we spend on average a month and a half waiting at traffic lights. I always wonder how each one of us would otherwise occupy all this time, and I imagine a work to be thought up and created exclusively during the time spent waiting at a red light. Then I think that Eskimos have only one word to say ‘red’ but they have 30 to say ‘white’. Lately, I’ve been 20
thinking about a work to be forgotten. I don’t understand how to relate to the fact of having an experience of something that may then be forgotten. I’m thinking about when you no longer have things in front of your eyes and you start to re-elaborate them, transform them and falsify them. They become something else entirely. They turn into monsters. FP: I like the fact you use the word “things”. It reminds me of a book by Remo Bodei, “The Life of Things”: the use of the term “thing” underlines the presence of an affective or relational bond, whereas “object” evokes a dimension of possession. SV: I like talking about “things” because I’ve always thought that it would be a good idea to reassess this term, which until now has been considered rather clumsy. I would like it to be considered no longer a vague and indefinite term, but as the lightest way possible to speak of particular objects in question. Talking about “things” takes me back to a form of lightness. The lightness of those who leave some things unsaid while making them tacitly understood: “one thing leads to another”… FP: In a project that you talked to me about (for a work yet to be created), you reflect on an aspect that concerns the art market, and in particular the variables that should determine the price of one of your works. Whoever wishes to “own” one of your works is called upon to intervene directly, and this entails a form of involvement which differs from mere possession. Can you tell me more about this? SV: I took part in a competition in which we were asked to propose a project for a pottery work with a budget ceiling of € 1,500. For the first time, I found myself faced with a working mechanism completely unlike that which I usually adopt: in this case we had to start out from the material and work backwards from there to come up with an idea. The problem that I set myself was how to come up with something that could be created only and exclusively out of pottery. I harbour the belief that a work makes sense the more it “cannot but be like that”. On this specific occasion: it cannot but be made out of pottery. Or rather, the shape, size and title must be legitimised by pottery. From these points a path began to emerge which led to Chi riempie paga e i cocci sono suoi (“Whoever fills it up pays, and the shards are his”). The project foresaw the creation of a hollow sphere of glazed coloured clay, about 60 cm in diameter. I still don’t know how to set a price for my works, to establish their fair economic value. And so I let it be the work itself that decides it. Whoever is interested in purchasing this sculpture must fill it up with coins, yet is given the choice of choosing the coinage to be inserted into the slot. The final total of all the coins thus dictates the sale price. Thus owning the work means intervening on its specific gravity, modifying it: the weight of its value is established by the volume of its own inner space and the purchaser is entrusted with the role of carrying out this task in my place, determining its cost. The act of sale marks the moment in which the work will be concluded. In the end, my project was not chosen by the jury, and for now it exists only in the form of a story to be told, waiting for the moment in which it will be financed and produced. Or perhaps instead this will never take place, and I will just keep on telling people about it in its story dimension.
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FP: I feel that, at the end of the day, what you’re dealing with is a discourse on art itself, and for this reason it has a potentially limitless reach. Yet yours is a discourse on art which may lay claim to using a comprehensible language, and which takes place in a comprehensible manner. You in fact favour simple materials, often ones which have connotations with play, such as confetti, sheeting, coloured plastic and magic markers. SV: There is no moment in which to start talking about art or at the end of which you stop talking about art. It is an ongoing discussion or one that never starts. I don’t believe in the difficulty of talking about art: talking about art is talking about everything in a certain way. At an artistic temperature. It’s not a matter of talking about art, but of talking artistically about everything. A work speaks to the world about a reality. Thus art is no longer the moment of doing but of living. I’ve always thought that anyone, in a public situation, who is unable to realise that they’re turning their back on someone, or getting in the way of their line of vision, is clearly not an artist. In art I see the incredible power to make us less savage towards life and others. I would like people to learn to pay attention to things, to be aware of their presence. It’s a matter of awareness-raising. And of willingness – you need to want to do it. And art wants to do it because it’s in its very nature to reach out to the world with sensitivity. I find there to be an extraordinary power in art. I like to think that this is the same power that others see in chemistry, in philosophy, architecture, music… Can I ask you what you mean by simple materials? It’s interesting! I like it! Because I, on the other hand, wouldn’t say that I favour simple materials. I could think back to the use that has been made of paper over the centuries… It’s definitely a poor material, in the sense of not being valuable, but I really wouldn’t look on it as simple. Perhaps paradoxically I would be more inclined to think of marble as a simple material: once a given number of chisels has been used, I don’t know what further range of variations may be offered by the working process. I lived in Berlin for two years. My flat, like many others in Neukölln and Kreuzberg, had a coal stove for heating. And so off I would go to get my stock of a ton of black coal to see me through the winter. First with some newspaper and then with a few pieces of kindling: that’s how they taught me to light the stove. To tell the truth I agree with you. They are simple if you think they’re materials that can help you stave off the minus 20-degree Berlin winters. I like to think of them as simple if, as in this case, they are bound to necessity. FP: Simple materials in the sense of being widely available. In a text you used a sentence that made me think: “my work gets in and out of bed”. SV: It always happens to me that in the evening millions of ideas cross my mind: images, situations, solutions. I get really excited about it all and I tell as many possible as I can about it, in the belief that I’ve hit upon something, convinced that I’ll wake up the next day and start working in that direction. At the time you don’t realise it, and you think it’ll all go as planned. Then it’s in bed that it all gets sorted out. It’s in that stage, just before falling asleep that I’m most relaxed and it suddenly becomes clear what needs to be taken away, eliminated, lightened. It’s a matter of letting it all come out on its own. The title, the form… everything. 22
FP: The sensation is that the urge to create leads you to make use of all that which lies around you. This doesn’t mean that you make do with what you come across, but on the contrary, that you manage to trigger certain processes and reflections starting from that which surrounds you. Could you describe your working environment to me? SV: Wherever it is, the radio is on. I must admit that it’s an indispensable condition for me to be able to work. I share the studio with other artists and I often find them working in complete silence. I can’t even start thinking if there’s too much silence: every object that I have on the table, on the ground, or hanging on the wall looks dull, motionless, tiring. If the radio doesn’t work, I don’t work either. The radio is friendsome: it’s that presence that doesn’t force you to chat back to it, and nor does it demand your gaze. I remember that the work by Fischli & Weiss that I liked the most at the Trussardi show was that room in which there was a little radio broadcasting the news from the day before. The radio is contemporariness par excellence, and every time I use it, I think back to that magical time gap. FP: How do you come go about choosing a given material? SV: I cannot but think of the things that enter my life, be it by chance or on purpose. It works the same as with people: there would be no point in thinking about falling in love with a Peruvian man if in the place you live in there are none around. In the very moment in which we feel that we love someone, we cannot but have made a choice based on the range of opportunities before us in a specific moment in a specific place in our lives. If tomorrow I were to go and live in Iceland, I would probably get interested in gases, their properties and uses. Now, on the other hand, I’m on the train back to Venice where I’m currently concluding a project that I’ve been busy with over the last three months. I look upon it as a painting, a view of the city. Or rather, it is an operation that may potentially lead us to see an infinite number of paintings. I four-handedly built a little wooden boat, for two people. It’s called Paesaggio 2011 (“Landscape 2011”).
