X euro
g e n ·f e b 2 0 11 | n u mero 0
rivista bimestrale di attualità culturale
Avete mai visto The wire? È la serie televisiva americana che in cinque stagioni ha cambiato non solo il cinema e la tv, ma anche la letteratura di genere (p. 23). Michael K. Williams ci racconta come ne è diventato uno dei volti più noti (p. 16) e come si appresta a fare il bis con Boardwalk Empire, il nuovo gioiello HBO prodotto da Martin Scorsese (p.29).
ECONOMIA................... Cibo biologico, luci e ombre. ................................. 14 ARTE................................ Un’intervista a Massimiliano Gioni....................... 43 MODA............................ Il ritorno della barba. ............................................ 62 FOTOGRAFIA. ................. Ari Marcopoulos a New York............................... 109
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Sommario g e n·f e b 2 011 | n um ero 0
Colophon Direttore responsabile Federico Sarica · f.sarica@rivistastudio.com Art direction Pomo · art@rivistastudio.com In redazione Cesare Alemanni · c.alemanni@rivistastudio.com Michele Bisceglia · m.bisceglia@rivistastudio.com DISPACCI LIBRI SUI GIORNALI DI Federico Sarica............................................................................ 9 VEDIAMO CHI CE L’HA PIù INDIE DI Cesare Alemanni....................................................... 10 THE LAST NEWSPAPER............................................................................................. 11 A LEZIONE DA SARAH PALIN DI Ana Marie Cox............................................................... 12 PERCHé NESSUNO HA FRETTA DI Anna Momigliano.. ....................................................... 13 NEL NOME DI BIO DI Michele Masneri.. ....................................................................... 14 COVER STORY EVERYBODY LOVES MICHAEL DI Francesco Pacifico.......................................................... THE WIRE E LA CRIME FICTION DI Tim Small.. ................................................................ TRE UOMINI E UNA SERIE......................................................................................... TELEVISIONE SCOLLATA DI Luca Barra..........................................................................
16 23 29 32
COMING OUT Ltd. DI Violetta Bellocchio.. .................................................................... 34 L’ENIGMA DELLA SETTIMANA DI Michele Bisceglia.......................................................... 36 BIJLMER EURO DI Nicola Bozzi.................................................................................... 40 CHE BELLO ESSERE GIONI DI Federico Sarica E Marco Cendron.. ......................................... 43 TENDENZA NOVECENTO NOSTALGIA CANAGLIA........................................................................................... A OGNUNO IL SUO REVIVAL DI Cesare Alemanni............................................................ MUSEO DEL NOVECENTO........................................................................................ VECCHI LIBRI, GIOVANI EDITORI DI Andrea Portaluppi.. ..................................................... “THANK YOU, SERGIO” DI Francesco Borgonovo............................................................. VESTIVAMO ALLA COLLEGIALE....................................................................................
52 52 54 55 56 58
UOMINI O CAPORALI UOMINI SULL’ORLO DI UNA CRISI DI CARTA DI Kevin Braddock........................................... 60 TOH, CHI SI RIVEDE: LA BARBA DI Angelo Flaccavento.. ...................................................... 62 LA BARBA, APPUNTO FOTOGRAFIE DI Alexandra Catiere MODA DI Rossana Passalacqua..................... 65 STUDIO DI MODA DI Manuela Ravasio......................................................................... 74 TANYA JONES DI Fabio Guarnaccia MODA DI Tanya Jones..................................................... 75 NON CI SONO PIù LE HOSTESS DI UNA VOLTA FOTOGRAFIE DI M. Palmqvist MODA DI R. Passalacqua.. 84 GUARDAROBA DI LEI....................................................................................................... 96 GUARDAROBA DI LUI.. ..................................................................................................... 97 RACCONTO ULTERIORI INTERPRETAZIONI DI ALCUNI FATTI DELLA VITA
DI
Kevin Moffett............................... 98
Impaginazione Alessandro Cavallini · a.cavallini@rivistastudio.com Moda Tanya Jones, Rossana Passalacqua Hanno scritto per questo numero: Luca Barra, Violetta Bellocchio, Federico Bernocchi, Francesco Borgonovo, Nicola Bozzi, Kevin Braddock, Nivea Briggitte Calico, Stefano Ciavatta, Ana Marie Cox, Angelo Flaccavento, Fabio Guarnaccia, Michele Masneri, Kevin Moffett, Anna Momigliano, Francesco Pacifico, Alberto Piccinini, Andrea Portaluppi, Manuela Ravasio, Tim Small, Andrea Tarabbia, Massimo Torrigiani Hanno fotografato per questo numero: Attilio Brancaccio, Alexandra Catiere, Alan Chies, Tanya Jones, Ari Marcopoulos, Stanislav Markov, Marcus Palmqvist, Edoardo Pasero, Marco Pietracupa, Lele Saveri Hanno disegnato per questo numero: Silvio Mancini, Chris Schulz In stage Davide Coppo --Managing Director Alessandro De Felice · a.defelice@rivistastudio.com Studio è edito da Studio Editoriale S.r.l.
PORTFOLIO TORNO A VIVERE IN CITTà DI Ari Marcopoulos.............................................................. 109
Redazione Via Segantini, 71 · 20143 Milano.
RUBRICHE LIBRI............ TOMMASO PINCIO E LA RISTAMPA DI UN “ROMANZETTO” DI Stefano Ciavatta............. 119 .......... EDITORIA E CASO DI Andrea Tarabbia................................................................ 120 CINEMA...... COTTE DI MAGLIA E MANICI DI SPADE DI Federico Bernocchi................................... 121 .......... QUANTO VALE IMDB.. ................................................................................... 122 MEDIA......... FREE PRESS AL CAPOLINEA DI Michele Bisceglia.................................................... 123 .......... TIMOTEO E IL BALFINO.................................................................................. 124 ARTE............ COSE CHE NE SIGNIFICANO ALTRE DI Massimo Torrigiani..................................... 125 .......... STEVE MARTIN, L’ARTE, IL POP DI Nicola Bozzi....................................................... 126 MUSICA...... I DISCHI CHE HANNO FATTO STUDIO DI Cesare Alemanni.. ..................................... 127
Contatti +39 02 49526421/2 info@rivistastudio.com www.rivistastudio.com
L’ARTE DELLA GUERRA CASSANO ANTONIO VS GARRONE RICCARDO DI Alberto Piccinini................................... 128 LA FOTOGRAFIA DI COPERTINA È DI
6 Studio
Lele Saveri
--Stampato da Tipografia Negri · Bologna --Registrazione al Tribunale di Milano n. 651 del 3 dicembre 2010
N°0 gen.·feb. 2011
Questo che avete fra le mani è il numero zero di Studio, per cui prendetelo per ciò che un numero zero è: un cantiere a cielo aperto. L’inizio di un progetto. Studio sarà una rivista bimestrale cartacea – in edicola dal numero uno – e un sito internet, www.rivistastudio.com, con aggiornamenti quotidiani (e molto presto anche un’applicazione per i vari device). Ci focalizzeremo sull’attualità culturale, consci che attualità culturale oggi è categoria ampia. Cercheremo di parlare di libri, cinema, moda, arte, musica, televisione, società, comunicazione, semplicemente stando sempre attenti a non fermarci al primo sguardo sulle cose (siamo bombardati di primi sguardi, no?). Il motivo per cui fondiamo Studio è la somma di una serie di ragionamenti fatti nei mesi scorsi, e riassumibile forse con la seguente parola: ambizione. Di cui avvertiamo in giro una gran mancanza. Ambizione, per noi almeno, significa uno strano mix di assunzione di responsabilità, incoscienza, consapevolezza, diritto e dovere di impresa, adrenalina, esperienza, voglia di dimostrare che – usciti dalla sterile e fagocitante logica del “ecco una cosa che non avete mai visto e che sconvolgerà le vostre vite” – la sfida bella da cogliere oggi è tornare a fare le cose per bene. Contenuto, struttura, visione e, perché no, capacità di stare in piedi con le proprie gambe. Facile? Affatto. Cosa diventeremo e di cosa e di chi di volta in volta ci innamoreremo ovviamente oggi non lo sappiamo, ma abbiamo di contro bene in testa cosa davvero non ci piace più: il luogo comune, il prendersi troppo sul serio, l’approssimazione, la smania di dividere tutto in giusto e sbagliato, oltre che quel vecchio assunto per il quale la gente è sempre un pelo più stupida di come ce l’eravamo immaginata, per cui la corsa è ormai solo e comunque al ribasso. Ecco, crediamo sia arrivato il momento di ricominciare a correre verso l’alto e – oltre a raccontare cose, fatti e persone per noi meritevoli di attenzione – provare a soffermarsi e a prendersi il tempo e lo spazio necessari per ragionare sul come e il perché di determinati fenomeni, storie, passioni. La storia di copertina di questo numero zero di Studio è tutta dedicata alla straordinaria rivoluzione culturale messa in atto da alcune serie televisive americane di successo. In particolare a una, The Wire, esempio per noi perfetto di cosa voglia dire raccontare una storia oggi. La persona che l’ha ideata, David Simon, tempo fa, rispondendo in un’intervista alla domanda su come fosse riuscito a convincere il telespettatore medio ad appassionarsi a un impianto narrativo di tale complessità, ha risposto: “Il mio modello di verosimiglianza è semplice e l’ho scoperto quando ho iniziato a scrivere narrativa: chi se ne frega del lettore medio. Se scrivi qualcosa che risulta davvero credibile per chi è dentro a quel determinato mondo, allora chi ne sta fuori ti seguirà”. Il lettore medio non esiste. Idealmente, vorremmo che questo diventasse il motto di Studio. Di chi lo fa, e di chi lo legge.
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Studio 7
DISPACCI
editoria
libri sui giornali Ecco un romanzo che tutti i giornalisti e gli editori dovrebbero leggere.
di Federico Sarica
R
accontare la crisi dei giornali di carta così come li abbiamo conosciuti fino a oggi, e come probabilmente non saranno mai più, si porta molto in questo periodo. Ma farlo attraverso un libro che narra le vicende private e professionali dei redattori di un fantomatico e sgangherato quotidiano in lingua inglese ma di base a Roma - per giunta nella curva più bassa del suo declino - è un esercizio che in qualche senso aiuta a dare una dimensione narrativa umana, sentimentale e, perché no, anche un tantino dissacratoria di quello che sta succedendo. È forse per questo che, in tempi di fredde riunioni di redazione online aperte da strette di mano militaresche e condotte in porto senza macchia e paura, il romanzo di carta The Imperfectionists - con tutto quel carrozzone di teneri e imperdonabili macro-difetti di un sistema editoriale anacronistico che fanno capolino qua e là fra le sue pagine - è stato accolto in maniera entusiastica da buona parte delle pagine culturali della stampa anglosassone che conta. Il libro l’ha scritto Tom Rachman - trentacinquenne ex redattore di Associated Press e International Herald Tribune - e, come ha affermato Louis Bayard recensendolo per il Washington Post, “parla sostanzialmente di cosa succede quando dei professionisti iniziano a rendersi conto che la
loro specificità non ha più alcun significato agli occhi del mondo e che le uniche persone che veramente li comprendono sono coloro che si trovano sulla stessa nave che affonda”. Senza nessun ricorso alla saggistica e ai più o meno seri dibattiti in corso, The Imperfectionists (uscito in Italia per Il Saggiatore, pp. 364, 18 euro) è un divertente romanzo diviso in undici capitoletti, di fatto dei racconti brevi autosufficienti ma che con lo scorrere delle pagine aiutano a chiudere un puzzle, ognuno dedicato a un protagonista diverso della vita del giornale, di cui fra l’altro non viene mai nominata la testata. Il lettore si trova così a passare dallo scorrere frustrante delle giornate di Loyd Burko, un vecchio collaboratore inviato a Parigi - una volta firma di punta del giornale e ormai di fatto esautorato dal suo ruolo senza che nessuno gliel’abbia mai realmente detto - e dal suo goffo tentativo di ricucire i rapporti col figlio una volta saputo che quest’ultimo lavora al ministero e può diventare di fatto una fonte, alle massime della redattrice economica Hardy Benjamin che, nel tentativo di spiegare al neo fidanzato hippy e irlandese di che cosa diavolo si occupi al giornale, si lancia in un «di base l’economia è un buco nero in mezzo al giornalismo; inizi col nuotarci attorno finché non ne vieni inevitabilmente risucchiato. Sotto
sotto, ogni storia ha a che fare con l’economia». Il giornale lo dirige una tale Kathleen Solson, che a un panel sulla crisi dell’editoria in cui si trova a ripetere a memoria la formula «Non so dirvi se fra cinquant’anni pubblicheremo nello stesso formato, so solo che ci sarà sempre bisogno di gente che scriva e racconti la realtà e quello è il nostro mestiere», senza crederci più di tanto incontra un suo amore italiano di gioventù, Dario De Monterecchi, che si dichiara membro dell’ufficio stampa di Berlusconi. Passata l’ironia da direttora radical-chic e dopo un paio di drink insieme nel giardino dell’Hotel De Russie, la seriosa Kathleen smania per conoscere ogni particolare della vita professionale di Dario a fianco del Cavaliere (salvo poi tornare a bollare spregiativamente come berlusconiano la vecchia fiamma quando quest’ultimo si dichiara non più sessualmente attratto da lei). Significativo il capitolo dedicato a quella che nelle intenzioni di Rachman dovrebbe essere la lettrice media del giornale: una signora ultrasettantenne che si ostina a leggere ogni singola copia dell’affezionato quotidiano dall’inizio alla fine prima di passare a quella successiva, motivo per cui anche se il libro si svolge nel 2007, lei è ferma all’edizione del 23 aprile del 1994. The Imperfectionists si chiude col capitolo sull’editore Oliver Ott, erede del fondatore della testata, mandato a Roma dalla famiglia Ott per occuparsi del quotidiano. A Oliver del giornale non frega ovviamente nulla e quando suo fratello lo chiama al telefono per comunicargli le sorti del quotidiano, dicendogli che senza sito Internet e con questi conti economici non si va da nessuna parte e che ormai il giornale è una macchina mangiasoldi, risponde: «Non abbiamo abbastanza denaro per andare avanti?» Il fratello replica così: «Certo che sì. Li abbiamo proprio perché non abbiamo mai tenuto in vita delle macchine mangiasoldi». Federico Sarica è il direttore di Studio. Scrive inoltre per diversi periodici e quotidiani fra cui Il Foglio e D la Repubblica delle Donne.
Studio 9
DISPACCI
musica & media
Vediamo chi ce l’ha più indie Il caso Pitchfork, ovvero quando la nicchia si fa inevitabilmente pop.
di Cesare Alemanni
uando Pitchfork chiese al comico americano David Cross di stilare una lista dei suoi dieci dischi preferiti, Cross ne mandò una intitolata: “Dieci dischi da ascoltare leggendo le pretenziose recensioni di Pitchfork”. Ovviamente i dischi erano inventati e avevano titoli tipo Elegant Nuisance dei ButterFat 100 e il comico si era anche preso la briga di recensirli usando termini come “metafisica baritonale” e “new British no-fi/wi-hi”. La redazione di Pitchfork seppe stare al gioco e la lista fu pubblicata per ciò che era: una riuscita presa in giro del gusto aristocratico di chi ci scriveva. Era il 2005 e Pitchfork era da anni una specie di “testo sacro” per gli amanti della musica “di nicchia” in giro per il pianeta. Per esempio: l’ottima recensione (9.7/10) apparsa sul sito il 12 settembre 2004 del primo LP degli Arcade Fire, contribuì significativamente a farne esaurire la prima stampa nel giro di una settimana. A metà decennio Pitchfork era il totem della musica indie mondiale, in una fase in cui la stessa per una serie di altre ragioni - dalla moda al marketing - godeva di grande salute. “Se non c’eri, non eri”. Il sito era un anello essenziale di una catena comunicativa che partiva dagli uffici stampa delle band e delle case discografiche, attraversava Pitchfork come la voce in un megafono e si ri 10 Studio
versava infine nel mare magnum della rete: dai blog a MySpace per approdare infine negli iPod dei singoli ascoltatori. Gli indie kids leggevano su Pitchfork il nome di un nuovo gruppo, cercavano il loro MySpace, ascoltavano un po’ e se la recensione del sito diceva che era “musica ok”, scaricavano l’album o intere discografie, compravano magliette e (sempre più raramente) dischi, ne parlavano con gli amici, ne scrivevano sui loro blog e si mettevano in fila per il concerto di questa o quell’altra band. Nei “duemilaequalcosa” godere dell’endorsement di Pitchfork contava come avere un video in heavy rotation su MTV negli anni 90. A prima vista le cose sembrano ancora così. Nella sostanza invece sono cambiate più di quanto molti stakeholder si siano accorti e Pitchfork sta andando rapidamente incontro al controverso destino di tutto ciò che incontra il successo nascendo da una nicchia. Raggiunto l’apice dell’hype e del tastemaking il sito si è rapidamente istituzionalizzato e canonizzato diventando di fatto una vetrina mainstream. I pitchforkiani sono diventati popolari almeno quanto hanno reso popolare la musica che amavano e promuovevano e di fatto, oggi, l’indie di cui si parla su Pitchfork rappresenta al massimo la superficie di uno specchio d’acqua molto più profondo. Ed è inutile
dirlo, quando si tratta di diffidare di tutto ciò che è ormai troppo istituzionalizzato nessuno è più radicale di un teenager. Inoltre lo sviluppo social del web ha prodotto crescente disinteresse per la comunicazione verticale, così che oggi la condivisione di nuove scoperte musicali viaggia attraverso strumenti più agili, come le bacheche di Facebook, i cinguettii di Twitter e catene di blog sempre più specializzati, in grado di coprire anche le più piccole nicchie nate dalla frammentazione dell’ “indie, non più indie”. Se a Newcastle stesse davvero emergendo una scena “British no-fi/ wi-hi” un blog locale ne parlerebbe mesi prima di Pitchfork. Lo stesso sito sa che far fronte alla “concorrenza orizzontale” di migliaia di blog musicali sparsi per il mondo gli sarebbe impossibile e di non poter essere dovunque “sul pezzo”. Ma sa anche che ignorare o perdere terreno sul campo del nuovo “underground” gli costerebbe caro in termini di posizionamento e prestigio. Il rischio è di diventare una vetrina inerte, una cassa di risonanza del “già ascoltato”, sempre meno appetibile per futuri investitori. Per fare fronte a queste due esigenze ha quindi messo in cantiere un nuovo interessante progetto. Dopo aver fatto un po’ di scouting alla ricerca dei blog più “à la page” su diversi generi musicali emergenti, ha deciso di invitarli a unirsi a lui (tu mi offri contenuti, io ti dò visibilità) all’interno di un unico luogo sul web: Altered Zones. Un sito/blog/aggregatore che non risiede all’interno del progetto principale ma che di fatto è uno spinoff di questo in cui Pitchfork può, senza stravolgere la propria struttura e identità originale, strizzare l’occhio ai consumatori e ai trendsetter delle nuove nicchie (come MTV con MTV2 e Brand:New…); mantenere un contatto con loro e ringiovanire la propria sfera d’influenza, allargandosi a territori ancora vergini. Portarsi avanti per non rimanere (troppo) indietro. In attesa della prossima frammentazione, ovvio. Cesare Alemanni è redattore di Studio. Collabora anche con L’Uomo Vogue e Vice magazine, oltre a svariati blog dalla filosofia allo sport.
DISPACCI
arte contemporanea
the last newspaper
Aleksandra Mir, Let’s Go Get ’Em! (19 October 1996), 2007, marker/paper. Courtesy: Mar y Boone Galler y, New York
Artisti a confronto con parole, titoli, flussi di notizie. L’esperienza del New Museum.
The Last Newspaper Si è chiuso il 9 gennaio scorso presso il New Museum di New York The Last Newspaper, una sorta di incrocio fra una mostra collettiva e un workshop in divenire. Il tutto è stato incentrato sul rapporto fra arte contemporanea e giornali, intesi sia come contenuto che come contenitore. Fra le molte opere esposte, questa dell’artista di origine polacca Aleksandra Mir, tratta dalla serie Newsroom.
Studio 11
DISPACCI
politica & comunicazione
a lezione da sarah palin Da Barbie di montagna a politico virale: alcune cose che ci può insegnare l’ex governatore dell’Alaska.
di Ana Marie Cox
S
econdo Game Change, un libro sulla campagna presidenziale americana del 2008, Sarah Palin è entrata in corsa come candidata alla vicepresidenza di John McCain nonostante alcune grosse lacune culturali. Non sapeva cosa fosse un teleprompter (il gobbo elettronico) e non sapeva pronunciare correttamente la parola “nucleare”. Ma c’è di peggio: non sapeva perché la penisola coreana fosse divisa in Nord e Sud. Non le era chiarissimo chi ci fosse dietro gli attacchi dell’11 settembre. E non ha saputo mai dare una risposta precisa a chi le chiedeva contro chi suo figlio stesse combattendo in Iraq. Eppure credo che Sarah Palin abbia molto da insegnarci. Non esiste altro candidato alla vicepresidenza degli USA che sia riuscito a ottenere i suoi stessi potenziali benefici dopo la sconfitta elettorale (Al Gore, candidato alla presidenza, non conta): un contratto editoriale milionario per il suo best-seller e un contratto televisivo altrettanto ricco che la farà durare sugli schermi nazionali per molto tempo ancora dopo che la gente si sarà scordata il nome dell’attuale vicepresidente (Joe Biden, per inciso). Quindi, cosa abbiamo da imparare? Penso al suo comportamento post-elettorale quando decise di evitare quasi del tutto i media tradizionali preferendo i social network.
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Infatti, dopo aver rassegnato le dimissioni da governatore dell’Alaska, si è pronunciata ufficialmente quasi solo via Facebook: lì ha difeso il suo rifiuto delle teorie sul riscaldamento globale e lì ha scherzato sull’ex fidanzato della figlia. Di primo acchito, il suo comportamento potrebbe essere paragonato a quello di un ex parlamentare che si mettesse a dire la sua su un dato accordo politico, gridando la propria posizione dal mezzo di un campo da calcio. Strano. Ma pensiamo a cosa accadrebbe se il nostro ex membro del parlamento insistesse e quello diventasse l’unico modo per sapere la sua su… pressoché qualunque cosa. Probabilmente la gente inizierebbe a seguire con crescente attenzione le partite di calcio (sport in ascesa ma ancora non popolarissimo negli States). E il politico in questione potrebbe tranquillamente ignorare i giornali e tutto ciò che lo indurrebbe a dover rispondere a domande ben precise. Prima che Palin diventasse la “presidentessa” di Facebook, i politici che volevano essere presi sul serio dovevano rispondere alle domande. Negli Stati Uniti dovevi vedertela con il New York Times, in Italia con il Corriere, etc. Andava così se volevi essere preso sul serio dalla cosiddetta gente seria - quel tipo di persone che leggono i giornali. E questa è un’al-
tra cosa che impariamo da lei: puoi essere popolare quanto vuoi se non ti interessa minimamente presso chi lo sei. La Palin ha il supporto di chi crede che Obama sia un terrorista, e ha sostenuto le teorie conspirazioniste di quanti sostengono che il Presidente non abbia i requisiti legali per essere cittadino americano. Ma averlo fatto attraverso i cosiddetti nuovi media - i cui lettori sono abituati ad autoselezionare notizie e opinioni significa che non ci sarà nessuno a controbattere queste credenze. E che quindi chi ci crede potrà continuare tranquillamente a gridarsele a vicenda, senza contraddittorio. C’è chi guarda con sdegno a questo tipo di supporter, ma lei ha capito che più è grande lo scorno delle “persone serie” più i fan la amano. Sarah Palin è il “Numa Numa” della cosa pubblica: un politico virale. Non c’è bisogno di dire che tutte queste lezioni risultano particolarmente valide se impartite da una donna mediamente attraente, la quale sprizza inspiegabile ottimismo da tutti i pori. A qualcuno quest’ultima considerazione sembrerà deprimente, o farà pensare che in qualche modo svaluti i meriti sopra attribuitile. Io invece credo che sia proprio il suo piacente aspetto fisico a renderla facilmente attaccabile dalle “persone serie”. I suoi fan, al contrario, sono attratti dalla sua irrazionale denuncia dei cambiamenti radicali cui gli americani potrebbero essere chiamati, non dai suoi modi graziosi. Sono le élite che l’hanno sbrigativamente liquidata come una “Barbie di montagna”. E da qualche parte c’è sicuramente qualche abile stratega politico che ha notato tutto ciò. La prossima Palin - ce ne sarà un’altra, sì - sarà di proposito appena meno attraente dell’originale, un pelo più in carne e meno in forma. Un po’ come la Palin tra dieci anni. Sarah Palin for President, 2016: la lezione più preoccupante che potremmo apprendere. Ana Marie Cox, oltre a essere corrispondente da Washington per il GQ americano, è la fondatrice di Wonkette, noto blog di politica interna. Ha scritto anche per Time, Playboy e Air America Media.
DISPACCI
processo di pace
perché nessuno ha fretta Pare che prendere tempo convenga sia agli israeliani che ai palestinesi.
di Anna Momigliano
I
l tempo è una dimensione cruciale nel processo di pace tra palestinesi e israeliani. Mentre si discute tanto sullo spazio e sugli spazi (Israele è pronta a rinunciare agli insediamenti principali? Che cosa ne sarà di Gerusalemme Est?) vale la pena di soffermarsi anche sulla dimensione temporale. Sul fattore tempo era stata impostata l’intera politica del fu governo guidato da Ariel Sharon (2001-2006), il generale entrato in politica che decise lo storico smantellamento delle colonie nella Striscia di Gaza. Consigliato dal demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola, Sharon era giunto a una semplice conclusione: il fluire del tempo, senza passi avanti verso una soluzione alla questione palestinese, gioca tutto a favore degli arabi, perché a loro favore gioca il fattore demografico. La dottrina di Della Pergola, adottata da Sharon, può essere così riassunta. Uno: l’obiettivo di Israele è mantenere uno Stato ebraico e democratico, stando alla tradizione sionista visionata da Theodor Herzl alla fine dell’Ottocento. Due: affinché Israele possa mantenere la sua natura di Stato ebraico e democratico è essenziale che venga mantenuta sul piano demografico la maggioranza ebraica, perché una minoranza non può governare in modo democratico. Tre: questo significa che il governo di Ge-
rusalemme deve rinunciare al sogno di una “grande Israele”, perché in una Israele “allargata” la popolazione ebraica non potrebbe mai reggere la sfida demografica con la popolazione araba. Conclusione? Occorre restituire i Territori occupati (Striscia di Gaza e Cisgiordania) ai palestinesi. E prima è meglio è, perché, come detto, il fattore demografico sta dalla parte degli arabi. In base a questo ragionamento Sharon prese la storica decisione di effettuare un ritiro totale, nell’agosto del 2005, dalla Striscia di Gaza, smantellando gli insediamenti civili tanto quanto le basi militari, con l’obiettivo di portare avanti uno smantellamento analogo anche nella Cisgiordania, o almeno in parte di essa. Con gli anni però, e con la scomparsa di Sharon, l’approccio israeliano al fattore tempo è cambiato radicalmente. A quanto pare, i governi successivi hanno dimostrato più volte di volere tentare di prendere tempo, anziché accelerare le cose come avrebbe voluto la dottrina Sharon. Che cosa è cambiato? Per qualche motivo, i governanti di Israele si sono convinti che il fattore tempo giochi a loro favore. Una possibile spiegazione può essere rintracciata nel dossier delle colonie che si stanno espandendo intorno a Gerusalemme Est, dove in questi mesi si registra una vera e
propria frenesia delle costruzioni. Da notare che questo tipo di insediamenti non è toccato dalle varie “moratorie delle costruzioni” approvate talvolta dal governo, che si applicano solamente alla Cisgiordania, mentre le autorità israeliane considerano Gerusalemme Est parte integrante del proprio territorio. Per farla breve, parrebbe che l’interesse di questo governo israeliano sia prendere tempo in modo da espandere il più possibile questi insediamenti, onde mettere i palestinesi e la comunità internazionale davanti al fatto compiuto al momento di trovare un accordo definitivo. In altre parole, si è passati da una corsa contro il tempo a un tentativo di prendere tempo. La cosa interessante è che, sotto alcuni aspetti, anche l’Autorità nazionale palestinese sembra perseguire una strategia analoga. Alcuni osservatori sostengono che Salam Fayyad, l’ex economista della Banca Mondiale diventato primo ministro dell’Anp, abbia in mente uno schema ben preciso. Ovvero costruire la Palestina dal basso, lavorando sulla creazione di istituzioni e infrastrutture, sulla lotta alla corruzione, sull’educazione e sulla formazione del know how necessario alla creazione di posti di lavoro, sull’economia e in particolare sull’attrazione di capitali stranieri. In altre parole, su tutto quello che viene normalmente catalogato come nation building. Talvolta sembra quasi che l’obiettivo di Fayyad e del suo capo Abu Mazen sia quello di costruire dal basso uno Stato palestinese che possa essere indipendente da quello israeliano, in modo da mettere la comunità internazionale davanti al fatto compiuto ed essere pronti, nel caso fosse necessario, a dichiarare unilateralmente l’indipendenza. Non che Fayyad e Abu Mazen siano contrari al processo di pace. Ma hanno un piano B pronto nel caso questo fallisca. E, da questo punto di vista, prendere tempo è cosa utile. Anna Momigliano è una scrittrice e giornalista milanese di 30 anni. Ha studiato in Israele e negli Stati Uniti, scritto reportage da Kenya, Cina e Mozambico. È autrice di Karma Kosher (Marsilio), un’inchiesta sui giovani israeliani.
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convertito al lifestyle italiano: e di qui l’acquisto (nel 2009, per 90 milioni di euro) di un nome storico del vino itaeconomia alimentare liano, le tenute Fontanafredda, celebri per Barolo e Barbaresco e già di proprietà della Bela Rosìn, moglie morganatica di Vittorio Emanuele II. Le tenute, dice un addetto ai lavori, versavano da tempo in pessime condizioni, e l’arrivo di Oscar Farinetti ha imposto non solo un netto miglioramento del business ma anche la sua visione un po’ rinascimentale dell’imIl fenomeno Eataly, prenditore: ha “salvato” 13 ettari delil ruolo di Slow Food, le mani le tenute destinandole a “Bosco dei nel piatto (sano) degli italiani. pensieri”, un luogo del silenzio e della riflessione che è stato affidato a un agronomo, Alberto Grasso, per la parte naturalistica, e a un poeta, Pier di Michele Masneri Mario Giovannone, paroliere di Gian Maria Testa, per quella letteraria. I due hanno tracciato un sentiero, fatto di dodici tappe, ognuna dedicaon si può più stare tranquilli sa a metà anni ‘90 e completamente ta a un tema: c’è quella del silenzio e neanche a tavola. Nel mondo ristrutturata. All’interno dell’ex opi- quella dell’ascolto, quella della con(sempre più redditizio) dell’ali- ficio ci sono 3.200 metri quadrati de- templazione e quella della degustamentare d’alta gamma, organico e stinati ad aree didattiche, 2.450 metri zione, quella del cammino e quella non, si sta giocando una partita di quadrati per la vendita e la sommini- del naufragio nell’infinito. Si sale e si potere che rischia di cambiare equili- strazione del cibo e 820 metri quadra- scende, su una sorta di sacro monte bri e scenari. Con un protagonista ti destinati a “percorso coperto aper- pagano in cui le tappe della via crucis assoluto e rampante, che si chiama to al pubblico”. sono scandite da cartelli che citano Oscar Farinetti ed è il geniale imLe aree di vendita sono tematiche: brani di autori famosi, in tema con il prenditore di Alba che si è inventato il pesce, la carne (rigorosamente del senso della tappa, da Giacomo Leoil fenomeno Eataly, il nuovo tempio Cuneese), i formaggi e i salumi, la pardi a Charles Baudelaire, da Beppe della gastronomia politicamente cor- frutta e la verdura, il caffè e il tè, il Fenoglio a Cesare Pavese e Walt retta, che da Torino è arrivato trion- gelato artigianale, la pasta fresca e Whitman, da Guy de Maupassant a falmente a New York e ora promette la pasta secca di alta qualità, il pane padre Turoldo. di aprire in altre città, italiane e stra- e i dolci appena sfornati cotti in un Insomma, un imprenditore illuminiere. forno a legna in pietra da un cuoco nato, dotato di talento mediatico (a Eataly New York è un megastore di francese, i vini (oltre 40 mila botti- New York è riuscito a far dire al sinprodotti alimentari italiani di alto glie), la birra da tutto il mondo con daco Michael Bloomberg «I like malivello, un “food village” come viene alcune presenze significative di pic- triciana») e una figura nettamente in definito dalla proprietà, di cinquemi- coli birrifici artigiani piemontesi. ascesa, già coccolata da tutti i media, la metri quadrati in piena Manhat- Ma c’è anche una biblioteca tematica ed è forse per questo che le critiche tan, nel Rockefeller Center, sulla e una sala conferenze da circa 200 intorno alla sua figura non mancano, Quinta incrocio con Broadway, ed è posti. Insomma, un grande parco a almeno sottotraccia. una naturale (e molto mediatica) ger- tema dedicato al cibo italiano di quaA partire dai rapporti con i forniminazione di Eataly Torino, il “pri- lità. tori: la missione stessa di Eataly, che mo mercato italiano dedicato agli Farinetti è un imprenditore sui ge- sarebbe di favorire le “filiere” e le spealti cibi” sempre come vuole la reto- neris: partendo dal negozio di elet- cificità locali, secondo alcuni addetti rica aziendale, dove l’enogastrono- trodomestici del padre nei pressi di ai lavori sarebbe ampiamente disatmia di qualità, soprattutto piemonte- Alba, ha messo su negli anni l’impero tesa, in particolare per le aggressive se ma più in generale italiana, va in- Unieuro, già glorificato dal tormen- tecniche di vendita imposte ai fornicontro alle logiche della grande di- tone “è l’ottimismo”, di Tonino Guer- tori: alcuni parlano di strategie un stribuzione. ra, altra idea di marketing di Farinet- po’ vessatorie, di acquisto dei proQuindi, innanzitutto, le dimensio- ti stesso. L’impero è poi stato venduto dotti a costi ribassati del 50 per cento, ni: a Torino Eataly occupa una su- al gruppo inglese Dixon per 530 mi- di forniture gratuite, di acquisto obperficie di circa undicimila metri lioni di euro nel 2003. bligato di scaffali come posizionaquadrati all’interno della storica fabDopo l’avventura nell’elettrodo- mento del prodotto. Già nel 2007, brica dei vermouth Carpano dismes- mestico, Farinetti si è gradatamente cinque consiglieri comunali hanno
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presentato un’interpellanza al sindaco di Torino, intitolata “Eataly, un grande grosso gambero rosso che mangia la piccola e media impresa”, sostenendo che “la strategia di acquisizione e trasformazione del sistema d’impresa si fonda sulla pressione esercitata dal colosso cooperativo sui piccoli artigiani e produttori, che - altro che valorizzazione delle specificità - promuove l’omologazione delle imprese agroalimentari, strangolate dal nuovo player, esperto in Grande Distribuzione Organizzata”. Altri problemi arrivano dal fronte sanitario. Dopo diversi controlli dei Nas proprio nel “sancta sanctorum” farinettiano di Eataly Torino, gli uomini del procuratore Raffaele Guariniello hanno comminato una multa da ventimila euro al gruppo, registrando diverse irregolarità. In particolare pare che non sia stato possibile risalire agli anelli della filiera di provenienza, mentre è stata riscontrata una violazione delle norme sullo smaltimento dei rifiuti speciali, che da sola è costata una multa di seimila euro. Il blitz è stato deciso dopo l’arrivo di tre segnalazioni e diversi clienti che si erano sentiti male (in un caso per della carne macinata, nell’altro per pesci e ostriche). Ma un ulteriore capitolo controverso di questa storia è quello che riguarda la rete di relazioni di Farinetti. In particolare, dicono i detrattori, le imprese farinettiane sarebbero dovute non solo a genialità imprenditoriale ma anche a ottimi legami con l’establishment: dal settore bancario (infatti Monte dei Paschi è socio di Farinetti nei vini di Fontanafredda con il 36 per cento mentre l’amministratore delegato d’Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, è un estimatore del sistema Eataly, e la banca torinese ha in atto partnership con il gruppo) al ruolo delle Coop, socie al 40 per cento di Eataly, infine alla politica vera e propria. Farinetti era in predicato di correre alle regionali 2010 con Mercedes Bresso, anche se poi non se n’è fatto più nulla, ma di sicuro i rapporti con il Partito democratico rimangono ottimi, tant’è vero che alla presentazione di Eataly New York erano presenti il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, e il presidente della Regione Liguria, Claudio
Burlando, il quale in passato si è detto pronto a mettere a disposizione settemila metri quadri della stazione marittima di Genova per un nuovo insediamento di Eataly. Tutta questa rete di contatti (e forse anche un po’ di invidia) stanno facendo sorgere timori nel mondo parallelo di Slow Food, la creatura nata per volere di Carlin Petrini che si è affermata nel mondo come avamposto del viver sano. Non è un mistero che tra le due organizzazioni siano in atto diverse collaborazioni, e anzi Eataly in un certo senso nasce come costola di Slow Food (Petrini era accanto a Oscar Farinetti all’inaugurazione di New York, mentre Eataly si avvale della consulenza di esperti Slow Food). Il fatto è che i due mondi, almeno come obiettivi, sono sideralmente lontani. L’organizzazione di Petrini è stata pensata come risposta al dilagare del fast food e alla frenesia della vita moderna, difende e divulga le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni parte del mondo attraverso progetti (Presidii), pubblicazioni (Slow Food Editore), eventi (Terra Madre) e manifestazioni (Salone del Gusto al Lingotto di Torino, Cheese a Bra e Slow Fish a Genova) e si è impegnata per la difesa della biodiversità e dei diritti dei popoli alla sovranità alimentare, battendosi
contro l’omologazione dei sapori, l’agricoltura estensiva, le manipolazioni genetiche. Ma soprattutto, è senza fini di lucro. Eataly, invece, è chiaramente un gruppo for profit. Così questa relazione pericolosa sta facendo sorgere molti sospetti proprio nella base di Slow Food. Anche alla luce di alcuni elementi: da una parte, dice un osservatore, Petrini potrebbe decidere di spendere la notorietà anche internazionale accumulata negli anni in altre iniziative completamente diverse (la politica?); dall’altra, la macchina di Slow Food sarebbe diventata talmente imponente da richiedere una riorganizzazione (magari in chiave più orientata al business). Infine, è impossibile non constatare l’ascesa della corazzata del gusto di Oscar Farinetti, con la sua rete di rapporti e con le sue quasi illimitate possibilità finanziarie. Mettendo insieme tutti questi elementi, qualcuno osa giàpronunciare la parola “scalata”. E scommette che il cibo italiano possa diventare nei prossimi anni meno “slow” e più capitalista. È la forza “dell’ottimismo”, direbbe (probabilmente) Tonino Guerra. Michele Masneri (1974) è lombardo e vive a Roma. Scrive prevalentemente di economia, per colpa di John Maynard Keynes. Attualmente collabora con Il Foglio.
