7 editoriale................................................................................................................ 5
product
SCOPRI COSA È VERO......................................... di Violetta Bellocchio.......................... 15 intervista a.. ..............
MatThew weiner........................................................... 21
PLAY................................................................. di Matteo Bittanti. ................................ 27 Dal videoclip a X-Factor. ............................ di Gianni Sibilla....................................... 34 UN’ALTRA STORIA. ............................................. di Luca Barra. ........................................... 37 Divagazioni semi-serie.............. DEXTER…. ................. di Dr. Pira................................................. 42 COME CREARE UNA SERIE TV. ............................. di Denis McGrath................................... 45 Estero. Share e top ten.. ........... TUTTO IN FAMIGLIA...... di Paola Capra........................................... 51 .................................... FICTION: CRISI VERA.... di Ludovica Fonda................................... 53 COVER STORY
MASH-UP TELEVISION
LA MEMORIA IN DIRETTA..................................... di Carlo Freccero................................... 63 intervista a.. ..............
Piero Angela.................................................................... 73
intervista a.. ..............
Marco Giusti..................................................................... 91
L’ARCHIVIO DI BABELE. ..................................... di Aldo Grasso. ........................................ 78 ANCORA TU?. .................................................... di Aldo Romersa....................................... 81 FINE DEL PROGRESSO. ..................................... di Carlo Antonelli................................. 88
LA PATINA DELLA TV........................................ di Giorgio Grignaffini........................... 96 REPLICA E REMIX............................................... di Laura Tettamanzi............................... 99 LEGO TV…. ..................................................... di Gregorio Paolini.............................. 104 PARENTESI CHIUSA............................................. di Fausto Colombo. ............................... 107 riscritture.................................................... di Massimo Scaglioni............................ 114 LA SECONDA VOLTA.......................................... di David Bogi........................................... 116
INDUSTRY
Piazza il prodotto!. ....................................... di Marco Vecchia. ................................. 121 SOLDI, SOLDI, SOLDI........................................... di Tommaso Tessarolo.......................... 129 ecologia dell’attenzione................................ di Luca de Biase. ...................................... 135 Sguardi sul mercato globale.. ..... Russia............................................................................................. 145 A UFO!. ............................................................. di Antonio Dini....................................... 153 Mappa.............................. italo tv. ......................................................................................... 161
SIGHTS
meglio fantasma…... di Andrea Lissoni................................... 165 Lo schermo profano.................................... di Federico di Chio. .............................. 172 L’INVASIONE DEI SOCIAL NETWORK. ..................... di danah boyd........................................... 175 Essere Francesca Pasquali........................ di Francesca Pasquali........................... 182 OBAMA AND THE MEDIA...................................... di Cristian Vaccari. ............................... 185 video sign........................................................ a cura di M. Pajé e C. Branzaglia............ 193 Portfolio.. ......................... MATHIEU BERNARD-REYMOND. ........................................................... 203 Visioni laterali.....................
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editoriale
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Ebbene sì, questa volta abbiamo osato. La storia di copertina di questo numero di Link arriva dritta al cuore della riflessione sulla tv. Leggendo le pagine che seguono, ci accorgiamo di aver toccato un nervo scoperto e di aver evocato qualcosa di inaspettatamente profondo: l’eterno ritorno, il riciclo, ha a che vedere con la nostra identità. Pensavamo di riflettere sul riutilizzo di titoli, storie, palinsesti, idee, frammenti; sulla necessità così attuale di riempire ore e ore di programmazione; sugli immensi archivi che racchiudono tutta la tv… E invece ci ritroviamo a guardarci in faccia. Noi, spettatori assetati di riascoltare mille volte la stessa favola, e professionisti animati dallo stesso bisogno, e su di esso adagiati. Link 7 è un viaggio ricco di domande attraverso il passato, il presente e lo scorrere del tempo, la memoria, addirittura la vita e la morte. Al centro di tutto questo è la tv, circondata, stavolta più che mai, da un alone di mistero e potere. E alla fine del percorso – inutile negarlo – avvertiamo il desiderio urgente di qualcosa di nuovo da guardare… Come sempre Link regala ai suoi lettori un numero nuovo, nei contenuti come nella grafica. Con questa uscita inauguriamo un lavoro di ricerca sull’illustrazione, rigorosamente italiana, e sull’immagine. Piccoli cambiamenti che preludono a forme nuove, fin dalla prossima uscita (maggio 2009). Stay tuned. Laura Casarotto
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Già oggi possiamo pensare, accendendo la tv, di rivivere la nostra giovinezza. C’è una vita che non sapevamo di vivere e che la televisione ha conservato per noi Carlo Freccero Sono i contemporanei a decidere cosa deve essere archiviato, non i posteri. E lo fanno per i contemporanei, non per i posteri Gregorio Paolini Sono e siamo figli di zombie che riempiono il pano. ........... 63
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rama dell’offerta televisiva, in cui niente riesce a essere dimenticato perché tutto viene costantemente resuscitato Aldo Romersa Il passato diventa continuamente presente, annullando distanze spaziali e temporali. Nell’epoca della convergenza lo scarto e il rifiuto diventano materiale di riuso. Nulla si distrugge: anche il rifiuto guadagna la sua dignità Aldo Grasso ............................ 81
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COVER STORY LINK 7
MASH-UP TELEVISION
. ................................... da pag .