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Manuel Scano Patjupa (Under De Carlo)
Serena Vestrucci Dispositivo per disinibire la pagina bianca Device for undaunting the blank page
Dispositivo per disinibire la pagina bianca / Device for undaunting the blank page, 2011 Serie di 8 disegni fronte e retro pensati specificamente per questa pubblicazione, e qui riprodotti in scala 1:1, matite colorate su car ta, 18,5 x 24 cm, una settimana, Venezia / Series of eight double-sided drawings created especially for this publication, and reproduced here in actual size: crayon on paper, 18.5 x 24 cm, one week, Venice.
Mi è stato chiesto di riempire queste pagine del catalogo, lasciandomi completamente carta bianca. Ho pensato a cosa poter inserire in questi spazi, a come affrontare l’empasse di un campo totalmente vuoto.
I was asked to fill these pages of the catalogue, leaving me absolute carte blanche. I thought about what I might put in these spaces, about how to deal with the creative block imposed by a totally empty space.
Allora ho preferito decidere che sia il lettore a scegliere cosa farne: il mio lavoro è stato fornire un dispositivo per poterli utilizzare con la disinvoltura tipica delle cose già usate.
And so I decided that it should be the reader that chooses what to do: my job consists of providing a slide so as to use them with the same nonchalance typical of that adopted with familiar things.
Mi piace pensare che, volendo, queste pagine si possano ritagliare e tenere da parte. Come se chi avesse il catalogo avesse allo stesso tempo un mio lavoro originale. Originale in quanto stampato appunto per il catalogo. In questo senso, il possederne la matrice diventa allora la conferma del loro non essere copia.
I like to think that, perhaps, these pages could be cut out and set aside. As if whoever had the catalogue would also be in possession of an original artwork of mine. Original insofar as it was printed especially for the catalogue. In this sense, possessing the matrix becomes confirmation of their not being a copy.
Mi piace pensare al catalogo come ad una matrice.
I like to think of the catalogue as a matrix.
Manuel Scano Serena Vestrucci
Manuel Scano Statement Preferisco pensare al mio lavoro come a una tensione tra un moto incontrollato di trasformazione e improvvisazione e la volontà di costruire un equilibrio fragile e precario tra gli elementi. I like to think of my work as the tension arising between a force unleashed – one of transformation and improvisation – and the desire to construct a fragile, precarious balance between the elements.
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Manuel Scano, Senza titolo (disegno
Manuel Scano, Senza titolo (macchia) /
ottenuto con ventilatore con testa
Untitled (stain), 2010.
oscillante) / Untitled (drawing
Pennarello su carta, 49 fogli A4 / Felt-
produced using oscillating fan), 2007.
tip pen on paper, 49 A4 sheets, 203 x
Pennarello su carta, 36 fogli A4 / Felttip pen on paper, 36 A4 sheets, 148,5
147 cm.
x 189 cm / 148.5 x 189 cm.
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Manuel Scano, Senza titolo (false
toys, found materials and fragments,
alarm), 2010.
artificial flowers, tape, cardboard
Palloncini, coriandoli, materiale
tubes, plastic plates, cat food,
d’imballaggio, parrucche, giocattoli,
feather dusters, feathers, etc…
materiali trovati e frammenti, fiori finti,
Installazione - performance per la
nastro adesivo, tubi di cartone, piatti
mostra / Installation - performance
di plastica, cibo per gatti, piumini per
for the exhibition Portons dix bons
spolverare, piume, ecc… / Balloons,
whiskys à l’avocat goujat qui fumait au
confetti, packaging material, wigs,
zoo, Parigi / Paris.
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Manuel Scano, Senza titolo / Untitled, 2010. Installazione per la mostra / Installation for the show All Strange Away, Bologna. Dettaglio e veduta / Detail and exhibition view.
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Manuel Scano, Senza titolo (sfera) / Untitled (sphere), 2010. Pennarello su carta, 12 fogli A4 / Felttip pen on paper, 64 A4 sheets, 89,1 x 84 cm / 89.1 x 84 cm.
Manuel Scano, Senza titolo #1 (disegno ottenuto con coccinella per massaggi cinesi) / Untitled #1 (drawing produced using Chinese ‘beetle’ massage tool), 2007. Penna nera su carta / Black pen on paper.
Manuel Scano, Senza titolo / Untitled, 2007. Pennarello su carta, 64 fogli A4 / Felttip pen on paper, 64 A4 sheets, 237,6 x 189 cm / 237.6 x 189 cm. Dettaglio / Detail.
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Manuel Scano, Mirror project n.02, 2011. Associazione Barriera, Torino / Turin. Vedute della mostra e dettagli / Exhibition views and details.
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Manuel Scano, Mirror project n.02, 2011. Associazione Barriera, Torino / Turin. Vedute della mostra e dettagli / Exhibition views and details.
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Disegno esploso B e n i am i n o Fo schi n i
In una nostra conversazione, Manuel Scano ha definito la sua attitudine al lavoro come sospesa in una continua tensione tra Yin e Yang, tra caso e controllo. L’oscillazione tra un estremo e l’altro – è lungo questo moto che accadono i lavori – credo risponda non solo alla tensione tra una necessità gestuale e una volontà di rappresentazione, ma incida in modo sostanziale sulla rappresentazione stessa: nella formalizzazione di una singola opera, come di un progetto espositivo nel suo complesso, è altrettanto possibile cogliere dialoghi tra forme, direzioni e flussi strutturati secondo dinamiche dualistiche. Nella stessa pratica artistica, Scano si muove tra lavori a due e a tre dimensioni, cercando di confonderne le processualità e spesso permettendo l’intervento, per spostamenti minimi, dello spettatore nel compimento dell’opera. Attraverso l’analisi di alcuni lavori, cercherò di evidenziarne il mutamento e la costante messa in dubbio dell’opera specifica da parte dell’artista. Nel marzo del 2010, Manuel Scano partecipa aTitolo grosso, presso Cripta747 a Torino. Al piano vetrina è presente la seconda versione di Falso allarme (2009, lavoro tutt’ora in progress), una concrezione di materiali vari sospesa nello spazio mediante una fune e un passante. Tirando la fune e rilasciandola, la scultura perde brandelli, scarti sciocchi, che vanno a “sporcare” il pavimento e a turbare il respiro degli altri lavori. Si tratta di un oggetto scultoreo che, attraverso il movimento impresso in verticale, genera uno spazio casuale che è orizzontale e in espansione. Questo contrasto