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Everybody loves Michael Non si può non voler bene a Michael K. Williams, uno dei volti più intensi del rinascimento televisivo americano. L’ha scoperto Tupac, e da allora tutti hanno voluto lavorare con lui: da David Simon a Martin Scorsese, passando per R Kelly e Todd Solondz. testo di
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fotografie di Lele Saveri
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he Michael Williams parli lentamente al telefono per farsi capire da un non madrelingua è veramente un buon segno. Artisti americani cresciuti in luoghi ben più esposti all’esistenza dello straniero di quanto non fosse la Brooklyn degli anni Settanta e Ottanta in cui è cresciuto lui tendono a dimenticarsi l’esistenza del mondo non anglofono, e nelle interviste rispondono smozzicando i nomi citati come se l’intervistatore abitasse nel loro cervello e fosse madrelingua inglese. Non è una cosa da poco, e mi fa subito capire, appena lo contatto al dato numero dal computer con credito Skype, che sto parlando con una Brava Persona. Per Brava Persona qui intendo uno che, baciato dalla fortuna come pochi e passato da teppista a ballerino ad attore adorato, ha talmente presente cos’è la fortuna che accorda tutte le risposte a uno spirito felice, umile, semplice, onesto. E insomma quando io gli chiedo della sua collaborazione con grandi del nostro tempo come David Simon, Martin Scorsese, Todd Solondz e R Kelly (sì, sono tutti e quattro grandi anche se il primo non è famoso e l’ultimo è un cantante squilibrato di R&B), risponde con lo stesso entusiasmo con cui io gli pongo le domande, come se ogni risposta cominciasse con un “pazzesco, vero?” Il bisogno di conferma che sia una Brava Persona mi viene peraltro da un fatto: Michael si è affermato come attore in una delle più belle serie tv, The Wire, la serie su politica, istituzioni, criminalità, polizia ed economia ambientata a Baltimora, che con le sue cento sottotrame interconnesse ha stabilito un nuovo irraggiungibile standard di complessità per le narrazioni contemporanee di ogni genere. Il suo personaggio è Omar Little, il Robin Hood dei quartieri: un pazzo omosessuale che gira fischiettando col fucile fra i projects e incute una tale paura che gli spacciatori gli lanciano soldi e roba dalla finestra. Poi sostanzialmente distribuisce la ricchezza degli spacciatori fra chi gli pare a lui. Ai personaggi dei film, con cui si passano due ore, non ci si può mai affezionare come ci si affeziona a quelli delle serie, che per decine e 18 Studio
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decine di ore ti si aprono davanti senza pudore. Con un ruolo importante in una serie tv puoi costruire un rapporto intenso con il pubblico. E infatti: “I miei amici mi hanno detto di salutarti”, gli dico, “Oh, veramente? Intervisti Omar? Grande, digli ciao da parte mia”. «Cosa si prova a interpretare una parte così forte in una lunga serie?» «È stata la svolta per la mia carriera. Sono molto grato per l’opportunità che ho avuto: un personaggio forte come Omar… Quando ho avuto la parte non sapevo che sarebbe durata tanto, ero solo felice di lavorare. Ora mi guardo indietro e sono veramente fiero di aver fatto parte di una cosa che ha avuto un impatto del genere». «Pensavo anche che in una serie come The Wire, al cuore della cosa ci
«Secondo me per lei parla il suo lavoro: ha colto l’opportunità al volo e ci ha dato uno dei personaggi più memorabili della serie». A questo punto mi emoziono e inizio a parlare di The Wire; e a proposito del minuscolo violentissimo spacciatore bambino aiutante del figlio di Wee-Bey mi sento rispondere: «È assurdo: nella realtà è il bambino più umile e rispettoso che c’è, ma è un attore fenomenale e ha dato tanto alla serie… Sai, purtroppo rappresenta una condizione comune fra i ragazzini di Baltimora. è triste, ma la realtà è quella…» Ovviamente vorrei far domande su ogni personaggio del cast, ma gli chiedo (qui censuro il nome per evitare lo spoiler): «Ti è piaciuto che il personaggio di X alla fine diventi una
negli usa, c’è un the wire in ogni città. sono felice che gli autori abbiano raccontato la verità. sono magari le idee di Ed Burns e David Simon, ma tutto il cast ha portato molto del suo. Un esempio semplice: la cicatrice che hai in faccia, tu l’hai portata nella serie, e la tua voce. Tu peraltro hai scoperto Snoop» (la killer lesbica insopportabilmente spietata che però ha un accento di Baltimora talmente strambo e una faccia così rotonda che è diventata uno dei personaggi minori più amati di The Wire – e si chiama Snoop sia nella vita che nella serie). «Sì, ci siamo conosciuti in un bar di Baltimora e l’ho presentata ai produttori. Snoop ha molto carisma, è incantevole, è bella. Lei incarna lo spirito di Baltimora, mi spiego? L’ho incontrata in un bar e i produttori l’hanno subito messa nella serie». «Non è stato stupendo fare una cosa del genere?» «Oh, assolutamente». «Perché tu avevi appena avuto la tua grande occasione, e di colpo hai fatto un favore altrettanto grande a un’altra persona». «È stata una bella sensazione, sì». «Come ha reagito Snoop?» Qui c’è un non sequitur: forse non mi ha capito perché ha detto solo:
sorta di secondo Omar?» Lui però molto gentilmente mi cazzia: «Voglio dire una cosa chiaramente: da dove vengo, in America, in ogni città c’è un The Wire. Se mi chiedi se sono contento in generale della storia di un ragazzino che spara e ruba, eccetera, non posso dirtelo, non posso essere contento delle strade sbagliate che uno si trova a prendere. Sono contento che gli autori abbiano raccontato la verità». «Hai ragione, scusa, è stata un’uscita un po’ infelice». «No, non devi scusarti, le cose sono quelle che sono, no?» «Sei cresciuto a Baltimora?» «No, a New York». «Vuoi dirmi della tua adolescenza? Come hai cominciato a occuparti di arte? Ti va di parlarne?» «Ho cominciato…» Qui fa uno starnuto pazzesco. «Scusa. Ho cominciato dopo l’adolescenza. A Brooklyn ho avuto un’infanzia stupenda, la mia famiglia si prendeva cura di me, ma ero anche molto turbolento». Altro starnuto, e un grosso rombo di catarro. «È febbre da fieno, scusa. Dicevo: una grande infanzia: era dura, eravamo poveri, ma avevo una bella famiglia,
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dei begli amici. Ho bei ricordi». «Sei andato al liceo? Sai, al momento vedo l’America solo attraverso The Wire: mi ha convinto che non ne sapevo nulla, quindi ti faccio le domande su questa base… Tipo, la quarta stagione è sul sistema scolastico e le scuole dei quartieri poveri, quindi chiedo a te: com’è?» «È molto vicina alla verità, la stagione sulla scuola. In America ci sono quelli che hanno e quelli che non hanno niente. In The Wire vedi le scuole per i poveri. Se hai i soldi puoi sceglierti un altro stile di vita. Il mio liceo era devastato da tanta droga e tante distrazioni… Non ho finito il liceo, alla fine ho preso solo il General Education Development Test» (credo sia l’esame per il diploma di chi non ha finito il liceo). «E come hai cominciato con il
la mia vita in tutta un’altra direzione». «Quanti anni avevi?» «Venticinque, ventisei…» «Mi pare un’età perfetta per una svolta… Magari dopo un po’ avresti smesso di provare a sfondare…» «Beh», ride, «ognuno ci arriva all’età che ci arriva, ma ti dico: mi ha salvato la vita, sicuro». «Che roba. Passiamo a Boardwalk Empire. Com’è?» «La storia è ambientata ad Atlantic City nel 1920. È l’era del proibizionismo, quando misero l’alcol fuorilegge. Vedi quindi la nascita dei gangster, dell’alcol di contrabbando. E vedi anche tutti i grandi gangster da ragazzi, mentre si facevano strada. Come Al Capone, Lucky Luciano, i fratelli D’Alessio…» «Gli original gangster».
tupac vide una mia foto e pensò che avessi l’aria abbastanza truce per fare la parte di suo fratello. mondo dello spettacolo?» «Avevo ventidue, ventitré anni. Da tanto cercavo qualcosa, ma non avevo ancora avuto il coraggio di buttarmi. Poi vidi un video di Janet Jackson, “Rhythm Nation”, che mi colpì molto: lasciai scuola e mi imbarcai nel progetto di diventare un ballerino per Janet Jackson. O, per lo meno, di far parte di quel mondo». «E il primo ruolo al cinema, invece?» «Un film indipendente, Bullets, con Tupac Shakur e Mickey Rourke. E senti come trovai la parte: Tupac aveva visto una mia foto nell’ufficio della produzione, perché all’epoca ormai avevo fatto molti video come ballerino. Pensò che avevo l’aria abbastanza truce per fare la parte di suo fratello minore, per cui mandò i produttori a cercarmi e ottenni la parte». «Che modo pazzesco di cominciare a recitare. Com’è stato?» «Ero… Ero sconvolto. Non potevo crederci, ero seduto lì davanti a Tupac, di cui avevo sentito i dischi per anni… E lui mi spiegò che avevo preso la parte perché era rimasto colpito dalla foto e io pensai: ‘holy shit’, capito?, mi ha cambiato la vita, Tupac, ha mandato
«Oh, sì. Gli original gangster». «E il tuo personaggio?» «Il mio personaggio si chiama Chalky White». «Bel nome». «Già, sì, infatti. Fondamentalmente è il sindaco non ufficiale della comunità nera di Atlantic City, ai tempi era responsabile praticamente del venti percento dell’elettorato della città». «Ed è corrotto?» «Sì, è un gangster. Produce alcol di contrabbando. È un uomo d’affari barra gangster». «Insomma è lo Stringer Bell, il Proposition Joe degli anni Venti» (continua la mia fissazione su The Wire e i suoi personaggi). «Sì, si può dire così». «Ti diverti a farlo?» «Da morire. Anche stavolta sono in ottima compagnia. C’è Martin Scorsese a produrre, ha diretto il pilota. E ci sono Steve Buscemi, Mike Pitt, Michael Shannon, il cast è fantastico. è scritto benissimo, da quelli dei Soprano, è il loro nuovo bambino…» «Insomma praticamente Scorsese è curioso di ogni cosa e quindi voleva partecipare al rinascimento delle narrazioni americane grazie alle se-
rie tv… Che impressione ti ha fatto? Lui porta la grandeur del cinema nella televisione. Che ne pensi?» «Lui è incredibile. È una grande sensazione far parte di una cosa così frenetica, e hai ragione, in effetti Scorsese porta tutta la grandeur del cinema nel televisore, che è una cosa più piccola… è uno dei migliori, sono veramente felice di farne parte». «Mi viene in mente che forse è il momento giusto per questa grandeur. In fondo ora i televisori sono enormi, c’è l’alta definizione, quindi ha senso che uno con quell’esperienza nel cinema porti il suo sapere in tv proprio nel momento in cui le serie devono cominciare a tenere in conto che i televisori danno nuove possibilità. Magari è quello il motivo per cui ci si è messo». «Non so proprio. Guarda, sono solo molto contento che mi hanno preso». E io rido, perché mi ricorda che per me sono speculazioni da fan ma la vita l’ha svoltata lui e non riesce mai a mettere questa cosa tra parentesi. «Anch’io lo sarei», gli dico. «Senti, ora parlami invece della cosa più assurda e folle che hai fatto: Trapped in the closet, di R Kelly. È veramente una bella cosa. Quando l’ho visto non sono riuscito a smettere di cantare come R Kelly…» Trapped in the Closet è un’opera R&B che potete trovare su Youtube o su ifcfilms.com: si tratta di più di venti mini episodi che raccontano una notte di corna multiple e incrociate in cui vari personaggi rivelano di essere gay. Tutti recitano solo col labiale, mentre R Kelly, che è anche uno dei personaggi e ha sempre in mano una pistola con cui cerca di convincere le persone a calmarsi ma poi è sempre il più agitato, canta non solo le proprie battute, ma anche quelle degli altri attori, mettendo in piedi dei botta e risposta del livello di Cara ti amo di Elio e le storie tese, ma da solo. In più, c’è un nano; in più, tutta l’opera è suonata su due soli accordi. Quando la melodia ti entra in testa diventi pazzo. «Lì mi sono veramente divertito. R Kelly è un genio della musica, lo rispetto da morire. All’inizio non sapevo proprio cosa aspettarmi, mi hanno cercato, la produttrice era mia amica, una cara amica, e insomma mi chiama perStudio 21
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ché c’era una parte. Sono andato lì e quando ho visto di che si trattava mi sono detto che sarebbe stato da fuori di testa. Ci siamo veramente divertiti, lui è un genio della musica: che sia stato in grado di mettere insieme tutta questa cosa, la storia… è praticamente una soap musicale». «Come ti ha presentato il progetto? Come ne parla lui? Non riesco a immaginarmelo: è una cosa troppo strana». «Guarda, mi ci sono buttato, mi ha dato il copione e l’ho imparato: quando mi hanno chiamato era già in produzione. Sono un professionista, no? Dammi le mie battute, e poi da lì cerco di divertirmi, una cosa d’istinto». «Insomma, la prima scena che hai girato è quella per strada in cui gli fai una multa?» «Sì, quella». «C’è voluto tanto a girarlo? Non vi veniva da ridere? Tu col labiale dovevi dire cose come: “Bridget, you slept with a midget!» (Bridget, sei andata a letto con un nano…) Ride. «Ci è voluto meno di un mese, tre settimane. 15-16 ore al giorno di riprese, e in tre settimane l’abbiamo fatta». Qui scoppio a ridere perché mi immagino tre settimane per la sola scena del nano che va a letto con sua moglie. «La scena col nano in cucina?» «Ma no, no, tutto quanto. Con le prime riprese abbiamo fatto i primi 12 mini-episodi. Poi siamo tornati a fare gli altri, ma i primi 12 li abbiamo girati in tre settimane». «Senti, ma non era imbarazzante dire cose come la rima midget/Bridget davanti al nano? [E per dire nano ovviamente gli dico little person, perché midget agli americani non si può dire] Lui era tranquillo?» «Chi? Il nano?» Lui invece ha usato ancora midget. «Be’, senti, è un nano. Lui non si è fatto nessun problema, è stato divertente lavorarci, ha dato molto, ci metteva del suo nella parte e si trovava bene». «No, te lo chiedo perché gli americani si fanno molti problemi col politicamente corretto e con chi chiama le cose con certi nomi, quindi ero curioso». «No, niente del genere. Era tutto molto piacevole, e insomma, sai, ci so22 Studio
no cose molto più serie nella vita: lui è felice di essere vivo, di stare in salute, di avere un lavoro che gli piace e che sa fare, quindi non aveva nessuna rabbia dentro, e ci metteva un sacco di energia». «Sì, beh, si capisce che in Trapped in the Closet tutti gli attori ci hanno messo molto del loro. Sai, è che noi europei di solito siamo curiosi di questa fissazione per le definizioni politicamente corrette tipo little person…» «Non siamo tutti così, in America, fidati, per molta gente non è così, anzi vedrai che quelli che vengono dai quartieri, di solito… Non sono per niente così». «Fa piacere saperlo. Lo dirò in giro. Ora vorrei chiederti del film di Todd Solondz. Com’è stato? È un am-
Mi ha rotto il culo, a quel provino. È durato quasi due ore. Non un provino normale. Mi ha fatto a pezzi, quando ho finito ero proprio emotivamente esausto. Mi ha spinto a dei livelli cui non ero mai arrivato, come attore». «Spiegami come funziona, dovevi improvvisare?» «No, no: non esiste improvvisazione con lui, è molto anale, vuole che si rispetti il copione. Ha scritto la sceneggiatura, è un grande sceneggiatore, e ogni parola, ogni virgola, ogni punto, tutto ha un significato e devi dare l’intonazione perfetta a ogni battuta. Anale. Veramente, veramente, veramente preciso, anale, devi ripetere precisamente quello che ha scritto – e sai, mi ha portato a tutto un altro livello. Io sono abituato a improvvisare un po’, a modificare le battute, e Todd mi ha
In boardwalk sono il sindaco non ufficiale dei neri di atlantic city. Produco alcol di contrabbando. biente molto diverso rispetto agli altri tre di cui abbiamo parlato». «Todd è un genio. Nella mia vita sono stato molto fortunato: sono entrato in contatto con molti grandi talenti, che mi hanno fatto fare un vero salto di qualità» (qui in traduzione si perde tutto: in inglese ha detto “took my game to a whole different level”, che è più intenso), «e Todd è stato chiaramente uno di questi. È un genio nel suo campo. Ho dovuto sudarmi quel ruolo, all’inizio non mi voleva. L’ unico motivo per cui mi ha fatto il provino è che la direttrice del casting era Gayle Keller… Lei mi ha seguito fin dagli inizi della carriera e ha cercato di farmi ottenere un provino, e Todd mi ha detto: Michael, guarda, non volevo proprio chiamarti per questo film, ho visto la tua foto, ti ho trovato troppo cool, troppo bello, non adatto per la parte. Quando sono entrato nella sala dei provini e mi ha guardato si è convinto ancora di più che non fossi la persona giusta. Poi abbiamo cominciato il provino e abbiamo letto una scena, e… fondamentalmente, gli ho fatto cambiare idea». «Così? Solo leggendo?» «Todd mi ha massacrato, credimi.
spinto a fidarmi di lui al cento percento e se non capivo il senso di ciò che aveva scritto mi costringeva a tornare indietro e capirlo, perché non avevo scelta, dovevo leggere quello che stava scritto sul copione. Gli sono veramente grato perché mi ha costretto a migliorare come attore». Qui cade la linea di Skype e provo un po’ a chiamarlo, ma dopo non mi va di riprendere a parlare: ha detto che Todd Solondz è anale e per me si può chiudere lì. Aggiungo che lo invidio e che sono felice per lui. È bello quando ad avere successo è uno che lo sa apprezzare. A quel punto perfino il successo rischia di sembrare una cosa sana. Francesco Pacifico è nato a Roma nel 1977, dove vive. Scrive su Rolling Stone e Il Sole 24 ore. Ha pubblicato i romanzi Il caso Vittorio (minimum fax, 2003) e Storia della mia purezza (Mondadori, 2010). Traduce anche romanzi e graphic novel dall’inglese (tra cui Chris Ware e Will Eisner, Dave Eggers e Rick Moody e Henry Miller). Lele Saveri, fotografo, vive a New York. è stato photo-editor di Vice. Oltre a Studio collabora, fra gli altri, con Rolling Stone e D la Repubblica delle donne.
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In questo articolo descriverò la crime fiction americana – quel genere rozzamente tradotto in italiano con la parola “giallo” – e darò qualche esempio della sua rinascita all’interno del discorso culturale contemporaneo. In parallelo, parlerò della costante crescita della rilevanza culturale delle serie televisive americane, in particolare DI
Tim Small Fotografie di Markov Stanislav Studio 23
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grazie all’impatto intellettuale di The Wire, quella che secondo me è la più ambiziosa e realizzata Opera Narrativa di questo decennio. In qualsiasi formato. Nello specifico, poi, cercherò di rispondere a questa domanda: è possibile che questi due rinascimenti paralleli siano riconducibili a un comune interesse del pubblico per cose similmente realiste, sociali e legate al crimine? E, dal punto di vista autoriale, alla ricerca di una simile strada? E più specificamente: è possibile che siano riconducibili direttamente a un ristretto gruppo di autori – David Simon, George Pelecanos, Richard Price, Dennis Lehane e, più tangenzialmente, Elmore Leonard – che ha scritto in entrambe le forme? La risposta, secondo me, è sì. Se vi interessano le mie ragioni, basta continuare a leggere. * Un breve sommario delle opere discusse in questo articolo Twin Peaks, creata e prodotta da David Lynch e Mark Frost; The Hurt Locker, regia di Kathryn Bigelow, I Was Looking for a Street, Miami Blues, Tempi d’oro per i morti, Tiro Mancino e Come si muore oggi, di Charles Willeford; Quello era l’anno, di Dennis Lehane, Shutter Island, regia di Martin Scorsese da un soggetto di Dennis Lehane; Boardwalk Empire, creata da Terence Winter e prodotta da Martin Scorsese. The Wire, creata, prodotta e scritta da David Simon, con Ed Burns, Dennis Lehane, George Pelecanos e Richard Price; il Quartetto di DC di George Pelecanos; The Pacific, prodotta da Steven Spielberg e co-prodotta da George Pelecanos, Justified, creata da Graham Yost e prodotta da Elmore Leonard; e infine qualche vago riferimento generico ad altri libri, a qualche altra serie televisiva di HBO, Showtime e AMC, e a qualche altro film scelto a caso. * Alla base di tutto La posizione alla base di tutti i ragionamenti che seguiranno è che The Wire è essenzialmente un film-capo24 Studio
lavoro della lunghezza di 60 ore, un romanzo realista ricco di dozzine di personaggi fantastici e dalle sfrenate ambizioni sociali che riesce, straordinariamente, a mantenersi a livelli di mai raggiunta eccellenza narrativa per gli interi due giorni e mezzo della sua durata complessiva. Inoltre, sono convinto che The Wire sia riuscito a raggiungere questo risultato precisamente grazie al fatto che è stato scritto da un gruppo di straordinari autori di romanzi1 che sono riusciti nell’impresa di moltiplicare il loro potere individuale lavorando collaborativamente. * La letterarietà della letteratura letteraria In questo pezzo parlerò quasi esclusivamente di autori di crime fiction, autori cosiddetti “di culto”. Non sono “autori letterari”2. Per esserlo, bisogna far felice il cosiddetto “establishment letterario”. Ecco un breve vademecum per individuare i libri letterari, basata sul metodo scientifico che chiamo “Il vediamo che cazzate mi vengono in mente alle due di notte”. Da quello che ho capito, gli autori “veri” – quelli che scrivono “i libri importanti” – devono per forza di cose scrivere: evidentemente e chiaramente di temi “seri” in libri evidentemente e chiaramente “letterari”, come lo è, ad esempio, una satira di 700 pagine sui problemi psico-emotivi di una ricca Con l’aiuto non indifferente di David Simon– giornalista di nera che aveva già dato alle stampe due enormi libri di non-fiction, Homicide e The Corner, e che aveva già prodotto alcuni episodi di Homicide: Life on the street, serie della NBC tratta dal suo primo libro – e di Ed Burns, coautore di The Corner, ex-poliziotto della Omicidi di Baltimora ed ex-insegnante nelle scuole pubbliche della stessa città. 1
2 L’unica eccezione è forse Richard Price, i cui ultimi quattro libri, Clockers, Freedomland, Samaritan e Lush Life sono praticamente la definizione di crime fiction moderna ma vengono considerati “crime fiction letteraria” per il semplice fatto che il primo libro di Price è stato considerato un libro “letterario”, e quindi i suoi libri successivi hanno goduto della stessa reputazione. È uno dei pochi autori di cui parlo qui che, per intenderci, viene regolarmente recensito da Michiko Kakutani. Cosa che non è ancora successa a George Pelecanos (ma aspettate, succederà). Tutto questo non fa altro che provare la regola d’oro del posizionamento di mercato: se parti alto, puoi sempre scendere in basso. Ma se parti basso, non potrai mai, mai, mai salire.
famiglia del Midwest, oppure: cose che fanno riferimento ad altri libri letterari, o a trattati di filosofia, o al post-modernismo o a qualsiasi altro -ismo sviluppato in Francia o in Germania negli ultimi 50 anni, o a Nabokov, o a Faulkner, ma non alla cosiddetta letteratura “pulp” o alla “cultura popolare” – quella dei polizieschi, dei western, della fantascienza, dei fumetti, della televisione, del romanzo d’avventura o dell’horror, a meno che il riferimento alla cultura “pulp” o “popolare” non sia fatto in maniera così evidentemente letteraria da diventare solo ed escluvisamente un trastullo per rendere il romanzo parte di uno o più degli -ismi sovracitati, oppure: libri costituiti da paragrafi cortissimi e pieni di ripetizioni e a capo ogni due o tre parole, es. “Era una lotta. [a capo] Una lotta di classe. [a capo] Una lotta che stavamo perdendo. [a capo] Forse una lotta che avevamo già perso. [a capo] Ma era la nostra lotta. [a capo] Era nostra. [a capo e fine capitolo]”, oppure: dei romanzi che in realtà non sono dei romanzi ma più che altro delle esplorazioni letterarie atte a farci considerare cos’è effettivamente da considerarsi un “romanzo”, oppure: libri con protagonisti che di lavoro fanno i professori nelle università o gli scrittori o i giornalisti o altre persone che tendenzialmente leggono i romanzi, oppure: la cosiddetta “pisello-letteratura”, cioè libri che parlano quasi esclusivamente di sesso, piselli, vagine, e problemi legati a uno di questi tre da un punto di vista strettamente maschile e con protagonisti che di lavoro fanno generalmente gli scrittori o i giornalisti o altre persone che tendenzialmente leggono i romanzi, oppure: libri che parlano in modo “particolarmente evocativo” di “minoranze” etniche “particolarmente evocative” che non sono state trattate in libri letterari antecedenti, (a parte gli indiani, che vanno sempre bene), con punti bonus se il narratore utilizza un inglese “sporcato” dal suo essere parte di una minoranza etnica oh-cosìevocativa, oppure: libri con narratori affetti più o meno evidentemente da più o meno rare malattie mentali o disturbi cognitivi.
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sti autori, questo approccio è legato all’impulso tradizionale del romanzo realista-sociale: quello di raccontare la realtà, di “svegliare” il lettore alle scomode verità del mondo. Ancora più specificamente, Price, Lehane, Simon e Pelecanos sono tutti, a modo loro, interessati al disfacimento e al degrado del tessuto urbano condiviso sia dai loro personaggi che dagli abitanti in carne e ossa delle loro città natali. Di autore in autore, oltre a qualche notevole variazione stilistica, alla fine dei conti cambia solo la città di ambientazione. L’equazione autore/città è la seguente: se Chandler/Los Angeles, allora Price/New York-New Jersey, Pelecanos/Washington, Lehane/Boston, Willeford/ Miami3, Leonard/Detroit4. E The Wire/Baltimora. * Lo schermo è un po’ meno piccolo
La crime fiction come letteratura realista/sociale Per descrivere le opere di cui tratto, utilizzerò sempre la definizione “crime fiction” e non la definizione “giallo”. Questo perché il “giallo”, per come è spesso inteso nella nostra cultura, sarebbe, in inglese, un “whodunnit”. Un “chil’hafatto”, letteralmente. I romanzi di crime fiction di cui parlo non trattano di “mistero”, non catturano il lettore col trucco del “vediamo se scopri chi è l’assassino prima del detective”. La crime fiction non fa niente di tutto questo, e andrebbe piuttosto definita come “narrativa realista incentrata attorno a un crimine” – ma è una definizione un pelo macchinosa. E la crime fiction non usa il crimine per creare suspense o mistero o per spingere il lettore a prendere il libro come un puzzle da risolvere. Nella crime fiction, come dice Richard Price (e sto parafrasando) il crimine non è altro che una scusa, un espediente per esplorare un mondo popolato da tanti personaggi diversi che, se non
fosse per lo scontro dell’omicidio e la sua onda d’urto, per le indagini e le ripercussioni ad esse collegate, non si sarebbero mai incontrati. Proprio come Philip Marlowe che, per Chandler, era poco più che un trucchetto narrativo per poter creare una successione credibile di dialoghi, storie e caratterizzazioni che partono dal senzatetto e arrivano al sindaco, passando per un banchiere, una ricca ereditiera, un mafioso, un bambino, un immigrato, chiunque. Il protagonista-detective permetteva a Chandler di dipingere, nell’arco del libro, un ritratto dell’intera gamma di persone che popolavano la sua gotica Los Angeles – la vera storia che voleva raccontare. Allo stesso modo, il crimine nella crime fiction di Price, Pelecanos, Lehane, Willeford e Leonard non è altro che un modo di infilare, con un senso logico e con coesione, svariati personaggi di estrazioni sociali, razza, sesso e credo diversi in qualche centinaia di pagine, per parlare, infine, della realtà della vita nelle città americane. Nel caso della maggior parte di que-
Prima delle premiazioni degli ultimi Academy Awards, chi avrebbe mai detto che sarebbe finito tutto con una celebrazione di Kathryn Bigelow e delle adrenaliche, proto-fasciste immagini di The Hurt Locker? Io no. Ma, dato che un osservatore attento alle dinamiche di Hollywood non guarda cosa succede durante ma cosa succede subito dopo gli Oscar, la domanda è: cosa fa Kathryn Bigelow nel momento in cui viene nominata a un numero spropositato di Oscar? La risposta è: inizia a sviluppare un progetto con HBO. Lo stesso canale responsabile della nascita – con Oz prima, con I Soprano, Six Feet Under, Deadwood e, soprattutto, con The Wire5 poi – del concetto stesso di “grandi serie televisive americane”. La Bigelow sceglie di spendere il suo gettone del “ora faccio quello che voglio”, per una “semplice” serie televisiva. E subito dopo, fresca di una Ad essere sinceri, Willeford era più interessato a farci morire dalle risate che ad analizzare il disagio urbano e il disfacimento del tessuto collettivo nell’America contemporanea. O meglio: voleva farci morire dalle risate mentre analizzavamo il bla-bla-bla in maniera bizzarra e, di pagina in pagina, perennemente inaspettata.
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Un’altra precisazione: Leonard ha “viaggiato” molto più degli altri autori con i quali lo raggruppo qui. Una percentuale abbastanza notevole dei suoi settecentoquarantadue romanzi sono ambientati in Florida, in Kentucky e, più spesso, nel resto del Michigan extra-detroitiano. 4
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scorpacciata di premi inaspettati, e della libertà di potere, per un solo, splendente momento della sua vita creativa, fare assolutamente qualsiasi cosa le passi per la testa e trovare dei soldi per farlo, la Bigelow si rende protagonista di qualcosa di incredibile fino a pochi anni fa: inizia a programmare il cast e a pianificare le prime riprese della sua nuova serie televisiva. * The Washington Wizard Sebbene sia responsabile di uno dei corpus narrativi più impressionanti usciti negli ultimi anni, George Pelecanos è considerato un autore “di culto”. Non è detto che questo non cambi entro breve, ma ora come ora non è considerato oltre i confini del suo “genere”. Nato a Washington, DC, nel 1957, Pelecanos ha scritto 17 romanzi, quasi tutti ambientati nella sua città natale, e tutti in epoche diverse, dal dopoguerra a oggi. In questi 17 romanzi, Pelecanos ha sviluppato un’analisi di DC che, in termini di perspicacia, intelligenza e acume sociale – in termini di puro valore – non mi vergogno nel definire un documento di riferimento definitivo per chi fosse interessato alle dinamiche del disagio urbano nell’America contemporanea. Preso nella sua interezza, il lavoro di Pelecanos lascia col fiato sospeso. I suoi romanzi sono talmente accurati e credibili, talmente ricercati ed evocativi, che lasciano al lettore la sensazione quasi fisica di aver vissuto la maggior parte della propria vita nei quartieri della capitale americana. E l’autore fa tutto questo senza dimenticare di divertire il lettore con una trama avvincente, con personaggi autentici ed entusiasmanti, con dialoghi plasmati da un orecchio attentissimo a come si parla Escludendo, ovviamente, il vero apripista: quel David Lynch che, con Twin Peaks, ci ha regalato alcune delle ore di materiale filmato più sontuosamente realizzate della storia. Interessante, ai nostri fini, che anche Twin Peaks potrebbe essere visto come un’opera di crime fiction. Tramite l’espediente narrativo dell’omicidio di Laura Palmer, infatti, il detective Dale Cooper ha modo di interagire con una schiera di personaggi favolosi che, episodio per episodio, a modo loro, rivelano i segreti di una metaforica small town, USA. Menzione d’onore: il Maggiore Briggs. 5
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inglese per le strade americane. Il suo capolavoro è indubbiamente il “Quartetto di DC”: una “serie” di romanzi legati tra loro quasi esclusivamente dalla città nella quale sono ambientati. Il Quartetto traccia in maniera indelebile l’evoluzione (o l’involuzione) della capitale americana. Il primo volume, The Big Blowdown, ambientato nel 1946, parla principalmente delle tensioni tra immigrati greci, irlandesi e italiani con l’aggiunto valore di godere di un’atmosfera estremamente immersiva, mentre King Suckerman, ambientato nel 1973, dipinge un ritratto dell’inizio delle tensioni razziali tra bianchi e neri, e dell’inizio del traffico di droga su larga scala agli angoli di strada della capitale. Il mio preferito dei quattro, The Sweet Forever, ambientato nel 1986, racconta l’ormai avvenuto disfacimento del tessuto urbano americano da parte del narcotraffico, poco prima dell’esplosione del crack nelle strade. L’ultimo libro della quadrilogia, Shame the Devil, avvicina il tutto ai giorni nostri, essendo ambientato in un 1995 in
cui i problemi discussi nei precedenti romanzi non solo non sono stati risolti, ma si sono cementati, sono diventati dei dati di fatto. Oltre alla città, l’altro filo conduttore della tetralogia è il cast. Ma non stiamo parlando del tipico, solitario investigatore che affronta diverse avventure in ogni capitolo della saga – anche perché in una trilogia precedente, Pelecanos aveva già creato il “suo” Philip Marlowe: il detective/ barista Nick Stefanos. Piuttosto, con il Quartetto, l’autore ha avuto l’ambizione (o l’arroganza) di creare una famiglia di personaggi intrecciati, chi dal sangue, chi dal matrimonio, chi dall’amicizia, di diverso tipo ed etnia—poliziotti, tossicodipendenti, dj, gestori di tavole calde, di negozi di dischi, di palestre. Personaggi che si ripresentano di libro in libro, in diversi momenti della loro vita, facendo lavori diversi e affrontando problemi diversi. Il risultato finale è mostruoso: alla fine dei quattro libri, si ha davvero l’impressione di non aver conosciuto solo dei personaggi, ma di aver conosciuto tutta una città, e di
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averla vista crescere, cambiare—anche morire, attraverso le tante storie dei suoi abitanti. Le stesse storie che cumulandosi creano l’esperienza condivisa che altro non è, poi, che il carattere, l’anima della città stessa. Che è poi lo stesso approccio condiviso da The Wire. * Questo libro è bello, fidati: l’ha scritto un autore televisivo Come accennato in precedenza, Pelecanos è anche – anzi, ai nostri fini, è fondamentalmente – uno dei quattro autori di The Wire. Su alcune copertine degli ultimi romanzi di Pelecanos – tutti ristampati post-The Wire – sotto al nome dell’autore, dove nel caso di un “capolavoro” “letterario” di un “grande autore” trovereste frasi come “Shortlisted for the National Book Award”, si trovano queste scritte: – “Award-winning writer / producer of The Wire” – “By one of the award-winning writers of The Wire” – “Writer on hit TV series The Wire” Il che vuol dire, molto semplicemente, che tre diverse case editrici non vogliono più nascondere il fatto che un loro autore abbia scritto per la televisione. Anzi: lo esternano evidentemente, come se fosse qualcosa che attrae il lettore. Quasi fosse un vanto. * Lo schermo è gigante Che la televisione non sia più qualcosa di cui avere paura – anche per gli intellettuali – lo evidenziano anche alcuni dati. Il budget totale dell’episodio pilota di Boardwalk Empire, la nuova serie di HBO ambientata nella Atlantic City del 1920, è di 50 milioni di dollari per poco meno di un’ora e mezza di televisione. Ma la cosa davvero strabiliante – sempre per gli intellettuali, si intende – è che quell’ora e mezza è stata diretta da Martin Scorsese, che assolve anche i compiti di produttore esecutivo di BE. E se è vero che Scorsese è sempre stato un regista pop 6, è anche vero che stiamo pur sempre parlando di uno dei
Grandi Registi di Sempre che si dedica alla TV. Soprattutto, Boardwalk Empire non può essere visto come un punto d’arrivo. Piuttosto: un inizio. Se poco fa il massimo che potevamo aspettarci erano attori di serie B che portavano a casa la pagnotta in TV, come un Tim Roth in caduta libera su Lie to Me, i progetti attualmente in lavorazione dalla HBO sono tanti, e tutti ambiziosi. Qualche esempio: oltre alla serie della Bigelow, c’è Luck, una serie sull’ippica di Michael Mann e quel ladro di David Milch7, con Dustin Hoffman; una serie sull’FBI di David Fincher e Charlize Theron; un adattamento di Under the Dome di Stephen King; e infine un progetto su Martin Luther King prodotto da Oprah.
ca commistione di umorismo e violenza è stata la più grande fonte d’ispirazione per Quentin Tarantino (che ha poi dedicato Pulp Fiction proprio a Willeford) e infine che il primo romanzo della serie, Miami Blues, inizia con la frase (traduzione mia): «Freddie Frenger Jr., allegro psicopatico californiano, chiese un altro bicchiere di champagne e carta e penna alla hostess di prima classe». Se dovessi scegliere un solo motivo per cui essere felice, sarebbe proprio la riscoperta di Willeford. Certo, a differenza degli autori più strettamente legati alla mia tesi, non è un realista sociale. Ma ti fa spaccare in due dalle risate. E anche questo ha un suo valore.
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Boston, Washington, New York, New Orleans e Harlan County, Kentucky
Allegri psicopatici californiani Uno dei più evidenti segni del ritrovato interesse verso la crime fiction americana è la recente ristampa di I Was Looking for a Street, l’autobiografia del grande Charles Willeford, noto principalmente per essere l’autore della spassosissima serie del Detective Hoke Moseley. I quattro romanzi, Miami Blues, Tempi d’Oro per i morti, Tiro Mancino e Come Si Muore Oggi, sono anch’essi stati recentemente ritradotti e ristampati in Italia grazie all’ottimo lavoro della Marcos y Marcos. Non voglio dilungarmi troppo su Willeford se non per dirvi che i suoi romanzi sono esilaranti, veri, bizzari e unici; che era, secondo Elmore Leonard, il miglior autore di crime fiction al mondo; che la sua caratteristiNel senso meno dispregiativo del termine: nel senso che non si è mai permesso grosse deviazioni dalla strada maestra del cosiddetto “cinema tradizionale”. Probabilmente perché non gli è mai interessato farlo. 6
Per chi non lo sapesse, Milch è ufficialmente il creatore dell’ottimo Deadwood. In realtà, è un copione e l’ha preso paro paro da un romanzocapolavoro di Pete Dexter, dallo stesso titolo, rendendolo semplicemente più brutto e infarcendolo di una scurrilità straordinariamente divertente quanto storicamente inaccurata. A proposito di questo, Dexter ci ha saggiamente ricordato che se, nel South Dakota del 1876, davi del motherfucker a qualcuno, probabilmente quel qualcuno piuttosto che risponderti con un cocksucker, ti sparava tre colpi di rivoltella nelle palle e ti inchiodava a un albero. 7
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Qualche altro esempio di come il profilo degli autori di crime fiction legati a The Wire, e della crime fiction in generale, sia cambiato in meglio da quando è diventato evidente che eravamo spettatori di qualcosa di speciale, oltre alla già citata ricomparsa di Willeford nelle librerie sia italiane che anglo-americane: Dennis Lehane, dopo la sua collaborazione con HBO, ha visto l’adattamento di un suo romanzo, Shutter Island, in un sottovalutatissimo film di Martin Scorsese. Inoltre, ha spinto il suo mestiere oltre i confini della crime fiction tradizionale con la pubblicazione di un epico romanzo storico di 600 pagine, Quello Era l’Anno, ambientato a Boston negli anni Venti. Ed è davvero bello. George Pelecanos, oltre ad aver assistito alla gloriosa ristampa (sia in America che in Inghilterra) della sua intera, mostruosa bibliografia, è stato chiamato dalla super-squadra di Band of Brothers, composta da Steven Spielberg e Tom Hanks, per coprodurre e partecipare alla scrittura di The Pacific, altra mini-serie di HBO dal budget fantascientifico. Richard Price... Beh, lui è sempre Richard Price, il suo profilo era già elevatissimo prima di The Wire, La Vita Facile è un capolavoro, e ogni suo futuro romanzo verrà recensito Studio 27
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con entusiasmo dal New York Times ad aeternum. David Simon ha creato Treme, probabilmente la miglior nuova serie trasmessa da HBO, che è stata recentemente rinnovata per una seconda stagione. Graham Yost, uno dei produttori di The Wire, ha deciso di riprendere il sistema del “trova un grande autore di crime fiction e fagli produrre una serie TV”. Gli è andata bene: l’autore è il leggendario Elmore Leonard, la serie è l’ottima Justified, il numerino su Metacritic è un solido 81, e gli ascolti per il network, FX, sono i più alti di sempre, dopo quelli di The Shield. * Many thanks to Bodymore, Muddaland L’anno scorso ho avuto modo di godere dell’indimenticabile onore di parlare con David Simon per un’ora e mezza. In conclusione di questo articolo, vorrei riproporre alcuni stralci della nostra conversazione. Tenete a mente che sono considerazioni che, per quanto valide, sono state fatte un anno fa. Sullo scrivere con altri autori del calibro di Price, Pelecanos e Lehane: «Penso che la mia cultura giornalistica mi abbia aiutato. La maggior parte degli altri autori mi ha confessato che scrivere collaborativamente era, per loro, la cosa più difficile. Quando scrivi un romanzo, sei da solo. È una delle sensazioni di più totale solitudine che uno possa provare. Ma, allo stesso tempo, sei in pieno controllo. Invece la nostra redazione era piena di persone orgogliose, persone che avevano “vissuto”. Ma andava bene così, perché ognuno di noi sapeva che, alla fine, avrebbe vinto sempre l’idea migliore. E se sei onesto con te stesso, l’idea migliore la riconosci sempre. Alla fine, è stato fantastico». Sul suo modo di vedere la rivoluzione attuata da The Wire: «Per quanta rilevanza culturale abbiano avuto programmi come I Soprano, The Wire o Deadwood, l’audience non è nulla al confronto di qualcosa come American Idol. Ed è a quello che puntano i network. Puntano alla NFL. E quei numeri sono semplicemente ir28 Studio
rangiugibili per un programma HBO: non in termini di impatto intellettuale, ma in termini di quanti milioni di persone riesci a tenere incollate allo schermo. E, alla fine, non gli abbiamo insegnato niente. Quando guardano The Wire i network non pensano, “Oh, sì, datemi altro The Wire, questo sì che ci renderà ricchi”. Televisivamente parlando, non c’è stata alcuna rivoluzione». Sul suo modo di vedere la narrativa: «Professionalmente sono stato formato come giornalista, lavorando dodici anni per il The Baltimore Sun. Ho pensato allo scrivere romanzi, ma la verità è che se lo facessi, lo farei nella maniera di Richard Price o George Pelecanos, con un approccio legato al reale, dove comunque uscirei per le strade per assorbire la grana e le sfumature del mondo di cui vorrei parlare per poi creare una storia di finzione all’interno di quel mondo. È questo l’impulso alla base di The Wire. È iniziato in maniera giornalistica, con l’idea di descrivere l’America di cui avevo scritto, di cui avevano scritto questi altri autori, l’America
urbana che abbiamo creato. E non ci meritiamo molto di meglio. Non è l’unica America, ma è indicativa di una porzione dell’America, una porzione che sta crescendo, e di cui ci siamo dimenticati. Ovvio: The Wire era un’opera di finzione. Non avrei mai l’immaginazione per... scrivere di fantascienza, metti. La mia creatività ha le sue radici nella realtà. È vero: ho già fatto un grosso passo via dal giornalismo creando The Wire, ma non penso che riuscirei a fare un ulteriore passo, a spingermi a creare mondi, su carta o celluloide, di cui non sono a conoscenza. Sono fissato: devo sempre iniziare dalla realtà». Tim Small è il direttore responsabile di Vice magazine, rivista per la quale ogni tanto cerca di firmare qualche articolo, sia in Italia che in America. Occasionalmente scrive per Rolling Stone e Satisfiction. Sta traducendo i racconti di Jim Shepard. E si chiama, veramente, Tim Small. Stanislav Markov (aka Garmonique) ha venticinque anni. È fotografo e vive a Mosca. Untitled è il suo ultimo libro, autoprodotto.