con testi di Carlo
Freccero, Aldo Grasso, Fausto Colombo, Gregorio Paolini, Carlo Antonelli e molti altri
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La televisione del remix, del riciclo, del riuso. Mash-up, vale a dire il recupero dell’archivio, la creazione di nuovi significati, la nostalgia della tv del passato, il remake dei grandi classici del piccolo schermo, la replica sulle reti vecchie e nuove. Nervo scoperto di produttori e broadcaster o sola novità nei palinsesti degli ultimi anni? Con alcune guide d’eccezione, Link cerca di scoprirlo. SCOPRI COSA È VERO.................................... 15
ecologia dell’attenzione......................... 135
le sigle delle serie tv americane
come sopravvivere all’information overload
di Violetta
di Luca
Bellocchio
de Biase
Cosa si nasconde nella sigla di un telefilm: una soglia da attraversare per conoscere luoghi e personaggi a cui ci si affeziona presto, un marchio che si imprime nella memoria dello spettatore. In viaggio tra mondi, possibili e impossibili.
Sopraffatti dalla massa di informazioni e di messaggi che ci arrivano da una molteplicità di media, non sembriamo avere scampo. Almeno finché non riusciamo a usare meglio la nostra migliore (e più potente) risorsa, il tempo.
***
***
COME CREARE UNA SERIE TV. ....................... 45
L’INVASIONE DEI SOCIAL NETWORK. .............. 175
manuale di istruzioni per una scrittura davvero televisiva
spazi pubblici, privati o altro?
di Denis
di danah
McGrath
boyd
Molti hanno un romanzo (o una sceneggiatura) in un cassetto. Ma pochi riflettono sulle strategie essenziali per una scrittura seriale che abbia successo. O che almeno possa venire presa in considerazione. La parola a uno scrittore tv.
Facebook è la nuova terra promessa dei fanatici del web. E la grande paura degli inevitabili apocalittici. Chiede le nostre informazioni personali, mostra le nostre fotografie, tiene traccia dei nostri pensieri. Qui, uno sguardo decisamente inedito.
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Piazza il prodotto!
OBAMA AND THE MEDIA............................... 185
la nuova giovinezza di un’antica tecnica pubblicitaria
usa 2008, una campagna elettorale nell’era della convergenza
di Marco
di Cristian
Vecchia................................ 121
Un marchio a favore di telecamera, con cui interagiscono distrattamente i conduttori o i personaggi. Ecco l’essenza del product placement. Non più (o non soltanto) “pubblicità occulta”.
Vaccari
Everybody loves Obama. Lontano dai fumi della propaganda, ecco il racconto del ruolo giocato dai media, dal web alla televisione, nella grande partita elettorale che lo scorso novembre ha portato alla sua elezione a presidente.
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SOMMARIO
editoriale................................................................................................................ 5
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SCOPRI COSA È VERO......................................... di Violetta Bellocchio.......................... 15 intervista a.. ..............
MatThew weiner........................................................... 21
PLAY................................................................. di Matteo Bittanti. ................................ 27 Dal videoclip a X-Factor. ............................ di Gianni Sibilla....................................... 34 UN’ALTRA STORIA. ............................................. di Luca Barra. ........................................... 37 Divagazioni semi-serie.............. DEXTER…. ................. di Dr. Pira................................................. 42 COME CREARE UNA SERIE TV. ............................. di Denis McGrath................................... 45 Estero. Share e top ten.. ........... TUTTO IN FAMIGLIA...... di Paola Capra........................................... 51 .................................... FICTION: CRISI VERA.... di Ludovica Fonda................................... 53 COVER STORY
MASH-UP TELEVISION
LA MEMORIA IN DIRETTA..................................... di Carlo Freccero................................... 63 intervista a.. ..............