sottile tra la presenza verticale e la potenzialità orizzontale – per cui si può ipotizzare una composizione in levare – si ritrova ancora nella terza versione del lavoro, presentata nella collettiva All Strange Away (neon>campobase, Bologna, settembre 2010). La variazione messa in campo dall’artista è data dalla riduzione della dimensione della concrezione, una riduzione inversamente proporzionale alla sua potenziale dinamica nello spazio: il sostegno della scultura al soffitto è una fune elastica, e non più una corda di iuta. In occasione dell’apertura, l’artista ha potuto comporre linee immaginarie, tendendo e rilanciando la scultura – secondo una direzione simmetrica al suo asse, oppure in diagonale – evocando un pericolo buffo, sia per gli altri lavori in mostra sia per gli spettatori. Nell’apparente semplicità del gesto, Scano manifesta una volontà di controllo de-controllato sullo spazio, che vuole interagire con l’impalpabilità del flusso creato dallo spettatore nel suo relazionarsi ai lavori in mostra. La scultura va ad occupare uno spazio e un tempo variabili, in grado di innescare animosamente forzature visive. Un altro esempio di lavoro sul flusso è dato ancora dalla collettiva di Torino, nell’ambiente sotterraneo. Nell’accesso alla lunga sala centrale, l’artista ha posto, come improvvisazione su uno spartito, due pali di legno uniti tra loro (Senza titolo, 2010), che creano una barriera percettiva immaginata, in una dimensione assolutamente anti-spettacolare. In questo caso il segno di rottura-composizione è ridotto quasi all’essenziale, dichiarando la propria presenza solo in quanto funzione. Tra marzo 2010 e aprile 2011, Scano si confronta con due progetti espositivi, Tinkerbell a 76
Milano, e Mirror project n.02 a Torino, presso l’Associazione Barriera. In Tinkerbell l’elemento della casualità è predominante e le componenti assiali orizzontale/ verticale vivono reciprocamente una dimensione di maggiore autonomia: sul pavimento rimane la traccia disordinata del processo d’allestimento – composto dalla qualità materiale e cromatica degli scarti che appartengono anche al work in progress Falso allarme, unita a sincopati interventi sonori a bassa risoluzione – mentre alle pareti sono silenziosamente appesi alcuni disegni – su questi ultimi tornerò più avanti. Il vitalismo, la necessità autoaffermativa del corpo e del gesto, la composizione informe rappresentano il desiderio di rendere la mostra un’esperienza diretta del processo artistico, piuttosto che dell’opera. Una maniera per assottigliare la distanza percettiva tra l’occhio di chi guarda e il suo oggetto. In Mirror project n.02, la struttura della mostra è più calibrata, tende a un moto centripeto, piuttosto che centrifugo, sull’opera. Qui Scano dimostra le potenzialità di una costruzione complessa del percorso espositivo: lo spazio di Barriera – difficile per le sue preesistenze architettoniche – viene suddiviso in due momenti principali, in entrambi i quali la presenza dello spettatore diventa dispositivo nel dispositivo formale – ancora andando ad agire sui flussi. Il primo momento è a sua volta suddiviso: una prima “stazione”, una controparete – formata da semplici fogli A4 bianchi – si consegna alla luce naturale, la quale, filtrando dalle finestre durante le ore del giorno, riporta automaticamente sul supporto aloni cromatici che variano nel tempo. Invece nella seconda “stazione”, composta da due pareti di carta, la luce si insinua tra le fessure della carta, generando una traccia sul pavimento. Da un supporto verticale a uno orizzontale. La partecipazione passiva dello spettatore – ambiguamente passiva perché viene “costretto” all’attraversamento e allo spostamento dei muri di carta – rappresenta in questo caso un fattore aggiuntivo e complementare, poiché genera altrettante micro-variazioni di segni su entrambi i supporti. L’utilizzo di un dispositivo disegnativo così elementare è l’ultima fase di una riflessione dell’artista sull’automatismo della traccia. A partire dal 2007, Scano assembla una serie di meccanismi – sempre risultato di un’operazione di recupero oggettuale – o si fa lui stesso macchina, per innescare un processuale e lento ottenimento di un disegno. Lasciando lavorare un dispositivo elettrico o un pendolo attivato da un semplice gesto, o direttamente praticando il dripping, l’artista cerca di verificare il limite autoriale secondo variazioni di stile e distanza, procedendo per minimi scarti. Ma la spoliazione dell’artista dal suo ruolo – a volte direttivo, altre diretto – non incede secondo sintesi intellettiva: piuttosto l’artista cerca di far esplodere giocosamente la traccia, utilizzando strumenti infantili come i pennarelli colorati, e di banalizzare il supporto, realizzando griglie di fogli A4 – le stesse poi presenti come elementi architettonici e di supporto visivo in Mirror project. La forma del processo disegnativo accompagna quello scultoreo, strutturandosi sul dialogo tra il verticale e l’orizzontale – il supporto a terra e la macchina/artista che incide dall’alto – ma ciò che è visibile, in questo caso, rimane la sola testimonianza finale. L’artista ha tentato – già nella 77
mostra di Bologna – di scardinare questa equivoca “tradizionalità” della presentazione del disegno: esponendo l’opera dal verso (Disegno elastico, 2010), la traccia tecnicizzata si dà come ombra, sfruttando la presenza leggera del supporto. Questa questione si presta in Mirror project a nuove intuizioni: appunto, attraverso l’utilizzo della luce. Nella seconda parte della stessa mostra, dopo aver attraversato le due paratie di carta, lo spettatore si trova in un altro momento visivo. Un grande disegno Senza titolo (2011) e una serie di cinquanta A4 Senza titolo (2011) fluttuano nello spazio: un dispositivo elettrico (Senza titolo, 2011) attiva per questi lavori movimenti appena percettibili, mediante un movimento semicircolare e una serie di fili. Ciò che diventa perturbante è che il disegno – tecnica e supporto tipicamente bidimensionali (per questo, precedentemente ho parlato di “tradizionalità”) – si trasforma in segno visuale nello spazio, cercando di darsi alla fruizione sia come superficie sia come scultura, per un’esperienza slegata da un approccio puramente contemplativo. La condizione esistenziale fragile e fluttuante della carta pone ora lo spettatore in una posizione attiva: egli non è più “costretto” a un passaggio, ma può muoversi liberamente, e lo spostamento dei corpi va a intervenire indirettamente sul movimento dei disegni stessi e sulla ragione della loro presenza: personaggi nel tessuto di un racconto visivo.