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TRE uomini e una serie
Abbiamo visto la puntata pilota di Boardwalk Empire – quella diretta da Martin Scorsese, che della nuova serie di HBO è anche produttore esecutivo – con tre competenti e appassionati collaboratori di Studio. A cura della redazione fotografie di ALAN CHIES
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a i sottotitoli li abbiamo?» È questa una delle prime domande che pone il Fan di Serie TV Straniere (FSTS) quando si ritrova con esponenti della sua stessa specie per visioni collettivo-domestiche di eventi definibili “di cartello”. Da un certo punto di vista questi ritrovi ricordano convivi collettivo-domestici di tutt’altra natura: quelli sportivi e – più precisamente – quelli dei Tifosi Calcistici (TC). C’è qualche birra, c’è il senso dell’evento, c’è il televisore bello grande. Ma i paragoni finiscono qui. Innanzitutto perché gli FSTS fruiscono degli spettacoli di loro interesse non attraverso la TV ma via Internet. La ragione sta nel fatto che la televisione italiana (casi eclatanti a parte) trasmette le Serie TV Straniere con mesi – se non addirittura anni – di ritardo. Ragioni tecniche e contrattuali. Ragioni a volte comprensibili a volte meno, ma comunque non sufficienti a fermare l’FSTS che vuole
conoscere gli ultimi sviluppi nella vita di Don Draper solo poche ore dopo la messa in onda di Mad Men su AMC. Sicuramente non sufficienti a fermare l’FSTS che da mesi stava aspettando impaziente il 19 settembre 2010, data di trasmissione della prima puntata di Boardwalk Empire: la serie scritta da Terence Winter (già deus ex machina dei Soprano), prodotta e supervisionata da Martin Scorsese (già Martin Scorsese) e recitata da un cast stellare che comprende tra gli altri Steve Buscemi, Michael Pitt, Michael Shannon e Michael K. Williams. Dato che noi di Studio – oltre a esserlo a nostra volta – conosciamo numerosi FSTS, abbiamo pensato di radunare tre autorevoli esponenti della specie e di guardare insieme a loro la prima puntata di Boardwalk Empire (diretta da Martin in persona). Un po’ perché ci piaceva l’idea di farlo, un po’ perché eravamo certi che mettendoli tutti e tre nella stessa stanza sarebbe nato un dibattito in-
teressante. E così è stato. Le tre “eminenze” sono Tim Small, direttore di Vice Italia e tuttologo HBO della prima ora, Fabio Guarnaccia, direttore di Link: idee per la televisione, nonché romanziere esordiente con Più Leggero dell’Aria e Federico Bernocchi, ex conduttore di Dispenser su Radio2, collaboratore di GQ, Wired e del blog cinefilo i400 Calci. Per una sera li abbiamo chiusi in casa del nostro art director, che – oltre ad avere due splendidi gatti e una collezione di riviste e libri invidiabile – dispone anche di un televisore bello grosso a cui abbiamo collegato una chiavetta USB contenente il primo episodio di Boardwalk Empire. E così, tempo di una carbonara sotto casa, di aprire qualche birra e dipanare il dilemma dei sottotitoli (erano già inclusi nel file) ci siamo trovati ad Atlantic City nel 1920. Tutti in religioso silenzio. Già perché, e questa è l’altra grande differenza tra i raduni di FSTS e quelli di TC, quando inizia lo spettacolo non vola una mosca. Studio 29
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Finita la “messa” ci siamo spostati insieme ai nostri tre ospiti sul terrazzino (era fine settembre e il clima ancora lo consentiva) della casa del nostro art director e abbiamo registrato il loro scambio di opinioni sulla puntata. Dato il carattere del tutto informale della chiacchierata abbiamo ricostruito il dibattito attraverso una serie di punti chiave. * Boardwalk Empire vs Mad Men vs Deadwood Tutti d’accordo nel dire che la puntata è stata di loro gradimento; il dibattito si è quindi animato sulla questione di quale sia da considerare l’antecedente nobile della serie: da una parte Tim Small a prendere le parti di Deadwood di HBO e dall’altra Fabio Guarnaccia a sostenere Mad Men di AMC. «Come in Deadwood», attacca Small, «che è ambientato nel South Dakota durante la corsa all’oro, sembra che gli sceneggiatori di Boardwalk Empire siano andati in cerca di un luogo e di un periodo in cui un sacco di personaggi storici rilevanti si sono realmente incontrati, il che ovviamente permette di arricchire la narrazione e di creare situazioni di big drama restando comunque credibili. In Deadwood per esempio c’erano Wild Bill Hicock, Wyatt Earp, Calamity Jane etc; come qui abbiamo Al Capone e Lucky Luciano». Guarnaccia ribatte sottolineando le similitudini tra gli anni ’50 e ’60 di Mad Men e gli anni ’20 di Boardwalk Empire: «In entrambi i casi si tratta di due mondi e di due Americhe che vanno in frantumi: il boom degli anni ’50, travolto dal Vietnam nel decennio successivo e l’America fintamente perbenista del proibizionismo che verrà spazzata via dalla crisi del ’29. Inoltre credo che HBO, dopo aver scartato Mad Men, fosse in cerca di un periodo altrettanto “rock and roll” e gli anni ’20 – in questo senso – sono un po’ gli anni ’60 del pre-seconda Guerra Mondiale. Ovviamente le due serie sono molto diverse, per esempio al livello dell’azione sono agli antipodi. Mad Men è più intimo – girato tutto in “interni” – mentre 30 Studio
I nostri FSTS preferiti: Federico Bernocchi, Tim Small e Fabio Guarnaccia. per ora Boardwalk è più action movie come dimostra l’utilizzo di molti “esterni “già nella prima puntata». * Scorsese sì, Scorsese no. Ovvero, Boardwalk e il futuro della televisione Proprio la presenza di molte scene girate in esterna e la sontuosità delle riprese spingono la discussione su uno dei temi più caldi: la presenza di Scorsese in qualità di executive della serie e di regista del pilot che abbiamo appena visto. Il suo tocco è evidente, così come l’investimento di 50 milioni di dollari per girare questa prima puntata. «Se devo immaginare gli anni ’20 attraverso l’occhio di Scorsese, li immagino esattamente così. Scene corali, carrelli, piani sequenza come se piovesse, costumi curatissimi, gangster che fumano il sigaro e scene piene di pathos come l’ultima dell’episodio», è il commento di un Bernocchi ampiamente soddisfatto. Fabio Guarnaccia è invece più critico: «Tutto molto bello, però da Scorsese mi sarei aspettato un po’ più di coraggio, un po’ più di sperimentazione e di ibridazione con il mezzo televisivo. Quel coraggio che aveva avuto Lynch facendo Twin Peaks, per esempio. Mi pare che invece lui si sia limitato a mettere il cinema dentro la televisione».
«Beh ma è proprio questa la figata», interviene Tim Small, «Boardwalk è un evento anche perché un grande regista ha accettato di girare per la televisione. È la definizione di un momento, l’inizio di qualcosa per cui tra vent’anni la gente guarderà The Wire, I Soprano e Deadwood e le riconoscerà come gli antenati di “quella volta in cui Scorsese fece Boardwalk”». Per Guarnaccia: «La televisione è già ora a un livello di maturità artistica tale per cui può permettersi di mettere da parte il proprio complesso d’inferiorità rispetto al cinema, senza bisogno di Scorsese per legittimare la qualità di un prodotto. Anche perché, e lo abbiamo visto in questo caso, i grossi nomi del cinema poi ti fanno spendere vagonate di milioni e la televisione non è fatta per stare in piedi a certe cifre». «Oppure è probabile», chiude Bernocchi, «che sia una fase di passaggio, per cui da una parte il cinema non può più essere troppo snob rispetto alla TV e dall’altra la televisione ha comunque bisogno del prestigio dei grandi nomi del cinema per attirare maggiori attenzioni su un prodotti in cui ha investito molto». Alan Chies è nato a Cuneo, cresciuto a Vittorio Veneto e ora vive a Milano. Fotografa prevalentemente ritratti e, anche nella moda, il suo approccio è quello da ritrattista.
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Traduzioni
Televisione scollata A Springfield non parlano veneto. Adattamento, doppiaggio e palinsesto: la corsa a ostacoli delle serie TV. testo di
luca barra
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acciamo finta che sia vero». Il compito principale di ogni narrazione è di portare il lettore alla willing suspension of disbelief, quella “volontaria sospensione dell’incredulità” descritta da Samuel Taylor Coleridge nell’ormai lontano 1817. Questo vale per poesia, letteratura e cinema; e vale persino per quella forma d’arte da poco (ri)scoperta che sono le serie televisive. Solo sospendendo il giudizio e accettando compromessi possiamo entrare nel mondo possibile di un telefilm. Soltanto se non andiamo a sbattere contro incongruenze e contraddizioni riusciamo a restare sospesi e a considerare verosimile quel racconto che autori, registi e attori hanno messo in scena per noi. Dal nostro punto di vista, poi, quello di un piccolo sistema televisivo alla periferia dell’Impero americano, le cose si complicano ancora. Tra i due poli tradizionali della produzione (gli autori) e del consumo (gli spettatori), si inseriscono a viva forza i molteplici percorsi della distribuzione. Streaming e download a parte, gran parte del pubblico italia-
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no, invece, preferisce aspettare la comodità del televisore e i tempi del broadcasting prima di vedere i telefilm. Rispetto al testo originale così si inseriscono varie figure di mediatori e intermediari, spesso inavvertite e talvolta esecrate, che preparano il programma nella sua versione italiana: sono i mondi dell’adattamento, del doppiaggio, del palinsesto. Il loro obiettivo principale è quello di rimanere invisibili come accade a ogni buona traduzione. Eppure, talvolta, la loro presenza si rivela in una patina, più o meno increspata, che complica la strada per la nostra sospensione dell’incredulità. In uno “scollamento” che ci mette sotto gli occhi e porta alla nostra attenzione il fatto che non vediamo lo stesso telefilm che guardano gli spettatori oltreoceano. Ma una sua edizione specifica e particolare, che presenta modifiche profonde al sonoro, aggiustamenti parziali al video e (meno notata, ma spesso più rilevante ancora) una confezione completamente diversa. Proviamo a soffermarci un attimo su questi scollamenti. Non per accusare il doppiaggio ma per capirlo meglio.
Il primo slittamento riguarda le parole, tradotte in italiano. E già, come per qualsiasi traduzione, non si tratta semplicemente di traslitterare parola per parola, o frase per frase, ma (secondo la definizione di Umberto Eco) di “dire quasi la stessa cosa” nel modo migliore, limitando le perdite. Ma non basta. A questa prima difficoltà si aggiunge la necessità della sincronia labiale, che porta a modificare le frasi per fare in modo che, anche in italiano, queste coincidano con i movimenti delle labbra e le pause nell’eloquio di un attore inglese. Almeno i sospiri e le vocali aperte devono coincidere, a costo di ribaltare le frasi o trovare sinonimi, e la traduzione diventa così un adattamento, costretto entro limiti molto più stringenti di quelli della pagina bianca. Infine, il parlato deve risultare “naturale”, adatto al personaggio che lo pronuncia e all’interazione in cui la battuta è contenuta: così si apre la strada alla cancellazione, alla sostituzione o al rifacimento di gerghi, inflessioni, accenti e dialetti. La lingua parlata (anche in tv) è materia viva, e chi traduce e adatta deve tenerne conto. Soprattutto le sit-com, i cartoni e le commedie sono un campo minato. È facile smettere di ridere se la battuta non è tradotta al meglio. O se addirittura scompare, con l’effetto agghiacciante delle risate registrate (ineliminabili, dato che sono presenti sulla colonna sonora) che sottolineano la reazione del pubblico a una battuta che non esiste più. Per evitarlo, diventa necessario entrare nella materia viva della frase: preparando giochi di parole dal senso e dall’effetto affine, ricostruendo nuovi slittamenti, imponendo agli attori veri e propri fraintendimenti. Le difficoltà non sono ancora finite: tra gli incubi dell’adattatore, ci sono le scene in cui qualcuno parla in rima e le canzoni: che, se non sono semplicemente sottotitolate (ma il sottotitolo in tv non è una soluzione perfetta), devono essere ricantate. La prova dell’attore/ doppiatore si complica, mentre il testo viene spesso ripensato da zero. Si pensi al musical di Scrubs (episodio 6x06): proprio per dare vita a un
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buon prodotto, e far sembrare reali – verosimili – i dialoghi e le canzoni, la riscrittura è paradossalmente la strada migliore. Con le versioni originali non c’è confronto, ma la versione italiana è comunque ottima. * Italianismi Secondo elemento di scollamento, e di potenziale rinuncia all’incredulità, sono gli “italianismi”, quei riferimenti alla nostra realtà inseriti all’interno di vicende profondamente americane. Derive e rimasugli di tradizioni passate, quando i collegamenti con gli States erano molti meno e Internet non c’era, ma ancora molto – troppo – presenti per rendere più “facili” telefilm che paiono distanti. Certo, sono passati gli anni in cui Roseanne Barr era l’Annarosa di Pappa e Ciccia e Fran Drescher diventava La Tata Francesca da Frosinone, obliterando completamente la loro identità ebraica e cambiando persino i rapporti di parentela nella famiglia allargata. O i tempi in cui il commerciante Apu si rivolgeva a Homer Simpson scambiandolo per Marco Columbro (è successo davvero: in originale lo prendeva per Fred Flinstone, ed era l’episodio Homer in the night). Ma l’abitudine è rimasta. Del resto, alzi la mano chi non ha mai riso, sempre nei Simpson, per il giardiniere Willie che da scozzese diventa sardo, o per lo stralunato Carl dall’incongrua (per un personaggio di colore) inflessione veneta. E così ancora in serie recenti, come Will & Grace, si aggiungono riferimenti alle sorelle Kessler (3x08) o alla monaca di Monza (2x12), e persino alcuni versi accennati da Jack da Sabato pomeriggio di Claudio Baglioni (5x07). Ancora una volta, comunque, spesso è la commedia che forza la mano. Cosa non si fa per (far) ridere. * Professionisti Terza increspatura è quella data dalle persone che stanno dietro alla versione italiana. Innanzitutto perché tanta gente ci mette mano, e dice la sua, ritornando sulle stesse frasi in ogni momento del processo. Prima il
traduttore. Poi l’adattatore che sistema le frasi in accordo al video. Poi il doppiatore che magari ha qualche difficoltà, e propone un’alternativa. Poi il direttore che l’accetta, e magari cambia altro ancora, rendendosi conto che viene meglio così. E magari qualcuno della rete, che fa addolcire una parola immaginando i bambini davanti allo schermo (e le associazioni di genitori pronte a partire all’attacco). Altro che “intenzione dell’autore”: il testo è modificato, contrattato, ridefinito secondo necessità molto diverse, spesso in conflitto. Il fattore umano, poi, è in balia del caso, che può portare a ulteriori variazioni in corsa: il doppiatore principale si ammala, e così viene sostituito per alcune puntate (è successo con Big Bang Theory); fino ad arrivare al caso limite del prematuro decesso della voce italiana (come nel caso del bravo e iper-riconoscibile doppiatore di House, Sergio di Stefano, che andrà presto sostituito). * Temporalità Altro fattore è poi il tempo. Innanzitutto perché il lavoro del doppiaggio televisivo avviene su più stagioni, lungo anni che possono diventare decenni: e così da un lato c’è lo spazio per modifiche e correzioni di rotta, anche alla luce della collocazione e del successo (o insuccesso) della stagione precedente; e dall’altro aumentano esponenzialmente i rischi di un lavoro che spesso perde qualche pezzo per strada, come le voci di cui sopra, o che si dimentica di cose, magari anche molto importanti, avvenute negli anni passati. Già il lavoro è meccanico se poi avviene a distanza di tempo, la possibilità di “perdersi” diventa concreta. E così si va a sbattere contro gli errori di continuità che tanto fanno arrabbiare i fan: come quando Gatto rognoso o le altre canzoni di Phoebe in Friends sono adattate in modi sempre diversi, anche quando (in inglese) si ripresentano uguali. La variabile tempo, d’altra parte, incide anche sull’arrivo dei telefilm sugli schermi italiani: e così gli eventi “reali”, dal capodanno ad Halloween, dal passaggio del millennio all’elezione di Obama, sincronizzati
puntualmente con i palinsesti Usa, arrivano in Italia con un ritardo spesso ridicolo (Natale ad agosto!). * Posizioni Un’ultima variazione è, infine, quella delle collocazioni. L’abbondante produzione statunitense arriva nel nostro paese per mille rivoli, per strade anche contorte. La distinzione tra serie network e serie cable va persa, e capita che finiscano sulle reti generaliste telefilm che nessuno aveva mai inteso per un pubblico così ampio (Dexter). Alcuni prodotti sono trasmessi a pochi giorni dalla messa in onda americana, e magari si concludono in un clamoroso flop (Flash Forward). Mentre altri ci mettono anni e anni ad approdare sugli schermi, magari in una piccola rete satellitare, nonostante il successo di critica e di (parte del) pubblico (The Wire). Le scelte delle reti sono fatte spesso alla cieca, sulla base di un solo episodio (o nemmeno quello). Poi, siccome entro un’offerta sempre più abbondante conta sempre di più fare promozione e creare brand, anche qui si inseriscono gli intermediari italiani, che intercettano i flussi informativi dagli States e cercano di sfruttarli al meglio. Riuscendoci o meno. E non è la stessa cosa mettere una serie in prime time su Italia 1 o nella notte del satellite, lanciarla con tutti gli onori o nasconderla nelle pieghe del palinsesto. Insomma, altro che “traduzione fedele”: l’approdo delle serie sulla tv italiana è una faccenda complicata, piena di professionisti coinvolti e processi contradditori. Puntare il dito sulle pieghe e le increspature ci aiuta a essere meno ingenui, a stare più attenti, come pure ad apprezzare le soluzioni riuscite. Ma adesso basta. Evitiamo che il dietro le quinte ci tolga il piacere di vedere i nostri episodi preferiti. E torniamo a sospendere l’incredulità. Almeno, fino al prossimo strappo troppo evidente. Luca Barra è nato a Cuneo nel 1983. Guarda tanta televisione, spesso ne scrive e cerca di farlo diventare un lavoro. Sta finendo un dottorato sui media in Università Cattolica ed è redattore della rivista Link. Idee per la televisione.
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Coming Out LTD.
Howard Bragman accompagna le celebrità omosessuali allo scoperto. E ci fa pure un sacco di dollari.
DI
VIOLETTA BELLOCCHIO
uando uno famoso fa coming out in un’intervista, le domande sono sempre le stesse. Quand’è che l’hai capito? Come ha reagito la tua famiglia? C’è una persona speciale nella tua vita? Cosa vorresti dire a quelli come te? Il contraddittorio è ben nascosto, e i giornalisti diventano gli avatar sorridenti di chiunque abbia ricevuto una notizia simile nella cucina di casa propria. Nessuno va mai al punto: se hai taciuto tanto a lungo, perché parli adesso? E qui entra in scena Howard Bragman. Publicist veterano e fondatore dello studio Fifteen Minutes, con base a Los Angeles, dal 91 Bragman è impegnato in una crociata per diventare l’uomo che accompagna allo scoperto le celebrità. Ti senti pronto? Lui ti farà ottenere la copertura più ampia e innocua possibile. Ha alzato il tiro quando ha annunciato che il 5 maggio scorso un suo cliente “gay e molto famoso” sarebbe uscito allo scoperto. E che scoperto: la prima intervista l’aveva già prenotata il settimanale People, la seconda “un grosso talk show”. Il gioco è stato gestito con sagacia e abbondanza di 34 Studio
false piste. Se l’insistenza sulla data – cinco de mayo – sembrava alludere a una celebrità ispanica, gli accenni di Bragman a una “futura star gay del cinema d’azione” spingevano verso i soliti tre-quattro sospetti. La prescelta invece era Chely Wright, una cantautrice country quasi quarantenne, che non pubblicava materiale originale dal 2005, ma con un nuovo album e un libro di memorie in arrivo. Uscire allo scoperto le ha garantito una seconda giovinezza commerciale: il suo coming out tour ha avuto successo; il singolo Broken ha scalato le classifiche country, entrando anche in quelle rock-pop. Che belle cose. L’importanza del gesto non si discute: Wright è la primissima personalità country ad ammettere la propria omosessualità. Ma il business del secondo atto è diventato un copione in tre passaggi obbligati. Il rotocalco ad alta tiratura, i programmi TV preferiti dalle massaie, il progetto ad hoc da promuovere (un’autobiografia, ma anche una docu-fiction o un ingaggio da very special correspondant). E tutto accade nell’arco di una settimana. Parlare con quelli che un tempo si definivano “magazine
specializzati”, come The Advocate, Out o Curve, è possibile solo in una fase successiva. Questo nonostante Bragman sottolinei la necessità di coltivarsi la stampa gay, stabilire un rapporto con la base che dovrà amare e accettare i suoi assistiti. E nonostante lui sia, a sua volta, un poster dude per l’integrazione a lieto fine: ha sposato il suo compagno nel 2008, prima che la California lo vietasse, sta sviluppando un reality show con se stesso come protagonista. Mentre sul sito di Fifteen Minutes la “divisione LGBT” occupa lo stesso spazio di “eventi speciali” e “gestione della crisi”, nella realtà assorbe il grosso delle loro forze. Il messaggio è passato: con i coming out si fanno i soldi – quando lo decidono loro. Il problema sta nel quantificare volume e fedeltà di un nuovo pubblico. Rinunciare al consenso mainstream non garantisce affatto l’abbraccio della minoranza, specie se il personaggio di turno ha qualcosa da farsi perdonare. Lance Bass, già componente degli ’N Sync, è uscito allo scoperto nel 2006 con la tripla fanfara – copertina di People, talk show, memoriale. Se si tiene conto che Bass dopo lo scioglimento del gruppo non era stato baciato dalla fortuna, e che l’annuncio è arrivato dopo che blog e giornali avevano riportato suoi avvistamenti nei bar gay di mezza America corredandoli di prove fotostatiche, la contro-offensiva è sembrata a molti il tentativo di tamponare l’inevitabile. In questo la strategia di Bragman sarebbe vincente: i suoi clienti restano avvolti nella riservatezza fino all’ora X, e il pericolo numero uno viene individuato proprio nel “gossip online”, che, in concreto, implica lo scippo del tuo destino per mano di un anonimo chiacchierone che ti ha incontrato nel posto sbagliato, magari mentre succhiavi la faccia a una persona del tuo stesso sesso. (Nei giorni precedenti all’annuncio di Wright circolava con insistenza il nome di un’altra musicista country, Shelby Lynne: il suo manager non ha smentito, come se volesse cavalcare la curiosità senza rischiare troppo). Nel frattempo però Fifteen Minutes ha trovato un discreto alleato in Harvey Levin, direttore del portale TMZ. L’uomo che ha pubblicato sen-
BUSSI ORSO © Rolf Kauka
Pubbliche relazioni
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za batter ciglio le foto di Rihanna picchiata a sangue ha dimostrato eccezionale comprensione di fronte alla richiesta di “più tempo” da parte dell’amico Bragman. Va precisato, sul piatto c’era un coming out fuori categoria: quello di Chastity/Chaz Bono, passato da figlia lesbica di Cher a figlio transessuale di Cher. E il cambiamento di gender è procedura laboriosa, impensabile da affrontare senza il conforto di un po’ di privacy. In quel caso TMZ ha messo nel cassetto la notizia per mesi, accettando poi di pubblicare un semplice comunicato stampa, senza interpellare Bono in prima persona. Bragman si vanta spesso della propria abilità a zittire i clienti. Anzi, meno parlano meglio è, nessuno escluso. (Quando ho contattato Fifteen Minutes, le condizioni preliminari per ottenere un commento da parte loro sfondavano il muro dell’assurdo.) E il metodo non crolla sotto le apparenti contraddizioni. Lo studio ha accettato di seguire l’attore Isaiah Washington dopo che lui aveva chiamato “frocio” un collega gay sul set della serie TV Grey’s Anatomy. Un tentativo benevolo di contenere il fallout dell’episodio, unito al prestigio di riabilitare il caduto in disgrazia, o almeno provarci. (La serie non gli rinnovò il contratto a fine stagione.) Quel che più conta, diversi clienti di Bragman lo elogiano non solo come furbo negoziatore, ma come tutore comprensivo. Uno che non cerca di trasformare ogni singolo coming out in un argomento politico, qualora l’interessato non volesse scrivere la propria storia all’interno di una gay agenda. Già. La gay agenda. E mo’ ci divertiamo. Nel 2007 Out Magazine strillava “Ecco la lista dei cento omosessuali più potenti d’America”, sbattendo in copertina Jodie Foster e il mezzobusto della CNN Anderson Cooper. La gay agenda di Out, in quel caso, significava sfrattare dall’armadio gente che non aveva mai dato segno di voler procedere. Mossa criticatissima, imputabile al protagonismo dei giornalisti coinvolti. Oggi lo stesso genere di accuse vengono mosse da più parti a Bragman, dipinto come un maneggione avido di exposure e denaro. Probabile. Di certo il metodo Fifteen
Minutes promuove obiettivi poco realistici: la copertina di People non sarà mai alla portata di tutti. Però in molti casi mirare ai grandi numeri resta sempre la strategia più realistica. Se non altro, riempie il silenzio là dove il “nuovo pubblico” tardi a farsi sentire. Vado contro i miei interessi se applaudo le scelte di uno studio di PR così rigido, perché blah blah stampa libera post-femminismo autodeterminazione del singolo blah. Ma vado contro il buon senso se scelgo di ignorare il massacro che ogni giorno si compie online, dove il dibattito è dominato da scrittori e commentatori uomini, quasi tutti radicalmente più miopi della base che rappresentano. Fa coming out una femmina, un artista, un ex famoso, una celebrità di secondo piano? Chi
“non conta” due volte: perché la protagonista non dice “sì, sono (X)” ma soltanto “io sto con lei”. E perché la notizia si perde nel mare di disavventure giudiziario/farmaceutiche dell’attrice, tanto da essere scambiata per l’ennesimo sintomo di un disordine della personalità. Lohan ha detto troppo poco e troppo tardi, davanti a vacanze insieme, tatuaggi gemelli e una convivenza di fatto: troppa roba e troppo presto, se l’anno dopo la coppia affrontava una separazione disastrosa in pubblico. Quest’anno il Regno Unito ha avuto Lady Sovereign, prima lesbica dichiarata del rap mainstream, e la sua faccia bianca in copertina su Diva, il gay Marie Claire locale. Ma agli esordi lei era la pupilla di Jay-Z, una campionessa di vendite; l’ultimo album,
Tutti odiano i publicist, ma il gay che cerca di gestire la situazione da solo verrà punito duramente. se ne frega. Non è nella top ten delle nostre fantasie, e allora non esiste e può morire tra le fiamme. (Nasce da qui anche l’idea per cui i bisessuali “non contano”: la star di True Blood Anna Paquin si dichiara tale, quattro mesi prima di sposare un uomo. Nessuno trattiene l’informazione). E così non c’è mai stato un numero tanto elevato di figure pubbliche apertamente out, eppure si trascina l’attesa della Grande Rivelazione, quella dopo cui nulla sarà più come prima. I candidati ideali sarebbero gli atleti, la categoria con più da perdere sul piano finanziario. Un celebre “piano ben riuscito” di Bragman, il cestista NBA John Amaechi, è venuto allo scoperto solo dopo aver annunciato il proprio ritiro da professionista. Il che ci porta a un altro paradosso: tutti odiano i publicist, ma la persona non etero che cerca di gestire la situazione per conto proprio verrà punita duramente. Dopo due anni di silenzio e mezze frasi, Lindsay Lohan mette fine alla speculazione con un’intervista a Harper’s Bazaar. Dove dice: «è una persona meravigliosa, e io la amo» dell’allora compagna Samantha Ronson. Un coming out che
del 2008, se l’è autoprodotto. Essere indie ti dà spazio di manovra. Il resto, scordatelo. Nel 2006 l’attore brillante Neil Patrick Harris esce allo scoperto dopo dieci anni di privata militanza, senza consultare uno studio specializzato, quando capisce che rischia l’outing da parte del blogger Perez Hilton. Non solo resta popolarissimo, non solo continua a interpretare un donnaiolo in tv senza che venga messa in dubbio la sua credibilità, ma diventa anche il bravo figlio omosessuale di due generazioni di spettatori. Dalla sua Harris aveva un passato da ragazzo prodigio del piccolo schermo, una transizione graduale alla carriera adulta, e la forza di una frase: «I am quite proud to say that I am a very content gay man living my life to the fullest». Definirsi “molto appagati” e pensarlo davvero è la nuova copertina di People. Violetta Bellocchio è l’autrice di Sono io che me ne vado (Mondadori Strade Blu, 2009). Ha scritto diversi racconti, gli ultimi usciti su Rolling Stone e Alice Baum. Collabora a Link.
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l’inchiesta che vanta innumerevoli tentativi d’imitazione!
L’enigma della settimana
Grazie ai suoi rebus, anagrammi e cruciverba, dal 1932 è una delle pubblicazioni più amate dagli italiani. Abbiamo provato a entrare nelle segrete stanze de La Settimana Enigmistica. Ma… testo di
Michele bisceglia fotografie di edoardo pasero
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l’inchiesta che vanta innumerevoli tentativi d’imitazione!
n vero rompicapo. Nel senso che con La Settimana Enigmistica ci siamo letteralmente spaccati la testa sbattendola contro la porta della loro redazione. Avremmo voluto entrare in quel palazzone in piazza Cinque Giornate a Milano dal quale ogni sette giorni escono parole crociate, rebus ed enigmi per farci raccontare, e raccontare a nostra volta, la storia e – perché no? – i segreti di uno dei colossi dell’editoria nostrana. Abbiamo bussato e hanno risposto, ma senza aprire. Perché non aprono a nessuno, da sempre. «Riceviamo continuamente richieste da giornalisti», racconta al telefono Fortunato Oliviero, da vent’anni redattore della Settimana Enigmistica: «Ci hanno chiamati anche Maurizio Costanzo e Fabio Fazio, ma non abbiamo mai ceduto. Non perché facciamo i preziosi, ma perché teniamo alla privacy e difendiamo il nostro know-how». Già, ottant’anni di passatempi e vignette umoristiche hanno fatto della Settimana Enigmistica «la rivista che vanta innumerevoli tentativi d’imitazione». Oliviero ride quando gli diciamo che, allora, continueremo a immaginare la redazione in bianco e nero, proprio come il settimanale si presenta in edicola dalla notte dei tempi. Bianco e nero, qualche illustrazione timidamente colorata, e quella testata che, ciclicamente, si veste di blu, verde e rosso alternando rigorosamente, sulle parole crociate in prima pagina, un volto maschile e un volto femminile, settimana dopo settimana: Silvio Muccino, Rachida Jones e Gerald Butler sui numeri 4096 (testata blu), 4097 (testata verde), 4098 (testata rossa). Tutti in bianco e nero, come fossimo ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso. Prendete la Settimana Enigmistica di un sabato qualsiasi di quest’anno e confrontatela con il primo numero del 23 gennaio 1932 (23/1/32, data palindroma), vedrete che non sono così diverse. Dunque, per capirci qualcosa, ci siamo rivolti a Stefano Bartezzaghi, enigmista, collaboratore de la Repubblica, autore del libro L’orizzonte verticale. Invenzione e storia del cruciverba, ma soprattutto figlio dello storico cruciverbista della Settimana
L’androne della Settimana Enigmistica. Non siamo riusciti ad andare oltre. Enigmistica Piero Bartezzaghi e fratello di Alessandro Bartezzaghi, attualmente redattore del settimanale. Siamo andati a trovare Stefano Bartezzaghi allo Iulm di Milano, dove dallo scorso ottobre insegna Semiotica dell’enigma: «Posso dirvi poco, e in realtà ne so poco anche io». Altro che lessico e nuvole. Lessico e nebbia fitta. Per quanto riguarda le vendite della Settimana, i cui dati di diffusione non sono registrati da Ads, Bartezzaghi rimanda a una ricerca di mercato pubblicata dal Sole 24 Ore nel maggio del 2004 e riportata nel suo volume: 1.289.000 copie, numeri ormai vecchi ma comunque significativi. Sui segreti della rivista, invece, alza gli occhi al cielo sorridendo e riassume quanto scritto ne L’orizzonte verticale: «Hanno sempre mantenuto un profilo più che discreto, senza mai ammettere giornalisti e fotografi nei locali della redazione, senza mai diffondere i dati di vendita o eccessivi dettagli in merito alla storia del periodico e dei suoi protagonisti». I nomi degli assoluti protagonisti di questa storia sono scritti in quarta di copertina. Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini Conte di Sant’Andrea (fantozziano sì, ma questo dice il colophon), fondatore della Settimana Enigmistica (e del Rotary Club di Sardegna) scomparso nel 1972. E Francesco Baggi Sisini, attuale direttore responsabile
del settimanale. Ecco, se il primo è – stando alle parole di Bartezzaghi – «con ogni probabilità il più grande enigmista italiano del Novecento», il secondo è una sorta di enigma che abbiamo provato a risolvere aiutandoci con Google, che non darà proprio tutte le soluzioni, ma funziona un po’ come la pista cifrata, il giochino in cui bisogna unire con i segmenti i numeri in progressione, così da ottenere una figura più o meno nitida. Un altro vero rompicapo dato che siamo stati risucchiati in un arcipelago di società editoriali, assicurative e immobiliari. Nella relazione del 2009 sul governo societario e gli assetti proprietari di Vittoria Assicurazioni, di cui Francesco Baggi Sisini (classe 1949, nipote di Giorgio) è amministratore indipendente, c’è un elenco dei ruoli ricoperti dal direttore della Settimana Enigmistica: presidente di Icaria S.r.l., amministratore unico di Martis S.r.l., Arbus S.r.l. e Bresi S.p.A., consigliere di Tamburi Investment Partners S.p.A. Ora, Bresi S.p.A è l’editore della Settimana Enigmistica, ma spulciando tra le carte di Tamburi Investment spunta un altro c.v. di Baggi Sisini: inizia nel 1969, proprio con un’assunzione da parte di Segraf, la tipografia che stampa la Settimana. E Segraf è la rotocalcografia del gruppo Bresi (Bartezzaghi racconta come uno degli obiettivi del fondatore Giorgio Studio 37
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Un’enigmatica fotografia del citofono della Settimana. Sisini fosse proprio l’autonomia editoriale, raggiunta anche con l’acquisizione di propri stabilimenti per la stampa e la produzione di carta e inchiostro). Una delle persone che abbiamo interpellato per venire a capo del mistero Settimana ha scherzosamente indicato Francesco Baggi Sisini come «il Papa», facile intuire perché. A proposito di circoli ecclesiastici: Baggi Sisini è anche vice-presidente della Fondazione Sant’Ambrogio per la Cultura Cristiana, i gestori del Museo Diocesano di Milano.
rivista» spiega Roberto Greco, direttore creativo dell’agenzia: «A noi, come a tanti italiani, piace perché è sempre se stessa: non ha ceduto alla lusinga del colore, non ha concesso pagine alla pubblicità, non ha cambiato quasi nulla. Quindi, andava fatta solo una cosa: celebrare una delle icone rimaste in Italia». Il risultato dell’incontro tra la direzione del settimanale e l’agenzia creativa sono cinque film divertenti, da dieci secondi ciascuno, in cui la Settimana Enigmistica diventa un punto di riferimento temporale. Una sciura
“Sai che molti italiani non sanno che la Settimana Enigmistica esce tutte le settimane?” «La loro forza è la tradizione,» dice al telefono un collaboratore della Settimana Enigmistica che chiede l’anonimato: «Periodicamente vengono fatte delle proposte di rinnovamento grafico e dei contenuti, ma è una macchina lenta. L’unica piccola rivoluzione è stata l’introduzione del colore, ogni tanto». La Settimana Enigmistica, priva di pubblicità e riservatissima, la scorsa estate è ricomparsa sul piccolo schermo grazie a una serie di brevi spot realizzati da Ogilvy&Mether. «Per noi è qualcosa di più di una semplice 38 Studio
dice all’altra: «Son passati anche da te a venderti sta’ collana di libri?» E l’altra, con una sfilza di libri intorno al collo: «Sì, cara: son passati la scorsa Settimana Enigmistica». «Abbiamo pensato di rinfrescare l’immagine della Settimana Enigmistica strizzando l’occhio ai giovani, senza dimenticare i consumatori abituali – racconta Greco – ma la svolta vera è venuta da una semplice frase detta da uno dei soci durante una chiacchierata: “Sai che molti italiani non sanno che la Settimana esce tutte le settimane?”»