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Marco Giusti..................................................................... 91
L’ARCHIVIO DI BABELE. ..................................... di Aldo Grasso. ........................................ 78 ANCORA TU?. .................................................... di Aldo Romersa....................................... 81 FINE DEL PROGRESSO. ..................................... di Carlo Antonelli................................. 88
LA PATINA DELLA TV........................................ di Giorgio Grignaffini........................... 96 REPLICA E REMIX............................................... di Laura Tettamanzi............................... 99 LEGO TV…. ..................................................... di Gregorio Paolini.............................. 104 PARENTESI CHIUSA............................................. di Fausto Colombo. ............................... 107 riscritture.................................................... di Massimo Scaglioni............................ 114 LA SECONDA VOLTA.......................................... di David Bogi........................................... 116
INDUSTRY
Piazza il prodotto!. ....................................... di Marco Vecchia. ................................. 121 SOLDI, SOLDI, SOLDI........................................... di Tommaso Tessarolo.......................... 129 ecologia dell’attenzione................................ di Luca de Biase. ...................................... 135 Sguardi sul mercato globale.. ..... Russia............................................................................................. 145 A UFO!. ............................................................. di Antonio Dini....................................... 153 Mappa.............................. italo tv. ......................................................................................... 161
SIGHTS
meglio fantasma…... di Andrea Lissoni................................... 165 Lo schermo profano.................................... di Federico di Chio. .............................. 172 L’INVASIONE DEI SOCIAL NETWORK. ..................... di danah boyd........................................... 175 Essere Francesca Pasquali........................ di Francesca Pasquali........................... 182 OBAMA AND THE MEDIA...................................... di Cristian Vaccari. ............................... 185 video sign........................................................ a cura di M. Pajé e C. Branzaglia............ 193 Portfolio.. ......................... MATHIEU BERNARD-REYMOND. ........................................................... 203 Visioni laterali.....................
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scopri cosa E vero
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Le sigle delle serie tv americane di Violetta Bellocchio
Se ogni telefilm è il dispiegamento di un mondo possibile in un numero elevato di frammenti, la sigla è il suo esatto contrario. Un puro condensato di stile che ne cattura l’essenza. Una formula che si ripete sempre uguale all’inizio di ogni puntata e che contiene, a saperla leggere, tutto quello che è lecito aspettarsi: stai per varcare la soglia, abbandonati all’illusione.
illustrazioni di Valerio Vidali
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Ha lavorato per Rolling Stone, Radio 2, Grazia e la Mostra del Cinema di Venezia. I suoi ultimi racconti sono usciti in Ho visto cose... (BUR 24/7), I confini della realtà (Mondadori Strade Blu), Dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango) e la rivista antologica Mono (Tunué Edizioni). Il suo primo romanzo, Sono io che me ne vado, uscirà per Mondadori Strade Blu in primavera.
LINK 7 Product scopri cosa è vero
L
a maggior parte delle serie in onda sui canali americani in chiaro non ha una sigla: due o tre minuti di prologo, poi arrivano il titolo e l’episodio vero e proprio. Ma una serie è una cosa troppo importante per rimanere senza sigla. Vende un assaggio del mondo messo in scena. Non solo. Funziona come un manuale di istruzioni per gli spettatori: anticipa quante promesse verranno mantenute, quanta attenzione verrà chiesta e in cambio di cosa.