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Exploded Drawing Beniami n o Fo schi n i
During one of our conversations, Manuel Scano defined his approach to work as being suspended in an ongoing tension between Yin and Yang, between chance and control. The oscillation between one extreme and the other – for it is along this line that the works are created – I believe responds not only to the tension between the gestural and a desire for representation, but substantially affects the representation itself: in the formalisation of a single work, just as in an exhibition project as a whole, it is just as possible to grasp dialogues between forms, directions, and flows structured in keeping with dualistic dynamics. In his own artistic practice, Scano shifts between two- and threedimensional works, attempting to confuse their processuality and often allowing for the intervention – through minimal movements – of the onlooker in the completion of the work. Through the analysis of a number of works, I shall try to highlight the change and the constant questioning of the specific work by the artist himself. In March 2010, Manuel Scano took part in the group show Titolo grosso, at the Cripta747 in Turin. The showcase floor was home to the second version of Falso allarme (2009 – still in progress): a concretion of various materials suspended in space by the use of a rope and pulley. By pulling the rope and letting it go, bits and pieces come off the sculpture, which then “dirty” the floor below it and infringe the space of the other works on show. This is a question of a sculptural object which interests a horizontal and expanding space through the vertical movement exerted. This subtle contrast between the vertical presence and the horizontal potential – making it what we might call an upbeat composition – is to be found once more in the third version of the work, presented at the group show All Strange Away (neon>campobase, Bologna, September 2010). The variation deployed by the artist is given by the reduction of the dimension of the concretion: a reduction inversely proportional to its dynamic potential in space. The sculpture is supported by an elastic cord hanging from the ceiling, no longer one made of jute. On the occasion of the opening, the artist managed to compose imaginary lines by holding onto and then letting go of the sculpture – reflecting a symmetrical or diagonal direction on its axis – evoking a make-believe danger both for the other works on show and for the onlookers. In the apparent simplicity of the gesture, Scano shows a desire for an unleashed control over the space, one which longs to interact with the impalpability of the flow created by the spectator in his relating to the work on show. The sculpture ends up occupying a variable time and space, capable of triggering off bold visual elements. Another example of work on the flow was provided in the group show in Turin, in the underground space. Along the path leading to the long central room, the artist placed two wooden poles tied together (Senza titolo, 2010), as if they were an improvisation on a musical score, creating an imaginary perceptual barrier, in an absolutely anti-spectacular dimension. In this case the sign of breaking/ composition is whittled down almost to the bare essentials, declaring its own presence merely in the form of a function. Between March 2010 and April 2011, Scano got to grips with two other exhibition projects: Tinkerbell in Milan, and Mirror project n.02 in Turin, at the Associazione Barriera. In Tinkerbell the chance element is dominant and the horizontal/vertical axial components reciprocally experience 79
a dimension of greater autonomy: on the floor lie the disorderly traces of the preparation process – consisting of the various materials and chromatic qualities of the leftovers that also belong to the work in progress entitled Falso allarme, along with syncopated low-resolution soundscapes – while a number of drawings hang silently on the wall, but we shall come back to those later. The vitalism, the self-affirming need for the body, the gesture and the shapeless composition represent the desire to make the exhibition a direct experience of the artistic process, rather than of the work. A way to shorten the perceptual distance between onlooker and object. In Mirror project n.02, the exhibition structure is more balanced, tending towards centripetal rather than a centrifugal movement in the work. Here Scano shows the potential of a complex construction in his exhibiting career: the Barriera space – difficult to approach due to its architectural structure – is split up into two main parts. In both these parts, the presence of the spectator becomes a device within the formal device itself – acting once more on the flows. The first moment is in turn subdivided: a first “station”, a wall – made up of mere white sheets of A4 paper – is placed in natural light, which as it shines through the windows during daylight hours, automatically translates into different chromatic patches on the support, and which vary over time. Instead in the second “station”, made up of two paper walls, the light makes its way in through the gaps in the paper, forming an outline on the floor. From a vertical to a horizontal support. The passive participation of the spectator – ambiguously passive for s/he is “forced” to cross and thus to move aside these paper walls – in this case represents an additional and complementary factor, for it generates just as many other micro-variations in the signs on both supports. The use of such an elementary drawing device is the last stage in the artist’s reflection on the automatism of the stroke. Ever since 2007, Scano has put together a series of mechanisms – always the using recycled elements – or has become a machine himself, in order to set off the slow and processual completion of a drawing. By exploiting an electrical device – or setting off one with a simple gesture, or even by directly gripping, the artist sets about verifying the boundaries of authorship through variations in style and distance, moving by minimal alterations. But the dispossession of the artist from his role – one at times directional, at other times directed – does not proceed by intellectual synthesis: rather, the artist tries to playfully explode the stroke, using childish media such as magic markers, and banalising the support, putting together grids of A4 sheets – the same that are then to be found as architectural elements and visual support in his Mirror project. The form of the drawing process accompanies the sculptural one, being structured in terms of the dialogue between the vertical and the horizontal – the support on the ground and the machine/artist operating from above – yet that which is visible, in this case, remains only the final testimony. The artist has tried – like he did in the Bologna show – to tear apart this equivocal “traditionality” of the presentation of the work: displaying the work from the side (Disegno elastico, 2010), the technicised stroke is seen as a shadow, exploiting the ephemeral nature of the support. In his Mirror project this issue lends itself to new intuitions through the use of light.
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In the second part of the same show, after having crossed the two paper walls, the visitor finds himself in another visual moment: a large-scale drawing Senza titolo (2011) and a series of fifty A4 sheets Senza titolo (2011) floating in space. An electric device (Senza titolo, 2011) produces barely perceptible movements, thanks to a semi-circular shift and a series of threads. That which is perturbing is that drawing – a typically two-dimensional medium and support (this is why I prudently spoke before of “traditionality”) – is transformed into a visual sign in space, trying to come across both as a surface and as a sculpture, for it is an experience no longer bound up in an exclusively contemplative approach. The fragile and fluctuating existential condition of paper here places the onlooker in an active position: he is no longer “forced” through a passage, but may move freely, and the movement of bodies indirectly affects the movement of the drawings themselves and the reason for their presence: characters in the very fabric of a visual tale.
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Serena Vestrucci Statement Ho alcune cose in testa, ma non ho poi la certezza di metterle su carta. Come se ci fosse la paura di dimenticarle proprio quando voglio fermarle. Lo stesso problema dell’annotare qualcosa troppo presto, o troppo tardi. Io non lavoro mai seduta. Alle volte cammino avanti e indietro. Il più delle volte il mio lavoro entra ed esce dal letto. Non nasce da nessuna cosa in particolare. Mi chiedo cosa succederebbe se ora scrivessi stando a letto. Poi però penso che sarebbe troppo semplice, e che quindi è meglio rimanere al tavolo. Fondamentalmente questa è la maniera con cui mi muovo: guardo ciò che ho e cerco un modo per complicare la nostra relazione. Mi piacciono i coriandoli perché per farli funzionare devi mandare tutto all’aria. Qui piove e fa freddo da quando sono tornata. Siamo coi golf di lana e l’umore è basso come la pressione che pare ci schiacci a terra tenendoci premuti al suolo, lontani dal sentirci in prossimità di un’estate. Sembra di essere ricatapultati in un mogio autunno umido e pesante. Giugno sarà un momento importante: saranno quattro mesi da quando ho un nuovo studio. La sua prima stagione. Mi piace guardare il tempo per stagioni. Sento quell’odore che c’è quando il sole scalda un po’ di più ma i fiori non sono ancora arrivati. Penso che se si crede che non si debba poi fare molto per fare arte, un giorno smetterà di funzionare. Non so neanche io come si faccia. In fondo è solo una questione di punti di vista e probabilmente da un’altra parte sta andando tutto bene. Magari lo stesso sole che ho visto quattro ore fa e che non vedo più, ora fa caldo a te. Mi sono sempre chiesta perché i film fanno piangere e le mostre no. Ho letto che fino all’Ottocento la gente piangeva davanti ai quadri. E poi cosa è successo? Ora spengo e vado a farmi una passeggiata: una cosa tra le cose. Come se tutti i giorni della vita dovessero avere un senso. I’ve got a few things in mind, but I’m not sure whether they’ll end up on paper. As if there were a fear of forgetting them just when I want to stop them. There’s the same problem noting down something too soon, or too late. I never work sitting down. Sometimes I walk back and forth. Most of the time my work goes in and out of the bed. It is not borne out of anything in particular. I wonder what would happen if now I were to write from my bed. But then I think it would be too easy, and so that it’s better to stay at the table. Basically, this is how I go about things: I look at what I’ve got and I look for a way to complicate our relationship. I like confetti because to make it work you have to let everything go to pieces. It has been cold and rainy here since I got back. We’re all in woolly jumpers and our mood is as low as our blood pressure, which seems to squash us against the ground, pushing us into the floor, far from feeling that summer is just around the corner. It’s as if we’d been cast back into the grasp of a damp and dusky autumn. June will be an important moment: it will be my fourth month in my new studio. Its first season. I like looking at time in terms of seasons. I can smell that smell that there is when the sun gets a little bit hotter, but the flowers have not come out yet. I think that if you believe that you don’t need to do much to create art, one day it will all stop working. I don’t even know how I do it. At the end of the day, it’s just a matter of points of view, and probably elsewhere, everything’s going just fine. Perhaps the same sun that I saw four hours ago and that I can no longer see, is now shining on you. I have always wondered why films make people cry and exhibitions don’t. I read that up until the 19th century, people cried before paintings. And then what happened? Now I’m going to turn off and go for a walk: one thing amongst others. As if every day of our lives were supposed to make sense. 83
Serena Vestrucci, Ti lascio metĂ fogli da collage / I'll leave you half of the collage sheets, 2009. Fogli da collage, A5, 20 minuti / Collage sheets, A5, 20 minutes.