Gli spot sembrano davvero spuntati dall’“antologia del buon umore” o dalle pagine “Per rinfrancar lo spirito… tra un enigma e l’altro” e si chiudono tutti con il claim: «Seriamente divertente». Noi ci siamo divertiti seriamente ad annerire tutti gli spazi segnati con il puntino per capire cosa nascondono, e qualcosa nasconderanno pure, gli amici della Settimana Enigmistica. Settimana che, poco meno di dieci anni or sono, è passata anche on line, pur sempre a modo suo. Il sito Aenigmatica.it, infatti, ha una grafica da preistoria del web, scelta che rispecchia pienamente l’atteggiamento della testata nei confronti dell’amatissima carta. Anche per quanto riguarda il web, ci sono stati tentativi di restyling, sostanzialmente rifiutati dai piani alti del settimanale. Ma c’è comunque qualcosa che la Settimana Enigmistica ha abbracciato dei tempi moderni: l’esternalizzazione. Per tre anni Aenigmatica.it è stato seguito nello stesso Palazzo Vittoria di Piazza Cinque Giornate sede della rivista, per poi essere affidato a un’altra società che cura l’adattamento Internet dei contenuti cartacei (parole crociate, rebus, giochi illustrati…). Ovviamente, è di gran lunga più semplice rintracciare i numeri di accesso al sito rispetto alle copie vendute in edicola: tra i novecento e i mille utenti unici al giorno (Fonte: whoismark. com/aenigmatica.it) Insomma, l’enigma della Settimana resta irrisolto ma, se è vero che non siamo riusciti a vedere le scrivanie di Anderson, Urania, Mad e Max (non manca il senso dell’umorismo da quelle parti), una cosa comunque l’abbiamo scoperta: non usano i computer, preparano ancora i cruciverba con un foglio di carta e una matita. Ecco dove forse sta il fallimento degli innumerevoli tentativi di imitazione. Nella tecnologia. Michele Bisceglia è redattore di Studio. Classe 1979, da un po’ di anni a questa parte scrive di qualsiasi cosa per quotidiani e magazine. Inoltre, traduce dall’inglese libri e storie rock ’n’ roll. Edoardo Pasero, nato ad Alessandria nel 1978, recentemente ha fondato, in collaborazione con l’agenzia fotografica Prospekt, il progetto CARNEM.
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FINANZA CREATIVA
Bijlmer Euro Arriva dall’Olanda l’ennesima dimostrazione che non saranno gli artisti, per quanto bravi, a salvare il mondo. testo di
Nicola Bozzi fotografie di ATTILIO BRANCACCIO
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scendo dalla stazione metro di Bijlmer ArenA e attraversando il sottopasso che porta a Bijlmerplein ci si trova in una tipica area commerciale della periferia degradata di Amsterdam. Palazzoni di banche varie torreggiano sull’area pedonale e sulla strada elevata che ci scorre subito sopra. L’edificio ING di Alberts & Van Huut, con la sua aria un po’ storta da castello della strega cattiva, dà un aspetto un po’ surreale a un paesaggio altrimenti dominato da una grigia anonimato. Lo spazio di Imaginary IC, dove ho incontrato Christian Nold, è rimboccato nel sottopasso. L’artista inglese ha un passato da designer, abbandonato per un percorso di ricerca artistica difficile da inquadrare: «Da qualche parte tra arte, design e tecnologia. E politica, forse». Dopo un anno a intervistare poliziotti e studiare la psicologia dei dispositivi di controllo delle folle, Nold ha capito che quello che gli interessava era costruire strumenti attraverso i quali la coscienza collettiva potesse esprimersi, invece di essere controllata. Quasi tutti i suoi progetti riguardano in qualche modo la cartografia, la mappatura dei luoghi in base a persone ed emozioni. Il suo ultimo libro si intitola Emotional Cartography, ma nonostante gli echi debordiani ci sono delle differenze tra l’artista e i Situazionisti: «Penso che non siano mai andati oltre la psicogeografia individuale. Quello che interessa a me è costruire strumenti che permettano di rappresentare un comportamento collettivo, e di pensare cosa significa avere un processo decisionale collettivo, emozioni collettive. E come ci si muove da quello alla politica». Invitato da Imaginary IC, un’associazione culturale con sede nel Bijlmer, Nold ha sviluppato il suo progetto più complesso e ambizioso fino ad oggi: il Bijlmer Euro. Si tratta di una moneta locale, che consiste in un adesivo provvisto di tag RFID (un circuito rintracciabile tramite onde radio, ricavato da biglietti della metro usati), appiccicato su normali banconote. Gli euro così convertiti possono essere spesi in esercizi locali per avere degli sconti e, una volta fat-
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ti passare davanti a degli scanner che Nold si è fatto mandare dalla Cina, contribuire a mappare la dinamicità interculturale del quartiere tracciandone i movimenti. Questi vengono visualizzati sul sito del progetto (bijlmereuro.net), insieme a dei messaggi che è possibile imprimere nel circuito al momento della conversione al chiosco di Imaginary IC. Per Nold estendere il concetto di mappa riguarda la generazione stessa del senso. «è molto potente, specialmente quando si tratta di qualcosa di invisibile come i soldi. Tutti hanno questa roba in tasca, e non sai dove va a finire.» Specifica: «Non sto provando a seguire le persone, ma solo i soldi. Le istituzioni seguono le persone, e penso che sia molto più pericoloso». I soldi sono anche il mo-
Africa ed ex colonie, soprattutto Suriname e Antille olandesi. Gradualmente il Bijlmer si è guadagnato una brutta reputazione: i sottopassi e i livelli di transito sfasati, concepiti per praticità, sono diventati invece sinistri accenni alla scala poco umana del progetto, e le carenze infrastrutturali dell’area col tempo sono state adattate, secondo necessità, dagli abitanti effettivi. I parcheggi sono diventati chiese per i ghanesi, gli androni luoghi di ritrovo per gang giovanili. Dagli anni Novanta, il Bijlmer è stato oggetto di discussione riguardo un rinnovamento che creasse un ambiente più vivibile per tutti. Non senza difficoltà e proteste – legate alla scarsa influenza della maggioranza di colore nei processi decisionali –
“Non sto provando a seguire le persone, ma i soldi. Tutti hanno questa roba in tasca e nessuno sa dove va a finire” do migliore per raggiungere il pubblico: «Qualcosa con cui la gente può connettersi, anche senza essere necessariamente interessata al progetto artistico». Promuovendo gli scambi e la comunicazione all’interno dell’area, la nuova moneta di scambio non solo vuole dare un contributo all’economia locale, ma incoraggiare la definizione di un’identità di quartiere. Quando ti allontani dalla zona immediatamente vicina a banche e metro, il paesaggio del Bijlmer si dirada parecchio ed emerge la visione spaziale modernista sulla quale Siegfried Nassuth lo aveva pianificato negli anni ’60, ispirato da Le Corbusier e dal CIAM (il Congresso Internazionale di Architettura Moderna tenutosi in Svizzera nel 1928). Palazzi alti collegati fra loro, strade per le macchine sopraelevate rispetto ai sentieri per pedoni e bici. Ma come spesso succede con le utopie funzionali di quel periodo, il sobborgo di condomini immersi nel verde è stato snobbato dalla classe media a cui era destinato. Gli appartamenti vacanti sono stati riempiti prima, e sovraffollati poi, da immigrati provenienti da
oggi il Bijlmer sta cambiando. Il crimine è diminuito drasticamente, e la presenza istituzionale è aumentata sotto forma di uffici di collocamento e assistenza per lavoratori e immigrati. E si torna a costruire: oltre a riqualificare i vecchi alloggi, caseggiati per studenti e centri commerciali spuntano qua e là per invogliare gli olandesi (oggi meno di un quinto della popolazione locale) a trasferirsi nel quartiere. è nel contesto di un Bijlmer in rinascita che arriva Christian Nold, ed è proprio dalla diversità del tessuto etnico e sociale che la sua mappatura prende piede. Secondo Nold, sfruttare la diversità del Bijlmer e i settanta gruppi etnici che vi sono rappresentati potrebbe creare un sistema prototipo per collegare diverse parti del mondo tramite flussi monetari controllati da logiche diverse da quelle imperanti. In un certo senso, Nold e il suo progetto sembrano proporsi come un sistema bancario alternativo e trasparente. Oggi è stato testato nel Bijlmer, domani chissà. L’ammontare del traffico di Bijlmer Euro è stato intorno ai 4800 euro, Studio 41
per un totale di 639 transazioni dal lancio, l’8 luglio scorso. Purtroppo per Imaginary IC è impossibile sostenere i costi di promozione e gestione, e ufficialmente l’iniziativa è finita a inizio ottobre. «Il problema con i fondi per l’arte è che tutti sono molto interessati alla pubblicità iniziale, ma dopo non possono realmente supportarla e farla funzionare.» Per questa ragione l’artista lavora con associazioni di beneficienza. Spesso però i modi di affrontare i problemi sono diversi e difficili da conciliare: «Un sacco di enti parlano ancora di cambiamento comportamentale, che per l’arte è un termine molto difficile con cui avere a che fare». Secondo alcuni negozianti della zona il Bijlmer Euro è migliorabile anche da altri punti di vista. Il progetto è utile per dare una buona immagine del quartiere, ma le cose andrebbero fatte più in grande. Ci vorrebbe una promozione in tutta la città e la partecipazione di tutti gli esercizi locali, dei quali invece sono stati selezionati solo quelli più rappresentativi della multiculturalità. I volantini in olandese non aiutano gli 42 Studio
immigrati che ne costituiscono il target, visto che spesso non possono leggerli, e avrebbero dovuto essere distribuiti più capillarmente. Per quanto riguarda la visualizzazione dei dati, invece, se da un lato alcuni negozianti l’hanno trovata utile, certi clienti sono insospettiti dall’adesivo e dal circuito e rifiutano le banconote speciali per paura di essere controllati dal governo. A partire dalla sua complessità, fino alla discontinuità di promozione e finanziamento, il Bijlmer Euro ha quindi avuto un successo parziale. Ironicamente, ma prevedibilmente, gli aspetti artistici del progetto sono stati quelli meno intesi ed apprezzati, mentre il suo lato sociale è stato salutato da un certo entusiasmo. è piaciuta l’introduzione della moneta locale, meno la vera trovata artistica di Nold, vale a dire la visualizzazione e la trasparenza del traffico. Forse la selezione parziale dei negozi è stata l’ingenuità più grossa, l’assegnazione centrale di un’identità “multiculturale” invece della creazione di una piattaforma veramente “color-blind”, come il traffico di denaro, che tenesse
conto in partenza di tutto il quartiere e lasciasse che fosse la sua diversità a manifestarsi da sola. Ma un progetto di arte, per quanto ibrido, non può decidere da solo le sorti di un quartiere controverso come il Bijlmer, già per sé oggetto di strategie di rinnovamento dall’alto e dal basso. Più che dell’arte e della rappresentazione di un’unità che forse non esiste, c’è bisogno di soluzioni economiche e sociali. «Ho sempre pensato che l’educazione artistica sia una cosa utile per la gente, ma una volta finita la scuola dovrebbero lasciarsela alle spalle», dice Nold. Ecco, forse il merito più grande del Bijlmer Euro potrà essere quello di aver suggerito alla gente e alle istituzioni del Bijlmer un modo diverso di fare le cose da soli. Nicola Bozzi scrive di arte, media e cultura su riviste online e cartacee come Zero, Exibart, Artslant, Hideout e Ymag. Vive e lavora tra Milano e Amsterdam. Attilio Brancaccio nasce a Catanzaro nel 1977. Ha lavorato come graphic designer e art director. Dal 2008 vive ad Amsterdam e fa il fotografo freelance.
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CHE BELLO ESSERE GIONI
Ovvero come dirigere biennali, musei e fondazioni d’arte senza perdere completamente di vista le gioie e i dolori del mondo reale. Un’intervista approfondita col direttore creativo della Fondazione Trussardi. INTERVISTA di
FEDERICO SARICA E MARCO CENDRON fotografie di MARCO PIETRACUPA
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È
il direttore creativo di una delle istituzioni dell’arte contemporanea più rilevanti oggi – e non solo a livello nazionale: la Fondazione Trussardi. Ed è stato recentemente nominato – lo scorso settembre – associate director del New Museum of Contemporary Art di New York, di cui era già director of special exhibitions. «Prima avevo un ruolo speciale che mi permetteva di fare anche altro, a patto che facessi due mostre all’anno al Museo. Adesso in sostanza sono responsabile dell’intera programmazione, quindi posso ancora fare progetti esterni, ovviamente, ma c’è un’identità più precisa tra quello che faccio io e quello che fa il museo», ci racconta Massimiliano Gioni quando in apertura di intervista gli facciamo le congratulazioni e gli chiediamo cosa cambi adesso per lui. «Non sono mai stato interessatissimo alla dimensione museale», continua Gioni, «ma il New Museum mi interessa moltissimo in quanto è un museo giovane, vivo e non votato alla collezione». Dinamico, in una parola. Come il suo percorso.
Massimiliano Gioni racconta Massimiliano Gioni in una cartella dattiloscritta. Ci proviamo? Vai. Sono nato a Busto Arsizio il 6 dicembre 1973 e ho vissuto lì fino ai 15 anni. Poi ho vinto una borsa di studio e mi sono trasferito in Canada, a Vancouver Island per la precisione. Sono andato a frequentare una scuola che si chiama United Work College, un istituto internazionale tramite cui si accede solo attraverso borsa di studio, appunto: un posto curioso, piuttosto idealistico, senza lucchetti e porte, tutto all’insegna della condivisione. Ho vissuto lì per circa due anni e poi sono tornato in Italia, a Bologna, dove ho fatto l’Università. Mi mantenevo gli studi traducendo libri per Harmony. Ero arrivato a tradurne due al mese, al che mi sono spaventato e ho smesso. In realtà mi sono fermato quando hanno inaugurato una nuova collana che si chiamava Love Inspiration, in cui dalla classica trama Harmony – 44 Studio
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scaramucce, incontro sessuale, odio e riconciliazione finale – si passava a un canovaccio in cui due protagonisti si incontravano amorevolmente tramite la religione. La cosa interessante di quell’esperienza è che in realtà tu Harmony lo adatti, non lo traduci: ti fanno una sorta di corso di formazione per insegnarti ad accorciarli, a riambientarli – quelli americani ambientati in Italia noi li riambientavamo in Grecia per non perdere il tocco esotico – ad adattarli ai costumi nazionali in campo sessuale. In quel periodo ho anche fondato Tracks, un magazine culturale online con altri due amici. Da lì mi hanno chiamato a Flash Art, in redazione a Milano; poi nel ’99 lo stesso Flash Art mi ha spedito come inviato a New York, dove ho fatto le mie prime esperienze come curatore di mostre e come assistente. In quel periodo sono entrato in contatto con personaggi come Francesco Bonami e Maurizio Cattelan. Sono poi tornato in Europa a fine 2002, quando Beatrice Trussardi mi ha chiamato per dirigere la Fondazione Trussardi in concomitanza con altri svariati impegni al di qua dell’oceano: Manifesta, una piccola sezione alla Biennale di Venezia, la Biennale di Berlino e altre cosette. Nel 2006 c’è stato il ritorno a New York con la chiamata del New Museum. Fondazione Trussardi. Fine 2002. Beatrice Trussardi alza il telefono e…? Succede che lei, molto interessata ai destini della Fondazione di famiglia, e già da qualche tempo tornata da New York dove aveva studiato gestione di imprese d’arte e culturali, era propensa all’idea di trovare un direttore creativo. Dopo varie ricerche è arrivata a me e abbiamo aperto un dialogo. All’inizio la Fondazione era fisicamente qua dove ci troviamo (in Piazza della Scala a Milano, ndr) e all’epoca si occupava sia di arte contemporanea e moderna, sia di design e di moda. La prima riflessione che abbiamo fatto, visti gli spazi ridotti e appurato che l’arte contemporanea stava cambiando – e fatto un rapido check di cosa mancasse a Milano – era che una buona idea poteva essere portare le mostre della Fondazione in giro per la città. E così avete fatto la prima mostra.
Che era? Primavera del 2003. Shortcut: la macchina con roulotte di Elmgreen e Dragset nell’Ottagono in Galleria Vittorio Emanuele. Sentivamo in giro molta curiosità per l’arte ma gli ostacoli per avvicinarla a tutti erano ancora molti. Da qui l’idea di andare verso il pubblico, di ridare all’arte la possibilità in qualche modo di mettersi di traverso e intralciare. L’intuizione coraggiosa di Beatrice, e non lo dico per piaggeria, è stata quella di non voler dare alla Fondazione un ruolo didattico e polveroso, ma provare in un certo senso a imporsi e, perché no, a dare fastidio. L’arte pubblica era in quel momento un’idea nuova per Milano, soprattutto per l’aggressività con cui dichiaravamo: «Non facciamo decorazione». E fra l’altro lasciando in secondo piano – oggi col senno di poi non suona così insolito – l’identità corporate, il logo della casa di moda e tutto ciò che ne conseguiva. Questo rientrava in un concetto condiviso di identità mobile, dai luoghi ai linguaggi. Balzone in avanti. L’ultima mostra che avete fatto è stata quella di Paul McCarthy, di cui si è molto parlato, a Palazzo Citterio, di cui si è parlato ancora di più (un posto bello ed evocativo nel pieno centro di Milano eppure paradossalmente dimenticato da Dio). Il lavoro di ricerca degli spazi che fate è di gran lunga uno degli aspetti più interessanti della Fondazione. Lì, ad esempio, come ci siete arrivati? Noi cerchiamo sempre nuovi spazi; quello l’avevamo visto chiuso, da fuori, ed era così da molto tempo. Siamo andati a cercare il proprietario e siamo riusciti a entrarvici circa due anni e mezzo fa, grazie anche al fatto che in quel momento la Fondazione aveva già ricevuto riconoscimenti sia dal pubblico che dalla città. Ci è sembrato subito fantastico, ma ci voleva molto lavoro e soprattutto un artista con il “fisique du role” per riuscire a confrontarsi con il Palazzo in sé, un posto assurdo e molto impegnativo da allestire. Con Paul McCarthy in realtà parlavamo dal 2003; è un artista con cui volevamo da sempre collaborare e di cui in Italia si era visto qualcosa, ma ancora troppo poco. è stato necessario che la Sovrinten-
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denza ai Beni Culturali capisse che il nostro intervento su Palazzo Citterio sarebbe servito a valorizzarlo e non a distruggerlo. Apro una parentesi sulla mostra di McCarhty: una cosa a cui tengo molto è la natura della Fondazione, un ente affatto piacione che vuole scardinare le aspettative, che vuole fare sempre e comunque arte d’avanguardia. La scommessa è proprio la possibilità di fare arte d’avanguardia e nello stesso tempo di massa, qualcosa che possa essere aperto sia alle famiglie che agli studenti che a chi pensa che Paul McCarthy sia il bassista dei Beatles. Ben venga quindi Palazzo Citterio e ben venga aprirlo alla cittadinanza. L’importante è che una volta lì, tutti capiscano che quella è arte d’avanguardia. Qual è il vostro criterio di scelta degli artisti, se ne avete uno? Io credo che lavorare con l’arte sia come lavorare con una persona, o con una donna. Uno non si dà dei criteri per scegliersi la moglie. Certo c’è chi lo fa (risate), ma non credo funzioni, così come non funziona con l’arte. Ci sono ovviamente limitazioni legate allo spazio in cui si deve lavorare e all’artista da inserire, quindi capita che sia lo spazio a suggerire l’artista o viceversa. È un dialogo continuo. Un parametro che ci interessa, ad esempio, è che l’artista abbia già un certo consenso tra gli addetti ai lavori ma che non si sia ancora confrontato con il grande pubblico. McCarthy è probabilmente l’artista più grande con il quale abbiamo lavorato, anche perché Palazzo Citterio era il luogo più “potente”. Di solito ci muoviamo sulla generazione successiva alla sua; non cerchiamo i grandi maestri di oggi ma vogliamo indicare quelli che saranno i maestri tra dieci anni. In questo periodo si parla molto di Cattelan; per noi è stato importante portarlo qui nel 2004 quando sembrava impossibile farlo. Il fatto che adesso sia patrocinato dal Comune di Milano è segno di una rottura già avvenuta, mentre a noi interessava curarlo nel momento in cui questa rottura era in corso. Per noi è importante occuparci di artisti di innovazione da inserire in un contenitore che invece è ricco di stratificazioni, in
cui ci si può collegare alla storia di Milano, dell’Italia. Questo è un binomio su cui abbiamo sempre lavorato: l’artista di ricerca in un contesto che racconta altro, che sia il passato o anche il made in Italy. In questo caso il made in Italy può essere rappresentato dall’abbandono di un edificio come Palazzo Citterio. Uno dei vantaggi di Milano può anche essere il fatto che la concorrenza nell’ arte contemporanea, fra pubblico e privato, non è tra le più forti. Quando abbiamo iniziato, la concorrenza era – ed è tuttora – la Fondazione Prada. Abbiamo scelto di occupare una nicchia diversa. Come detto, la nostra volontà era di portare l’arte nel mezzo della città, di intercettare la vita di tutti i giorni con l’arte e viceversa. Creare una sorta di museo nomade, aperto e gratuito. Ancora oggi non ci interessa l’idea dell’esclusività, piuttosto i concetti di lusso di massa e di avanguardia di massa. A proposito di fondazioni private e rapporti col pubblico, inteso anche come finanziamenti e istituzioni: una delle annose questioni italiche sembra essere l’eterna difficoltà a creare una sinergia efficace fra i due settori. Voi che esperienza avete in materia? Il fatto che noi facciamo arte pubblica non significa che facciamo arte con il settore pubblico, ma che la facciamo in uno spazio pubblico. Con due conseguenze: da una parte hai il vantaggio, se rispetti le regole, di confrontarti con persone che fanno lavori mediamente piuttosto noiosi, nauseati dalla burocratizzazione, e che sono quindi eccitate dal dover installare, per esempio, una roulotte in Galleria Vittorio Emanuele; dall’altra parte, c’è voluta molta pazienza, da parte mia – e di Beatrice soprattutto, dal momento che lei investe fior fior di soldi – non solo per fare le mostre, ma per rendere agibili spazi come Palazzo Citterio o Palazzo Dugnani. Sono risorse investite per rendere aperti e pubblici quei luoghi ma che poi fisicamente non tornano, né a lei né alla Fondazione. Diciamo quindi che, per nostra esperienza, la collaborazione tra pubblico e privato funziona finché il privato dà un po’ più del pubblico. Hai sperimentato questo tipo di di-
namiche anche in altri paesi o è un unicum italico? Noi in Italia abbiamo lavorato sempre molto bene, ma soprattutto grazie al talento e alla visione di singoli individui. All’estero, specialmente in occasione delle biennali, c’è uno stanziamento di denaro pubblico. A Berlino, per esempio, c’è uno stanziamento consistente: parliamo di milioni e milioni di euro che di solito vengono dati a una fondazione la quale si incarica di scegliere un direttore con determinate garanzie di scientificità. Successivamente vengono date le risorse al direttore per fare quello che vuole, nella coscienza che quella persona è stata scelta perché ha i giusti requisiti. Da noi – con ottime eccezioni ovviamente – c’è spesso qualcosa che si inceppa in questo meccanismo. Forse non c’è da parte della politica la volontà di ammettere che, se una persona è stata scelta, è brava e bisogna lasciarla lavorare serenamente perché renda al meglio. Questa è una scelta che il privato riesce a fare più serenamente. Il problema in Italia è la mancanza di continuità politica, il che porta alla paura che qualcuno diventi espressione di un certo pensiero o di una certa parte. Poi ci sono tanti casi in cui le cose non vanno così; credo che molti privati e anche alcuni settori del pubblico abbiano capito come si fanno le cose per bene. Sono i casi di quelli che emergono veramente e vengono premiati. È un peccato che non funzioni sempre così. Com’è l’industria culturale italiana vista dall’estero? Sembra una banalità, ma forse noi italiani otteniamo riconoscimenti più attraverso alcune eccellenze individuali, piuttosto che come sistema virtuoso che funziona. Probabilmente, parlando con un americano, questo avrà più familiarità con l’arte contemporanea svizzera intesa come sistema piuttosto che con la nostra, ma qualsiasi appassionato o professionista di arte americana conosce o lavora con italiani. Moda e arte, odio e amore. Poco tempo fa, intervistando Glenn O’Brien, ci diceva di vedere oggi nel rapporto tra moda e arte quello che accadeva alla fine degli anni ’70 tra arte e rock’n’roll. I cantanti avevano bisogno di esser Studio 47
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presi sul serio dalla cultura e gli artisti volevano le groupie che avevano le rockstar. Adesso capita la stessa cosa: gli artisti hanno bisogno di avere un successo pop a cui è più facile accedere attraverso la moda e la moda ha bisogno di esser presa sul serio a livello culturale. Tu come la vedi? C’è un’idea che Beatrice ha sempre avuto molto chiara in testa, e che è anche uno dei concetti alla base della Fondazione. Lei dice: le contaminazioni non mi interessano più, la contaminazione è un discorso molto anni ’80 o primi ’90; quello che mi interessa è, attraverso e grazie alla moda, creare dei mondi in cui si coltivi una sorta di tensione all’eccellenza. Beatrice crede veramente in questo, non a caso ha voluto una Fondazione in cui si faccia arte, anche di avanguardia, e la si renda pubblica e accessibile. Cerchiamo insomma di imparare molto dalla moda in materia di linguaggio pop e di comunicazione, sempre però coscienti del fatto che noi facciamo mostre di arte contemporanea, mostre ambiziose, mostre anche intransigenti. Il rapporto fra moda e arte poi, è ciò che di più simile ci sia alla grande committenza rinascimentale. So che potrebbe sembrare un discorso kitsch, ma è un fenomeno molto simile, anche a livello di visionarietà, di follia. Agli artisti piace entrare nel radar della cultura pop di tutti i giorni certo – in questo O’Brien ha ragione – ma hanno soprattutto bisogno di persone disposte a mettersi in gioco al di là del razionale. Penso a individui come Pinault, il quale quando riceveva una telefonata da Richard Serra che gli chiedeva di spostare non so quante tonnellate di materiale per una scultura, rispondeva semplicemente: «Va bene». Questa della follia – chiamiamola così – forse non è una caratteristica insita propriamente nel sistema della moda, ma sono le persone che ci lavorano che hanno un’apertura mentale e una reattività che spesso finiscono per essere molto simili a quelle degli artisti. E l’arte senza la potenza di fuoco datagli dalla moda? Una delle tue caratteristiche è quella di guidare, oggi, navi abbastanza grosse. Non per tutti è così. 48 Studio
All’inizio la Fondazione era più che altro un piccolo gommone. Una cosa che abbiamo imparato è stata fare tanto con le risorse di cui disponiamo; in confronto a molti colleghi della moda non siamo proprio dei nababbi. Bisogna ingegnarsi, e la cosa bella della Fondazione Trussardi è sempre stata questa capacità di lavorare, ad esempio, sia su un progetto impegnativo in termini di investimento come Palazzo Citterio, sia su un’opera scarna come quella di Maurizio Cattelan in Piazza Ventiquattro Maggio (i bimbi impiccati all’albero, ndr) e ottenere lo stesso risultato. Quello che più mi piace della Fondazione è la sua mobilità, per questo dico che è più simile a un gommone piuttosto che a una portaerei. E quello che abbiamo capito è che certe guerre le vincono i gommoni. La Fondazione è nata con l’idea di fare molto con poco. Quel che credo faccia la differenza oggi è la comunicazione, e in quel senso si è imparato molto dalla moda. Quando abbiamo fatto A Wrong Gallery, si trattava di una porta, di un’opera al mese, a costo zero. Le due cose che l’hanno resa diversa erano che si chiamava Wrong Gallery, che è un marchio, e che c’era Maurizio (Cattelan), il cui solo nome fa comunicazione. Puoi ottenere moltissimo anche con poco se riesci a inventare dei marchi, degli slogan. Una cosa lampante dell’arte contemporanea è che il novanta per cento dell’innovazione è dovuta all’invenzione di nuovi modi per definire ciò che viene fatto. Tino Sehgal non chiama le sue opere performance, le chiama situazioni. Jeff Koons passava la stessa quantità di tempo a ricercare nuovi materiali come a inventare nuovi slogan e frasi assurde da collegare a ogni opera. Tutto il suo lavoro è diviso in episodi, ed è come se ogni volta in cui lancia una nuova serie, lanciasse un logo per un nuovo prodotto, o una serie TV. Cattelan dice sempre che un’opera devi poterla raccontare al telefono in una frase, altrimenti significa che il lavoro non gira, non funziona. Quindi c’è una ricerca della sintesi degli strumenti e del linguaggio, e credo sia quello che faccia la differenza, più che il denaro. Specialmente oggi che le risorse le tagliano un po’ a tutti.
Maurizio Cattelan è stato infatti spesso definito un pubblicitario. Pubblicitario fallito o artista riuscito, a seconda di chi lo definisce (risate). Dunque l’artista bohémien che si chiude nella sua stanza e “soffre” fino al momento della creazione non è mai esistito? No, non c’è mai stato. L’artista bohémien chiuso nella soffitta era tale perché c’erano i vari Murger e Zola che scrivevano di lui. In America ci sono addirittura corsi in cui insegnano come raccontare la tua opera durante una “studio visit”, come preparare le diapositive o scrivere una lettera di presentazione da inviare alle gallerie. Quindi no, non credo nel mito dell’artista nascosto. O meglio, il mito è tale perché l’artista, stando nascosto, in realtà si nota di più, come diceva Moretti: «Mi si vede di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente?» Cattelan, ad esempio, nonostante ce lo si immagini come un personaggio molto glamour e social, era solito stare in casa, nel suo monolocale. Come diceva anche Warhol, c’è spesso un’equivalenza tra la costruzione della personalità pubblica e il modo in cui quel dato artista è più o meno se stesso. È anche questa la grandezza di tanti artisti di cui non capisci se il prodotto è il veicolo di una finzione che si chiama, poniamo, Andy Warhol, o Andy Warhol è il personaggio che serve per poter leggere quel prodotto. Della costruzione a tavolino della personalità dell’artista come comunicatore, come immagine e logo, non a caso se ne sta scrivendo molto. La parrucca di Warhol, la maglietta a righe di Picasso, non sono altro che dei brand che sostengono un prodotto alla fine. Federico Sarica: vedi pagina 10. Marco Cendron, art director, lavora principalmente nell’editoria periodica. Attualmente collabora con Rolling Stone e Link Idee per la televisione. Nel 2007 ha fondato lo studio POMO. Marco Pietracupa, fotografo, lavora per testate come D la Repubblica delle Donne, L’Uomo Vogue e L’Officiel Paris. My Private Place è la sua ultima mostra.
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Uno speciale scriteriato su quella gran voglia di secolo scorso che avvertiamo nell’aria. Nel bene e nel male.
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TENDENZA NOVECENTO
Nostalgia canaglia 25 luglio 2010, New York
1 ottobre 2010, New York
Migliaia di cittadini americani si radunano sotto un gigantesco maxischermo a Times Square per vedere tutti insieme in anteprima la prima puntata della quarta stagione di Mad Men, la serie televisiva americana sui pubblicitari degli anni ’50 / ’60 che ha segnato il prepotente ritorno dell’estetica di quel dato periodo storico, in tv, sulle passerelle, sui giornali e nei negozi. Precede la proiezione un contest in costume ispirato ai personaggi della serie. Numerosi articoli di giornale riflettono sulla febbre Mad Men, e arrivano sostanzialmente a queste conclusioni: di Mad Men piace la narrazione di un lifestyle libertario e politicamente scorretto che contemplava il bere, il fumare, lo sbagliare, il tradirsi (a patto di non dirselo). Bastava fare tutto vestiti benissimo.
Con un articolo dal titolo “Taking pornography Low Tech”, il New York Times celebra il successo di Jacques Magazine, la rivista americana che ha riportato in auge un certo immaginario vintage dell’erotismo, quello ancora legato ai vestiti, alle ambientazioni, al mood. “Non c’è bisogno di mostrare le gambe spalancate per essere provocanti”, ha dichiarato uno dei fondatori della rivista, Jonathan Leder. Welcome back, caro vecchio buco della serratura . 8 settembre 2010, Torino Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, non fa in tempo a prendere la parola dal palco della Festa del PD, che viene contestato e aggredito da un gruppetto di ragazzi della sinistra antagonista che arrivano a colpirlo con un fumogeno e a incendiargli il
A ognuno il suo revival
Italia e Stati Uniti, ovvero due modi diversi di far tornare gli anni ’70 in edicola. Da Alfabeta 2 a Jacques, passando per Il Male di Vincino e Vauro. di
Cesare alemanni
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giubbotto. La presunta colpa del sindacalista è riassunta in uno striscione: “Marchionne comanda, Bonanni ubbidisce”. Insomma, colpevole di inciucio e trattativa con quello stesso Ceo della Fiat al quale, appena 40 giorni dopo, gli operai dell’Indiana Transmission Plant II di Kokomo – stabilimento Chrysler – dedicheranno una standing ovation quando verrà pubblicamente ringraziato dal Presidente Obama per quello che sta facendo per l’industria dell’auto a stelle e strisce. Lì applausi, qui fumogeni. Tutto molto anni ’70, no? 17 ottobre 2010, Milano “È necessario conservare il congiuntivo, il punto e virgola, la costituzione, lo studio della storia. Essere conservatori oggi può essere rivoluzionario. Per difendersi dai barbari che hanno già conquistato la società. Solo conservando si potrà marciare verso il futuro”. L’ha detto Umberto Eco, chiudendo una due giorni di “Osservatorio sulla cultura del Paese”. Tornare indietro è l’unico modo per andare avanti, sembra volerci dire il sommo maestro. Nostalgia canaglia. Su questi temi seguono delle paginette di Studio, con le quali abbiamo provato a catturare – in modo del tutto scriteriato – alcune istantanee di questa gran voglia di secolo scorso che c’è in giro. Fra pubblicitari in giacca che fumano e giacche in fumo dei sindacalisti.
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agina uno del numero uno di Alfabeta; due. “Intellettuali senza”. Un grande titolo in rosso mattone, e sotto – quasi a tutta pagina – un’opera di Kounellis. Delle sedie disposte in circolo intorno a una macchia di vernice scura. Intellettuali senza macchia o intellettuali senza sedie, e quindi posti, e quindi spazi? Peut-être entrambe le cose o nessuna. Ai posteri l’ardua… Con questa combo copy-art direction si è ripresentata – nel luglio scorso – Alfabeta, dopo 22 anni di lontananza dai lettori. Si è ripresentata come “rivista d’intervento culturale”, ovvero – lo si legge nell’editoriale
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che apre il secondo numero: “Una via stretta che sia terza, tra l’informazione culturale e l’intervento politico”. Qualunque cosa significhi oggi percorrere il sentiero delle “vie terze”. La sola certezza è che Alfabeta è tornata. E così anche i Balestrini, e i Colombo, e i Negri; in una sorta di Dream Team della intellighenzia mancina nostrana, con Umberto Eco nel ruolo di pivot fin dal numero uno. Fin dal suo “Alfabeto per intellettuali disorganici”: archeologia quasiironica della figura del sapiente, da Aristotele a questi tempi difficili. Tempi da lumpen, secondo i Saggi di Alfabeta2. Tempi in cui il knowledge worker (cui è dedicato il secondo numero) è precario e abbandonato al confino della vita (in)civile. Ed eppure, a leggere Alfabeta2, non si direbbe. Tra le firme, firme di giovani (precari o meno) se ne leggono poche. Abbondano, semmai, saggisti e critici consolidati, ex direttori di testata e attuali direttori di dipartimento. Di approcci freschi a problemi nuovi, di temperamenti post-ideologici etc… se ne trovano a fatica. Al di là delle intenzioni dichiarate e dei proclami si avverte, anzi, la nostalgia per un’idea di critica culturale da Prima Repubblica, da Guerra Fredda (sarà un caso ma Alfabeta cadde giusto un anno prima del Muro di Berlino): una tipologia alla quale ancora molti italiani – più o meno giovani, ma ugualmente ortodossi – restano affezionati. Eufemismo. L’intellettuale alfabetiano sarà pure disorganico ma di certo non è disorganizzato e sa dunque molto bene di poter attingere a un bacino di potenziali “acquirenti della mercanzia” (e non si allude qui bassamente al lato economico dell’operazione, ma precisamente a quello culturale). E questo si coglie, confermato anche dal buon andamento dei primi due numeri e dalla grande attenzione dedicata da media di diverse estrazioni politico/culturali a questo ritorno. Quel che – tra la citazione di un poststrutturalista e l’altra – nell’ “odierno” Alfabeta si coglie meno è la novità nell’approccio all’ “odierno”. Un qual quid che segni il confine tra una nuova generazione di pensiero critico (e magari – non sia mai – anche un po’ autocritico) e la pura e semplice pre-
dica a convertiti di lungo corso. Sono tempi bui ma – leggendo Alfabeta2 – pare che nel panorama dei Saggi non abbiano mai smesso di occhieggiare le “rovine di Roma, avvolte in stole di luce che si scorgevano dalla terrazza di Moravia”, per dirla con la straordinaria lingua di Roberto Bolaño sul finire di 2666. Di altro genere un ritorno editoriale annunciato la scorsa estate, e finora rimasto solo in predicato – quello de Il Male, la rivista che, tra vignettisti illustri (Vauro, Vincino etc…) e copertine leggendarie (per esempio quella che nel 1978 annunciava l’arresto di Ugo Tognazzi quale capo delle B.R.) ha fatto la storia della satira italiana. “A volte ritornano” ed è proprio il caso di dirlo, considerato il make-up da zombie sfoggiato da Vincino e Vauro nel video che preannuncia la nuova uscita (lo trovate sul sito ilmalegain.it insieme a una serie di animazioni a dir poco volutamente grossier). Per ora però non si è vista una sola pagina di cartaceo della rivista (che, secondo alcune indiscrezioni, dovrebbe chiamarsi Il Male di Vincino e Vauro) ma già da quando si sono sparse le prime voci di comeback, la domanda-tormentone che ha iniziato a circolare è stata la seguente: “Come si può fare ancora satira in un paese che è già una satira vivente?” Posto che non ci risulta che Vincino, Vauro e compagni abbiano mai smesso di pubblicare regolarmente su svariati quotidiani; la domanda pare malposta e potrebbe essere riformulata così: “Siamo sicuri che la satira de Il Male sia ancora in grado di graffiare e di andare in profondità, grattando via la prima patina di ridicolo che incontra – ovvero quella dell’Italia bunga-bunga e/o Lele Mora?” Lo chiediamo perché le persone di spirito, per riderne – di queste cose – tendenzialmente non hanno bisogno di una strip. In ogni caso pare proprio che ci sarà molto 1970 sugli scaffali delle edicole italiane nei prossimi mesi. Lo stesso si può dire per le newsstand americane, ma in senso completamente diverso. Niente ritorni di pubblicazioni leggendarie come Ramparts o National Lampoon, purtroppo. Solo e semplicemente Jac-
ques. Che non sta qui per Derrida come accadrebbe su Alfabeta2, bensì per il magazine con base a Williamsburg NYC e che è sicuramente il miglior antidoto su piazza per la cultura e l’estetica delle escort. Partito a maggio 2009 con una tiratura iniziale intorno a 1.000 esemplari, già alla sua seconda uscita il trimestrale è salito a 14.000 copie. A conferma che l’assunto di fondo – recuperare l’immaginario anni ’60 / ’70 all’interno della fotografia softcore (quello che in Italia chiamiamo erotismo patinato) – è vincente. Al posto di immagini di tettone rifatte e postprodotte in Photoshop, ecco moderne Jean Seberg e Brigitte Bardot scattate in analogico; è questo il credo di Jonathan Leder, il fotografo trentasettenne che ha fondato la rivista. In realtà l’idea di ritornare a quest’estetica è stata al centro di una costante crescita e rifioritura nel corso degli ultimi dieci anni – basta fare un giro tra svariati Tumblr in rete per rendersene conto, e dunque la vera sfida di Jacques, come ammette candidamente lo stesso Leder, è quella di proporsi con un ricco prodotto cartaceo (con tanto di numeri tematici) in un momento in cui i giganti dell’editoria softcore mondiale – Playboy in primis – stanno strutturando i loro business plan intorno a contenuti speciali da vendere online o sui vari device. Chiamatelo nostalgico, ma pare che la cosa stia funzionando piuttosto bene. Dato che, in un modo o nell’altro, è dall’inizio del pezzo che siamo in tema di nostalgici e nostalgie non si poteva non concludere citando i più seri pro players in materia, since 1975: ovvero i ragazzi che ogni tre mesi mettono insieme Nostalgia Digest, un piccolo ma adorabile magazine americano che si occupa di tutto ciò che è stata la Golden Age (entro e non oltre gli anni ’50) dei media e della cultura pop Usa: radio e televisione ma anche musica, cultura, pubblicità e giornalismo. Con un solo semplice motto: “Written by those who lived it and those who love it!”. Scritto da chi ha vissuto e da chi ama quegli anni del Novecento. E se i primi, purtroppo, iniziano a scarseggiare sempre più, i secondi sono in costante aumento. Studio 53
TENDENZA NOVECENTO
Museo del Novecento Le impalcature in Piazza del Duomo a Milano le hanno tolte nei primi giorni di dicembre, poco prima che inaugurasse al Palazzo dell’Arengario – opera anni ’30 di un poker di archistar del Ventennio – il nuovo museo meneghino dedicato alle arti del secolo scorso. «Non c’è una regola, tutti i musei sono diversi uno dall’altro», ha dichiarato Italo Rota a cui è stato affidato il progetto. «Nel nostro caso ovviamente c’era una grande centralità, che era la nascita del futurismo, con un antecedente spettacolare come Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo (in questa e a pagina 51 dei dettagli)».