Il mondo reale
Ecco il mondo. Ecco i confini. Questo avrai da noi. Chiedere altro, di più o di meno non ti porterà a nulla. In fatto di aperture i polizieschi procedurali somigliano alle serie per adolescenti. Durano poco, presentano personaggi e attori. Dicono guardami, scatenerò in te fobie che non pensavi di avere (variante: guardami, sono bello e alla moda). Ma restano serie-ombrello, nate per essere seguite da un pubblico ampio e non omogeneo. Una casa prefabbricata lontano da casa. A volte invece il discorso è più sfumato. Sulla BBC (e poi su BBC America, e poi sulle reti che l’hanno resa un successo globale), Life on Mars parte con il voiceover del protagonista che spiega la premessa: un poliziotto del 2006 viene investito da un’auto e si risveglia sempre poliziotto ma nel 1973: “Sono pazzo? In coma? O sono tornato indietro nel tempo? Qualunque sia la risposta, è come se fossi atterrato su un altro pianeta”. E ora basta con la metafisica: le immagini rimandano alla trama di un episodio medio, con interrogatori e scazzottate. Già la ripetizione costante della premessa strizza l’occhio alla serialità anni Settanta. Se entriamo, è per stare al gioco. Ma se rimaniamo è per ricreare atmosfere, arredi, sapori della tv del passato. Vedere una Ford Granada che sgomma e un detective che butta la sigaretta sulla scena del crimine ci provoca un piacere identico. Lo spin-off Ashes to Ashes, ambientato nel 1981, riprende lo schema adeguandolo all’estetica anni Ottanta. Bentornati nelle vostre serie predilette, con una botta di meta-commentary che non faceva parte del pacchetto originale. Se un procedurale è la tua casa lontano da casa, l’obiettivo di una teen opera è incatenarti alla tua unica casa. Non importa quanta sfortuna ricada sui personaggi: la sigla deve creare una “bolla felice”, una piccola stanza luccicante in cui è obbligatorio rientrare dopo la scuola. The O.C. (Fox) ha raggiunto un primato invidiabile: cambiare sigla ogni anno, modificando il numero di personaggi e le immagini per presentarli, ma aprire sempre con gli stessi cinque secondi, un’inquadratura della ricca Newport e poi un frammento del primo episodio, con il teenager eroe della situazione – figlio maltrattato di cattiva famiglia – che osserva il quartiere da dietro i vetri di un’automobile. Logica quanto mai stringente: chi nasce poraccio non muore quadrato. Sintomatico, comunque, che la bolla felice sia coltivata anche dalle serie che agli adolescenti non mirano affatto. Entourage (HBO) è una decappottabile che attraversa Los Angeles di notte: i nomi dei protagonisti appaiono come insegne al neon sui palazzi, ma non li vediamo fino alla fine, quando parcheggiano, mentre il titolo si riflette sul parabrezza della macchina. Ecco qui l’atteggiamento giusto per entrare: il wish fulfillment da parte dello spettatore, che tramite i personaggi vivrà mirabolanti avventure nel cinema (leggi: cameratismo spiccio ma caloroso, feste con tante ragazze). Simile strategia per Swingtown (CBS), che in meno di venti secondi inanella vere o presunte immagini di repertorio del 1976, tutte tra le più identificabili possibili (Farrah Fawcett! Discoteche! Lo squalo!), per poi infilare una rapida chiusura maliziosa (vestiti che cadono! Persone tra le lenzuola in multipli di due!). Si parla di coppie scambiste, di casalinghe belle e superdisponibili. Accidenti, certo che negli anni Settanta si stava allegri. E nessuno ci farà caso se, con il passare delle puntate, il melodramma impazza: la cifra visiva della serie
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resterà la brillantezza, il kitsch che abbassa la guardia.