Ho usato questi fogli per fare un collage. Comprando questo mio lavoro, puoi fare lo stesso a tua volta.
I used these sheets to make a collage. If you purchase this work, you in turn may do the same thing.
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Serena Vestrucci, KISS (keep it simple and stupid), 2010. Serie di disegni, coriandoli su car ta, colla, 10 x 15 cm, variabile durata temporale (fino ad ora, da 2 secondi ad 1 ora 20 minuti) / Series of drawings, confetti on paper, glue, 10 x 15 cm, variable length of time (until now, from two seconds up to one hour and 20 minutes).
I disegni mostrano una serie di baci, il cui titolo comune è KISS (keep it simple and stupid). Per ognuno di questi disegni ho incollato i coriandoli per lo stesso tempo con cui è durato ogni mio bacio.
The drawings show a series of kisses, the general title of which is KISS (keep it simple and stupid). For each of these drawings, I glued on the confetti for the same time that one of my kisses lasted.
La serie è potenzialmente illimitata: ogni volta che bacio qualcuno, ne calcolo esattamente la durata, e per ognuna di queste situazioni nasce un nuovo disegno.
The series is potentially limitless: every time I kiss someone, I calculate its exact length, and thus for each of these situations a new design comes to light.
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Serena Vestrucci, Piccola opera
Il primo baratto ebbe luogo a
barattabile con piccola opera /
Berlino nel 2010 con Gianni
Little work swappable with other
Moretti. Monotipo di inchiostro su
little work, 2009.
foglio di acetate / The first swap
Plexiglas, legno, 60 x 60 x 15 cm,
took place in Berlin in 2010 with
20 minuti / Plexiglas, wood, 60 x
Gianni Moretti. Monotype ink on
60 x 15 cm, 20 minutes.
acetate sheet, 29.7 x 42 cm.
Questa piccola opera non è in vendita, ma pensata per essere barattata con un’altra piccola opera. I soggetti dello scambio detengono, di volta in volta, il compito di stabilire l’equità del valore delle opere da trattare.
This little work is not for sale, but designed to be swapped with another little work. Each time it is swapped, the swappers have the task of establishing the equity of the value of the two works involved.
Nella documentazione fotografica sono riportate la prima opera con cui ho iniziato la catena di baratti e il primo barattato avvenuto con l’opera di Gianni Moretti. I lavori che man mano verranno scambiati ed esposti a loro volta per essere nuovamente barattati prenderanno indistintamente il titolo di Piccola opera barattabile con piccola opera. Ognuno di questi si presenta come lavoro finito all’interno di una proposta di lavoro senza fine.
The photographic documentation shows the first work with which I started the chain of swaps, and the first swap, which took place with a work by Gianni Moretti. The works which, over time, will be exchanged and put on show, before being swapped again, will invariably take on the title Piccola opera barattabile con piccola opera (“Little work that may be swapped with little work”). Each of these is presented as a finished work within a potentially endless proposal of different works.
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Serena Vestrucci, La sfera quando diventa piatta / The sphere flattened, 2011. Foglio di car ta tagliato a mano, pennarelli, 21 x 30 cm circa, 20 minuti circa / Sheets of hand-cut paper, markers, c. 21 x 30 cm, c. 20 minutes.
Guardo la tridimensionalità di una forma e penso a cosa succederebbe se si riducesse a due dimensioni. Cerco un meccanismo per passare dalla scultura alla pittura, e vedo che l’aspetto di tutte le cose è puramente una questione di punti di vista.
I look at the three-dimensionality of a form and think about what would happen if it were collapsed into two dimensions. I search for a mechanism by which to shift between sculpture and painting, and I see that the aspect of all things lies purely in the question of viewpoints.
Il lavoro è pensato come una raccolta di sfere colorate, potenzialmente infinite, che si dispiegano e si estendono e si espongono.
The work is thought of as a collection of potentially infinite coloured spheres, which are unfolded, spread out and placed on display.
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Serena Vestrucci, Tu mi hai detto cosa e io l’ho fatto / You told me what and I made it, 2010. Legno, pezzi di fogli di plastica colorata, resina, colla, 60 x 60 x 60 cm circa, 5 settimane / Wood, pieces of coloured plastic sheets, resin, glue, c. 60 x 60 x 60 cm, five weeks.
Ho domandato ad un campione di persone di indicarmi quale aspetto avrebbe dovuto avere, secondo loro, la mia prossima opera. Ho raccolto le loro risposte e ho cercato di seguire quanto mi è stato detto.
I asked a sample of people to tell me what they thought my next work should be like. I gathered their answers together and tried to follow what I had been told.
Mi chiedo cosa significhi oggi parlare di committenza, da un lato, e di artigianato, dall’altro. Delego a terzi l’idea del mio lavoro, decidendo di riservarmene solamente la realizzazione manuale, ma proprio in questa scopro il potere dell’artista, a cui in fondo rimane l’ultima parola. La mia opera è la tua opera, un modo per esistere insieme.
I wondered what it means today to speak on one hand of commissioning and craftsmanship on the other. Thus I delegated the idea behind my work to a third party, deciding to retain only the manual creation stage, yet it was in this very process that I discovered the power of the artist, who always has the last word in the end. My work is your work: it’s a way of co-existing.
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Serena Vestrucci, Se lavorassi per 10 Euro l’ora, quest’opera ne costerebbe 5. Per for tuna faccio l’ar tista / If I worked for € 10 an hour, this work would cost € 5. Luckily, I'm an ar tist, 2010. Fogli di car ta da ur to, filo elastico e da regalo, dimensioni variabili, 30 minuti per modulo / Sheets of packaging paper, elastic thread and gift ribbon, variable dimensions, 30 minutes per module.
Ciascun foglio da urto viene piegato in modo da ottenere la forma sopra mostrata e legato ad un filo colorato (filo elastico o nastro da regalo).
Each sheet of packaging paper is folded is such a way as to obtain the shape shown above and tied to a coloured thread (elastic thread or gift ribbon).
Per realizzare ogni modulo sono necessari 30 minuti. Qualsiasi sia il numero di fogli che si decide di utilizzare, questi devono restare sollevati dal suolo in modo che si possano sempre muovere intorno e non restare mai in un unico posto.