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Vecchi libri, giovani editori
Guido Davico Bonino ci racconta perché ha deciso di curare una collana di gemme letterarie del secolo scorso per una casa editrice à la page come ISBN. di
Andrea Portaluppi
“Oggi il libro è solo uno degli oggetti di consumo che si spartiscono i nostri desideri. Le categorie di cultura alta e cultura bassa non sono più in grado di descriverlo. Oggi il libro compete non solo contro altri libri, ma soprattutto contro i quiz, i telefonini, le scarpe da ginnastica e ogni altra merce desiderabile.” Dal Manifesto della Casa Editrice ISBN
L’
inizio dell’intervista a un gigante dell’intellighenzia culturale italiana come Guido Davico Bonino, illustre e navigato critico letterario e teatrale, diverse altre attività accademiche svolte, arcigno torinese come Soldati, Gozzano e Levi, ricorda un’impervia scalata sul Tourmalet in una giornata fredda e piovosa. Il tentativo di portare il Nostro verso un’analisi critica e “alta” della storia dell’intellettualità italiana risulta, almeno in apertura, pressoché impossibile: «Non mi faccia fare l’intellettuale in questa sede, parliamo della collana che dirigo». Un knock-out al suono della campanella del primo round per chi vorrebbe condurre le danze del dialogo. GDB, direttore della collana di libri “Novecento italiano” dell’editore milanese ISBN, nel 2008 pubblica per Einaudi l’antologia “Novecento italiano”, una sorta di portfolio della letteratura italiana, più precisamente uno schedario a guisa di vademecum composto da circa 600 schede ragio-
nate, utili a comporre una prima biblioteca di base per un lettore che desideri approcciare gli scrittori irrinunciabili del Belpaese. Il volume ha preso in rassegna gli autori italiani del secolo scorso, partendo criticamente dagli anni ’90 dell’Ottocento sino ad arrivare agli anni ’90 del Novecento. Chiamato dalla casa editrice milanese, rapito dalla munifica operazione di schedatura operata dal critico piemontese per dirigere il segmento italiano della casa, GDB ha proposto alla ISBN un proprio metodo di selezione delle opere per la collana, che pare funzioni senza troppi mal di pancia: si mette alla ricerca di lavori italiani del secolo scorso che ritiene ingiustamente passati all’oblio, sceglie un romanzo o una raccolta di racconti, e lo sottopone al vaglio dell’editore passati i primi personali rilievi critici. A questo livello dell’iter, che porterà poi alle stampe, il processo diviene implacabile: se vi è una coincidenza tra i direttori, quello della collana e quello della casa editrice, l’opera si avvia alla pubblicazione senza molti caveat; in caso contrario, si discute in merito all’opportunità dell’opera scelta e la macchina editoriale riparte. Anche la filosofia editoriale che sottende alla collana suona come una perentoria dichiarazione di intenti: la narrativa italiana di oggi, in particolare quella degli autori anagraficamente meno agés, è certamente rispettabile, ma non è di tale rilievo da
poter pretendere di confinare il lettore al panorama vigente offerto. Accade quindi che GDB proponga a ISBN due periodi di particolare fioritura creativa e avanguardista per l’Italia letteraria del Novecento: i due dopoguerra, gli anni della doppia ricostruzione post-bellica, quelle decadi ’20-’40 e ’60-’70 così dense di dibattito intellettuale, fervore sperimentale e produzioni culturali. Il critico torinese si muove ricercando autori finiti nel dimenticatoio editoriale per le più disparate ragioni. Un giovane lettore di oggi non farà fatica a trovare in libreria una copia di Ragazzi di Vita di Pasolini o de Gli Indifferenti di Moravia, i rispettivi editori non mancheranno di ristampare i due capolavori ancora molto letti; la ricerca diviene più ardua e perigliosa per chi si avventura in autori quali Del Buono, Rosso, Bontempelli, Masino e Baccelli, oggi tutti ripresi e in catalogo per i tipi di ISBN. GDB sale di un tono di voce e con il preciso, fenogliano e mai ridondante eloquio con cui ha svolto tutta l’intervista, racconta come ha scelto di ripescare – il termine “ittico” qui è d’uopo – Lo Sa il Tonno di Bacchelli, una sarcastica e grottesca parodia metafisica di stampo orwelliano, che ha come sottotitolo Favola Mondana e Filosofica. Bacchelli è stato giornalista de La Voce diretta da Pratolini e in questo romanzo di formazione ci regala un divertissement, quasi un conte philosophique come il Candido di Voltaire, che è in realtà una “favola piscatoria” con venature ucroniche. Il critico resta parimenti coinvolto e d’animo acceso nel descriverci l’operazione Bontempelli, che con i due romanzi civili La Vita Intensa e La Vita Operosa ha tratteggiato un’indimenticabile e laboriosa Milano proto-boom industriale, con il cipiglio della incisiva satira sociale permeata da acri inserti critici. GDB ci invita ancora a porre l’attenzione su quanto è accaduto agli autori italiani che hanno narrato il nostro Mezzogiorno. È la volta di Rea, concittadino dei vari Compagnone, Prisco e La Capria, che, a differenza dei colleghi partenopei, è Studio 55
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stato quasi dimenticato nonostante la “straordinaria amarezza e incisività” con cui ha narrato la Napoli della modernizzazione degli anni ’50. A questo punto dell’intervista GDB gioca la sua wild card e mi racconta di uno straordinario repêchage, un unicum che lo inorgoglisce. Il libro è Zebio Còtal di Cavani, autore modenese che ha scritto solo questo romanzo – un’epopea contadina nelle campagne emiliane – scoperto da Pasolini a cui Cavani sottopose il primo manoscritto. Pasolini nella prefazione alla prima edizione dell’opera scrisse: «È un vecchio debito che ho con Guido Cavani. Ho letto i suoi primi versi, pubblicati in un’edizioncina privata, presso un tipografo, il Ferraguti di Modena, nel ’53 o ’54. Gli ho scritto, abbiamo avuto una breve corrispondenza: la sua calligrafia era quella di un vecchio-bambino, malata e diligente. Ha continuato a ricevere, con puntualità, quasi ogni anno, quei libricini anacronistici stampati dal Ferraguti: di uno di questi ho anche
parlato, sulla rivista Paragone, ma forse non col dovuto entusiasmo. È che il vero lavoro che dovrei fare per sdebitarmi con questo poeta che mi si fa così misteriosamente amare, sarebbe quello di preparare un’antologietta: neanche tanto smilza, poi. Perché è difficile che una poesia di Cavani non sia buona, non abbia qualcosa di necessario, sempre, anche nelle sue incertezze o nelle sue approssimazioni». L’orizzonte della vita activa di Zebio Còtal è limitato e al contempo universale. Come lo stesso GDB ricorda nella prefazione per la nuova edizione ISBN della collana “Novecento italiano”: «Il territorio in cui il romanzo è ambientato gioca un ruolo fondamentale nella narrazione». Solo sul finire della conversazione riusciamo a ricondurre il critico torinese verso quello che doveva essere il canovaccio originario dell’intervista – il perché di un ponte editoriale fra le pieghe del Novecento italiano e l’oggi – e, con un’inaspettata chiusura tout se tient, lui che è parte del san-
“Thank you, Sergio”
Mentre Obama ringraziava Marchionne, in Italia si riapriva lo scontro tra Fiat e sindacati. Giampaolo Pansa dice la sua su attriti e ritardi del nostro Paese. di
Francesco borgonovo
N
ovembre 1954. Il diciannovenne Giampaolo Pansa assiste per la prima volta a una lezione universitaria, alla facoltà di Scienze politiche di Torino. Il docente è Luigi Firpo, uno degli storici della politica più importanti del nostro Paese, una sorta di mostro sacro, alto quasi due metri e con il naso a becco a conferirgli un’austerità tutta piemontese. Lui e Pansa si rincontreranno molti anni dopo, quando Firpo diventerà deputato del Partito repubblicano di La
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Malfa. Ma quel giorno di novembre il giovane Giampaolo è preparato ad assistere a una lezione sugli scritti giovanili di Karl Marx. Solo che Firpo, da monumento accademico vivente qual è, comincia a discettare dell’educazione sessuale presso gli Aztechi. «Utilizzava un linguaggio di una crudezza incredibile, tanto che le ragazze della buona borghesia di Torino, tutte sedute in prima fila, impallidivano. Per esempio raccontava che i giovani aztechi, come pri-
cta sanctorum della critica italiana, torna sullo stato di salute della giovane letteratura nostrana. Si interrompe, il tono diviene prima ironico e poi molto serio e ci chiede dove risieda a parer nostro il genio letterario: se ne La Solitudine dei Numeri Primi di Paolo Giordano o ne Il Sentiero dei Nidi di Ragno di Italo Calvino, pubblicato nel 1947 quando l’autore nato a Cuba aveva soli 24 anni. Chiudiamo la conversazione chiedendo a GDB se quest’ultima dichiarazione preferisce venga confinata al nostro taccuino; ancora una volta la replica è tranchant: «No, sono torinese e sugli autori della mia città mi voglio pronunciare accoratamente, non ho paura delle mie opinioni che sono pronto ad argomentare diffusamente e qualche sasso dalla scarpa me lo voglio levare pure io». Andrea Portaluppi Fra le altre cose, coordina il portale Giornalismoestoria.it e collabora con la cattedra di Storia della comunicazione di massa della Facoltà di Scienze Politiche della Statale di Milano.
ma esperienza, venivano fatti scopare con donne mestruate così che non ci fosse pericolo che rimanessero incinte». In classe, i ragazzi sono allibiti. Allora Pansa alza la mano: «Scusi professore, mi chiamo Giampaolo Pansa, avrei una domanda». E Firpo, serio: «Intanto, quando parla con me, deve dire sissignore, nossignore». «Avrei una domanda, signore». «Lei vuole chiedermi perché io alla lezione su Karl Marx sto parlando dell’educazione sessuale azteca». «Sissignore». «Bene, Pansa. Ho fatto così perché qui comando io e faccio quello che mi pare». In questo aneddoto, che Giampaolo Pansa mi racconta dalla sua casa in Toscana, è racchiusa, ai suoi occhi, la differenza fra le generazioni giovani del Novecento e quelle di oggi, uno dei motivi profondi per cui il nostro Paese è meno competitivo di altri e per cui ancora adesso resistono in Italia divisioni laceranti e odii profondi, pronti a manifestarsi soprattutto quando si parla di lavoro. Tensioni che esplodono nei giorni in cui registriamo l’intervista. Sergio Marchionne, il Ceo della Fiat, ha dichiarato – nello studio di Fabio Fazio a
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Che tempo che fa su Raitre – che la casa automobilistica torinese, in Italia, non ha fatto un euro di utile. E ha suggerito l’idea che forse degli operai italiani, vista la situazione, non si sente così grande necessità. Non è la prima volta che Marchionne se ne esce con dichiarazioni simili, attirandosi l’astio del sindacato – Cgil in particolare – e di parte della politica. Quello del Ceo di Fiat è un destino complesso e crudele. Deve portare idee innovative e realiste in un Paese ancorato ad antichi stereotipi del sindacalese, espressioni di una retorica che riecheggia incredibilmente nelle parole di tanti ragazzi, avvinghiati a un sistema vecchio e morente, eppure incapaci di guardare oltre. C’è un’altra scena che, assieme a quella raccontata da Pansa, può rendere l’idea dello schianto generazionale in corso, della lotta dei giovani contro una classe dirigente in nome di valori ancora più trapassati di quelli che gli stessi dirigenti esprimono. è l’immagine di una bella ragazza di 24 anni di nome Rubina Affronte. Di buona famiglia, figlia del pm Sergio, si è presentata alla festa del Partito democratico (il principale partito di sinistra in Italia) a Torino e ha lanciato un fumogeno contro il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. Non gli ha fatto del male, ma poteva fargliene. Voleva difendere i diritti dei lavoratori, ha detto, assieme ad altri ragazzi di un centro sociale. Qui Pansa mi interrompe. «Una delle cose del Novecento che abbiamo perso è l’abitudine a chiamare le cose col proprio nome. Oggi abbiamo dei signori di 34 anni che magari vivono ancora a casa con la mamma tanto che un ministro li chiama bamboccioni. E poi questa ventiquattrenne, che chiamiamo ragazza. Secondo me è una donna. Io ricordo che molti miei amici a 24 anni lavoravano già, erano uomini. E questa non è una ragazza, ma una donna. Io mi stupisco che non sia ancora in carcere, perché stiamo parlando delle frazioni esterne e patologiche della nostra società. Quello che dimostra questa ragazza è che ciò che oggi resiste del Novecento è l’odio, l’odio politico». E qui c’è la grande verità, con cui bisogna fare i conti. «Non è vero che il Novecento è finito. è ancora qui tra noi, ce lo
abbiamo tra i coglioni. La militanza è sempre più dura, l’odio rimane, non sappiamo liberarci di queste tossine anzi le abbiamo rese più cattive. E guarda che io per natura sono un ottimista, però in queste circostanze faccio molta fatica a vedere il bicchiere mezzo pieno». Pansa la storia del sindacato la conosce bene. Vive da oltre vent’anni con un’ex dirigente sindacale, la scrittrice Adele Grisendi, i cui commenti a voce alta irrompono nella nostra conversazione dalla stanza accanto. Lei, sindacalista emiliana dei tempi d’oro, ci grida che sta con Marchionne e contro la Fiom. Giampaolo la rimprovera con affetto: «Guarda che l’intervista è a me, non a te». E poi sussurra: «Discutiamo di continuo, ma non ci sono diversità di vedute». Secondo Pansa, che l’ha scritto più volte su Libero e il Riformista, «Marchionne rischia la pelle. E infatti sono già comparse a Milano scritte contro di lui con la stella a cinque punte. Rischia perché dice delle cose vere che nessuno vuole sentire. Abbiamo perso in competitività ed efficienza, e intanto vediamo questo Gianfranco Fini seduto sul divano, tutto chiacchiere e cravatta, dire che Marchionne parla da canadese e non da italiano. Tra le specialità della politica italiana c’è quella di creare mostri. Prima hanno creato il supermostro Silvio Berlusconi, responsabile di tutti i mali da Adamo ed Eva a oggi. Ora creano il mostro Marchionne. Il fatto è che la politica – incapace – deve creare dei capri espiatori. Mi stupisce che non lo abbiano ancora accusato di vilipendio alla bandiera italiana. Questo è un Paese che nella sua parte più fanatica immagina già un nuovo piazzale Loreto. Pensiamo che quello scempio accaduto allora non possa ripetersi, ma non è vero». E il sindacato, che responsabilità ha rispetto a questo clima italiano? Rispetto all’inasprimento dello scontro? «Pensiamo alla Cgil, che utilizza parole dure nei confronti di Marchionne. Se penso alla Cgil, mi viene in mente la prima volta che ho intervistato Luciano Lama. Era il 1970, ero tornato alla Stampa dal Giorno, perché il direttore Alberto Ronchey mi voleva. Per dimostrare ai vertici di
Fiat che lui poteva fare quel che voleva, chiamò il giovane Pansa, il quale era conosciuto come un rullo compressore. Mi incaricò di intervistare sei dirigenti sindacali. Ovvero i capi delle tre confederazioni e i tre responsabili dei metalmeccanici. Tra questi c’era Luciano Lama, il pupillo di Giuseppe Di Vittorio, lo storico leader sindacale, che lo vide così bello e aitante e lo volle a lavorare con sé. Quando parlai con Lui, mi disse una cosa che non ho più dimenticato. Le parole erano queste: “La cosa più importante che ho imparato da Di Vittorio è che chi tratta vince, chi si scontra perde”». Proiettandola sulla Cgil di oggi, c’è di che riflettere. «Se guardo alla Cgil di oggi devo dire che Epifani sembra aver dimenticato questa lezione. Non so come sia Susanna Camusso, non la conosco. Però Epifani se n’è andato lasciandosi alle spalle un sindacato isolato, che ha perso un sacco di treni e che si trova davanti un avversario forte come Sergio Marchionne, senza contare tutti i marchionnisti. Perché la vera domanda è questa: quanti sono gli imprenditori italiani che guardando a cosa ha fatto lui si sono detti: forse ha ragione? Io non dico che il sindacato abbia perso una guerra, ma ha dimenticato questa verità di fondo, la prima cosa che il vecchio Lama predicava». Nel 1980, la tensione estrema nella Fabbrica Italiana Automobili Torino sfociò nella cosiddetta Marcia dei quarantamila, una risposta alle lotte sindacali, ai picchetti selvaggi. Forse il sindacato – e Sergio Marchionne con esso – avrebbe bisogno di un evento del genere. «Oggi forse la nuova marcia la faranno i giovani senza lavoro. Rispetto ai quali mi domando: ma sono senza impiego perché non hanno offerte oppure perché non vogliono ciò che viene loro proposto? Questa è una generazione di sconfitti, che vive ancora con la testa nell’altro secolo, con la convinzione che prendere una laurea generalista a ventotto anni basti per trovare un posto fisso. Ma sono matti?» Francesco Borgonovo è responsabile delle pagine culturali del quotidiano Libero ed è uno degli autori del talk show politico L’ultima parola su Rai Due.
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Vestivamo alla collegiale
Calzini bianchi e mocassini, cardigan e colletti button down. Direttamente dai primi anni Sessanta, si rivedono in libreria (e per strada) gli studenti della Ivy League.
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Princeton, Harvard, Yale… Le prestigiose università americane della Ivy League e i loro studenti dall’impeccabile eleganza fatta di camicie button down firmate Brooks Brothers e scarpe da barca Sperry Top Sider: un modo di vivere e vestire che dall’America del secolo scorso ha viaggiato nel tempo e nello spazio. Take Ivy, infatti, è stato pubblicato per la prima volta nel 1965 in Giappone, diventando presto un libro di culto in tutto il mondo. Teruyoshi Hayashida era volato negli Stati Uniti per fotografare gli universitari dei campus, poi immortalati in biblioteche, mense, campi da baseball, sulle rive dei fiumi e in tutti i luoghi accademici dove era nato appunto l’Ivy Style, tanto amato proprio dai giovani di Tokyo.
Il volume di Hayashida, nel frattempo diventato merce rara per collezionisti (con puntate oltre i mille dollari per una copia originale), è stato finalmente ristampato in inglese, a dimostrazione del fatto che, a quasi cinquant’anni di distanza, il look di quei bravi ragazzi continua a fare scuola. Così, se nel 1980 Lisa Birnbach aveva fatto di The Official Preppy Handbook un best-seller, nel 2010 la stessa autrice e il book designer Chip Kidd hanno curato True Prep che, insieme a The Ivy Look di Graham Marsh e J.P. Gaul, offre un’ulteriore prova dell’immortalità dello stile Ivy. Le foto sono tratte da Take Ivy, il libroculto di Teruyoshi Hayashida, recentemente ristampato da PowerHouse Books.
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uomini o caporali
UOMINI SULL’ORLO DI UNA CRISI DI CARTA
Al di là dello stato in cui versano i media, c’è qualcosa di più profondo che non va nelle riviste maschili. Che infatti ai maschi piacciono sempre meno. Che fare? Ricominciare da capo. L’esempio inglese di Manzine. testo di
KEVIN BRADDOCK
A
vete mai avuto la netta sensazione di sentirvi presi sottilmente a manate in faccia dalle riviste maschili o perlomeno da quegli uffici marketing che hanno il compito di targetizzare i maschi moderni? Dando un’occhiata all’edicola media inglese, dai raffinatissimi mensili quali sono Monocle ed Esquire, fin giù alle più trash e popolari formule “tette e culi” di testate come Nuts e Zoo, potreste avvertire questa sensazione. Io, personalmente, ce l’ho e ce l’ho sempre più netta. Da un lato, mi trovo esattamente in quella fetta demografica che i periodici maschili si prefiggono di colpire: sulla trentina abbondante, indipendente, disponibilità economica medio-alta, metropolitano. Dall’altro lato, no. Di mestiere infatti scrivo per le riviste praticamente da sempre, e ho passato la maggior parte del mio tempo a prestare servizio proprio per quel tipo di periodici che adesso mi fissano sconsolati dagli scaffali delle edicole (mi dichiaro: sono contributing editor di GQ Uk). Ad ogni modo, ogni volta 60 Studio
che metto piede in edicola con 20 sterline da spendere in letture per il cesso, per un volo o per la vasca da bagno, me ne vado inevitabilmente a mani vuote, e con un certo senso di disappunto misto alla fastidiosa sensazione che o io sono cambiato profondamente, oppure questi giornali non vanno più bene per me e per gli uomini come me. In realtà spesso provo qualcosa di più urtante e violento. Basta dare un occhio a testate come FHM, Loaded, Nuts o Zoo, per sentirsi in qualche modo insultati dal presupposto da cui questi giornali partono. Cioè, siccome sono un uomo è scontato che i miei interessi siano circoscritti nella seguenti categorie: donne, motori, sport, gadget. Oppure, sfogliando le pagine di Esquire, di Monocle o di Another Man, si avverte l’analoga presunzione che se lo sto facendo è perché mi piace molto vantarmi del mio essere o una via di mezzo fra James Bond e un power-ranger degli hedge fund con base a Manhattan, o un narcisista fashion ossessionato da Dior Homme. Vi sembrerà strano, ma nessuno di questi archetipi
rappresenta né idealmente né realmente quello che sono oggi. E dubito fortemente di essere il solo a sentirmi così. È quasi prosaico sottolineare la crisi dei periodici maschili quando è ormai cosa nota che tutta l’industria della carta stampata stia attraversando momenti drammatici a causa del sopravvento della rete e della frammentazione dei lettori. Ma nulla mi toglie dalla mente che ci sia qualcosa di più profondamente sbagliato nella direzione che sta prendendo il mercato delle riviste da uomo. Qualcosa che non va alla radice, al di là dei problemi congiunturali. L’Inghilterra, oggi, vive di rendita grazie a testate che hanno fatto grande l’editoria maschile, rappresentando a loro tempo indiscubitili innovazioni. Arena, chiusa dai primi mesi del 2009, è stata la rivista maschile seminale per anni, capace di scavarsi la propria nicchia e di provare che esisteva una larga fetta di uomini a cui interessava leggere giornalismo di qualità. Nei primi anni ’90, Loaded ebbe successo combinando una cer-
uomini o caporali
ta celebrazione “carpe-diem” della vita con una lettura sfacciatamente cameratesca e maschile dell’essere giovane e uomo. E sebbene tendessero a soddisfare gli stessi appetiti da posizioni radicalmente opposte, l’ossessione per il proprio corpo perpetrata da testate come Men’s Health o Men’s Fitness e l’amore per la moda di trimestrali come GQ Style e Arena Homme+, hanno contribuito ad aumentare la consapevolezza maschile in fatto di immagine, apparenza e consumi. È quindi un peccato che la maggior parte di questi titoli siano diventati dei clichè di loro stessi: meno divertenti, più prevedibili, poveri di contenuti e totalmente imprigionati in determinati standard e categorie di marketing; molto più di quanto non lo fossero inizialmente. E c’è da scommettere che le vittime illustri non siano finite qui (Maxim, per esempio, è un altro che ha chiuso l’anno scorso e sono molto curioso di vedere quanto ancora sopravviverà Loaded). Comunque, il paradosso con cui ci ritroviamo, e che forse ci siamo cercati, è che la sensazione diffusa è quella che, per noi maschi di oggi, non ci sia rimasto nulla da leggere. Mi urta, e urta anche i miei amici, molti dei quali sono giornalisti, art director o comunque del settore. Tutti di una certa età, fra l’altro. Sarà che ora che siamo più vecchi e, se non più saggi, quantomeno più esigenti, queste testate hanno perso su di noi tutto il loro potere aspirazionale? O semplicemente non sono più così belle come una volta? Abbiamo passato giorni al chiaroscuro dei tristi pub londinesi a cercare di darci delle risposte e siamo giunti alla conclusione che, visto che fra scrivere, leggere e disegnare mettiamo insieme più di cento anni effettivi di esperienza sul campo, l’unica era inventarci la nostra di rivista. L’abbiamo chiamata Manzine – una fanzine per uomini, fatta da uomini, con argomenti per uomini – e il primo numero è uscito nel 2009. Manzine è consapevolmente lo-fi, popolare, idiosincratica e non patinata. È stampata su fogli A4 in bianco e nero, e tratta quel tipo di argomenti che non potreste mai
trovare su Maxim o su Monocle: articoli su come tenere il broncio, conversazioni dal barbiere, una dissertazione sull’abitudine di mio padre di vestire indumenti molto visibili e catarifrangenti. Partendo da questo assunto, evitiamo con cura quel tipo di cose di cui si legge sempre in giro: celebrities, musica, stile, affari, sport e gadget. Le cose per le quali spendiamo soldi insomma. Ci sono ragioni molto semplici dietro queste idee. Tanto per cominciare, gli appetiti aspirazionali sono già più che soddisfatti dal mercato e gli scaffali delle edicole traboccano di prodotti patinati e colorati; come lettori siamo bombardati da messaggi promozionali di ogni tipo. Secondo, a dispetto di quello che aziende, addetti alla pubblicità, uffici marketing e focus group si ostinano a sostenere, i maschi contemporanei – o quanto meno io e i miei amici – sono molto più complicati e pieni di contraddizioni di quanto mostrino gli archetipi vigenti. È possibile, per esempio, che possano piacere contemporaneamente le Ferrari e il birdwatching, o il calcio e la poesia. Per come la vedo io, questi schemi chiusi e fossilizzati, rivolti più agli investitori pubblicitari che ai lettori, sono la ragione principale per cui riviste come Arena e Loaded non funzionano più. Il primo si rivolgeva a una tipologia di pseudo-yuppie molto avida e molto anni ’80, mentre
il secondo mira a far breccia in quella mentalità da ragazzaccio dannato stile Jackass, che era giusta e centrale a metà anni ’90, quando gli Oasis erano ancora considerati una band. Parliamo quindi di due schemi molto datati oggi. Ma, soprattutto, volevamo dare vita a una pubblicazione che approcciasse il lettore da un punto di vista diverso. Il linguaggio di Manzine non è prescrittivo, non dà per scontato che chi legge abbia un set di aspirazioni prestabilite, e non si permette di bullare i lettori con liste infinite di cose che devono assolutamente possedere o fare prima di morire. Non vi è alcuna presenza editoriale invisibile che subdolamente impone stili di vita e diktat commerciali. Manzine offre invece una serie di conversazioni, aneddoti, riflessioni, opinioni ed esperienze; il tipo di cose di cui si parla la sera con gli amici al bar. Non ci aspettiamo affatto che diventi il prossimo successo in edicola – anzi, per ora è poco più che un esperimento editoriale – ma speriamo, comunque, che possa fornire qualcosa da leggere. Che poi era lo scopo originale delle riviste, se non sbaglio. Kevin Braddock, giornalista inglese, ha scritto per The Face eThe Financial Times. Oggi è contributing editor di GQ Uk ed è fra i fondatori di Manzine, prima fanzine maschile britannica.
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Chris Schulz, artista, fotografo e illustratore, è il fondatore e direttore del periodico americano Pinups.
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Toh, chi si rivede: la barba Ecco come le sottoculture omosessuali stanno influenzando il nuovo maschio metropolitano. testo di
ANGELO FLACCAVENTO illustrazione di Chris Schulz
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a qualche tempo impazzano certe pubblicità piene di doppi sensi, perché il sesso vende sempre. Reclamizzano le virtù dei rasoi elettrici per il corpo maschile: quelli, per intenderci, che il vello non lo estirpano ma lo regolano, dando alla natura, anarchica, un tocco di passeggera perfezione che mal cela la nostra animale finitudine. Se il mercato scommette su un nuovo bisogno, qualcosa vorrà dire. In effetti, l’immaginario collettivo sembra aver riscoperto peli, barbe e via discorrendo: era da più di trent’anni che non si vedevano tanti uomini irsuti sui giornali, sulle passerelle e per strada. In auge ancora negli anni ’70 del libertinaggio bohémien, della contestazione e dell’esplosione disco, il pelo venne definitivamente bandito negli ’80 del corpo scolpito, dell’edonismo reaganiano e dell’incubo AIDS. Troppo bruto, bestiale, sessuale: roba da papponi, narcotrafficanti o terroni arrapati con la canottiera macchiata di sugo. Frigidi e iperstilosi, gli anni ’80 imposero al contrario contegno e autocontrollo, anche in tema di ero-
tismo, pena la malattia e poi la morte. Si affermò allora l’immagine del superuomo liscio e bionico, così vanitoso da fare della bellezza una forma di culto laico ed egoista. Oggi forse quell’uomo, diventato nel frattempo gallo e poi tronista, sopravvive ancora in TV, ma le cose, fuori dalla scatola catodica, stanno cambiando. Se gli anni Zero sono stati segnati in maniera indelebile dalle scorribande ultra-vanesie del metrosexual, il narciso imbellettato più di una donna, gli anni Dieci, figli di una crisi delle idee e dei portafogli, si annunciano ben diversi. La fiction ha stancato, così come i modelli assurdi proposti dai media. Si torna alle radici. L’uomo, non più metro-vanesio, riscopre vecchi valori e vecchi modi d’apparire, sicché c’è già chi parla di retrosexual. Normale che in questo clima il pelo, tratto secondario e naturale di virilità, fosse sdoganato. Certo, il rischio è che, non più camuffamento prediletto di cavernicoli, mangiatori di bambini e bombaroli, barba & co. diventino solo accessori alla moda, ma lo slittamento è nondimeno significativo.
C’è dell’altro. La riscoperta del pelo e del machismo d’antan sembra arrivare al mondo etero, per uno di quei giochi di correnti convettive che da sempre caratterizzano la cultura pop, direttamente da quello gay. Esattamente come quindici anni fa era successo per il metrosexual, che dal mondo gay aveva mutuato la vanità estrema e l’egocentrismo, adesso la riscoperta del vello generoso deve molto all’inatteso successo dei bear. Ovvero, gli orsi: quegli omosessuali che non riconoscendosi nel paradigma dominante hanno erotizzato l’opposto, celebrando in particolare il pelo, i muscoli e la panza. Da che erano una minoranza, invero anche antifashion, i bear sono diventati da ultimo un fenomeno, e l’influenza è subito spillata nella nicchia modaiola, per poi diffondersi. Due i macro-segnali: nel giugno 2009 Walter Van Beirendonck, l’unico designer belga immune dal pessimismo cosmico degli anversesi, manda in passerella una intera collezione su modelli XXL; nella primavera del 2010 Fantastic Man dedica un intero servizio a uomini “of quite marvelous shape”. Studio 63
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Ora, che la panza venga definitivamente accettata ci par difficile: senza aspirazione alla perfezione, anche minima, non ci sarebbe insicurezza, e senza l’insicurezza moda e indotto franerebbero. Che il pelo passi, invece, è assai più plausibile, anche se a giudicare dai manzi depilati con le sopracciglia ad ali di gabbiano visti in giro ogni giorno e in ogni città sembrerebbe che la massa non sia ancora pronta al cambiamento. Piuttosto, il dilemma è un altro: cosa è che fa del mondo gay l’incubatore dell’estetica etero del futuro? Secondo il performer newyorkese Desi Santiago, che solo di recente è venuto a patti con il proprio bestiale irsutismo, «le sottoculture gay riflettono una ribellione continua al patriarcato rappresentato dal mainstream ete-
falsi moralismi, le apparenze contano, e pure parecchio. Non a caso gli orsi hanno elevato a forma suprema di stile la normalità etero più trita e banale, quella delle camicie a quadri e dei jeans, dei calzini di spugna e dei tagli di capelli da militare. Il fotografo Christopher Shulz, autore dei collage in queste pagine e inventore del periodico Pinups, è molto critico sull’argomento: «Sovente gli orsi sono poco interessati a ciò che va oltre la superficie dell’essere uomo. Ogni volta che un modello fisico diventa un vettore di socializzazione, ci sono persone che aderiscono smettendo di pensare di testa propria. Mescolare il tipo bear con la moda, come ha fatto Van Beirendonck, invece, è brillante: cancella l’etero-normalità che in parte definisce l’identità bear. Più la mo-
Gli orsi hanno elevato a forma suprema di stile la normalità etero più trita e banale. rosessuale. Attraverso questi scontri, cui segue l’accettazione e poi una nuova ribellione, l’immaginario collettivo prende coscienza della diversità, arricchendosi». Gli fanno eco Jeffrey Costello e Robert Tagliapietra, stilisti di successo e iconica coppia bear: «È l’idea della mascolinità che piace: la cultura bear offre agli uomini, etero o no, la fuga da certi oppressivi regimi di bellezza. Il fenomeno ha a nostro avviso più a che fare con una tendenza che con un cambiamento vero, ma è da registrare, in generale, una maggiore attenzione alla diversità fisica, riflesso dei tempi, della moda, dello stile e forse anche dell’economia». Il nocciolo della questione, da qualunque parte lo si guardi, è lo stesso: farsi accettare, arginare le insicurezze. Sono i mezzi che cambiano, non il fine. Se per i metrosexual la soluzione coincide con una ricerca spasmodica di perfezione fisica, per i retrosexual è invece il ritorno all’archetipo del maschio a fugare ogni angoscia di debolezza ed effeminatezza. Sempre che poi siano i peli o i caratteri fisici e vestimentari a definire un uomo. Il problema è complesso perché, senza 64 Studio
da si approprierà del look bear, più la cultura bear verrà costretta a trovare nuove vie d’espressione per non ridursi a costume. Gli orsi sono noiosi. È mescolare e rompere i modelli che è eccitante». Aggiunge Teddy Mark, creative director del trimestrale Bear: «La moda è uno specchio fantastico dello stato presente e futuro della società: oggi, è bello vedere così tante forme di espressione tutte insieme, peli inclusi». Perché, in effetti, il revival del pelo è solo la punta dell’iceberg. Anzi, è cominciata la deriva dei continenti, quanto a virilità. Ci sono gli emo sartoriali, orfani inconsolabili di Hedi Slimane e per questo etichettati sarcasticamente come Diorette: emaciati, senza un filo di carne, tesi ma carichi di testosterone, congelano la fisicità della giovinezza acerba facendone antidoto all’ansia del tempo che passa. Ci sono i manzi televisivi, versioni estreme, ignoranti e debordanti del metrosexual, ridotto a formula Bignami. Ci sono gli uomini normali, senza infamia né lode, frequentatori impiegatizi di palestre, per i quali il massimo dello stile e dell’eccentricità sono le Hogan e il Moncler. E ci sono,
infine, gli uomini mutanti, che prefigurano già il futuro della specie, quello della totale androginia. Asceti, non travestiti, combattono il logorio della vita moderna con un purismo intransigente che è credo estetico e morale: nessun pelo, nessuna ciccia, nessun tratto secondario, maschile o femminile che sia. Nulla: rinuncia totale, solo stile. Identificano il proprio mondo con quello di designer come Rick Ownens e Rad Hourani, indossano sovente i tacchi e rappresentano la nicchia della nicchia: forse, visivamente, la più eccitante. Non li ama nessuno, perché sfuggire alle definizioni – etero, gay o quel che è – spiazza sempre. Spiega a tal proposito Elia Quadri, giovanissimo poster boy milanese della mascolinità sbieca: «Il modello genderless è legato al sistema moda. A differenza dei bear non si può parlare di tribù: si tratta più che altro di individui che adottano un certo tipo di immagine e che, osservati nel complesso, rappresentano un fenomeno. Il retrosexual ha dei punti di ritrovo e feste dedicate; il genderless no. La massa etero non ne farà mai un modello: non presentare chiare connotazioni sessuali, infatti, è un tabù per l’uomo medio». Per concludere, quindi, dove va l’uomo? Ovunque. Lo scenario è così cangiante che cercare la mappa non serve, e non rassicura nemmeno. Viviamo forse una delle fasi di maggiore apertura e democrazia estetica della storia. La libertà è magari solo virtuale, ma non di meno scatena energie. Il corpo, e tutto ciò che intorno a esso gira, non è solido, a conti fatti: membrana permeabile, si modella sempre sotto i colpi inesorabili dello Zeitgeist, oscillando da un estremo all’altro. Perché il corpo, per citare Barbara Kruger, è un campo di battaglia. Lei, nel 1989, lo urlava a lettere bianche su campo rosso, femminista e incazzata, riferendosi alle donne. Oggi, non c’è più scampo per nessuno. Angelo Flaccavento, giornalista di moda, collabora con L’Uomo Vogue, Fantastic Man, Il Sole 24 Ore, Luxury24.it, D La Repubblica delle donne, Dapper Dan, GQ Style e GQ. é fashion features editor per il periodico indipendente The End.
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la barba, appunto.
Moda di
RossanA Passalacqua Con una frivola interpretazione delle diverse tipologie di barba a cura della
D.ssa Nivea Briggitte Calico, psichiatra e psicoterapeuta operante in New York fotografie di
ALEXANDRA CATIERE Tutti i capi del servizio sono della corrente collezione autunno/inverno di Dries Van Noten
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Emmanuel “Take note of what I say, for when I speak… my words will most assuredly ring true”
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Arnaud “Perfection seeking I am not; I seek balance and perhaps just a little simmetry”
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Johnathan “Come, stare into my eyes, if you can resist the temptation to look elsewhere… I purposely distract you with the density of my beard”
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Francesco “Beware, you may lose yourself within me. I am all encompassing”
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Ian “Do not take me lightly, there is substance to be found within this sparseness”
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Jonathan “Yes I am as serious as I seem… no detail goes unnoticed, no hair left astray”
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Scott “Facial hair? This is what you notice about me? My, how you have disappointed me”
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Alexandre “My natural state is my perfection”
Rossana Passalacqua, fashion editor, collabora con svariate riviste internazionali fra cui L’Officiel Paris, L’Uomo Vogue, Wallpaper e Encens. Alexandra Catiere è una fotografa russa che vive fra Parigi e New York. I suoi lavori sono apparsi su testate come T – The New York Times Style Magazine, The Gentlewoman, Dazed and Confused.
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pret-a-porter
Studio di moda Ci prendiamo una paginetta per spiegarvi il come e il perché qui si parlerà anche di scarpe, borse, vestiti (e simili). di
MANuela ravasio
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e stagioni degli oggetti non sono più prevedibili. Lo sono mai state? Sono momenti impalpabili che arrivano e riempiono gli spazi, i luoghi quotidiani, a cominciare dai nostri sguardi. Vestiti, armadi, camere, quello che resta del gusto estetico è facilmente rintracciabile (anche) nelle nostre giornate e noi la moda proviamo a viverla così. Con servizi che ci raccontano le vite degli altri e che sembrano più una confessione strappata che una vetrina: in mezzo a quelle superfici ci sono corpi e volti che raccontano una storia divertita e interpretata. Congeliamo l’occhio clinico per tempi in cui servirà (ma poi arriverà mai quel momento nella moda?) e ci concentriamo su come spulciare meglio nelle pieghe dei tessuti: nelle parole che li arricchiscono e nelle ore di lavoro che li costruiscono. Artigianale, sartoriale, new media, video art: tutto diventa il linguaggio possibile per fare esprimere la moda senza che sia per forza indossata. Chi crede in questa moda statica? E chi è del partito dell’indossato come unica esperienza? Voci nuove che non riuscivamo a 74 Studio
sentire, colossi dell’era couture che hanno ancora molto da dire, volti in prestito alla moda che la vivono inconsciamente, pseudo icone del bello inciampate nello stile e personaggi che indossano fieri piccoli errori e sbavature. Niente trendsetter ma persone che giocano in anticipo per non annoiarsi prima o perché hanno trovato “le buone cose di pessimo gusto” e le hanno rese nuovi desideri. Andiamo fuori tema: interviste che ci facciano capire meglio, incontri inaspettati e magari profetici, gioco e chinoiserie per attutire i momenti di crisi. Insomma, una moda volubile che è dragata da addetti ai lavori ma anche comparse, artisti, elementi capitati nella parabola del fashion. L’universo moda raccontato anche attraverso l’economia perché è il suo lato di vera attualità: mercato, interessi, titoli. Consumo, compromesso, pubblicità. Che non sono parolacce ma fatti di cronaca. Incontriamo ed entriamo negli studi di outsider che hanno portato la moda in altre vie. Scopriamo quell’aspetto eccitante e liberatorio che è la commistione con N varianti: quelle che rinnovano la moda anche
quando è claudicante, che diventano suffissi per collaborazioni inedite, nuovi tentativi di business e rapine costanti dal mondo dell’arte, del design, della musica. Facciamoci spiegare dai nuovi protagonisti perché dovremmo credergli. La stessa moda che a sua volta non è mai stata così bisognosa di Altro per sentirsi bella, che può diventare Re Mida per chi la circonda (scuole, istituzioni, celebrità, città, cinema) ma che deve (ogni volta) imparare un linguaggio meno vecchio e più nuovo per dialogare con tutti gli altri mondi creativi a cui si accompagna. Cerchiamo di spiegare perché qualcosa è bello, così bello che ci sembra mai visto anche quando tutto discende da altre creazioni precedenti. Critichiamo quando ci si è allontanati troppo dalla moda e senza vergogna definiamolo “altro dalla moda”. Vogliamo che la moda si spieghi per bene. Manuela Ravasio è del capricorno. Oltre che per Studio, scrive di moda e lifestyle per Marieclaire.it. Chiedi a lei se cerchi la faraona ripiena più buona di Milano, la vodka sour più schiumosa o se vuoi sapere come conservare bene la seta.