Il mondo immaginario
Questo mondo potrebbe esistere. Da qualche parte. Tu non lo conosci. Devi fidarti di noi. Per inciso, noi ti faremo ogni genere di scherzi. È cominciato tutto con Twin Peaks. Impossibile afferrarne il contenuto sulla base dell’apertura: inquadrature fisse come nature morte (boschi, strade, fabbriche), con una colonna sonora malinconica (il tema di Angelo Badalamenti, ormai sinonimo di ominous music) e senza un essere umano che fosse mezzo. Dentro ci potevi vedere qualsiasi cosa. In questo senso Twin Peaks era il primo Mad Men, che va in onda sul canale via cavo AMC, e ha una sigla di impronta intensamente pubblicitaria, coerente al mestiere dei protagonisti: una sagoma maschile nera e piena (ma senza faccia) precipita nel vuoto, circondata da grattacieli e manifesti promozionali anni Sessanta; fino ad atterrare su un divano, sigaretta tra le dita. Uomo in caduta libera ma padrone di sé in ufficio: è tutto in tavola. O forse no. Seguiamo un fiume di storie individuali, influenzate sia dagli eventi che tutti identifichiamo come epocali (il duello tra Nixon e Kennedy, la morte di Marilyn Monroe) sia da quelli di cui loro non possono afferrare la portata, ma noi sì. Ogni tanto loro prendono il nostro posto. Il film-scandalo dell’anno è L’appartamento? Sentiamo cosa ne pensano due personaggi – un uomo sposato e la sua amante dai capelli rossi. La chiusura dell’episodio ricalca una tra le più celebri scene del film. E adesso tocca a te, spettatore giovane, colto e spiritoso. Conosci il quadro di massima? Conosci i risvolti che in teoria “nessuno ti ha mai raccontato”? Prova un po’ a saltare da un piano all’altro. Cadi giù con noi. Big Love (HBO) mette in scena un uomo e le sue tre mogli che danzano in un’iconografia a metà tra il musical sul ghiaccio e il bollettino dei testimoni di Geova: luci abbaglianti, paesaggio onirico, chiusura oltremondana. Sorpresa, la serie punta tutto sul realismo quotidiano della famiglia allargata: fuori dagli schemi per noi, accettabile nella nicchia socio-religiosa a cui appartiene, una comunità mormone in cui si pratica la poligamia. Possiamo pensare che la sigla sia l’illustrazione più o meno fedele della vita interiore dei personaggi. Oppure possiamo prenderla come un invito bizzarro (ma gentile) a lasciare il nostro background fuori dalla porta. La seconda ipotesi è rafforzata dalla theme song, God Only Knows, la canzone d’amore più evocativa per tre generazioni di spettatori. Vedete? In fondo non siete troppo diversi. Vi emozionate per le stesse cose. Certo, il gioco non è sempre così sottile. Nip/Tuck (FX) promette una patina asettica e distante: un manichino viene ritoccato da mani invisibili, diventa a colori, rimane immobile con la spiaggia di Miami sullo sfondo. Sennonché, la serie poi schizza in tutt’altra direzione. Il mondo dei chirurghi protagonisti è sovraccarico, ogni cosa sbattuta in primo piano, gli scarti di tono paurosi. Il collegamento alla sigla è un tassello narrativo, di importanza più simbolica che altro: il pennarello rosso of doom con cui l’irrefrenabile dottor Troy evidenzia i difetti sul corpo delle donne. Questo succede nel pilota, e si ripeterà, ma non un numero di volte sufficiente a trasformare il ritocco in un appuntamento fisso. Però, dato che Nip/Tuck funziona fin dall’inizio anche come autoparodia, forse siamo davanti a una serie che fa mobbing sul suo stesso pubblico. È vero, ti stanno prendendo in giro. E allora? Questa è fiction. Fatti una vita, su.
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È vero, ti stanno prendendo in giro. E allora? Questa è fiction. Fatti una vita, su.
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Il mondo parallelo
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Questo mondo esiste. Vieni a trovarci. E poi, quando torni a casa, guardati allo specchio. Magari ci assomigliamo. O magari no. Scopri cosa è vero. La strapremiata sigla di Dexter (Showtime) è una catena di micro-sequenze che illustrano l’inizio giornata del protagonista. Si lava, si veste, prepara la colazione. Ogni sequenza parte come il dettaglio di un atto criminale, salvo essere svelata subito dopo come un innocente dettaglio espunto da un quadro più ampio, o viceversa. Però Dexter è davvero un assassino. La metodicità e la pulizia diventano caratteri portanti del personaggio. Che ci usa come testimoni, tirandoci in ballo a ripetizione: lo strumento più consumato è la sua narrazione fuori campo, che smentisce