It takes 30 minutes to create each module. However many sheets are used, they must remain off the ground in order to be able to move around and not stay in a single place.
Affinché questo sia possibile è sufficiente il lavoro di un solo filo, a sostegno di tutti i fogli. Gli altri fili, facenti parte dei moduli originali, possono quindi rilassarsi.
In order for this to be possible, the work of a single thread is enough to hold up all the sheets. The other sheets, parts of the original modules, may therefore take it easy. 90
Serena Vestrucci, 1+1=1, 2011. Pennarelli su car ta, A3, 30 minuti ognuno / Felt-tips on paper, A3, 30 minutes each.
Mi servo di un braccio artificiale fatto di pennarelli montati su una struttura di legno e, muovendo una sola mano, lavoro nello stesso tempo a due disegni. Ciò che ottengo alla fine è un’unica immagine in cui il gesto tracciato sul foglio destro non è altro che il corrispondente negativo dello stesso movimento sul foglio sinistro. Quando su uno dei due fogli il colore lascia il suo segno, dall’altro il pennarello si manterrà sollevato, e viceversa.
I make use of an artificial arm consisting of markers mounted on a wooden structure, and by moving just one hand, I work simultaneously on two drawings. What I come up with in the end is a single image in which the stroke on the right-hand sheet is simply the corresponding negative of the same movement on the left-hand sheet. Thus whena a pen leaves a mark on one of the two sheets, the other pen will be lifted above the surface of the paper and vice versa.
1t+1t=1s Un tempo + un tempo ad esso contemporaneo = un unico spazio, una sola immagine.
1 t +1 t = 1 s One time + one (simultaneous) time = a single space, a single image.
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Serena Vestrucci e / and Ignazio
Mi chiedo cosa significhi avere oggi uno studio in cui chiudersi a lavorare. Ho costruito questa scultura a quattro mani con cui conoscere potenzialmente infiniti paesaggi. Credo nell’impossibilità di definire qualcosa per sempre e di documentare un’immagine e cerco, così, un mezzo con cui fare l’opera stessa: iniziare un’operazione aperta a continui altri scenari.
acqua, 2 persone, 244 x 122 x 52
Lamber tini, Paesaggio 2011, work
cm, 4 mesi, Venezia / Russian pine
in progress.
and okoume plywood, synthetic
Compensato di pino russo e
grass, lizard paper, brass nails,
okoumè, car ta uso lucer tola,
screws, epoxy resin, otter grey
chiodi in ottone, viti, resina
paint, water, two people, 244 x
epossidica, vernice grigio lontra,
122 x 52 cm, four months, Venice.
Paesaggio 2011 prevede di modificare di anno in anno il suo titolo in Paesaggio 2012, Paesaggio 2013… in quanto l’utilizzo dell’opera offre la continua possibilità di osservare un luogo ogni volta diverso e contingente. Penso a vedute sempre rinnovate, così come penso, di conseguenza, ci sia qualcosa di innaturale nel mantenere i titoli delle opere invariati: come tutte le cose con lo scorrere del tempo, non possono che subire modifiche.
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I wonder what it means today to have a studio in which to close yourself off and work. I created this sculpture four-handedly, allowing me – potentially – to get to know infinite landscapes. I believe in the impossibility of defining something forever and documenting an image, and so I seek out a medium with which to create the work itself: starting an operation open to other ongoing scenarios.
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It is foreseen that the title Paesaggio 2011 (“Landscape 2011”) will be changed from year to year into Paesaggio 2012, Paesaggio 2013… insofar as the use of the work offers the ongoing possibility to observe a place in a constant state of change. I think about how views are always renewed, and thus I think about how there is something unnatural in keeping the titles of works the same: like with all things, the passing of time cannot but lead to alternations.
Errore di sistema D a n i e l e Pe r ra
Come vi aspettate che sia la mia prossima opera? Cosa si fa quando per una mostra non si ha la più pallida idea di cosa creare e di cosa esporre? Rifareste la mia opera se vi lasciassi tutto l’occorrente? Se vi dicessi che il rosso lo vedo rosa, come fareste a dirmi che non è vero? È realmente possibile riprodurre fedelmente qualcosa? Vorreste barattare una mia opera con una vostra? Vi siete innamorati di un mio lavoro e lo vorreste in regalo? Quanto può costare una mia opera? Cosa significa parlare di arte? Porre e porsi domande, da quelle impossibili, paradossali, che spesso hanno la funzione di scoperchiare le porte della fantasia (ti è mai capitato di immaginarti l’unico uomo rimasto sulla Terra?), a quelle più rassicuranti, che sfociano però, nella maggior parte dei casi, nella banale retorica, è compito dell’artista. Altrettanto lo è, e lo è sempre stato, compito dell’artista trovare le risposte fino ad arrivare, a volte, a ingannarci perché finge di averle trovate. Per noi spettatori l’opera può rimanere un enigma, ma il suo artefice conosce bene da dove è partito. Anche se il punto di partenza spesso può avere i contorni sbiaditi, non essere perfettamente messo a fuoco. Nello scrivere di Serena Vestrucci sarei potuto andare avanti a lungo (infinitamente) a elencare domande (le sue) perché è su di esse che l’artista pone l’accento. Quel meccanismo secondo cui a un punto interrogativo debba seguire una potenziale soluzione s’inceppa, come la puntina fuori registro su un vecchio vinile. Lei si pone domande e continua a interrogarsi senza illuderci di aver trovato risposte scontate. Interpella, delega per il gusto della condivisione, della reciprocità, ma allo stesso tempo imbocca la strada della provocazione per metterci costantemente alla prova. Mette in discussione il suo stesso ruolo e sfida lo spettatore, ad esempio fornendogli una scultura/ piattaforma per nuove prospettive e angolazioni nell’osservazione di un’opera. Lo fa con leggerezza, con intelligenza, con acume e con un’ironia contenuta. Lo fa con scrupolosità annotando sempre con precisione il tempo impiegato per realizzare ogni singolo lavoro. Lo fa usando materiali poveri — fogli da disegno, di plastica, adesivi o da collage, pennarelli, colori, compensato — gli stessi materiali basici, con cui i bambini alle scuole elementari cominciano a rappresentare o per meglio dire trasfigurare il mondo che li circonda. Materiali semplici ma in questo caso indispensabili perché permettono di lasciare una traccia del e nel presente. Come vi aspettate che sia la mia prossima opera? Ci vuole coraggio e generosità a mettersi a nudo. Ad abbandonare le proprie certezze per aprirsi all’incognito. Torna la vecchia bottega, dove il committente esigente ordina e l’artista esegue, seppur combattuto. Serena Vestrucci ha chiesto a un campione preciso di persone di indicarle che aspetto avrebbe dovuto assumere una sua prossima opera. Ha raccolto le risposte, cercando di interpretarle, dando più peso a un’idea rispetto a un’altra o forse, democraticamente, mettendole tutte sullo stesso piano. Ha realizzato la sua opera. È lei che ha avuto l’ultima parola ma di chi è la paternità? Inverte il processo per il quale dall’idea dell’artista, altri manualmente si adoperano per concretizzarla, per darle una forma. È lei che ha dato vita, con le sue mani, a quel masso di legno, a quei pezzi di fogli di plastica colorata. È sua l’idea di raccogliere indicazioni, suggerimenti. 94