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tanya jones raccontata attraverso una serie di autoritratti e alcune vecchie foto estratte dall’album di famiglia
con un testo di
fabio guarnaccia foto e moda di
Tanya Jones
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rrivo a casa tua mentre fa buio e i camion dell’Amsa puliscono le strade del mercato, seminate di cassette e resti di cibo, con i vecchi e le donne dell’Est che setacciano la frutta e la verdura guaste. Uno scenario di devastazione con qualcosa di salvifico che si ripete ogni sabato, più o meno da sempre. Il mercato è un luogo mobile che porta inscritta un’identità stabile, per qualche ragione la collego al Medioriente. L’estate scorsa in Israele ho fatto scorta di innumerevoli esperienze di mercato, ho fatto scorta anche di immagini sature di vita e inquietudine. Sei nata a Tel Aviv nel 1980. Di Tel Aviv ricordo i tramonti fumosi su l’orizzonte infuocato, le nuvole grigie stracciate dagli aerei militari di ritorno dalle missioni ai confini, elicotteri a volo rado sulle teste indifferenti di ragazzi e ragazze dai corpi perfetti, intenti a praticare qualche sport da spiaggia portato a un livello di sviluppo inimmaginabile. Ricordo anche l’afa soffocante, le ragazze col fucile a tracolla e lo zainetto di Winnie the Pooh. Durante il mio viaggio ho conosciuto diverse persone, ma nessun israeliano, quando ci ho provato sono stato trattato con una certa durezza. Per questo ti intervisto, io di moda non so niente. Voglio imparare una storia e colmare un vuoto. Mi fai vedere le foto della tua famiglia, la maggior parte le ha scattate tuo padre, si vedono pezzi della casa dove sei cresciuta a Jaffa, l’antico porto arabo sulle cui spiagge è sorta in poco più di un secolo Tel Aviv. Muri sbrecciati, piante rampicanti e una bambina bianca come la neve. Quando nomini tuo padre il tuo volto viene invaso da un senso di malinconica gioia, la bocca e gli occhi sorridono ma qualcosa impedisce loro di brillare. Mi indichi una foto in cui siete travestiti e mi dici che era carnevale, ma ho l’impressione che per voi due fosse una cosa normale. Tua madre è una stilista, ha lavorato per decenni con Cavalli, tu sei una stylist, lavori nel suo stesso ambiente, ma è di tuo padre che mi vuoi parlare. Avanti, allora. Mi dici che si chiama Tim, viene dalle midlands inglesi, che è protestante/non praticante, me lo dici 80 Studio
AUTORITRATTO
per farmi capire che non si è trasferito in Israele per questioni religiose. Ti chiedo il perché e tu mi rispondi che dopo aver studiato sociologia a Londra ha sentito il bisogno di vivere un’esperienza comunitaria in un kibbutz. Erano gli anni ’70 e come molti era un idealista. Nel kibbutz viveva con gli altri, lavorava i campi, condivideva il cibo con tutti nell’enorme sala da pranzo, camminava a piedi nudi senza mediazioni sulla terra che coltivava, si preoccupava degli altri, prendeva decisioni sulla loro vita nelle riunioni del kibbutz, i figli degli altri erano suoi. Il suo kibbutz si chiamava Moshav Neviot, era a Nueiba, nella penisola del Sinai che a quei tempi, dopo la guerra dei sei giorni, era territorio israeliano. Il kibbutz, ovviamente, non esiste più. Ma allora era un posto ricco di vita e affamato di futuro. Fu
Haifa, 1963 · la mamma Tamara all’ultimo anno di scuola
a una festa organizzata al suo interno che i tuoi genitori si conobbero. Tuo padre era stato accompagnato da una bionda che nel giro di qualche minuto si era dileguata. Rimasto solo, ha visto questa tipa dall’altro lato della stanza che indossava un afro rosso e gli faceva l’occhiolino. Non era ancora abituato alla spudoratezza delle donne israeliane, gli ci volle un’ora prima di decidersi a farsi avanti. Ma quando lo ha fatto tutto cambiò. La sera stessa lasciò il kibbutz e il deserto del Sinai e tornò a Tel Aviv con lei. Ci pensi un attimo, poi mi dici ridendo che tua madre non stava ammiccando, aveva dimenticato gli occhiali e faceva fatica a vedere. Nasciamo da eventi casuali, da incomprensioni, da atti di coraggio che vengono da lontano e si compiono proprio in quel momento. Accolgo
con un sorriso il mito fondativo della tua famiglia, la sua grammatica rituale, ormai stabile e codificata. Mi racconti della casa dove si sono trasferiti i tuoi dopo la festa. L’aveva acquistata tua madre, era di proprietà di una famiglia araba, una famiglia ricca, scappata in Libano nel 1948, alla nascita dello stato d’Israele, pensando di tornare subito dopo. E invece non sono più tornati, dal Libano sono emigrati negli Stati Uniti. Quaranta anni dopo, però, è tornata la figlia, dici che voleva rivedere la casa dove era nata, tua madre le ha offerto un caffé e l’ha portata a incontrare i vicini, alcuni suoi coetanei rimasti a Jaffa. Tua madre l’aveva acquistata dalla loro domestica. In quella casa sei nata tu. Un momento. Ti chiedo ancora di tuo padre. Cosa lo ha portato ad abbandonare il kibbutz? Il fascino di una donna conosciuta la sera stessa? Era stanco, ne aveva abbastanza, non ne poteva più, mi rispondi. Cresciuto nell’Inghilterra del boom, studente a Londra tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, tuo padre non aveva una grande dimestichezza con il lato pratico dei sogni. Cosa che hanno invece gli israeliani. Ci vogliono 40 anni di deserto al popolo guidato da Mosè in fuga dall’Egitto per raggiungere la Terra promessa. Un esodo che ogni ebreo ha l’obbligo di ricordare alla sua famiglia al seder di Pasqua. Non solo era dura la vita nei campi, le ore interminabili di lavoro sotto il sole del deserto, non solo le mani e quei piedi nudi dolevano, ma anche la vita sociale era dura, le relazioni erano sfacciate, ruvide, prive di tatto, le loro conseguenze dolorose. In ebraico esiste una parola per descrivere questa componente importante, almeno quanto l’ottimismo, della tua gente, mi dici. La parola è hutzpa. Non esiste un corrispettivo italiano. Sarebbe un errore tradurla con “maleducazione”. È un atteggiamento irruente, sfacciato, privo della pazienza necessaria che siamo soliti attribuire ai rapporti umani. È un prodotto del destino del popolo ebraico, della sua travagliata storia. Non complicarti la vita inutilmente, hai già sufficienti problemi e preoc-
AUTORITRATTO
Jaffa, 1983 · con il nonno Iza
Jaffa, Pasqua ebraica 1990 · con la mamma Tamara e la sorella Joanna
Jaffa, Purim 1985 · vestita da Regina Ester
Jaffa, 1976 circa · Tim (papà, coltello tra i denti) con il suo amico Dave
Panzano (FI), 1975 circa · mamma (a sinistra) con Roberto Cavalli (sul cavallo) e due collaboratrici di Roberto (Lorraine & Monica)
Jaffa, Purim 1989 · vestita da Shahrazad
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AUTORITRATTO
Jaffa, 1974 · mamma (a destra) con la sua amica Ruta
Tel Aviv, 1987
Gerusalemme, 1976/77 · mamma (a sinistra) con zia Ruthy
Londra, 1950 circa · nonna Malka (al centro) con zia Tzipora (a sinistra) e la sua amica Aliza
Jaffa, 1988 · a una festa, Tim (papà) con Sabina (amica) che beve vino a canna
Jaffa, 1982 · al mio compleanno, con 2 dita nel naso
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AUTORITRATTO
cupazioni: la tua realtà può svanire da un momento all’altro. Gli altri non si offendano. Una realtà dove l’esercito incarna la possibilità di continuare a esistere. In 25 anni tuo padre non ha mai digerito l’hutzpa. In fondo, mi dici, ha lasciato Israele per questa ragione. Anche il servizio militare contribuisce a questa durezza. Tu lo hai fatto il militare? Ti chiedo. Mi rispondi di no. Come altri tuoi coetanei, meno di quanti potresti pensare, mi avvisi, sei ricorsa allo psicologo. Penso alle storie che ho sentito quando ero ragazzo per evitare il servizio militare. Ti chiedo quali fossero i racconti tipici dei ragazzi israeliani per dimostrare la propria pazzia. Mi riporti questo elenco: – Pazzia simulata certi si presentano con una scatola di fiammiferi contenente delle formiche, un esercito intero che viene fatto marciare sulla scrivania del medico. – Minaccia dichiarata: “non potrei reggere, potrei suicidarmi” – Disperazione alcuni arrivano a farsi impacchi con fette di patata sulla gamba, a lungo andare l’osso diventa fragile, a quel punto se lo spezzano. Il presente che usi per rispondermi mi fa pensare a quanto non sia possibile fare un paragone con l’Italia. Tu, mi dici, non hai finto. Hai detto che non volevi. Volevi andare in Europa a studiare fotografia. Hai giocato la carta del padre inglese. E ti ha detto bene, forse c’erano abbastanza ragazze nella tua leva. Ti sei presa il profilo 46. Se avessi avuto il profilo 21, tecnicamente pazza, non avresti potuto trovare lavoro. In ogni caso non volevi più restare a Tel Aviv. Così, due giorni dopo il tuo diciottesimo compleanno, anziché partire per le armi, sei partita per l’Italia, insieme a tutto il resto della tua famiglia, c’era anche la tua sorellina, tutti al seguito di tua madre. Destinazione Firenze, aveva una collezione da disegnare per Roberto Cavalli. Durante gli anni Settanta e Ottanta mi dici che tua madre ha lavorato con Cavalli, veniva in Italia per disegnare una collezione, poi tornava in
Israele dove aveva il suo atelier. Tu non volevi fare il suo lavoro, come tutte le bambine eri innamorata del papà, volevi fare la psicoterapeuta, come lui, e il falegname e il fotografo. L’atelier di tua mamma era un immenso circo colorato e passavi ore a provare vestiti disegnati da lei, abiti super romantici, e ogni volta sceglievi l’abito del tuo matrimonio. Era un mondo raccolto, esotico, autosufficiente dove tutto avveniva in famiglia. Le foto dei cataloghi le scattava tuo papà. E poi c’era Jaffa, i tuoi amici, la luce dorata che colorava la torre dell’orologio e il mare del porto antico sulle cui increspature riflettevi la tua curiosità. Mi dici che c’è una legge per cui tolti gli abitanti del nucleo
noscevi la lingua. La tua famiglia era la tua sola compagnia, non avevi altro sfogo. Ti mancavano i tuoi amici di Tel Aviv, i modelli preferiti delle tue fotografie. Eri depressa, dopo un anno ti sei spostata a Milano. La tua famiglia si è divisa: tua madre e la tua sorellina sono tornate a Tel Aviv (dove vivono tutt’oggi) e tuo padre è tornato in Inghilterra. E poi mi dici una cosa che ha quella stessa malinconica disperazione che ho notato all’inizio, dici: una volta che hai perso la tua base non ne troverai più un’altra. Non appartieni più a nessun luogo. E così a Milano, dopo un periodo duro, hai cominciato a fare questo lavoro. E il lavoro si è appropriato della tua vita. Le relazioni, qui da voi, mi dici, hanno questa ambiguità perché non si fondano sulla semplice amicizia,
Dopo il tuo diciottesimo compleanno, anziché partire per le armi, sei partita per l’Italia insieme alla tua famiglia. storico nell’antica Jaffa puoi avere la residenza solo se sei un artista. Provo a immaginare tutti questi bambini figli di pittori, attori, scrittori scorrazzare per il mercato delle pulci di Jaffa, correre per i vicoli della città araba, circondati da mille oggetti, dal profumo del cibo, immersi in lingue e culture diverse. Mi dici che era un mondo aperto, multiculturale e che ti manca quella libertà. Ti chiedo di quale libertà parli, tu ci pensi un istante, poi mi dici che era una libertà ricompositiva, era un mondo dov’era naturale sperimentare immersi com’eravate in un oceano di stimoli. La libertà ricompositiva è propria anche della lingua ebraica, che è giovane e duttile. Attraverso le possibilità della lingua scopri le possibilità del mondo, in ebraico nascono nuove parole in continuazione, mi dici che quando torni in Israele ci sono sempre parole inaudite, che non conosci e che subito, quando le senti, ti raccontano qualcosa di inedito sul tuo paese. Si sperimentava in ogni campo e non c’erano etichette. Le etichette le hai apprese arrivando a Firenze. A Firenze hai frequentato un corso di fotografia. Non co-
c’è sempre qualche interesse, anche minimo, a camuffare i gesti. Ti manca la franchezza israeliana, la hutzpa. Mi dici che fai troppa fatica a capire cosa c’è dietro le relazioni: chiedere alle persone cosa fanno invece di chi sono. Benvenuta in città, ti dico. Ma come vivi il tuo tempo privato lo scegli tu, in ogni caso. Puoi stare ai ritmi di Milano o adeguare i suoi ritmi ai tuoi. Entrambe le strade sono possibili. Mi dici che vuoi riappropriarti delle “cose creative” che facevi quando eri una ragazzina, che facevi perché volevi e non perché te le aveva chieste qualcuno. Mi dici che queste foto le hai scattate senza nessuno intorno che non fosse il tuo compagno che si aggirava per casa. Intimità, solitudine e un progetto sono la vera salvezza. Fabio Guarnaccia è direttore di Link. Idee per la televisione, periodico di cultura contemporanea dedicato alla comunicazione. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. È redattore di minima et moralia, blog culturale di minimum fax, e collabora con Vice magazine. A ottobre è uscito il suo primo romanzo, Più leggero dell’aria (Transeuropa).
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camicia e gonna Albino, orecchini vintage
NON CI SONO PIÚ le hostess di una volta Quelle che, tra un volo e l’altro, facevano perdere la testa a tutti gli uomini del mondo. Con o senza divisa. fotografie di
Marcus Palmqvist moda di Rossana Passalacqua
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abito Prada, collana vintage
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cardigan Carven, orecchini e collana vintage
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modella: Natalia/silent, capelli: Hauke Krause/artlist, trucco: Morgane Martini/artlist, assist. stylist: Francesca Peter
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gonna Valentino
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abito Valentino, foulard vintage, collant Wolford, scarpe Miu Miu Marcus Palmqvist, fotografo svedese, vive e lavora fra Parigi, Londra e Stoccolma. I suoi lavori sono apparsi, fra le altre, su testate come Dazed and confused, Another magazine, Lula, Jalouse e Guardian.
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GUARDAROBA
di lei a cura di
rossana passalacqua Illustrazione di Silvio Mancini
Zeppe sabot Marni nere, dalla collezione donna a/w 2010. Le trovate in vendita sul loro bel sito di e-commerce – www.marni.com Occhiali da sole rotondi Yves Saint Laurent a lente verde e montatura trasparente. Collezione a/w 2010/2011 – www.ysl.com Cappottino dalla collezione a/w 2010 del designer italiano Albino D’Amato, tutta ispirata al contrasto fra sacro e profano, carnalità e spiritualità – www.maisonalbino.com Borsetta con manico a tirapugni, Yves Saint Laurent, collezione a/w 2010/2011 – www.ysl.com
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di lui a cura di
Angelo flaccavento
Illustrazione di Silvio Mancini
Foulard a tema gambling di Adam Kimmel. The Casino Collection, a/w 2010. Lo trovate in vendita, fra gli altri, su www.studiohomme.com – www.adamkimmel.com Long johns di felpa del brand milanese Sansovino 6. Collezione a/w 2010. Li trovate in vendita, fra gli altri, da Luisa Via Roma a Firenze e da Antonioli a Milano – www.sansovino6.it Cappotto dalla collezione a/w 2010 del designer turco Umit Benan, tutta ispirata al tema retired rockers. Lo trovate in vendita, fra gli altri, su www.thecorner.com – www.umitbenan.com Volta Strada. Nuovo modello cross-training in collaborazione con Vibram per Volta Footwear. In vendita da gennaio, fra gli altri, su www.thecorner.com – www.voltafootwear.it
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Ulteriori interpretazioni di alcuni fatti della vita un racconto di
KEVIN MOFFETT Traduzione di Anna Mioni
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opo che mio padre andò in pensione, cominciò a scrivere racconti piuttosto veri su padri e figli. Aveva provato le immersioni subacquee, aveva provato a studiare i sogni, ma ora aveva cambiato idea e si era messo a fare quello. Io ero scettico. Da anni scrivevo racconti piuttosto veri su padri e figli, racconti che non erano perfetti, naturalmente, ma erano miei. Alcuni uscivano su riviste letterarie e avevo persino ricevuto una lettera da una mia fan, tale Helen del Vermont, alla quale piaceva il pezzo di un mio racconto in cui il padre chiede al ragazzino di grattare la schiena alla matrigna. Helen del Vermont diceva che trovava il racconto “godibile” ma un po’ “deprimente”. La scena con la matrigna era l’interpretazione di un fatto vero. Quando avevo dieci anni mia madre morì. Io e mio padre abitammo da soli per cinque anni, poi lui sposò Lara, una signora gentile dalla risata fragorosa. L’aveva conosciuta a una conferenza sui sogni. Nella vita mi era piuttosto simpatica, ma non nel racconto. In quel racconto, “La fine dell’estate”, ero risentito con Lara (che avevo ribattezzato “Laura”) per aver sposato mio padre subito dopo la morte di mia madre (avevo fatto diventare i cinque anni cinque mesi). “Grattavi sempre la schiena a tua madre”, dice mio padre nell’ultima scena. “Perché non la gratti mai a Laura?” Laura è seduta di fianco a me, a sgranare piselli in un secchio. La tensione cresce. “Se non gratti la schiena a Laura, ti puoi scordare i regali di Natale!”, minaccia mio padre. Allora, le gratto la schiena. A sentirlo ora sembra stupido, ma alla fine del racconto il Natale simboleggia altre cose. Non è più soltanto Natale. La scena mi era stata ispirata dalla volta in cui mio padre e Lara erano stati a Città del Messico (mentre io ero perseguitato dai bulli e dai simulidi al campeggio estivo per oboisti) e mi avevano portato a casa un souvenir. Un oggettino artigianale di latta?, vi chiederete voi. Un assortimento di caramelle al fico d’India? No. Un grattaschiena di legno con il manico lungo, per la massima autogratificazione. Ma il peggio non era finito: sul manico c’era inciso TE QUIERO. Che all’epoca io credevo volesse dire Mi amo. (Mi sbagliavo di una parola.) “Provalo”, disse mio padre. Aveva un’abbronzatura con sfumature color tuorlo d’uovo e portava una maglietta con scritto DI PROPRIETÀ DEL MESSICO sulla schiena. Era la classica maglietta che si trovava dappertutto. Alzai il braccio sopra la testa e mi strofinai il grattaschiena su e giù lungo le vertebre. “Funziona”, gli dissi. “Ha passato tutta la settimana a cercare un regalino per te”, disse Lara. “Ha persino provato a tirare sul prezzo al ‘mercado’. È stato divertente.” “Non ci sono molte cose adatte a un ragazzino come te in Messico”, disse mio padre. “Però, il signore che mi ha venduto il grattaschiena mi ha raccontato una storia. Tutti gli uomini che erano partiti per combattere durante la rivoluzione si erano portati dietro le mogli. Voleva-
no ricordare più…” Non riuscivo ad ascoltare. Ci ho provato, facevo finta, con cenni della testa e mmm quando disse Pancho Villa e wow quando disse sparatorie e poi accidenti che storia quando ebbe finito. Chiesi il permesso di alzarmi e corsi di sopra in camera mia, sbattei la porta e spezzai in due sul ginocchio quell’infausto grattaschiena, come uno sterpo. Un ragazzino come me! Non ci si guadagna da vivere scrivendo racconti, non se si è bravi. Me l’ha detto il mio mentore, Harry Hodgett. Dovevo aver imboccato qualcosa di giusto, perché in effetti non avevo ancora ricevuto un centesimo per i miei scritti. Di giorno lavoravo all’università per adulti e lavoratori, e insegnavo Preparazione alla scrittura, un corso per gli studenti che non avevano ancora le capacità necessarie per Scrittura per principianti. Insegnavo anche Preparazione a preparazione alla scrittura, per chi non aveva ancora le capacità necessarie per Preparazione alla scrittura. Immaginatevi gli studenti più spregevoli dell’universo: ragazzi che, se gli chiedevi il nome di un tempo verbale, ti fissavano come se gli avessi appena chiesto di suonare la polka facendo le pernacchie sotto le ascelle. Le riviste letterarie pagavano con copie per gli autori e abbonamenti, cosa piacevole, perché quando ti pubblicavano un racconto almeno sapevi che tutti gli altri autori pubblicati in quel numero l’avrebbero letto. (Anche se, a dire la verità, io non lo facevo mai.) Così mi era arrivato il numero autunnale di Vesper: mi avevano pubblicato nel numero di primavera. Era restato sul tavolino del salotto per qualche giorno dopo l’arrivo, poi tornai a casa e trovai Carrie sul divano che lo leggeva. “Shh”, mi disse. “Non ho detto niente”, risposi. “Shh”, ripeté lei. Una digressione: avrei voluto tenere fuori Carrie da tutto questo, perché non ho ancora pensato a come scrivere di lei. Era alta con i capelli castani corti e gli occhi castani e indossa degli abiti e… vedete? Questa descrizione potrebbe essere di chiunque. Carrie è adorabile, il suo viso è un nido per i miei sogni. Bisogna distanziarsi dall’argomento di cui si scrive. Bisogna affrontarlo con lo sguardo lucido e glaciale di un chirurgo. Un’altra persona di cui non riesco a scrivere è mia madre. Ogni volta che ci provo, mi sembra di tentare un trapianto di reni con un apriscatole e una manciata di elastici. “Incredibile”, disse, chiudendo la rivista. “Triste e sincero e privo di facili meschinità. È come se il racconto si sviluppasse man mano che lo leggo. Quel pezzettino nel motel è fantastico. Perché non me l’hai mai mostrato? Mi sembra davvero un progresso importante.” Si alzò e mi abbracciò. Profumava di perle da bagno. Ero geloso della persona, chiunque fosse, che aveva scatenato quella reazione in lei: di solito Carrie, che avevo conosciuto alle lezioni di Hodgett, leggeva i miei racconti con malcelata impazienza. “Un passo avanti importante, eh?” dissi con aria noncurante (da disperato). “Chi l’ha scritto?” Lei si avvicinò per baciarmi. “Tu. “ Studio 99
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senza battere ciglio, capisco ora. Avrei potuto telefonargli e dirgli che, se insisteva a scrivere pasticci senili, usasse uno pseudonimo. E che permettesse al Moxley interessato alla verità e alla bellezza, eccetera, di pubblicare con il suo vero nome. Ma il racconto non era terribile. Anzi, tutt’altro. Sì, infrangeva due delle sei leggi di Hodgett sulla scrittura di racconti (Non sceneggiare i sogni, Non usare più di un punto esclamativo per racconto), ma era riuscito a inanellare qualche vera e propria illuminazione. Inoltre, romanzava i fatti della vita vera in modi sorprendenti. Riconobbi un particolare specifico del periodo successivo alla morte della mamma. Ci eravamo trasferiti l’anno seguente, perché a mio padre non era mai piaciuta la pianta della nostra casa. O, almeno, questo era quello che credevo io. Era troppo sacrificata, diceva sempre: dovunque ci si girava, si trovava una parete o un armadio a muro a bloccare la strada. Nel racconto, però, i personaggi si trasferiscono perché il padre non riesce a smettere di associare la casa a sua moglie. La sua presenza è ovunque: nella camera da letto, nel bagno, nella disposizione dell’argenteria, nella jacaranda fiorita in cortile. Tagliava fiori viola dall’albero e li sparpagliava in giro per la casa, sugli scaffali delle librerie, sul tavolo del salotto, scriveva. Sembrava una reazione di perfetta armonia con il mondo naturale, un modo di invitare l’esterno dentro la casa.Mi ricordavo quei fiori. Mi ricordavo che la casa, quando c’era lei, aveva un odore particolare, cui non riuscivo a dare un nome. Mi ricordavo la sua presenza, una cosa immane e ineffabile. Finii di leggere nella vasca da bagno. Non ero più arrabbiato. Ero un po’ geloso. Soprattutto, ero triste. Quel racconto, in cui mostrava continui tentativi di comunicazione tra padre e figlio falliti, finiva in una stanza di motel a Big Pine Key (ci andavamo in dicembre), con il padre che guarda un poliziesco alla tv mentre il ragazzino dorme. Lui fa un brutto sogno, il padre lo capisce dalla smorfia e dal cipiglio che ha sul viso. Il padre si sdraia al suo fianco, incerto se svegliarlo o no, e prova a immaginare che cosa sta sognando. Non svegliarti, gli dice il padre. Nel sonno niente ti può fare del male. Probabilmente il ragazzino sognava un elicottero che perdeva altitudine. Era un mio incubo ricorrente dopo la morte della mamma. Fendevo il cielo, superando casa nostra, superando l’ospedale, quando improvvisamente il pannello di controllo comincia a fare bip e l’elicottero scende vorticando. Il corpo mi si riempie d’aria mentre mi aggrappo alla leva di comando. Il rumore è la cosa peggiore di tutte. Come un’ape mostruosa che si avvicina. La testa continua a ronzarmi a lungo, persino dopo che mi sveglio, faccio la doccia e mi siedo a mangiare la colazione. Mio padre, che ha appena iniziato a studiare i sogni, un hobby che già allora trovavo ridicolo, mi chiede che cosa ho sognato. “Beh”, dico tra un boccone e l’altro di cereali. “Ho un costume azzurro, anzi no, dorato. Improvvisamente sto nuotando in un’enorme vaschetta per i pesci in un negozio di animali pieno di clienti entusiasti. E il punto è che assomigliano tutti a te. E l’altro punto è che mi pia-
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Presi la rivista per controllare che non fosse il numero primaverile, dove era pubblicato “Il giorno più lungo dell’anno”, la seconda parte della mia trilogia estiva. Parla di un ragazzo e di suo padre (sì, lo so) che tornano a casa in macchina, discutendo sul giradischi che il padre rifiuta di comprare a suo figlio, anche se il ragazzo ne ha bisogno, perché quello che ha ora gli ha rovinato due dei suoi dischi degli Yes, compreso l’introvabile Time and a Word, finché –sbam! – investono un cervo. All’improvviso la posta in gioco cambia. Sono andato a leggere le note sugli autori. FREDERICK MOXLEY è un docente di statistica in pensione che vive a Vero Beach, in Florida. Nel tempo libero studia i sogni. Questo è il primo dei suoi racconti che viene pubblicato. “Mio padre!” gridai. “Mi ha rubato il nome e mi ha trasformato in uno studioso di sogni!” “Tuo padre ha scritto questo racconto?” “E mi ha trasformato in uno studioso di sogni del cazzo! Penseranno tutti che mi sono rimbecillito!” “Mi sa che nessuno la legge, questa rivista”, disse Carrie. “Senza offesa. E non si chiama anche lui Frederick Moxley?” “Fred! Lui si fa chiamare Fred. Sono io che mi faccio chiamare Frederick. Dai tempi della terza elementare, quando in classe mia c’erano due Fred.” Sfogliai le pagine e trovai il racconto, “Miglio zero”, e lessi la prima frase: da bambino sognavo sempre di volare. Siamo in due, pensai. Di volare al circo, in Tibet, a vivere con una famiglia di gentili seguaci della Chiesa dell’unificazione. Sentii la bile che mi si avviticchiava su per la gola come una pianta di fagioli. “Cosa sta cercando di fare?” “Leggilo”, disse Carrie. “Credo che espliciti molto bene cosa sta cercando di fare.” Se il racconto fosse stato terribile l’avrei sopportato
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ce un sacco. Voglio restare per sempre nella vaschetta per i pesci. Hai una vaga idea di cosa vuol dire?” “Finisci la colazione”, mi dice, con gli occhi bassi. Mi piacerebbe aggiungere una parte in cui dico ma no, scherzavo, poi gli racconto il mio sogno vero. Lui potrebbe decidere che si tratta di ansia, o di paura. O, ancora meglio, potrebbe darmi un manrovescio. E io potrei andare in giro con l’impronta di una mano in faccia. Diventerebbe rossa, poi viola, poi di un blu marrone, molto poetico. Invece, stavamo lì a tenerci il broncio. Continuava a ripetersi, finché le mattine diventarono tristi e coreografate come le interazioni tra la gente che lavora in mezzo a macchinari assordanti. Nel bagno mi asciugai e mi avvolsi un asciugamano attorno alla vita. In cucina trovai Carrie che mangiava oyster crackers. “E allora?”. Aveva un’espressione così implorante, come un vaso vuoto senza coperchio. Schiaffai la rivista sul tavolo. “Orribile”, dissi. “Sentimentale, noioso. Non so. Forse ho solo un pregiudizio contro la cattiva scrittura.” “E forse sei solo geloso della buona scrittura”, rispose lei. Si spazzolò via le briciole della camicetta. “So che è un buon racconto, e anche tu lo sai. Non vai da nessuna parte finché non lo ammetti.” “Dove credi che stia cercando di andare?” Mi scoccò uno sguardo che mi ricordavo dalle lezioni di Hodgett. Dubbioso e divertito. Il primo giorno, quando Hodgett chiese a tutti di dire qual era il nostro libro preferito, e poi ci spiegò perché ci sbagliavamo, sognavo a occhi aperti che quella ragazza con il maglioncino a V bianco leggesse i miei racconti e mi avvicinasse timidamente in seguito per chiedermi: “Cosa rappresentava l’orologio rotto del padre?” e io le rispondevo la futilità, o la disperazione, e poi magari la baciavo. Si rivelò che era la lettrice più accanita della classe, ben più accanita di Hodgett, che di solito si accontentava di fare vaghe dichiarazioni sull’adesione a un modello comportamentale o la potenza incredibile del momento illuminante. Carrie era fredda e intelligente e meticolosa. Si insinuava lenta nel tuo racconto con una torcia e ti spegneva tutte le candele. Aveva detto di uno dei miei primi tentativi: “Su quale pianeta la gente si parla così nella realtà?”. E poi ancora: “Ma questo personaggio non fa altro che sgranare piselli?”. So che aveva ragione sul racconto di mio padre. Ma non volevo più parlarne. Quindi mi aprii l’asciugamano e lo lasciai cadere sul pavimento. “Oh oh”, dissi. “Che ne dici di questo espediente narrativo?” Mi squadrò dalla testa ai piedi più volte. “Non facciamo niente finché non ammetti che tuo padre ha scritto un buon racconto.” “Buono? Cos’è che vuol dire? Cioè, è capace di riportare e di parlare e di stare seduto? “Vuol dire buono”, ripeté Carrie. “È realizzato con la stessa energia con cui è stato ideato. Non è falso e nemmeno pretenzioso. Non mena per il naso il lettore inutilmente. È coerente con la propria logica. È toccante senza essere sforzato.” Abbassai lo sguardo sul mio torso nudo. In qualche
momento della sua litania, a quanto pareva, mi era venuta un’erezione. Il mio pene sembrava molto impaziente, come se volesse entrare anche lui nella discussione, e superfluo. “Se è così”, le risposi, “mi sa che ha scritto un buon racconto. E dovrei esserne felice?” “Ora voglio che tu gli telefoni e gli dica quanto ti piace.” Raccolsi l’asciugamano, me lo rimisi e mi avviai verso il salotto. “Scherzavo”, disse lei. “Gli puoi telefonare dopo.” Sconfitto, seguii Carrie in camera mia. Aveva vinto, vinceva sempre. Non avevo nemmeno più voglia di fare sesso. La mia camera puzzava come il fondale di uno stagno, come il guscio umido e putrefatto di una tartaruga. Lei si sdraiò sul mio letto, e parlava ancora del racconto di mio padre. “Adoro quel ragazzino nella stanza del motel”, disse, mentre mi baciava, e si tolse la maglia. “Adoro il cipiglio che ha ancora mentre dorme.” Non telefonai mai a mio padre, ma dissi a Carrie di averlo fatto. Dissi che l’avevo chiamato e mi ero congratulato con lui. “Qual è il suo nuovo progetto?” mi aveva chiesto lei. Progetto! Come se fosse un architetto famoso, o roba del genere. Dissi che stava esaminando vari progetti, e ognuno era più “toccante senza essere sforzato” del precedente. Mi telefonò lui la settimana dopo. Stavo correggendo i temi dei miei allievi, e m’inasprivo sempre di più a ogni parola. I testi erano la risposta al tema: “Dove vai quando vuoi stare da solo?”. Tutti gli studenti, tranne uno, andavano in camera loro per stare da soli. L’unica eccezione era Daryl Ellington, che andava in “cammera” sua. “Dalla voce sembri indaffarato”, disse mio padre. “Sto lavorando un pochino”, gli risposi. Ci scambiammo versioni-cartolina delle nostre ultime settimane. Sto bene, Carrie sta bene. Lui sta bene, Lara sta bene. “E la scrittura…”, disse. “Così cosà. A volte mi viene l’ispirazione, a volte no.” “Parlavo di me”, disse, e mi riassunse goffo l’accaduto: scriveva racconti da quando gliene avevo spedito uno dei miei (mi ero dimenticato di averlo fatto), e aveva letto decine di antologie di racconti; poi mi riferì un sogno che aveva fatto, e poi, finalmente, che il suo racconto era stato accettato da una rivista (e altri due erano in corso di pubblicazione). Sembrava mortificato per tutta la faccenda. “Gli ho detto di pubblicarli a nome di Seth Moxley, ma devono aver invertito le righe”, mi disse. “Comunque, te ne spedisco una copia oggi. Se hai occasione di leggerlo, mi piacerebbe sapere che ne pensi.” “Ma che fine hanno fatto le immersioni subacquee?” gli chiesi. “Faccio ancora immersioni. La settimana prossima io e Lara andiamo a Pennecamp.” “Sì, ma… la scrittura non è un hobby qualunque, di cui ci si occupa a tempo perso, papà. Non è come le immersioni.” “Non ho detto che lo è. Sei stato tu a tirare fuori il discorso delle immersioni.” Respirò a fondo. “Perché fai sempre così?” “Così come?” Studio 101
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“Rendi tutto così difficile. Ho dovuto bere due bicchieri di vino prima di telefonarti, solo per rilassarmi. Eri un bambino così accomodante, lo sai? Tua madre ti chiamava Placido. Mi svegliavo in piena notte, in preda al panico, e venivo a controllarti, perché non facevi rumore.” “Forse la mamma si riferiva al cantante lirico”, ho detto. Una pausa, e le marce che scattavano in silenzio. “Non ti ricordi molto di tua madre, vero? “Qualcosa”, disse. “La sua voce?” “Non proprio.” “Aveva una voce fantastica.” Dopo di quello, non ascoltai molto. Non perché l’avessi già sentito, anche se era così: volevo essere io a scegliere alcune cose da ricordare di lei, invece di ascoltare per l’ennesima volta la sua versione. Non aneddoti oggettivi o particolari di seconda mano, ma… qualità. Immagini incollate insieme che potevo evocare senza bisogno di parole: lei che mi prendeva per mano senza bisogno di guardarmi quando eravamo per strada, le cicatrici sul polso per gli aghi che avevano inserito quando si era rotta il braccio, lei che rideva, lei che piangeva, il suo affetto smorzato per sempre, lei che non c’era più, si dissolveva dalla nostra casa una stanza alla volta. Non ero mai riuscito a scrivere di lei, non espressamente. Ogni volta che ci provavo, mi usciva fuori tutta gioiosa e vestita di bianco, olezzante, che dispensava saggezza, e imponeva le mani predestinate su di me e su tutti quanti. Scrivere di lei era ricordare in modo imperfetto: mi sembrava come una seconda morte. Ero molto più felice di scrivere di padri che si facevano aiutare dai figli a trascinare un cervo sul ciglio della strada, e gli dicevano: “Guarda quegli occhi annebbiati. È questa la morte, ragazzo mio”. “Lei ha sempre avuto progetti ambiziosi su di te”, stava dicendo mio padre. Era una cosa che diceva spesso. Non gli avevo mai chiesto di specificare meglio. Mi sovviene che sto infrangendo due delle leggi di Hodgett ora. Non scrivere mai della scrittura e Non sceneggiare i sogni. Mettete i personaggi nella stessa stanza, diceva sempre. Vedete cosa fanno quando non possono riagganciare. “Ci farebbe piacere rivedere Carrie”, disse mio padre dopo un po’. “Pensi che verrete da noi per Natale?” Mancavano due mesi a Natale. “Facciamo del nostro meglio”, gli risposi. Dopo aver riagganciato tornai ai temi dei miei studenti, felice di immergermi per un po’ nelle loro intuizioni semplici. La mia stanza è il posto più speciale, scriveva Monica Mendez. Tutto intorno a me ci sono scaffali di cose della mia memoria. Immaginate per i vostri personaggi un periodo in cui le cose sarebbero potute finire diversamente, soleva dire Hodgett. Trovate il momento in cui si è compiuta una scelta che ha reso impossibili tutte le altre. Ai lettori piace vedere che i personaggi compiono delle scelte. Lei morì in maggio. Una settimana dopo il funerale, mio padre accompagna me con tre amichetti a un parco 102 Studio
a tema che si chiamava Boardwalk and Baseball. Forse spera che ci distragga per qualche ora. Io e i miei amici per tutto il giorno andiamo sulle giostre, diamo colpi di mazza da baseball a turno, mangiamo hot dog. Io tiro una pallina da ping pong dentro una bottiglia del latte e vinco una maglietta. Non mi ricordo nemmeno che maglietta fosse, ma mi ricordo quanto ero felice dopo averla vinta. Mio padre ci segue e sta seduto su una panchina mentre noi ci mettiamo in coda. Lui probabilmente è piuttosto distrutto, ma suo figlio se la cava benone. Suo figlio passa da una giostra all’altra e se la ride con i suoi amichetti. Anzi, da quando sono entrati non ha ancora pensato a sua madre. Mio padre porta gli occhiali da sole, per via delle allergie, dice. Ha le maniche della camicia umide. Credo che abbia pianto. “Ti diverti?” continua a chiedermi. Certo, è evidente. E va bene, mia madre è morta una settimana fa, ma ho appena vinto una maglietta nuova e mio padre ha dato venti dollari a tutti e la coda per salire sul Viper è cortissima e c’è il sole e credo che abbiamo appena visto la ragazza di Casalingo Superpiù, o una che le assomiglia, in fila al carretto dei popcorn. Quando mi ricordo di quella giornata muoio d’imbarazzo. Vorrei ritoccare tutto. Vorrei prendermi un’intossicazione alimentare, o perdere un paio di dita sul Raptor, qualcosa che rovinasse il divertimento perfetto di quei momenti. Ora lo devo rovinare nella mia memoria, lo devo ricordare con una riga nera tirata sopra. “Sono contento che ti sei divertito”, dice mio padre mentre torniamo a casa. Al rientro c’è casa nostra che ci aspetta. Le piante di falangio morenti sul porticato, le buste celesti nella cassetta postale. Novembre fu una macchia. Una mattina dopo l’altra, cercavo di scrivere ma invece giocavo con la Lavagna magica per due ore. Scrivevo una frase. Aspettavo. Mi alzavo e andavo su e giù per la stanza, pensando alla frase. Mi appoggiavo al lavello della cucina e mi mangiavo un tubo intero di Graham crackers. Mi sedevo alla scrivania e fissavo la frase. La cancellavo e ne scrivevo una diversa. Tornavo in cucina e mangiavo una manciata di carotine. Cominciava a sorgermi qualche dubbio sulle carotine, allora chiamai il numero verde sulla confezione e parlai con una donna a Bakersfield, in California. “Vorrei sapere l’origine delle carotine”, le chiesi. “Vuole sentire la versione corta o la versione lunga?” chiese la donna. Per la prima volta da giorni sentivo che qualcuno si prendeva davvero cura di me. “Entrambe”, risposi. La versione corta è: la carotine sono carote adulte tagliate a pezzetti più piccoli. Tornai alla scrivania, cancellai l’ultima frase e scrissi: “I bambini sono adulti tagliati a pezzetti più piccoli”. Mi piaceva. Sapevo che sarebbe venuto fuori un racconto notevole, uno che avrebbe vinto premi e cambiato il modo in cui la gente vedeva i rapporti padre figlio, se solo fossi riuscito a trovare altre trecento frasi circa per continuare. Ma dove diavolo erano?