quanto lui dice in tempo reale. Allo stesso tempo, è un’apertura molto più ammiccante e (questo sì) perversa rispetto al tono medio della serie. Dexter possiede un’autoironia limitata, non ci strizzerebbe mai l’occhio. Quello che in effetti sta facendo è stabilire le regole d’ingaggio: limitare il campo d’azione ai dettagli. Più di questo non possiamo sapere. Al massimo cerchiamo dentro di noi qualche punto di contatto. Guardatemi, sono uguale a voi. Guardatemi, non sono affatto come voi. La preparazione della colazione è simile alla tecnica con cui si illustra il cibo nella pubblicità, il cosiddetto food porn. Le arance saranno sugosissime, il bacon brillerà come uno specchio. Ma non sarà mai cibo vero. Altra porta sbattuta in faccia è il minuto e mezzo con cui apre True Blood (HBO): un mix di immagini canoniche del vecchio Sud, avvolte da una patina storica (predicatori, chiese dove si canta e balla, incappucciati del Ku Klux Klan) o pescate dall’enorme bacino di stereotipi del luogo (serpenti a sonagli, ragazze mezze nude nei bar, contadini sdentati). Con piccoli segnali che non tutto è come lo conosciamo. Un’insegna al neon ci avvisa che God Hates Fangs (“Dio odia le zanne” – un ovvio, ma perturbante, gioco sull’autentico movimento religioso anti-gay God Hates Fags). C’è un battesimo in corso, ma la battezzata cerca di scappare. Un annegamento? Una conversione forzata? Chi lo sa. Una volta dentro, l’andazzo si fa più soleggiato. Siamo in un presente alternativo, dove i vampiri escono allo scoperto e rivendicano i loro diritti: l’eroina vive in una piccola città della Louisiana e assiste al primo caso di integrazione nella zona; che però già trabocca di fenomeni paranormali, a partire dalla ragazza, che ha poteri di telepatia. La mitologia è ricca e stratificata. E comprende una bevanda, Tru Blood, a base di sangue artificiale. L’abbiamo vista arrivare anche nel nostro mondo. Di tratto opposto alla sigla, gli spot per il “mercato nordamericano” sono quasi indistinguibili da quelli della Budweiser, con vampiri giuggioloni che si fanno l’equivalente di una birra tra amici. Se li avessimo come vicini, anche noi prenderemmo su tutto in modo più concreto. Forse. L’ultimo grande presente parallelo è The Wire (HBO). Si tratta di un mondo esplicitamente verosimile, Baltimora, con il suo intreccio tra polizia, criminalità e politica. Per tutte e cinque le stagioni la sigla mantiene la stessa struttura: un montaggio di immagini non identificabili a priori, che via via ritroveremo, in disordine, durante gli episodi. La cornetta di un telefono pubblico, una mano che si smalta le unghie, un’auto ferma al semaforo. Il tempo sullo schermo è uguale per tutte. Non sappiamo quale avrà più importanza. La nostra esperienza correrà parallela alle indagini (tra l’altro la prima stagione gira intorno a una complessa operazione di intercettazione, il “filo” del titolo), con la
È cominciato tutto con Twin Peaks. Impossibile afferrarne il contenuto sulla base della sigla.
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sensazione che tutto sia collegato, ma che i legami tra più mondi siano confusi e terribili. Pochissime immagini rimangono da un anno all’altro, e nessuno in effetti ci garantisce che quelle stesse cose – i sassi lanciati contro le telecamere di sorveglianza; le fiale di crack pestate da una scarpa – non succedano per conto loro ogni stagione. È la ciclicità il segno forte di The Wire, sul piano sia della narrazione sia dell’etica per immagini. La moltiplicazione dei punti di vista ci obbliga ad accettare le ragioni di tutti, buoni e cattivi. Però ci resteranno sempre dei punti ciechi, dei fuori campo. E il cerchio si chiude. Ogni cosa al suo posto, nessun posto per tutte le cose.
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er F ree ! Sp oil
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intervista a
MatThew weiner*
smoke gets in your eyes * creatore di Mad Men
Fabio Guarnaccia
di illustrazione di Fabrizio Barletta
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Considerata da molti la serie migliore degli ultimi anni, Mad Men (Cult) ha accumulato numerosi premi, tra cui quelli di miglior serie drammatica ai Golden Globe e agli Emmy. Il suo creatore, Matthew Weiner, già executive producer dei Soprano, è l’uomo più ricercato della tv americana. Ma non è per questo motivo che lo abbiamo intervistato. E neppure – full disclosure – perché Mad Men è tra le serie preferite dalla redazione di Link.