Cosa si fa quando per una mostra non si ha la più pallida idea di cosa creare e di cosa esporre? La risposta più scontata sarebbe: non si partecipa a una mostra fin quando non si produce un lavoro di cui si è pienamente convinti. Invece Serena Vestrucci offre un lavoro in prestito. Un’opera che dev’essere accompagnata solo dal nome dell’artista che di volta in volta se ne prende cura e la esibisce. La condizione è che lei non potrà mai esporlo e l’unico momento per vederlo sarà quando verrà chiesto in prestito. Anche in questo caso ad essere messa in discussione è la paternità dell’opera. Rende con generosità ciò che ha chiesto in precedenza. Rifareste la mia opera se vi lasciassi tutto l’occorrente? Walter Benjamin accennerebbe un sorriso. L’unicità dell’opera è in pericolo, ma siamo pur sempre nell’epoca della riproducibilità tecnica e non solo la fotografia e il video hanno il privilegio di essere riprodotti senza perderne in qualità. A chi decide di comprare quell’opera, l’artista lascia metà dei fogli da collage in modo che possa essere replicata con facilità. Anche senza alcuna indicazione precisa. Quale è l’originale, quale la copia? Il lavoro paradossalmente non sarebbe completo se non venisse duplicato. Il collezionista non ne è più soltanto il custode, ma ne diventa coautore. Potrebbe anche decidere di non rifarla, e quindi di “congelarla” in potenza. Se vi dicessi che il rosso lo vedo rosa, come fareste a dirmi che non è vero? La realtà non è da tutti percepita alla stessa maniera. Nell’osservare un fenomeno non ci capita quasi mai di confrontarci con gli altri per verificare se vediamo la medesima cosa sotto la stessa luce. L’artista si chiede se il rosso e il rosa siano da considerare appartenenti allo stesso tono o al contrario due colori distinti. E lo fa con una serie di disegni su carta, attraverso i quali mostra come usare la matita rossa, fingendo che sia rosa. Gli oggetti hanno un proprio linguaggio. È realmente possibile riprodurre fedelmente qualcosa? È una questione di tempo. Se si osserva per qualche minuto una certa tonalità di colore e si attende una precisa porzione temporale prima di riprodurre la stessa cromia, occultando ad esempio l’oggetto osservato, è probabile che il risultato finale non sia realmente fedele. Il ricordo, col passare del tempo, si fa più sbiadito e quindi impreciso. Serena Vestrucci sfida ironicamente il processo della mimesi, il tempo e la ripetizione ne diventano interferenze. È un esercizio di stile che ha tutte le carte in regola per sfociare nell’astrazione. Il modello o la modella che posavano nudi per ore nelle aule delle Accademie di Belle Arti si possono allontanare. La sua infatti è una Copia non dal vero. Vorreste barattare una mia opera con una vostra? Il baratto come meccanismo di livellamento e attribuzione di valore. L’artista crea una piccola opera che non potrà mai essere messa in vendita perché si può solo barattare con un’altra opera, e l’equità del valore viene stabilito, di comune accordo, dai promotori dello scambio. Col tempo si viene a creare una catena di opere barattate. Ma se qualcuno dovesse rompere il patto e vendere l’opera? L’artista mette letteralmente in circolo qualcosa con la consapevolezza che ne potrebbe perdere il controllo. 95
Vi siete innamorati di un mio lavoro e lo vorreste in regalo? Serena Vestrucci fa anche opere “in regalo”. Al loro valore “reale” somma quello “affettivo”. Condividere per lei significa dare una parte di sé. Senza condizioni precise, l’unica richiesta è vedere dove sarà collocata l’opera regalata. Quanto può costare una mia opera? Lascia che sia l’opera stessa a definirlo. In un progetto (ancora su carta) immagina una palla fatta in ceramica smaltata, scavata all’interno. Chi l’acquista dovrà riempirla di monetine, stabilendo la stima del conio da inserire in un’apposita fessura. È la somma di tutte le monetine a determinarne il prezzo. Possederla significa anche intervenire attivamente sul suo peso specifico. Il suo valore sarà direttamente proporzionale al volume del suo spazio interno, e solo l’atto finale della compravendita segnerà il momento conclusivo dell’opera. Cosa significa parlare di arte? L’artista realizza un festone decorativo. Di quelli che comunemente si usano per le feste popolari o per i compleanni. Prende dello scotch di carta, fogli A4, delle matite colorate. Ciascun modulo di questo festone richiede un tempo di realizzazione piuttosto lungo, in media un’ora per colorare entrambe le facce di ogni rettangolo e unirlo agli altri. Per 5 metri di decorazione viene calcolato un tempo di lavoro di circa 20 ore. Lo stesso oggetto potrebbe comprarlo per pochi euro, ma in questo caso, si chiede, ci troveremmo nel terreno della decorazione. Un dozzinale festone diventa il pretesto per chiedersi cosa stia aggiungendo di nuovo all’arte e al mondo, perché questo lavoro “dovrebbe andare da qualche parte”. Quando da bambina suo padre chimico le chiedeva cosa vedesse in un bicchiere d’acqua appoggiato sul tavolo della cucina, lei diceva di vederci tutto ciò che stava intorno e dietro al bicchiere, perché condizionata dalla trasparenza dell’acqua. Lui insisteva dicendole di guardare meglio, d’imparare a vederci miliardi di particelle che si tengono unite tra loro. Ancora oggi non sa dove siano quelle particelle che lui riconosceva ma dice di aver capito cosa stesse cercando di dirle. Si è allenata, nel tempo, a cercare la complessità, a porsi l’unica domanda a cui forse cercherà per tutta la vita di dare risposta: cosa significa parlare di arte?