RACCONTO
Qualche settimana dopo che mio padre mi aveva mandato il suo primo racconto, ricevetti il numero invernale del Longboat Quarterly con un biglietto: Tuo padre vuole davvero sapere che ne pensi del suo racconto. È convinto che ti abbia fatto schifo. Non ti ha fatto schifo, vero? Baci e abbracci, Lara. No, Lara. E probabilmente non mi farebbe schifo nemmeno questo, però non riuscii ad andare oltre al titolo, “Angeli azzurri”, senza cedere all’impulso di lanciare la rivista sotto il divano (ci vollero quattro tentativi). Sapevo già di cosa parlava. Più tardi sono rimasto vicino a Carrie sul divano mentre lei lo leggeva. Avete mai guardato qualcuno che legge un racconto? All’inizio ha un’espressione incerta ed esitante, arrivato a metà alterna sorpresa e sconcerto, ed è sereno alla fine. O, almeno, così era successo quel giorno con Carrie. “Be’, in che modo dobbiamo agire?”, mi chiese quando finì. “Non dirmi niente. Dammi solo un pugno nello stomaco. Forte.“ Mi alzai la maglia, chiusi gli occhi e aspettai. Sentii che Carrie chiudeva la rivista, poi la sentii che mi atterrava sulla pancia, piano. Lessi il racconto nella vasca da bagno. Basti dire che non era quello che mi aspettavo. Da bambino ero ossessionato dai caccia. Tomcat, Super Hornet, qualsiasi cosa fosse dotato di ali e di missili. Pensavo che il racconto parlasse di quando mio padre mi aveva portato a vedere i Blue Angels, la pattuglia acrobatica della marina americana. Non sarebbe stato granché come racconto: un caldo infernale, aerei che facevano acrobazie, io che stavo in coda per un’ora ad aspettare un autografo, ustionandomi, e poi mi addormentavo guardando il poster con cinque caccia mentre tornavamo a casa. Il racconto parla di un padre vedovo che beve troppo e decide che deve pulire la casa. Passa stanza per stanza a spolverare, pulire pavimenti, buttare via gli oggetti. Gli angeli azzurri sono un terzetto di porcellane antiche che mia madre possedeva sin dall’infanzia. L’uomo li butta via poi si ricrede appena sente il camion della nettezza urbana che parte. Il racconto finisce con il padre e il figlio alla discarica, che guardano enormi collinette di immondizie, paralizzati. Mi ricordo la discarica, la puzza di sciroppo caldo, le tempeste di uccelli sopra di noi. Mi disse che era importante vedere dove andava a finire la nostra immondizia. Quando finì, ero di nuovo triste, in preda alla nostalgia, e volevo telefonare a mio padre. Lo feci dopo essermi asciugato. Carrie era seduta al mio fianco sul divano, con le gambe sopra le mie. “Cosa fai?” mi chiese. Composi il numero, aspettai e sentii il messaggio della segreteria telefonica (Qui Fred e Lara, incredibile, non siamo riusciti a rispondere alla vostra telefonata) e poi riattaccai. “Ti ho mai raccontato di quando ho visto i Blue Angels?” Chiesi a Carrie. “Non credo.” “Beh, preparati” le dissi. Per qualche settimana smisi di scrivere e uscii nel mondo. Andai in visita all’aeroporto, alla spiaggia, a un
allevamento di pesci, in un cimitero, in una dolina. Raccolsi prove, ascoltai, cercai di andare oltre la mia impazienza per vedere il cuore splendido di sangue delle cose. Vidi un uomo che trasportava una donna sul manubrio di una bicicletta olandese. Portavano gli occhiali da sole. Erano poveri. Erano innamorati. Sentii una donna che diceva a un’altra: Tutti hanno un odore speciale, tranne me. Annusami, io non ho alcun odore. Al cimitero in cui era sepolta mia madre, incontrai un vecchio immobile per terra davanti a una lapide. Quando passai, lessi le due scritte. RUTH GOODINE 19201999, CHARLES GOODINE 1923-, “Faccia come se io non ci fossi”, mi disse l’uomo mentre passavo. Una volta seduto alla scrivania, mi sforzai di ricavare qualcosa da quello. Mi immaginai cosa era successo prima e dopo. Quale momento rendeva impossibili gli altri. Quell’uomo era andato al cimitero per allenarsi per l’eternità. Lo vedevo ancora sdraiato lì con il completo grigio, ma il prima e il dopo erano confusi. Prima era stato su un autobus, o una macchina, un taxi. Dopo sarebbe andato sicuramente… al supermercato per comprare… carne in scatola? “Qualsiasi cosa che valga la pena di essere detto è indicibile”, dichiarava Hodgett di solito. È per quello che raccontiamo le storie.” Tornai al cimitero. Lo percorsi da un’estremità all’altra, dai cenotafi di granito alle lapidi in legno senza scritte. Poi entrai nel mausoleo e trovai la targa di mia madre, seconda dal fondo. Dovetti inginocchiarmi per vederla bene. Un’altra delle sei leggi di Hodgett: Non sceneggiare un funerale o una visita al cimitero. Troppo melodrammatico, troppo ovvio. Mi sedetti contro un muro che chiamavano Muro della serenità e osservai i visitatori che entravano e uscivano a frotte. Sembravano più infastiditi che tristi. Io e mio padre ci andavamo una volta, ma a un certo punto smettemmo. Dopo andavamo in una tavola calda e lui mi diceva: “Ordina qualsiasi cosa, tutto quello che vuoi”, e io invece ordinavo il solito. Una signora con la macchina fotografica mi chiese se potevo fotografarla davanti alla targa di sua nonna. Dissi: “Uno, due, tre, sorrida”, e scattai. Quando la donna se ne andò, dissi alcune cose a mia madre, tutte melodrammatiche, tutte ovvie. Nei mesi prima che morisse, parlava della morte come se fosse un lungo viaggio per cui sarebbe imbarcata. Se glielo permettevano, avrebbe vegliato su di me, mi diceva. “Mi mancherai tanto”, mi diceva, il che non mi era sembrato strano fino a quel momento. A volte speravo che stesse vegliando su di me, ma di solito era una cosa troppo terribile da immaginare. “Sono qui”, dissi alla targa. Non so perché. Mi fece sentire bene, quindi lo ripetei. “Perché non parli di tua madre?” mi chiese Carrie dopo che le ho raccontato che ero stato al cimitero. “Intendi in generale, o adesso?” Carrie non disse niente. Era molto paziente quando c’era da aspettare. “Cosa vuoi sapere?” le chiesi. “Qualsiasi cosa mi dirai.” Feci una risatina sforzata. “Credevo che stessi per dirStudio 103
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mi: ‘Qualsiasi cosa mi dirai rimane tra noi’. Come quando si va dallo psicologo. Non è così che ti dicono dallo psicologo?” Per qualche motivo mi ricordavo mia madre sulla spiaggia, nell’acqua fino alle ginocchia, che mi dava le spalle. Ha i pantaloni bagnati fino alla vita e se avanza le si bagnerà anche la camicia. Mi chiedo perché dovessi tesaurizzare quel ricordo. Perché quella semplice immagine statica sembrava una moneta così rara? “Sono ancora qui che aspetto”, disse Carrie. Mio padre pubblicò altri due racconti in novembre, entrambi su un uomo la cui moglie sta morendo di cancro. Aveva un debole per descrivere i sogni, sogni lunghi, palesemente simbolici, e scoprii che anche i suoi racconti si leggevano come se fossero sogni, li subivo come se fossero sogni, e dopo un po’ mi dimenticavo che stavo leggendo. Come ci diceva il direttore della banda in cui suonavo alle superiori: “La meta è smettere di vedere le note”. Non mi successe mai, ogni nota era un seme che dovevo mandare giù, ma adesso capivo cosa voleva dire. Verso la fine del mese mi ammalai per una settimana. Annullai le lezioni e restai a letto, in un dormiveglia frenetico. Carrie apppariva, scompariva, riappariva. Prendevo i racconti di mio padre a casaccio e li rileggevo mescolando i paragrafi. Cercavo le parole ricorrenti, i particolari ripetuti. Una frase specifica richiamò la mia attenzione, tratta da “Sotto la luce “. Quell’autunno gli alberi rifiutavano con tirchieria di separarsi dalle proprie foglie. Nel mio delirio, sembrava che quella frase risolvesse tutto. La memorizzai. La recitai. Ero io l’albero che rifiutava di separarsi dalle proprie foglie, ma non potevo lasciarle libere, perché se lo facevo non me ne sarebbero rimaste più. Mio padre aspettava con un rastrello perché quello era il suo compito, ma io ero troppo tirchio e gli alberi assomigliavano tanto alle persone, non è vero? Guarii. La mattina in cui tornai in classe, Jacob Harvin del corso di Preparazione alla scrittura mi mise un pacchetto di Cheetos sulla scrivania. “La macchina me ne ha dati due per sbaglio”, disse. Lo ringraziai e cominciai a parlare di concordanza tra soggetto e verbo. Con la coda dell’occhio continuavo a sbirciare il pacchetto di Cheetos arancioni e provavo una gratitudine incredibile. “Qualcuno mi parli del soggetto di questa frase”, dissi, scrivendola sulla lavagna. “Gli alberi in Florida rifiutano di separarsi dalle proprie foglie”. Terrie Inal alzò la mano. “Sta piangendo, professor Moxley?”, Chiese. “No, Terrie, sono solo allergico alle cose” risposi. “A me sembra che stia piangendo”, disse. “Ha bisogno di un momento di pausa?” La parola momento fu la goccia che fece traboccare il vaso. Piansi davanti alla classe mentre gli allievi assistevano inorriditi, annoiati, divertiti, comprensivi. “È solo che… è stato un gesto così carino”, ho spiegato. Più tardi nel corso della settimana mio padre telefonò e gli dissi che avevo quasi finito di leggere uno dei suoi 104 Studio
racconti. “Per ora è buono”, dissi. Carrie mi suggerì di smettere di scrivere per un po’, senza sapere che l’avevo già fatto. Mi ubriacai e mi ruppi gli occhiali. Qualcuno mi scrisse ciospo con il pennarello indelebile sul cofano della macchina. Un giorno andai a trovare Harry Hodgett nel suo ufficio. Mi recai al campus a piedi, con una bottiglia di Chivas Regal, il suo preferito, e mentre camminavo ripensavo a quello che avrei detto. Hodgett era un personaggio che incuteva timore. Si divertiva a fare giochetti con la gente. Aveva la porta aperta, ma l’unica traccia della sua presenza era una tazza vuota di fianco al racconto di uno studente. Mi sporsi e vidi T.M.N.I. scritto sul margine con l’eloquente penna blu di Hodgett (stava per Triste ma non interessante), poi mi sedetti. Nell’ufficio c’era odore caldo e stantio di libri vecchi. Alle pareti erano esposte fotografie incorniciate di Hodgett e vari degeneri famosi. “Questo non è lo zoo didattico”, disse Hodgett mentre entrava. Portava pantaloni della tuta e una maglietta Everlast con le maniche sfrangiate. “Chi sei?” Hodgett stava facendo uno dei suoi giochetti. Sapeva benissimo chi ero. “Sono io, Moxley”, risposi, stando al gioco. Si sedette con un grugnito. Sembrava malandato, confuso, sfiatato, il che significava che era all’inizio di uno dei suoi periodi da sobrio. “Ah, certo, Moxley. Non ti avevo riconosciuto senza il… hai presente.” “Il cappello”, azzardai. Tossì per un po’, poi sollevò il cestino e ci scatarrò dentro. “Allora, cosa fingi di essere oggi?” mi chiese, che nella lingua di Hodgett significava: “Allora, come stai?”. Esitai, poi risposi: “Bambù”, una bella cosa imperscrutabile da fingere di essere. Chiuse gli occhi, appoggiò la testa sullo schienale per mostrare la cicatrice livida sotto il mento, che nella lingua di Hodgett significava: “Vai pure avanti”. Gli raccontai tutto di mio padre. Conoscendo bene i gusti di Hodgett, esagerai alcuni particolari, facendolo sembrare più violento. Hodgett aveva gli occhi chiusi, ma capivo che stava ascoltando dal fatto che sul viso gli si disegnavano tic e cipigli. “Ha mandato i racconti usando il mio nome”, dissi. “E io non scrivo una riga da più di un mese.” Con mia grande sorpresa, Hodgett aprì gli occhi, mi guardò come se si fosse appena svegliato e disse: “Il mio vecchio una volta ha cercato di graffettarmi un uccello canoro allo scroto con la pistola sparapunti.” Incrociò le braccia sul petto. “È solo la verità, non sto cercando di farmi compatire.” Mi ricordai di aver già letto quella frase precisa (pistola sparapunti, uccello canoro, scroto) e poi mi sovvenne dove. “Succedeva a Moser”, gli dissi, “alla fine del tuo romanzo La strada difficile. Suo padre gli vuole dare una lezione sulla perdita.” “Quello non è un romanzo, Capo. Quella era vita vissuta in prima persona.” Sbuffò, rauco. “Tutta questa storia delle riviste letterarie e delle telefonate e della sensibilità ferita non è per nulla affascinante. Un racconto
© William Galbraith Crawford
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deve cantare come una ferita. Voglio dire, metti il tuo padre e il tuo figlio insieme nella stessa stanza. Lascia in giro un po’ di armi.” “Ma questo non è un racconto”, gli dissi. “Lo sto vivendo in prima persona.” “Sono pagato per insegnare agli studenti come te il modo di rovinare la carta. Guardami, amico: sì e no riesco a pensare.” Sul viso gli si succedette una serie di contrazioni, come uno spirito maligno in uno specchio. “Vuoi il mio consiglio?”, Disse. “Vai a parlare con il tuo vecchio. La vita non è un’opera lirica. Assomiglia di più a una serie di pubblicità di oggetti che non abbiamo la minima intenzione di comprare.” Strizzò gli occhi, mentre mi esaminava. Aveva gli occhi cadenti e una pellicola bianca agli angoli della bocca. Il naso era ricoperto da una ragnatela di capillari scoppiati. “Che cos’è successo alla ragazza, comunque?” mi chiese Hodgett. “Quella dal fascino sexy.” “Parli di Carrie? Della mia ragazza?” “Sì, Carrie. Una volta avevo anch’io ragazze come Carrie. Sono divertenti.” Chiuse gli occhi e con la mano destra cominciò a massaggiarsi l’inguine, noncurante. “Aveva scritto quel racconto sul reparto ustionati.” “Carrie non scrive più”, dissi, cercando di infrangere l’incantesimo. “Che peccato” disse Hodgett. “Beh, immagino che le cose vadano così. Il talento comprende i suoi limiti e rinuncia, mentre l’incompetenza continua a sfacchinare finché non ha pronto un libro. In una rissa per strada, secondo me l’incompetenza batterebbe il talento in qualsiasi circostanza.” Raccolsi la bottiglia di Chivas Regal e feci per andarmene. Esaminai il faccione vistoso, grezzo e malconcio del vecchio. Si stava ancora toccando. Volevo dirgli qualcosa di risoluto. Volevo che le mie parole gli sbatacchiassero nella testa tutto il giorno, come le sue nella mia. “Grazie”, gli dissi. Annuì, poi indicò la bottiglia. “Puoi lasciarla dove vuoi”, disse. Un altro ricordo: mia madre, mio padre e io nel nostro salotto. Io ho otto anni. In un angolo c’è l’albero di Natale, sul muro sono appese tre calze, sul tavolo della cucina c’è un pupazzo di neve fatto di palle di polistirolo. Stiamo per aprire i regali. A mio padre piace ispezionare accuratamente quelli per lui, e provare a indovinare cosa c’è dentro. Prende un pacchetto piatto, avvolto in carta argentata, lo scuote, lo rigira, se lo appoggia all’orecchio, poi dice: “È un libro”. Se lo appoggia sulle ginocchia e chiude gli occhi. “Un… un’autobiografia.” Ci azzecca ogni volta. Mia madre porta una vestaglia gialla e sta seduta sotto una coperta. Ha di nuovo freddo. È malata, ma io non lo so ancora. Apre i regali distratta, dicendo wow e che bello e poi piega con ordine la carta da regalo a metà e poi in quattro, mentre io apro i miei regali strappando la carta uno dopo l’altro. Ringrazio senza neanche alzare lo sguardo. Quell’anno io e lei avevamo scelto per mio padre un nuovo orologio subacqueo, che aspettammo a dargli quando tutti gli altri regali erano stati aper-
ti. L’avevamo messo in una scatolina e poi l’avevamo chiusa in una scatola più grande. Gliela metto di fronte. Lui guarda me, poi lei. Solleva la scatola. “Leggerissima.” La scuote, bussa su tutti i sei lati della scatola. “Le cose non sono ciò che sembrano.” Mia madre comincia a tossire, piano sulle prime (mio padre si ferma, posa le mani piatte sopra la scatola) poi in modo incontrollabile, in grandi scoppi secchi. Le porto dell’acqua che beve ancora tossendo. Mio padre l’accompagna in bagno e la sento che ha conati di vomito e tosse secca. Per qualche motivo punto il telecomando verso la televisione. Il pacchetto rimane ancora chiuso in salotto per il resto della giornata. La sera, quando la mamma è a letto e io mi sto lavando i denti, lui lo prende e dice: “Un orologio subacqueo, impermeabile fino a cento metri”, poi lo apre. Io e Carrie andammo a Vero Beach la vigilia di Natale. Ai lati della strada pareva ci fosse un eccesso di auto abbandonate e animali morti, e tra quello e il cielo grigio e i cartelli scritti a mano che delimitavano le fattorie messe a maggese (PREPARATEVI ALL’ESTASI: LODATELO) cominciai a sognare a occhi aperti l’Apocalisse. Speravo che arrivasse proprio così, in silenzio, senza troppo preavviso o grandi celebrazioni. “So che è opera di fantasia”, stava dicendo Carrie, a proposito del racconto più recente di mio padre, “ma è difficile non interpretarlo come realtà. Hai incollato davvero delle foto di tua madre sulla porta d’ingresso quando Lara è venuta a casa vostra per la prima volta?” “Forse”, risposi. “È probabile. Non me lo ricordo, davvero.” Avevo attaccato le fotografie in cerchio, come il quadrante di un orologio. Stavo in cima alle scale ad aspettare che suonasse il campanello. Carrie indicò un car-
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tellone pubblicitario su cui compariva la sagoma dell’auto di un pilota della NASCAR che era rimasto ucciso da poco, affiancata da ali bianche da angelo. “Spero che non abbiano cominciato ad accogliere in paradiso anche le auto da corsa”, commentò. Riuscii finalmente a parlare con mio padre della sua scrittura mentre eravamo in garage a cercare il pupazzo di neve di palle di polistirolo. Frugavamo dentro scatoloni e trovammo annuari scolastici, gufi fatti a macramé, vestiti e il mio oboe avvolto nel velluto viola. Mi dimenticavo sempre quanto mio padre fosse in forma e belloccio finché non lo vedevo di persona. Aveva i capelli ormai del tutto grigi e gli occhialini da lettura argentati in fondo al naso. “Non sapevo che eravamo andati alla discarica per cercare quella bambola”, dissi. Mi uscì un tono più di rimprovero di quanto avessi voluto. Lui alzò lo sguardo dello scatolone, con gli occhi ancora strizzati, come se avesse esaminato delle stanze buie ammassate di oggetti. “Parli del racconto?” “Angeli azzurri”, risposi. “L’ho letto. Li ho letti tutti, a dire la verità.” “Mi sorprendi”, disse, mentre piegava la falda dello scatolone che aveva davanti. “È meglio non ruminare troppo su quello che succede nei racconti, non trovi?” “Ma tu cercavi quelle bambole.” “Non mi aspettavo di trovarle. Volevo vedere dove andavano a finire.” Scosse la testa. “È difficile spiegarlo. Dopo la morte di tua madre… preparavo la colazione, per esempio, e mi mettevo a pensare ad Annie e cominciavo a dare i numeri. L’unico momento in cui mi rilassavo era nel sonno. Per quello ho cominciato a studiare i sogni. Ho scoperto che, se facevo alcuni esercizi prima di addormentarmi, potevo controllare quello che sognavo. Potevo ricordarmelo. Potevo fare una pausa e riavvolgerli avanti e indietro. Mi stai guardando come se ti facessi pena.” “È solo strano”, gli dissi. “I sogni, i racconti, sembra che io non ti abbia prestato attenzione. Non avevo la minima idea che tu ti disperassi in silenzio mentre io aspettavo il toast del mattino.” “Non era proprio sempre così.” Si tirò su gli occhiali e mi guardò. “Dovresti provare a scrivere qualcosa su di lei, se non l’hai già fatto. Vedrai che porterai alla luce cose incredibili. I racconti sono proprio come sogni.” Qualcosa nel suo consiglio mi innervosì. Mi fece ricordare la sua nota dell’autore, presuntuosa e noncurante: Questo è il primo dei suoi racconti che viene pubblicato. “I racconti non sono sogni”, dissi. “Davvero? E allora cosa sono?” Non lo sapevo. Sapevo solo che, se lui credeva che fossero sogni, allora dovevano per forza essere qualcos’altro. “Sono vasi”, dissi. “Pieni di api. Sviti il coperchio e le api escono.” “E va bene”, disse, spostando la scatola. “Ma penso comunque che dovresti provare a scrivere qualcosa su di lei. Anche se significherebbe far uscire le api.” Continuammo a cercare finché trovai il pupazzo di neve a faccia in giù in una scatola piena di tovaglie rica106 Studio
mate. Un topo o una faina gli aveva mangiato mezza testa, ma aveva ancora il suo sorriso di perle nere. “Mi ricordo quando l’hai costruito”, disse mio padre. Anch’io. O meglio, mi ricordavo quando l’avevo costruito, senza ricordarmi le procedure. L’avevo costruito con la mamma quando avevo tre anni. Ogni anno compariva a centro tavola in cucina e ogni anno lei diceva: “Questo l’abbiamo costruito io e te. Fuori pioveva e tu continuavi a dire: ‘Andiamo fuori in mezzo alla nebbia’”. Forse era convinta che, se me lo ricordava a sufficienza, non avrei mai dimenticato il giorno in cui l’avevamo costruito, e forse per un po’ fu proprio così. Portai in casa il pupazzo di neve e lo mostrai a Carrie, che era seduta in salotto con Lara. “È mostruoso”, disse Carrie. Lara mi lanciò uno sguardo eloquente. In grembo aveva una ghirlanda di popcorn incompiuta. “Carrie mi raccontava cosa pensa dei racconti di tuo padre”, mi disse. “Vuoi aggiungere qualcosa?” Mio padre entrò in salotto con due candelieri spaiati. “Sono”, dissi lentamente, guardando Carrie, e aspettando che mi suggerisse le parole con le labbra, “molto”, era così carina, non solo da vedere, ma proprio carina come persona, “buoni”. Respirai e dissi: “Sono molto buoni”. Carrie applaudì. “E lo pensa sul serio”, disse. “Quell’espressione vagamente nauseata che ha in faccia, quella è sincerità.” E poi, rivolta a me: “Visto che non era poi tanto difficile? Non ti senti più leggero adesso, che ti sei tolto il peso?” Mi sentivo come se avessi ingoiato una pietra. La sentivo che si piazzava lì e cominciava a ricoprirsi di muschio. “È Frederick il vero scrittore”, disse mio padre. “Io lo faccio solo come passatempo.” Che umile, no? Che saggio e che paterno e che gentile. Ma sapevo cosa voleva dire: È Frederick l’impostore. È lui il finto ventriloquo. Io mi limito a tamponargli le ferite. Che altro devo aggiungere sulla nostra visita? Voglio arrivare al racconto di mio padre sul Messico senza troppi arzigogoli. Sentivo la voce di Hodgett: Non finire mai un racconto con un personaggio che comprende qualcosa. I personaggi non devono comprendere qualcosa, spetta ai lettori farlo. Ma se il personaggio è anche un lettore? Decorammo l’albero di Natale. Appendemmo le luci sulle palme da sagù nel cortile davanti alla casa. Facemmo colazione in un vecchio zuccherificio e, dal molo, vedemmo un piccolo branco di delfini che uscivano dall’acqua all’alba e si rotolavano. Io studiavo mio padre, cercando di resistere all’impulso di catalogarlo. La sua espressione fissa era di curiosità benevola. Lui e Lara si tenevano ancora per mano. Completavano le frasi l’uno dell’altra. Sembravano felici. Osservando mio padre che guardava i delfini mi sembrava di stare a un’asta a fare offerte sullo stesso oggetto. Era una sensazione brutta e avara. La vigilia di Natale non riuscivo a dormire. Io e Carrie eravamo nella mia vecchia camera, che ora ospitava due letti singoli separati dal mio vecchio comodino tri-
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colore. Appena mi abbandonavo al sonno mi ritornavano tutte le vecchie paure, il senso di morte di una stanza buia, il rumore di pietra contro pietra della lastra che scivola a chiudere una cripta. Durante la notte sentii Carrie che si rigirava. “Non riesco a dormire”, dissi. “Continua ad allenarti”, disse, assonnata. “È tutta questione di allenamento.” “Mi chiedevo perché hai smesso di scrivere. Avevi più talento di tutti noi messi insieme. Sembrava che ti venisse facilissimo.” Espirò dal naso e si girò a guardarmi. Al buio le vedevo a malapena gli occhi. “Facciamo finta”, disse. Aspettai che finisse la frase. Non la finiva, così chiesi: “Facciamo finta di cosa?”. “Facciamo finta che ci siano due persone sdraiate vicine in una stanza. Facciamo finta che parlino di una cosa, poi di un’altra. Diventava troppo difficile mettergli delle parole in bocca. Avevano smesso di collaborare.” Si girò e sbatté un ginocchio contro il muro. “Cominciavano a dire cose del tipo: ho fame, ho sete, ho bisogno d’aria. Sono stufo di essere descritto. Voglio vivere.” Pensai al suo racconto sul reparto ustionati, al fatto che i ragazzi erano da una parte della stanza e le ragazze dall’altra. Prima del coprifuoco entrava l’infermiere e faceva cantare tutti, poi chiudeva una tenda per separare i ragazzi delle ragazze. Dopo un po’ le chiesi: “Dormi?”. Non rispose, quindi scesi al piano di sotto. Mi versai un bicchiere d’acqua e cercai qualcosa da leggere nello studio di mio padre. Sul tavolo aveva un dizionario normale, uno dei sinonimi e una cosa di nome Testo classico di medicina interna dell’imperatore Giallo, che mi misi a sfogliare. Quando l’uomo invecchia, le ossa gli si seccano e diventano fragili come la paglia, e gli occhi si fanno sporgenti e infossati. Aprii il primo cassetto del suo schedario e perlustrai una pila di racconti fotocopiati, finché non trovai il manoscritto graffettato dal titolo: “Racconto sul Messico”. Mi sedetti sul suo divano a esse per leggerlo. In Messico, cominciava, si ricordano ancora di Pancho Villa. Mi preparai per un resoconto appena dissimulato della vacanza di mio padre con Lara, ma a quanto pareva invece la storia seguiva un uomo, sua moglie e il figlio in vacanza a Città del Messico. Ci sono andati perché la madre è malata e la loro ultima speranza è un guaritore che ha fama di saper aiutare anche i casi più disperati. La famiglia è nella sala d’attesa del guaritore e aspetta la visita. Il figlio, nascosto sotto le cuffie del suo nuovo walkman, vorrebbe solo andare a casa. La mamma cerca di parlargli, ma lui continua a rispondere Eh? Eh?. Poi i tre entrano in una stanza poco illuminata, dove il guaritore chiede a mia madre cosa c’è che non va, cosa le hanno detto i suoi medici e perché è andata da lui. Racconta una storia sconclusionata su Pancho Villa, che nessuno di noi ascolta, poi pesca in un cassetto e ne estrae un grattaschiena di legno. Lo fa scorrere su e giù per la schiena di mia madre. “Come si sente?”, chiede. “Bene”, risponde la madre. “Serve a qualcosa?”
“A niente. È piacevole, no? Se lo può tenere, gratis.” Dovevo essermi addormentato mentre leggevo, perché un certo punto del racconto i fili si scioglievano e la madre, il padre e il figlio se ne andavano dal Messico fino a una spiaggia che sembrava molto quella vicino a casa nostra. Alberghi che incombono sulle piante di avena marina. Il faro dell’insenatura che si vede a malapena in lontananza. Sono seduto su una coperta a fianco di mio padre, mentre mia madre è nell’acqua fino alle ginocchia e ci volta le spalle. “È malata”, mi dice mio padre. “Non vuole che ti dica niente, ma sei abbastanza grande per saperlo. È molto… malata.” Se è malata non dovrebbe stare nell’acqua, penso io. Ha i pantaloni bagnati fino alla vita e se avanza le si bagnerà anche la camicia. Prendo una manciata di sabbia e me la lascio scorrere tra le dita. “È come una battaglia”, dice. “Il bene contro il male. Se ci facciamo forza tutti insieme, la supereremo indenni.” Mia madre esce dall’acqua. È inondata di luce e già la vedo a malapena. Si siede vicino a noi, mi posa la mano sulla testa e, nel sogno, capisco che quello è uno dei momenti che ho bisogno di prolungare. Le metto la mano sulla testa e ce la trattengo. La spingo giù finché fa male, e continuo a spingere. “Puoi mollare”, dice lei. “Tanto, non vado da nessuna parte.” Il mattino dopo trovai mio padre con un pigiama a scacchi vicino all’albero di Natale. Scavalcò un mucchio di regali per prendere il dono che gli avevamo portato io e Carrie. Scosse il pacchetto e lo auscultò. Ci picchiettò sopra con le dita. “Non è un orologio”, dissi io. Si girò verso di me e sorrise. “Ho ristretto le possibilità a due”, disse. “Vieni.” Mi fece cenno di avvicinarmi. “Siediti, ho una cosa per te.” Mi sedetti sul divano e mi porse un pacchetto lungo e piatto avvolto in carta rossa e bianca. “Aspetta, aspetta”, disse quando cominciai ad aprirlo. “Indovina che cos’è.” Lo guardai. Mi venivano in mente solo un paio di bacchette di legno. “Ascoltalo”, disse, prendendomelo di mano. Me lo avvicinò all’orecchio e lo scosse. “Non pensare, ascolta e basta. Cosa ti dice questo suono?” Non sentivo niente. “Non sento niente”, gli dissi. Continuò a scuotere il dono. “Sta cercando di dirti che cos’è. Lo senti?” Aspettai, ascoltai. “No.” Mi picchiettò il pacco contro la testa. “Ascolta più attentamente”, mi disse. Kevin Moffett. La sua seconda raccolta di racconti esce a breve per HarperCollins. Con questo racconto, apparso su McSweeney’s, ha vinto il National Magazine Award nel 2010. Anna Mioni ha tradotto volumi di narrativa e libri sulla musica rock. Ha tenuto seminari di traduzione e ha lavorato per due case editrici. È stata segnalata al Premio Monselice per la Traduzione.
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TORNO A VIVERE IN CITTĂ testo e fotografie di
Ari Marcopoulos
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ueste fotografie le ho scattate appena mi sono ritrasferito a New York dopo aver vissuto più di dodici anni nella campagna californiana. Sono tornato a viverci fondamentalmente per due motivi: stare vicino ai miei figli e assecondare una necessità personale di nuovi stimoli. Così, appena arrivato, ho iniziato a camminare per Brookyln, dove ho preso casa, e mi sono accorto che il mio modo di vedere la città era cambiato. Il mio occhio e la mia produzione sono sempre stati focalizzati sulle persone, oggi mi rendo conto invece di vedere le cose da una nuova distanza, che mi induce a concentrarmi di più sui paesaggi e gli oggetti e l’architettura. Ad esempio, ho scattato molte di queste nuove costruzioni che sono di fatto per gran parte rimaste disabitate in seguito alla crisi immobiliare del 2008. Questo è il senso del mio portfolio che vedete qui pubblicato: parla della mia nuova prospettiva e del mio nuovo modo di vedere New York. Io cre-
do che ciò sia anche una reazione al fatto che gran parte del mio lavoro – in particolare quello su commissione – sia focalizzato di base sul ritrarre persone, volti, celebrità. Ovviamente ho preso atto di come la città sia profondamente cambiata in questi anni, e di come alcuni fenomeni vicini al mio mondo di riferimento siano definitivamente esplosi assumendo dimensioni gigantesche, come solo succede a NY. Penso al fenomeno dell’estetica hipster ad esempio. È ovviamente stato un fenomeno culturale molto rilevante, ma è sotto gli occhi di tutti. È ovvio in un certo modo, ed è per questo che è rimasto fuori dal mio obiettivo, credo. Che oggi, ripeto, mi interessa rivolgere verso l’ambiente che mi circonda. Ari Marcopoulos, fotografo e regista, è nato ad Amsterdam. Ha lavorato, fra gli altri, con Jean Michel Basquiat e i Beastie Boys. I suoi lavori sono stati esposti in numerosi musei e gallerie fra cui la Whitney Biennal del Whitney Museum of American Art, il PS1/MOMA di New York, il Berkeley Museum of Art, la Kunsthaus di Zurigo, e la Photographer’s Gallery di Londra.
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la raccolta completa della trasmissione cult degli anni Zero finalmente in libreria
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Giovanni Giommi Latino PeLLeGrini aLberto Piccinini
un Libro backstaGe con testi deGLi autori e fotoGrafie
massimo coppola su mtv compone il puzzle della società di domani. ricorda lo stile di mario soldati, ed è buona tv. L’ Unità belle storie raccontate con uno stile serrato. la Repubblica uno stile che ricorda quello del primo nanni moretti. La Stampa racconti avvincenti, la realtà rappresentata dal punto di vista dei ragazzi. aldo Grasso, Corriere della Sera
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Libri
TOMMASO PINCIO e la ristampa di un “romanzetto” di stefano ciavatta
L’
interno è quello di un’astronave. C’è un uomo dal volto serio, in chiaroscuro, come uno di quei personaggi dall’aspetto malsano disegnati dall’americano Charles Burns. Sembra in posa, pronto per un autoritratto. L’autore e protagonista del disegno è lo scrittore Tommaso Pincio. L’immagine è stata scelta per la ristampa del romanzo Lo Spazio Sfinito edito da minimum fax (pp. 157, € 13,50). In copertina c’è un’altra sua creatura, una sexy ma perplessa Marylin Monroe che guarda fuori campo, mentre da un oblò vediamo Jack Kerouac, vestito con un insolito completo, galleggiare nello spazio. Il libro ritorna dopo dieci anni dalla sua prima fortunata edizione con Fanucci per la collana Avantpop, dove Pincio figurava accanto a Dick e Vollmann. Del “romanzetto”, come lo chiama Pincio, ne aveva parlato così Emanuele Trevi nel suo vagabondare romano in Senza Verso (Laterza): «Nella sua minuscola casa M.C. in arte Tommaso Pincio, e Bart Simpson sul citofono, a ulteriore confusione dei suoi simili, ha composto un libro molto breve intitolato Lo Spazio Sfinito, una specie di romanzo i cui protagonisti si chiamano Jack Kerouac e Marilyn Monroe, ma non hanno niente a che vedere con il Jack e la Marilyn di cui tutti sanno, sono semplicemente omonimi. Lo Spazio Sfinito è ambientato in un mondo parallelo al nostro e dunque simile e dissimile, vicinissimo e remoto. Questo breve romanzo d’amore mi è sembrato ben altro che un breve romanzo d’amore. Dietro la
malinconica bellezza della trama di questo libro si nasconde una sapienza, questo breve libro va letto come un manuale, cioè in definitiva l’unico tipo di libro che può essere utile aver letto, semplicemente perché i casi della vita prima o poi ce lo possono far tornare utile. Tanto più che Lo Spazio Sfinito si potrebbe definire più esattamente un manuale di sparizione e non c’è nessuno al mondo, credo, che presto o tardi non si trova di fronte al desiderio o alla necessità di sparire». Lo aveva già scritto Flaiano recensendo nel 1969 su L’Europeo il kolossal 2001 di Kubrick: «Attenzione, nello spazio non c’è nulla di umano». E va a vuoto anche questa avventura tra simboli pop e beat. Sfinito lo spazio dunque ma non l’immaginario americano di Pincio, che per molti anni ha vissuto come pittore e gallerista a New York. Lo abbiamo incontrato a Monti, nel suo quartiere: «All’epoca, quan-
masi scosso dalla lettura della Scimmia sulla Schiena. Facevo il punk in piena era new wave, venivo da una famiglia piccolo borghese, perbene. Per scena facevo il tossico sull’autobus. Poi ho conosciuto gli ambienti heroin chic. Ma sono rimasto legato al mondo della psichedelica, a quello di Huxley per intenderci. E ti dirò di più, nella droga non ho mai visto nessuna traccia di romanzi. L’alcol ha contagiato molto di più gli scrittori, ma l’alcol non è mai stato glamour. Con la droga non riesci a scrivere, con l’alcol sì. Qualcuno tempo fa diceva che gli scrittori sono una categoria a rischio per via della solitudine». «A Bangkok si arriva solo quando si sente che nessuno ci amerà più, quando si getta la spugna, la città è un protocollo della caduta». È l’incipit del diario di esilio volontario dell’inglese Lawrence Osborne. Ci sono vie ancora non sfinite che la letteratura può percorrere?
“Per scena facevo il tossico sull’autobus. Ma nella droga non ho mai visto nessuna traccia di romanzi” do scrissi questo romanzetto – mi piace definirlo così – ero stonato, stanco, frastornato. Anche per colpa delle cattive abitudini. Non mi piace fare mitologia delle droghe, ne conosco bene il risvolto quotidiano tutt’altro che epico. Ero ragazzino, leggevo Burroughs, oggi magari fa sorridere, ammesso che si arrivi a leggerlo da giovani. Ma all’epoca ri-
«Ho amato Bangkok di Osborne perché conosco bene la città. Il suo diario racconta bene il senso dell’espatriato, dell’occidentale perso per sempre, e non semplicemente dello straniero. C’è una mitologia che riguarda questo tipo di scrittura, la condizione di spettatore del mondo, che mi appartiene molto: penso ai capolavori di Greene e Maugham, Studio 119
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ma anche l’Hemingway in Costa Azzurra di Fiesta. Come lettore sono però più legato ai romanzi che ai diari. Anche Vollmann a modo suo è un espatriato pur vivendo in California, è uno scrittore di enorme talento, ha un modo totalitario di concepire la scrittura, mi chiedo come faccia a vivere così tanto. Sempre riguardo gli americani un grande sottovalutato è E. L. Doctorow, che non è esoterico né glamour. Sono stato un fanatico difensore di Dick, che ha scontato la maledizione del mainstream dove è arrivato solo come autore fantascientifico. Anche io sono stato spesso accostato alla fantascienza, erroneamente. Le mie storie sono di finta scienza o di scienza della finzione». A volte si ha l’impressione che nella nostra recente letteratura ci sia un deficit di realtà negli scrittori. Eppure di realtà si parla ovunque. «Non credo che dipenda dagli scrittori. Per dirne una, De Lillo non ha neanche una mail. E Michele Mari ha una connessione a 56kb. Ma per me l’assenza dal modo di comunicare nel reale è sempre proficua. Piuttosto è l’Italia che è una piccola nazione, anagraficamente siamo un Paese vecchio. Anche impaurito, con nessuna prospettiva per il futuro. Molte persone in realtà sono dei piccoli centri, dei piccoli individui. Il mondo di Proust era certamente piccolo ma non lo era la società in cui viveva. Ieri si diceva ombelico, oggi autofiction, ma la sostanza non cambia. C’è la venerazione della realtà, il mito del documentario come simulacro, reliquia. Io nutro sospetto per il reale e per questa ossessione di documentarlo. Infatti finiamo per essere un Paese prevedibile, non a caso poi diventiamo navigatori. Ma anche peccatori. Tempo fa Berlusconi ha detto: “Vorrà dire che mi confesso”. Manchiamo di severità verso noi stessi. Non mi tiro indietro, c’è il vizio di autoassolversi nella scrittura. In quel memoriale che è Cinacittà, il protagonista compie una vigliaccheria non confessata. Nessuno se n’è accorto». Stefano Ciavatta. Romano, collabora con Il Riformista, L’espresso.it, Rolling Stone e D la Repubblica delle donne. è caporedattore di Satisfiction.
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editoria e caso Non ci sono più i bestseller di una volta: un ragionamento sul peso dei numeri nel mercato librario italiano. DI
Andrea tarabbia
n Italia oggi escono, tra major e Iquaranta case editrici indipendenti, circa libri al giorno. Il 95% di questi libri, ammesso che arrivi nelle librerie, vende non più di 200 copie, cioè non copre i costi di produzione. Ci sono all’anno uno o due casi di autori monster, ma tutto il resto naviga su cifre che, in paesi dove l’editoria è avanzata come quelli anglosassoni, non sarebbero degne di nota. Una volta un bestseller, per essere tale, doveva vendere 100.000 copie. Oggi ne bastano 15-20.000. Eppure, in Italia oggi nascono moltissime case editrici e progetti editoriali, e il numero di autori esordienti è incredibilmente più elevato rispetto a pochi anni fa, quando lo scrittore «giovane» era guardato come un investimento a fondo perduto. Sulla scia dei Giordano e delle Avallone, oggi sembra invece esserci un’autentica caccia alla nuova voce, con il risultato che spesso sul mercato vengono bruciati autori che meriterebbero – da parte di chi li pubblica – un’attenzione maggiore. Qual è la logica sottesa a tutto questo? Gli editori lavorano a gonfiare il mercato, in una perenne rincorsa al titolo da classifica? Soprattutto, è vero che i grandi gruppi cannibalizzano gli scrittori spingendoli a scrivere à la Faletti o à la Giordano? No, non credo. Esistono ovviamente dei casi di questo tipo, ma il lavoro editoriale è e rimane un lavoro artigianale, in cui il caso e la fatalità giocano ancora un ruolo decisivo. Le scelte e le pianificazioni
contano, come conta ogni strategia per la diffusione di qualcosa a qualunque livello della società. Esiste però un margine molto ampio di imprevedibilità che nessuno, dall’ultimo dei redattori al direttore editoriale, può immaginare. Al di là dei grandi campioni delle vendite per così dire annunciati (Eco, Camilleri, Tamaro, Baricco, Carofiglio, Ammaniti ecc.), quanti sono i bestseller degli ultimi anni? Pochissimi, e per nessuno di questi si poteva immaginare il riscontro che effettivamente c’è stato. Soprattutto, quando si parla di libri pilotati dall’editore, non si tiene mai conto che, per quanto possa essere manipolato da un editor o da un direttore marketing, ogni libro che esce è stato approvato dall’autore. Non esiste, se non in casi di particolare abisso etico, un editore che metta in commercio un’opera che l’autore non ha visto e rivisto, sulla quale magari si è litigato in modo acceso, ma che alla fine non è stata approvata da chi l’ha scritta. È innegabile che il mercato orienti le scelte editoriali, ma attenzione: alle case editrici, negli ultimi anni, sono arrivati – senza che nessuno lo chiedesse – centinaia di orrendi simil-Faletti, simil-Camilleri e simil-Larsson di cui il lettore italiano, per fortuna sua, non farà mai la conoscenza. Andrea Tarabbia nel 2010 ha pubblicato La Calligrafia come Arte della Guerra (Transeuropa) e Indagine sulle forme possibili (Aracne).
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Cinema COTTE DI MAGLIA E MANICI DI SPADE di federico bernocchi
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ate Movie, Disaster Movie, Epic Movie. Mi si gela il sangue nelle vene. Jason Friedberg e Aaron Seltzer sono il male. Quando questi due registi e sceneggiatori mettono le loro goffe manone su qualcosa, vuol dire che il burrone è vicino. Le loro squallide parodie decretano sempre la fine di un sottogenere. I due non fanno altro che aspettare sulla riva del fiume. Poi, nel momento in cui esistono titoli sufficienti per parlare di un sottogenere, ne isolano le sequenze più importanti, le rimettono in scena e le condiscono con un umorismo che a confronto Enzo Salvi sembra uno dei Reali d’Austria. La loro ultima fatica si intitola Mordimi. Le loro attenzioni sono ovviamente rivolte alla ultima miniera d’oro produttiva: i film vampireschi. E mentre il pubblico di mezzo mondo ha premiato il film al botteghino, possiamo tirare un sospiro di sollievo: siamo giunti vicini alla fine del regno di Twilight. Urge quindi trovare un nuovo sottogenere nel calderone delle produzioni cinematografiche dell’ultimissimo periodo (e tenerlo nascosto al duo Friedberg & Seltzer). Curiosamente, l’unico filone che sembra avere i numeri per spodestare gli onnipresenti succhiasangue sembra essere un gradito ritorno: il film di guerrieri dotati di spadone e armature. Certo, detta così non suona come un genere dalle coordinate ancora scolpite nel marmo, ma ci si sta lavorando. Diciamo che l’attenzione sembra essere indirizzata a film d’avventura con una predilezione per un’ambientazione che per comodità chiameremo
medievaleggiante. Cominciamo con l’unico titolo che per ora ha visto il buio delle sale cinematografiche italiane, Solomon Kane. Il film, tratto dalla penna di Robert E. Howard (la stessa che ci ha regalato Conan il Barbaro), racconta le avventure di uno spadaccino puritano che vaga solitario per un’Inghilterra devastata dalla Peste. La pellicola di Micheal J. Bassett saccheggia la mitologia di Howard per realizzare una risposta europea ai blockbuster americani, modello Pirati dei Caraibi. Ingombranti (ma più economici) effetti speciali, mostri e guerrieri al posto del solito Johnny Deep stupefatto e un’assenza pressoché totale di ironia per un film fieramente tamarro, ma molto coinvolgente. In attesa di sapere se Solomon Kane tornerà in altre pellicole, prestiamo attenzione a Black Death, pellicola firmata da Christopher Smith. Siamo ancora in Inghilterra, durante la prima ondata di peste
gli inferi. Black Death è un film profondamente differente da Solomon Kane. Non particolarmente interessato al lato entertainmment della questione, Smith sfrutta il genere per un affondo frontale alla religione e per recuperare certe atmosfere da horror sovrannaturale di qualche decennio fa. Concludiamo questa piccola “British invasion” con il muscolare Centurion, ultima pellicola di Neil Marshall. Il regista di The Descent, ormai spostatosi dall’horror al survival, approfitta di foreste e spadoni per raccontare l’avventura della Nona Legione. Il centurione Michael Fassbender si trova alla guida di pochi ma valorosi uomini impegnati in inseguimenti e battaglie contro i Pitti, unica tribù celtica in grado di fermare l’avanzata romana. Trama ridotta ai minimi termini per un film che sembra essere la somma di Rambo e Un Tranquillo Week-End di Paura, con la preziosa aggiunta di una
Possiamo tirare un sospiro di sollievo: siamo arrivati alla fine del regno di Twilight. bubbonica. Un mucchio selvaggio di violentissimi guerrieri capeggiato dal fervente cristiano Sean Bean, vuole raggiungere un isolato villaggio dove il morbo non sembra essere arrivato. A loro si aggiunge un giovane monaco mosso da motivazioni tutt’altro che spirituali. Il viaggio si trasformerà ben presto in un’allucinata quanto disperata discesa verso
bellissima ex bond girl come Olga Kurylenko nella parte di Etain, incarnazione animale dello spirito pagano della vendetta. Discorso differente per una curiosa pellicola canadese, The Wild Hunt. L’esordio di Alexandre Franchi (regista, sceneggiatore e produttore del film) è ambientato ai giorni nostri e racconta la storia di Erik, raStudio 121
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gazzo di origini scandinave trasferitosi a Montréal. La sua ragazza lo lascia e decide di raggiungere insieme ad altri una sorta di campo hobbit. Erik si mette ovviamente sulle sue tracce e finisce per partecipare a questa incredibile pazzia: ragazzi normali che rinunciano alla loro reale identità per diventare a tutti gli effetti cavalieri, elfi, maghi o potenti semi-dèi guerrieri. The Wild Hunt parte quasi come un documentario interessato a raccontare i campi hobbit, per poi trasformarsi verso il finale in un action con tanto di battaglie e inseguimenti. Estremamente curioso e con un paio di intuizioni narrative assolutamente irresistibili, sfortunatamente indeciso su che direzione prendere. The Wild Hunt finisce per essere un film sospeso in un non-genere e appesantito da una realizzazione che spesso formalmente lascia a desiderare. L’ultimo titolo, sicuramente la lettura più alta del genere che prenderemo in considerazione, è l’incredibile Valhalla Rising. La pellicola, scritta e diretta dal danese Nicolas Winding Refn, il più coccolato dei nuovi auteurs europei, narra la storia dello schiavo muto One Eye che, sfuggito alla sua prigionia, si unisce a dei vichinghi cattolici per un viaggio in nave verso la Terra Santa. Il regista dell’osannata trilogia di Pusher e del sanguigno Bronson si diverte a stupire il suo pubblico. In questo caso utilizza le coordinate del genere per realizzare una sorta di 2001: Odissea nello spazio al tempo dei vichinghi. Estenuante e sicuramente pretenzioso, fatto di paesaggi, nebbia e ipnotici droni di chitarra, Valhalla Rising è un film unico che può anche non piacere, ma che sicuramente non lascia indifferenti. Insomma, i titoli per il rilancio del genere non mancano e anche la Hollywood più cafona se n’è accorta, tant’è che il terribile Marcus Nispel sta ultimando le riprese del suo remake del Conan di Milius. Guardate i titoli interessanti prima che sia troppo tardi. Federico Bernocchi ha scritto e condotto dISPENSER, programma di Radio 2. Collabora da tempo con GQ, Wired e Vice e scrive per i blog di cinema secondavisione e i 400 calci.
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quanto vale imdb? Perché il più grande database d’informazione cinematografica del mondo è anche un affare per la corporation che ne detiene la proprietà.
on lo sanno in molti ma N IMDB è stata una delle prime “creature” del web. Nella sua forma seminale infatti, il sito nasce già nel 1990 come newsgroup su Usenet, praticamente il “nonno” di Internet. All’epoca era un semplice archivio consultabile attraverso delle query, non troppo diversamente da un semplice database di Access. Venti anni dopo IMDB è diventato uno dei database più ricchi, aggiornati, popolari e, soprattutto, user friendly della rete cambiando radicalmente la familiarità di milioni di utenti con volti, nomi e personaggi del cinema passato e presente. Per quanto molto del lavoro alla base del sito sia svolto spontaneamente – come in qualunque community – dagli utenti stessi; sono ancora in molti a chiedersi su cosa si regga IMDB dal punto di vista economico. È di dominio pubblico il fatto che nel 1998 il sito sia stato acquistato da Amazon, quelli che restano ancora oscuri sono motivi e moventi dell’acquisizione. Insomma… “dove sta la convenienza?” come direbbe Vito Corleone (lo citiamo non a caso, visto che Il Padrino Parte 1 e 2 occupano due dei primi tre posti nella classifica top 250 del sito). Aldilà delle dichiarazioni entusiastiche delle parti nel postacquisizione, i vantaggi espliciti di Amazon nell’operazione paiono molto inferiori a quelli latenti. Alla voce ricavi espliciti, infatti, a parte una modesta (specie se confrontata con i 57 milioni di visita-
tori mensili che vanta il sito) raccolta pubblicitaria, troviamo quasi unicamente i cosiddetti account “pro” che – per la davvero modica cifra di 124,95$ annuali – offrono all’abbonato una serie di vantaggi tra cui l’ accesso ai dati riservati (in realtà spesso c’è soltanto la mail di un agente) di attori, registi e sceneggiatori. Una goloseria per mitomani e stalker o, più probabilmente, per giornalisti, ma che non supera i pochi milioni di business annuale. Briciole per una corporation come Amazon. E allora? E allora, la risposta alla questione della “convenienza” può essere una soltanto: metadati e profilazione. Non occorre infatti essere un “maestro del sospetto” per capire che Amazon, top-seller mondiale di contenuti culturali, in IMDB ha visto una risorsa di dati senza pari (non c’entra del tutto, ma a titolo di esempio: http://ia.imdb.com/media/imdb/01/ ad/profiles.pdf ) sui gusti degli utenti, su cosa vende o – ancora meglio – venderà, su quali sono i trend culturali (non dimentichiamo che il cinema incrocia spesso anche tutte le altre forme d’arte; dalla musica alla letteratura) del momento e quali sono i costi che il consumo di massa è più propenso a sostenere. Per Amazon, in teoria ma anche in pratica, IMDB è molto probabilmente un macroscopico indice di riferimento per il pricing, un indicatore preziosissimo per gestire il proprio sterminato listino. Questo è il suo vero valore; e non è quantificabile.
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Media FREE press al capolinea di michele bisceglia
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Polis non c’è più. Dopo sei anni di pubblicazioni stop&go, lo scorso settembre la Guardia di Finanza è entrata nella sede del giornale a Cagliari per sfrattare la redazione e pignorare i mobili. I computer dei giornalisti, pieni zeppi di file sensibili, sono stati messi al sicuro negli uffici amministrativi dell’editore. Quel che non è affatto al sicuro, invece, è il loro lavoro, il loro stipendio: 130 persone finite in cassa integrazione. EPolis era stato una vera boccata d’aria nel mondo della free press, dato che nasceva per andare a insidiare, con una formula ibrida (gratuito in strada, in vendita a 50 centesimi nelle edicole) e contenuti più ricchi e articolati, gli altri tre quotidiani presenti all’epoca in questo segmento di mercato: Metro, City e Leggo. Poi, sulla scia di EPolis, era arrivato anche DNews, accompagnato da tre meteore serali piuttosto interessanti: 24 Minuti (del gruppo Sole 24 Ore), Corriere della Sera (quattro pagine partorite in via Solferino) e Liberazione (esperimento di Piero Sansonetti). Tutti free, tutti disponibili a Roma e Milano intorno alle cinque di pomeriggio e tutti spariti nel giro di poco. C’è stato un momento in cui davvero sembrava che la free press dovesse dare filo da torcere ai giornali cartacei a pagamento (anche loro, ça va sans dire, in crisi profonda), invece è ormai un dato che il fenomeno della stampa quotidiana gratis – quando non si è rivelato un vero e proprio fuoco di paglia – stia cominciando quantomeno a scricchiolare.
Stando agli ultimi numeri Ads (ottobre 2010, e ricordiamo che in estate le rotative per le free press si fermano), i quotidiani gratuiti registrano segni negativi sul fronte della raccolta pubblicitaria, loro unica fonte di sostentamento: meno 11,6% per quanto riguarda il fatturato e meno 7,7% per quanto riguarda lo spazio, percentuali ben più preoccupanti rispetto a quelle dei vari Corsera e Repubblica, interessati sempre da un trend nero, ma comunque in ripresa rispetto al passato. Diminuiscono i soldi, si tagliano gli investimenti e la free press è la prima a farne le spese (il Sole 24 Ore ha chiuso 24 Minuti esplicitamente per mancanza di pubblicità). Guardando oltre confine (suggeriamo di dare un occhio al sito newspaperinnovation.com, dedicato esclusivamente all’universo free press), la situazione è identica. In Inghilterra, nel 2009, hanno chiuso sia London Paper che London Lite, an-
quest’ultimo caso, si trattava però dell’uscita serale). In totale, nel 2009, sono andate al tappetto trentatré testate, di cui ventidue europee. Torniamo a noi. A settembre del 2010 gli espositori di EPolis sono rimasti vuoti. Era già successo in precedenza, ma questa volta pare sia finita davvero. Già nel 2007 c’era stata una brusca battuta d’arresto, con il passaggio di proprietà dal fondatore Nicola Grauso al trentino Alberto Rigotti e il conseguente cambio di direzione, dai fratelli Antonio e Gianni Cipriani a Enzo Cirillo. Nonostante una nuova concessionaria pubblicitaria e la fulminea apparizione/scomparsa di Marcello Dell’Utri nell’assetto proprietario, le diciotto testate locali hanno continuato a uscire a singhiozzo, accumulando debiti e perdendo qualità. Ricordiamo che la macchina EPolis era alimentata dal famigerato telelavoro: ogni redattore siede davanti al computer di casa propria, scri-
EPolis ha chiuso e DNews è in difficoltà. La crisi dell’editoria colpisce soprattutto i quotidiani gratuiti. che se va segnalato un caso in contro-tendenza: l’Evening Standard, un tempo a pagamento, è diventato free dopo essere stato acquistato dal russo Geordie Greig, riguadagnando terreno. All’inizio dello stesso anno, il gruppo Metro aveva soppresso le edizioni spagnole, precedute da quelle croate, polacche e danesi (in
vendo, sentendo colleghi e collaboratori e impaginando il quotidiano a casa propria (il giornale aveva una sola redazione “fisica” a Cagliari). Un modo non proprio come un altro per risparmiare costi strutturali, ma alla fine è andata com’è andata e, dal 2009 al 2010, la diffusione di EPolis è scesa di 130.000 copie. I fratelli Cipriani, una volta chiusa Studio 123
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l’esperienza EPolis, avevano fondato DNews, quotidiano free press pubblicato da Mag Editoriale e molto simile per forma e contenuti al giornale ideato da Grauso. Tempo due anni e la coppia di direttori è stata licenziata. Oggi, DNews è in stato di crisi: perse le due redazioni di Bergamo e Verona, la free press esce solo a Milano e Roma con la forza lavoro ridotta e le buste paga decurtate. Intanto, però, Mario Farina – editore di DNews che per primo sposò il progetto dei Cipriani fuoriusciti a EPolis – ha comprato l’anno scorso l’edizione italiana di Metro (in debito di circa cinque milioni di euro con la tipografia Litosud dello stesso Farina), e lanciato lo scorso primo ottobre anche il settimanale gossipparo, sempre free, Io Spio. Dietro i tre giornali, c’è la concessionaria Visibilia di Daniela Santanchè, che – dopo il divorzio da Libero – segue anche la raccolta pubblicitaria del Giornale della famiglia Berlusconi. Stando ai dati Audipress, Metro è il terzo quotidiano gratuito più letto in Italia, dopo City e Leggo (la freepress di Caltagirone è il quarto giornale più letto d’Italia invece, preceduta da Gazzetta dello Sport, Repubblica e Corsera. In ogni caso, anche per quanto riguarda i lettori vale lo stesso discorso fatto per la pubblicità: la tendenza è calante). DNews rimane con l’acqua alla gola. Le uniche free press che sopravvivono sono, oltre Metro, le storiche City e Leggo. Se la prima, appartenente al gruppo RCS, ha una tiratura dichiarata identica a quella di Metro (intorno alle 850mila copie spalmate in nove città italiane), la seconda – del gruppo Caltagirone – va oltre il milione di copie raggiungendo quindici città, comprese Bari – dove comunque arriva anche City – e Napoli. Ma in questi casi il calo della raccolta pubblicitaria è bilanciato dalla solidità – o presunta tale – degli editori alle spalle, che diversificano le proprie offerte sfruttando piattaforme digitali, edicole e canali distributivi gratuiti come i bar e le fermate dei mezzi pubblici dove è possibile trovare ogni mattina le loro free press. Negli stessi espositori dai quali è scomparso EPolis. 124 Studio
Timoteo e il balfino Il compendio visivo a tutta la storia di McSweeney’s, la casa editrice fondata dallo scrittore Dave Eggers. Dalla prima e-mail del 13 luglio ’98, in cui si parla di una rivista che sarà un place per odd things, fino alla issue #31 (incidentalmente, un normale libro). Passando – vien da sé – per la #22 (The Magnetic One).
Art of McSweeney’s by the editors of McSweeney’s. Pubblicato da Chronicle Books, 264 pgg. a colori, 45 dollari spesi bene.
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Arte COSE CHE NE SIGNIFICANO ALTRE di massimo torrigiani
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e cose hanno lo stesso nome, ma significano cose diverse. A Ottobre, a Londra, nei giorni di Frieze, la fiera d’arte contemporanea, l’avvenimento che ha fatto più scalpore è stata l’inaugurazione dello spazio di Hauser & Wirth in Saville Row, vicino a Piccadilly. Nuova sede della galleria svizzera che tutti hanno definito “monumentale”, aperta con una mostra di Louise Bourgeois che hanno definito tutti “museale”. Con un insieme di stupore e appagamento, per il contrasto che l’opulenza ha creato con l’edizione di quest’anno della fiera, da vedere come sempre, ma estremamente timida. (“Tutta scena” dicono alcuni: il mercato è stabile e dà segnali di crescita, mentre i pessimisti credono che il mondo non sarà più quello di una volta e vedono soltanto ombre). Il vernissage di Saville Row oltre a far brillare agli occhi di tutti l’incrollabile fiducia nel futuro prossimo, e in se stessi, di Manuela e Iwan Wirth, mi ha fatto venire in mente per associazione due correnti che stanno attraversando, ricombinandolo, il sistema dell’arte. La prima è la confusione di ruoli che lo sta ridefinendo. Le gallerie si sostituiscono ai musei, gli artisti ai curatori, i curatori ai galleristi, il passato al presente, e tutti e tutto viceversa. L’esempio di Gagosian. La scorsa primavera a New York le mostre in galleria più ammirate e visitate, e che hanno raccolto un coro di critiche positive, sono state organizzate da Larry Gagosian nei suoi due grandi spazi a Chelsea. Il gallerista
d’arte contemporanea generalmente considerato il più potente, intuitivo e ambizioso al mondo vende opere di Bacon, Basquiat, Beuys, Boetti, Calder, de Kooning, Giacometti, Gursky, Hirst, Kiefer, Klein, Koons, Manzoni, Murakami, Marc Newson, Picasso, Prince, Rauschenberg, Ruscha, Sachs, Serra, Sherman, Sugimoto, Twombly, Vezzoli, Warhol… Per lui la separazione tra moderno e contemporaneo si fa sempre più indistinta. Così nella prima galleria esponeva quadri di Monet, l’impressionista francese nato nel 1840 e morto nel 1926; nell’altra le nature morte anni 70 di Roy Lichtenstein, l’artista pop morto nel ’97. Due giganti dell’arte. (Moderna o contemporanea? Importa la distinzione? A chi e perché?). Due mostre da museo, perfettamente progettate e allestite, e gratutite. Realizzate con opere per la maggior parte non in vendita, ma in prestito, dall’Art Institute di Chica-
private e queste prestano opere alle gallerie. Un bel cortocircuito, considerando che l’acquisizione delle opere di un’artista da parte di collezioni importanti ne fa crescere il valore relativo (quel lavoro e quel periodo) e assoluto (quell’artista e tutto il suo lavoro). E che un quadro in vendita in galleria ha più valore se sostenuto da opere che fanno già parte di collezioni prestigiose. Cortocircuito che al pubblico regala mostre a ingresso libero; alla galleria soldi, prestigio e potere; ai collezionisti opere importanti, già storicizzate. Un problema etico sorgerebbe se un museo finanziato con soldi pubblici favorisse un imprenditore privato. (Ma in che senso? E poi perché?). Pochi mesi prima delle mostre di New York, Gagosian ha organizzato per il PAC, il Padiglione d’arte contemporanea di Milano – istituzione nata (ma non cresciuta) sul modello delle kunsthalle tedesche – una mostra dell’artista
Le gallerie si sostituiscono ai musei, gli artisti ai curatori, i curatori ai galleristi. Il passato al presente. go, la Fondazione Beyeler di Basilea, il museo Marmottan-Monet di Parigi… Con Monet a seguire una sequenza di eventi appena passati in musei internazionali e Lichtenstein a preannunciare due retrospettive previste per il 2012. Le poche opere in vendita a garantire la possibilità e il successo delle operazioni. Le gallerie vendono opere a musei e collezioni
giapponese ottantenne Yayoi Kusama. Precorritrice delle correnti più nuove dell’arte giapponese (Murakami compreso), rappresentante del suo Paese alla Biennale del ’93, poi semi-dimenticata e tornata in auge proprio grazie a Gagosian, che ha deciso di darle nuova vita. Anche portandola a Milano, in uno spazio espositivo di proprietà del Comune, Studio 125
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che ha così affidato la cura di una mostra a una galleria privata, che le opere di Kusama le vende (non durante la mostra al PAC, per carità). Una dimostrazione, tutta nostra, locale, minuscola, del fatto che ruoli e funzioni stanno cambiando, sovrapponendosi e sostituendosi. Come evidenziato su più grande scala dalla mostra di un anno fa al New Museum of Contemporary Art di New York, curata da Jeff Koons, artista, usando i lavori della collezione di Dakis Joannou che di quel museo è uno dei principali donatori e di Koons uno dei massimi collezionisti. Le cose continuano ad avere lo stesso nome, ma significano cose diverse. La seconda tendenza, intrecciata a questa confusione di ruoli, è l’appropriazione di tutta l’arte da parte del mercato del contemporaneo. Con un movimento che ha portato le opere d’arte, come beni di lusso e segni di distinzione, alla sincronia universale. Dove chi collezionerà opere all’ultimo grido comprerà anche arte di metà Ottocento, e poi sumera, e sarà il suo atto di scelta a definire cos’è contemporaneo. Rendendo democratica e praticabile a tutti – soprattutto a chi ha potere d’acquisto e a chi lo segue – l’idea che è contemporaneo quello che consideriamo tale, alla luce dei nostri gusti e senza alcuna relazione con concezioni lineari o cronologiche del tempo. Progressione al cui sviluppo hanno concorso il ciclo sempre più immediato della domanda e dell’offerta – dove padrona è la domanda – e l’impossibilità di produrre opere e artisti nuovi e di valore certo al ritmo forsennato che il mercato chiede. Oltre al conforto del passato in un’epoca incerta e alla crisi della definizione di cosa (e chi) sia “contemporaneo”. Testimoniata, per esempio, dal volumetto What Is Contemporary Art?, curato da e-flux e recentemente pubblicato da Sternberg Press, la cui lettura – a tratti irritante – in conclusione di questa mia colonna inaugurale per Studio vi consiglierei. Massimo Torrigiani è editore di Fantom, trimestrale internazionale di fotografia, e direttore di SH Contemporary, la fiera d’arte contemporanea di Shanghai.
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steve martin, l’Arte, il pop Il comico americano ha scritto un romanzo in cui racconta da insider il mondo delle gallerie e delle case d’aste di New York. Senza ironia. DI
nicola bozzi
con i film di Steve Martin ci Icoosono cresciuto. Che fosse il sadidentista della Piccola Bottega degli Orrori o l’esasperato compagno di viaggio di John Candy in Un Biglietto in Due, il canuto comico americano è stato uno dei pilastri della mia infanzia. Tra i primi comici statunitensi a riempire gli stadi con la sua assurda standup, Martin ha sfondato a livello internazionale con le commedie, da Lo Straccione fino ai remake della Pantera Rosa. Che scrivesse era noto, ma recentemente è venuto fuori che l’eclettico Steve è anche un noto collezionista d’arte. Chi lo ha visto fare il metereologo artistoide in Pazzi a Beverly Hills aveva intuito le sue inclinazioni, ma è con il suo quarto libro, An Object of Beauty, che l’attore ha condiviso davvero con il pubblico tutto il proprio interesse per l’arte e ciò che la circonda. Attraverso la cronaca della cinica ascesa della protagonista Lacey Yeager, da ultima ruota del carro ai magazzini di Sotheby’s fino ad affermata gallerista a Chelsea, il comico traccia un ironico ritratto della New York di case d’aste e collezionisti. La vicenda copre un arco che va dal boom degli anni ’90 fino alla crisi, passando per l’11 settembre, e fa da pretesto per stilare la propria personale guida al lettore ad un mondo che Martin ha vissuto piuttosto da vicino. L’autore menziona Matisse e Warhol, ma anche Cattelan, e si cimenta in brevi profili illustrati di famosi capo-
lavori, inseriti in una trama dove non mancano oscuri sotterfugi di mercato (e persino uno street artist alla Banksy). L’uscita è stata accompagnata da critiche quantomeno miste, che vanno da drastici inviti a smetterla fino a paragoni piuttosto esagerati con Truman Capote. A detta di molti il personaggio principale, non abbastanza tridimensionale e privo di calore umano, è solo una scusa di Martin per raccontare un certo milieu, peraltro (dicono alcuni) con un gusto opinabile. Sensibilità artistica a parte, quello che traspare dalle recensioni è che il libro sia quasi più una guida o un saggio, per quanto ironico, che un vero e proprio romanzo, adatto più ai neofiti che ai veri appassionati. Quello che vorrei sapere io, però, è se il soggetto del libro (più che la fama di Martin) ne aiuterà la vendita. Recentemente abbiamo visto Kanye West lavorare con la nostrana Vanessa Beecroft nella realizzazione del video Runaway e Lady Gaga suonare un piano con su le farfalle di Damien Hirst, mentre Mtv ha iniziato ad organizzare DJ set nei musei con Brand New:Art. Insomma, mi sembra che il pop si stia interessando sempre più all’arte contemporanea, decenni dopo che era successo il contrario. Steve Martin non è certo Mtv, ma magari An Object of Beauty, aldilà del valore letterario, può essere un’altra occasione per avvicinare due mondi.
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Musica i dischi che hanno fatto studio DI CESARE ALEMANNI
S
e guardare in loop lo stesso film fa di te un personaggio che finisce male di Infinite Jest, si può ascoltare diverse volte lo stesso disco senza quasi accorgersene e, soprattutto, senza passare per autistici. Un innegabile plus della musica, infatti, è che non richiede la completa attenzione di chi la fruisce e se ne può godere facendo le cose più diverse: colazione, sesso, docce, orecchiette coi broccoli. E riviste. Ed eccoci al punto. Con gesto deliberatamente autoreferenziale spenderò questa paginetta per caldeggiarvi alcuni degli album che ho ascoltato di più durante la realizzazione di Studio. “Embè”, dite? Ok, ecco un paio di attenuanti: 1) prometto di non utilizzare frasi tipo: “Immaginatela come un’ideale colonna sonora di queste pagine”, 2) almeno non saranno i soliti – gli stessi per tutte – cinque/sei “dischi del mese” di cui sono piene le “riviste musicali”. A dire il vero un disco del genere c’è, ma preferisco tenerlo per “dolce” e partire da Truth Is Not Fiction di Otis Taylor, un album del 2003 che deve una seconda giovinezza a Michael Mann che ne ha “rubato” un pezzo (Nasty Letter) per la OST di Public Enemies (2009). Dunque: Otis fa blues. E basta. Confortante di questi tempi, in cui ogni nuovo gruppo porta con sé tre nuove etichette. È un signore mulatto di mezza età nato a Chicago nel ’48, iniziato al banjo e divenuto in seguito polistrumentista. Con una faccia e una stazza da operaio della Ford, alla soglia dei trenta Taylor lascia la musica per… l’antiquariato. Vende mobili in stile per vent’anni e poi tor-
na, ormai cinquantenne, al blues; diventandone – in un lustro a cavallo tra anni ’90 e Duemila – uno dei principali interpreti contemporanei grazie a dischi come White African (2001) e, appunto, Truth Is Not Fiction: dodici pezzi di blues livido ed essenziale (perlopiù solo voce, banjo e un minimo di arrangiamento), che puntano con rigore alle radici ancestrali e ritualistiche del genere. Si dice spesso che “alla base di tutta la musica leggera c’è il blues” e l’intera discografia di Otis Taylor sembra esistere solo per ricordarcelo. Da un tizio che fa “soltanto” blues a uno che fa… boh. Qualcosa da qualche parte tra hip-hop, surf-pop e la golden age dell’ indie americano. Sembra il ritratto di Beck e invece è quello di Why?: esponente di maggior richiamo commerciale della Anticon, label “di culto” specie a metà decennio. A loro dire fanno abstract rap: rap bianco con pretese intellettuali. Se vi sembra un ossimoro che cela una stronzata, non
vere questa rubrica (quando ancora volevo darle un altro focus e no, non era “gruppi con punteggiatura nel nome”) – sono da prendere con le pinze. Anch’essi vengono da Chicago ma le affinità con Otis Taylor finiscono decisamente qui. Prendendola larghissima li si potrebbe definire postpunk. Nei loro momenti più catchy sembrano dei Talking Heads impazziti ascoltando i Fugazi o viceversa. Usciti con due album: Beatiful Seizure (2005) e Paperwork (2009) – ascoltati da pochi ma recensiti benissimo; le notizie sui Volcano! scarseggiano ma, sempre che continuino a fare musica, vale la pena inserirli nel proprio radar. Infine, il “dolce”: My Beautiful Dark Twisted Fantasy di Kanye West. Superata una certa età non sta bene usare certe parole – e bomba è tra quelle – ma la uso uguale: MBDTF è una bomba. È davvero una “Oscura Fantasia Contorta”. Un’Arca musicale che ospita a bordo i protagonisti
Si può ascoltare musica facendo le cose più diverse: colazione, sesso, docce, orecchiette coi broccoli. E riviste. avete tutti i torti. Nondimeno Why? ci sa fare ed Elephant Eyelash (2005) – consumato negli interstizi di viaggio tra casa e redazione – è un album che vale la pena assaggiare anche solo per Gemini (Birthday Song), uno dei vertici dell’indie-pop recente. Listening fintamente easy. Ecco, invece i Volcano! – scoperti peregrinando in rete proprio per scri-
più disparati (da Bon Iver a Rihanna, da Jay-Z ai Wu Tang) incrociando black music, street-rap e “opera” pop. Il tutto trovando anche modo di imbarcare il sample di un pezzo di uno dei gruppi più bianchi della storia – 20th Century Schizoid Man dei King Crimson – in una delle canzoni più nere del disco. Barocco? Kitsch? Tantissimo, ma hands down. Studio 127
L’arte della guerra
cronachette globali di conflitti più o meno rilevanti
Cassano Antonio VS Garrone Riccardo di
ALBERTO PICCININI
Con addosso la maglia blucerchiata Antonio Cassano aveva ritrovato quasi tutto: il campionato italiano dopo il disastroso trasferimento a Madrid; un posto fisso in Nazionale; l’amore per la pallanuotista Caterina Marcialis dalla quale ora aspetta un figlio; una certa matura rassegnazione di fronte a una carriera che gli ha dato molto meno di quanto promettesse la sua genialità col pallone. La lite apocalittica con Riccardo Garrone, petroliere genovese e patron della Sampdoria, rischia ora di fargli perdere nuovamente tutto, e per questo va intesa molto al di là della sua lettera. è una lite di principio, indifferente alle mille e una scusa già pronunciate dal giocatore barese. Cassano ha cercato di blandire il presidente annunciando che si sarebbe multato per un milione. Giurando e spergiurando in un’altra occasione – a Striscia la notizia – che per ingraziarsi un perdono avrebbe bevuto petrolio appena spillato dalle raffinerie. Erg. Della lite tra Cassano e Garrone sappiamo tutto grazie a una trascrizione pubblicata dalla Gazzetta dello Sport. Negli spogliatoi del campo di allenamento della Samp, Garrone ricorda a Cassano la promessa di ritirare personalmente il premio per il “calciatore sampdoriano dell’anno”, organizzato da un club di tifosi in un albergo di Sestri Levante. Cassano risponde: «Eh sì, che io vado a prendere un premio in quella merda d’albergo!». «Ma chi ti credi di essere?!» lo incalza Garrone. Cassano: «Perché alza la voce?» Garrone: «Non ho mai alzato la voce con te». Dietro la porta che sbatte, Cassano si allontana recitando un rosario di insulti: «vaffanculo», «vecchio di merda», «bucchini» vari. è lo stesso Garrone a trascriverli nella relazione che porterà il numero 99 di fronte a una commissione arbitrale per decidere l’eventuale risoluzione del contratto. Nella stessa relazione si parla di: «Insubordinazione, aperta contestazione delle direttive aziendali ed eccesso di critica». «è evidente – si legge ancora – che è in gioco la credibilità dell’intero staff dirigenziale della società». è evidente, aggiungiamo noi, che è in gioco un’etica da spogliatoio nella quale il rispetto formale dei ruoli non ha eccezioni e gli ordini non si discutono mai in pubblico, anche se sono idioti, anche se non hanno niente a che vedere con la cosa per la quale sei pagato (e cioè giocare a pallone). è infine evidente che cassanate se ne sono viste, ma questa è davvero minore. Il Club Gianni De Paoli di Lavagna, organizzatore della kermesse, ha reso noto con un comu128 Studio
nicato la sospensione del premio per questa stagione, dicendosi “stupito, offeso e amareggiato”, colpito nella propria credibilità. Con tutto il rispetto, chissenefrega. In tempi come questi, tra precariato diffuso e Marchionne contro l’ultimo baluardo sindacale della Fiom, il caso Cassano ha una sinistra familiarità. Non sono importanti tanto i milioni in ballo, quanto lo stile. Garrone, si ricorda ancora, è stato per Cassano “come un padre”. La parola giusta è “paternalismo”. «Non è maleducato – dice ancora di lui il presidente – è ineducato». Lo stupore del vecchio ragazzo di strada – un po’ Pinocchio, un po’ testa matta – perciò sembra sincero. Ci tiene in particolare Cassano a sottolineare in un’intervista esclusiva al Tg5 che “vecchio di merda” lui non lo ha detto mai. E qui siamo alle sottigliezze giuridiche. Ammette soltanto che sì, «un diverbio per quella cavolata di premio» c’è stato, e gli tocca chiedere scusa. Aggiunge: «Voglio stare accanto a Carolina il più possibile nonostante i miei tantissimi impegni, sono spesso fuori casa». Lancia così un messaggio al pubblico femminile, e a quello democratico. Carolina ha una gravidanza difficile. Al neo-paternalismo di padron Garrone si contrappone un “maternalismo” che arrotonda gli spigoli e si appella al vecchio “tengo famiglia”. Parla il prete che ha sposato Antonio, Padre Fortunato: «Bisogna dargli un’altra possibilità – dice – è veramente pentito di quel che ha fatto». Il capitano della squadra, il rude Palombo, si offre come mediatore. Tra i tifosi famosi, Cassano trova sostegno in Paolo Villaggio e Fabio Fazio. Tra i tifosi qualsiasi si fa strada un più pratico machiavellismo: «Non è Vialli», dice qualcuno, ma di fronte agli scarsi risultati della squadra senza FantAntonio, gli inviti al presidente a recedere dai suoi principi “del cavolo” si moltiplicano. Tutto inutile. E mentre i tifosi delle squadre avversarie guardano con interesse ai retroscena che vorrebbero la Juve in agguato per prendere il giocatore, Antonio Cassano nel periodo natalizio si accorda con il Milan. Alberto Piccinini fa il giornalista. Scrive principalmente per il manifesto e Rolling Stone di comunicazione, politica, musica, calcio. Come autore televisivo ha fatto parte del gruppo di blob, scritto programmi per MTV (Brand:New, Avere vent’anni) e per Raidue (Cocktail d’amore). Collabora con Radio3. Tra i suoi libri Fratellini d’Italia, Figu, Atlante del calcio anni ’80. Vive a Roma. Tiene famiglia.
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