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system Error Daniele Pe r ra
What do you expect my next work to be like? What can you do when you haven’t got the faintest idea what to come up with or what to put on show? Would you recreate my work if I were to leave you everything you needed? If I told you that I saw red as pink, what would you do to convince me that it is not true? It is really possible to reproduce something faithfully? Would you like to swap one of your works with one of mine? Have you fallen in love with one of my works, and would you like me to give it to you? How much might one of my works cost? What does talking about art mean? Posing and posing oneself questions, ranging from the impossible, paradoxical ones, which often serve to throw open the doors of the imagination (have you ever imagined yourself to be the only human being left on the face of the Earth?), to the more reassuring ones, however much they tend to give rise to banal rhetoric, is the task of the artist. Likewise, it is – and always has been – the task of the artist to find the answers, sometimes to the point of pulling the wool over our eyes, pretending to have found them. For us onlookers, the work may remain an enigma, but its maker knows perfectly well where it started from. Even though the starting point may often be somewhat blurred, not perfectly pinpointable. In Serena Vestrucci’s writing, I could have gone on and on (endlessly) listing (her) questions, for this is what the artist always plays on. That mechanism according to which a question mark is always followed by a potential solution goes askew, like the needle tip slipping out of the groove of an old vinyl record. She asks herself questions and continues to ponder them without trying to have us believe that she has come up with the obvious answers. She asks others, delegating replies for the very sake of sharing, of reciprocity, yet at the same time, she also sets off down the path of provocation, constantly putting us to the test. She even questions her own role and challenges her onlookers, for example providing them with a sculpture/platform offering new perspectives and angles from which to examine a work. She does so with lightness, intelligence, acumen and with understated irony. She does so scrupulously, always carefully noting down the time taken to create every single work. She does so using poor materials – drawing or collage sheets, adhesive sheets, sheets of plastic, felt-tip pens, paint, plywood – the same basic materials with which primary school children represent or rather transfigure the world surrounding them. Simple materials, yet in this case indispensable because they make it possible to leave a trace of (and in) the present. What do you expect my next work to be like? It takes courage and generosity a lay your heart open. To let go of your certainties and embrace the unknown. Back she goes to the old artist’s workshop, where the demanding client orders and the artist complies, however unwillingly. Serena Vestrucci asked a selected sample of people to outline what her upcoming work should be like. She gathered together the answers, attempting to interpret them, giving more weight to one idea than another, or perhaps democratically putting them all on an even footing. Then she created her work. It was she who had the last word, but who was the originator of the work? She thus inverts the process by which the artist’s idea is shaped, brought to life through others’ manual skills. It was her and her hands that breathed life into this block of wood, those pieces of coloured plastic sheeting. What can you do when you haven’t got the faintest idea what to come up with or what to put on show? 97
The most obvious answer would be: you don’t take part in a show until you’ve come up with a work that you are entirely happy with. And yet Serena Vestrucci offers a work on loan. A work that must be accompanied only by the name of the artist who is responsible for it in that particular moment and who puts it on display. The condition is that she will never be able to display it, and the only time it may be seen is when someone else asks to borrow it. Also in this case, the parenthood of the work is placed in doubt. She generously returns that which was previously asked for. Would you recreate my work if I were to leave you everything you needed? This question would have made Walter Benjamin smile. The uniqueness of the work is in danger, and yet as we are still in the age of technical reproducibility, not only photography and video are granted the privilege of being reproduced without losing quality. Whoever decides to buy that work will be provided with half of the collage sheets by the artist so that it may easily be replicated. Even without any particular instructions. Which is the original, and which is the copy? Paradoxically, the work would not be complete were it not to be duplicated. The collector is thus no longer merely the guardian but s/he becomes a co-creator. S/he might even decide not to complete it, and thus to “freeze” it as it is. If I told you that I saw red as pink, what would you do to convince me that it is not true? Reality is not perceived by everyone in the same way. In observing a phenomenon we almost never compare our perception with that of others to check whether we see the same thing in the same manner. The artist wonders whether red and pink should be considered as belonging to the same chromatic range, or instead as two separate colours. And s/he does so with a series of drawings on paper, through which s/he shows how to use a red crayon, pretending that it is in fact pink. Objects have a language of their own. It is really possible to reproduce something faithfully? It’s a matter of time. If you observe a certain shade of colour for a few minutes and wait for a certain length of time before reproducing the same shade, putting the source observed out of sight, the final result is unlikely to be faithful. A memory, as time goes by, fades ever more and thus becomes inaccurate. Serena Vestrucci ironically challenges the process of mimesis, with time and repetition becoming elements that interfere with it. It is an exercise du style which has every likelihood of developing into abstraction. The models who would pose for hours in the halls of the Academies of Fine Art are no longer necessary. Her work is in fact a Copy from a non-reality. Would you like to swap one of your works with one of mine? Swapping as a mechanism of levelling and attributing value. The artist creates a small-scale work which may never be put on sale, for it may only be swapped with another work. The equal value of the two works is established by mutual agreement between the two swappers. Over time, a chain of exchanged works is formed. But what if someone were to break the chain and sell the work? The artist literally sets off a process, fully aware of the risk of losing control over it. Have you fallen in love with one of my works, and would you like me to give it to you? Serena Vestrucci also creates works as “gifts. Their “affective” value is added to their “real” one. For her, sharing means giving a part of yourself. Without laying down precise conditions, the only request she makes is to be allowed to see where the donated work will be placed. 98
How much might one of my works cost? Let it be the work itself that defines it. In a project (still in the planning stage) she imagines a hollow ball of glazed clay. Whoever purchases the work will have to fill it with coins, establishing the type of coinage to be inserted in a slot provided for the purpose. It is the sum of all the coins inserted that determines its price. Possessing it also means intervening actively on its specific gravity. Its value will be directly proportional to the volume of its inner space, and only the final act of sale will mark the concluding moment of the work. What does talking about art mean? The artist makes a decorative paper garland, like those commonly used for local fetes or birthday parties. She takes masking tape, sheets of A4, coloured crayons. Each section of this paper garland requires a fairly long production time: an hour on average to shade both sides of each rectangle and link it to the others. For five metres of garland, a working time is calculated of around 20 hours. The same object may be purchased at little expense, but in this case, we would be in the field of decoration. A common paper garland thus provides the pretext to wonder what new element is being added to art and to the world, for the work “should be going somewhere�. When as a child her father, a chemist, would ask her what she saw in a glass of water on the kitchen table, she would reply that she saw everything around and behind the glass, taken in by the transparency of the water. And he would insist, telling her to look more closely, to learn how to make out the billions of particles all joined together. To this day, she has no idea where those particles which he saw there are, but she says that she understands what he was trying to tell her. Over the years she has trained herself to seek out complexity, to pose herself the only question which she will perhaps try to answer throughout her life: what does talking about art mean?
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Ringraziamenti Acknowledgments
Maurizio Beretta
E ancora grazie a tutti coloro che
Head of Group Identity
hanno aiutato e suppor tato questa
and Communications
edizione di Car te Blanche. And thanks again to all the people
Jean-Claude Mosconi
who helped and suppor ted this
Pier Maria Riccardi
edition of Car te Blanche.
Paolo Bianchi Chiara Maria Bisignani
Grazia e Gianni Bolongaro,
Maria Teresa Fulgenzi
Alber to Garutti, Corrado
Claudia Mantovani
Ciofani, Elena Nemkova,
Paola Maramotti
Nicola e Annamaria Pagliuca,
Simonetta Mar telli
Carla Pagliuca e Niccolò Nardi
Neve Mazzoleni
Mancinelli, Daniele Perra, Denis
Andrea Vannoni
Santachiara e Tomaso Schiaf fino,
Giulia Falletta
Viviana Vestrucci e Italo Zuf fi.
Alessandra Ghinato Nicoletta Scabini Ar tistic and Cultural Advisor y Walter Guadagnini (Presidente della Commissione Scientifica UniCredit for Ar t / President, UniCredit for Ar t Scientific Commission) e tutti i Membri della Commissione / and all the Members of the Commission Carla Franca Mainoldi Claudia Zannini Sabrina Di Giorgio Lavinia Protasoni Corporate Giving and Events Silvio Umber to Santini, Simona Ricci Brand Management e / and Viktoria Blajeva, Veronica Coluccia, Marco Fioravanti, Mirna Gelleni, Luca Iuf fredo, Davide Locati, Maurizio Mura, Giangiacomo Papa, Gianluca Quesitonio, Andrea Tiberi, Ferruccio Torboli.
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Prima edizione Giugno 2011 First published in June 2011 Grafiche Marchesini s.r.l, Verona