Le ragioni sono almeno due. La prima riguarda il mondo rappresentato (la serie racconta le vicende di un gruppo di pubblicitari di Madison Avenue, New York, 1960): la pubblicità, come la televisione, è la più efficiente macchina per l’analisi dei desideri, delle debolezze e delle rappresentazioni di sé. È quindi una serie che dice molto sulla tv, oltre che sulle persone. La seconda ragione, invece, riguarda il cambiamento. Tutto ciò che accade in Mad Men ha a che fare con la caduta libera di un mondo all’apice del suo sviluppo, che di lì a poco avrebbe conosciuto una profonda trasformazione sociale e professionale. E il medium simbolo di questo cambiamento è senza dubbio la tv. Così come internet, e il digitale, stanno oggi ridefinendo un po’ tutto. Compreso il modo di fare pubblicità e, ovviamente, televisione. Aggiungete poi che il 1960 è stato l’anno di J.F. Kennedy, proprio come il 2008 è stato quello di Obama. Due presidenti che prima degli altri hanno capito cosa fossero tv e internet. Da dove arriva il tuo interesse per l’inizio degli anni Sessanta? È la fine di un’epoca giunta al pieno dello splendore e della potenza. Ero ancora al liceo, quando mi sono accorto che quella fase era ancora strettamente legata alla nostra vita. Il 1960 è stato un anno molto importante per gli Stati Uniti. New York era il centro del mondo, in ogni aspetto: televisione, radio, teatro, musica, libri, soldi, commercio. L’elezione di JFK ha avuto luogo quell’anno. L’America era in rapida trasformazione. Ero interessato a come quel cambiamento è avvenuto, al modo in cui ha influenzato la gente comune. E vedevo un legame con il presente. Negli Usa e nel mondo abbiamo vissuto l’11 settembre. Un evento orribile, traumatico, che ha cambiato la percezione degli Stati Uniti nel mondo. Storicamente è un momento di svolta. Ma in realtà nulla è cambiato. Già ad Halloween eravamo tutti tornati a far spese nei
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grandi mall. Tutto era tornato alla normalità. Avevamo gli stessi problemi e le stesse speranze. Trovo questa dinamica molto interessante. Anche se avevo impostato la serie molto prima dell’11 settembre, ero curioso di studiare l’ influenza dei grandi cambiamenti sulla vita delle persone. Tornando al periodo in cui la serie si svolge, gli storici e i giornali ci dicono molto su questi anni, ma non in modo accurato. L’esperienza umana è basata su aspetti davvero piccoli, che non cambiano. Cosa sta succedendo nel tuo mondo, nella tua vita, in te stesso. Accadono cose nuove, eventi davvero rivoluzionari, come essere una donna al lavoro nei primi anni Sessanta, ma non è detto che chi li vive in prima persona si accorga della differenza, che le donne sentissero questo cambiamento nei confronti degli uomini. È un grande tema drammatico, e lo sentivo legato alla mia vita. E l’interesse per la pubblicità? Ho lavorato a lungo in tv, e sono interessato al conflitto tra la creatività e gli affari. La televisione è proprio come la pubblicità, oscilla costantemente tra i due poli perché in gioco ci sono un mucchio di soldi. Inoltre, la pubblicità era l’espressione delle aspirazioni e delle speranze del Paese. Avere dei protagonisti che lavorano nel business della persuasione permette di indagare su chi pensiamo di essere, su chi vorremmo essere, su chi sembriamo essere. Ironico, ma interessante. La pubblicità, in quel periodo, era il lavoro più ambito. Questi uomini ci affascinano: bevono, fumano, scopano, vivono a New York, hanno tanti soldi, sono cinici e al tempo stesso moralisti, sono creativi. Non so se la realtà fosse davvero questa, ma di certo così ci sono stati presentati e popolano il nostro immaginario. Il pubblicitario era una vera e propria rockstar, mentre i riferimenti alla pubblicità emergevano in tanti film. Per me era importante parlare degli Stati Uniti e della cultura americana e ho scelto di farlo attraverso la percezione ideale che abbiamo di noi stessi, attraverso la pubblicità, in un contesto che, anche se non siamo ancora nel pieno degli anni Sessanta, già anticipa la trasformazione sovversiva degli anni a venire.
Con la pubblicità indago la vita delle persone. Cosa non va in me? Perché mi sento diverso?
Per te è più importante descrivere un periodo, tracciare un ritratto dell’America attraverso il mondo della pubblicità, oppure raccontare qualcosa di profondamente personale? La mia motivazione è molto intima e deriva da due cose: la prima è il senso della storia degli Usa, che viene presentata agli americani in modo completamente falso; la seconda è che le persone che appaiono in televisione sono altrettanto false. Io mi sono ritrovato a 35 anni, con tre figli, felicemente sposato, a fare un lavoro splendido e ben pagato, ma con un senso di profonda tristezza e frustrazione. Mi chiedevo: “È tutto qui quello che posso fare in campo televisivo?”. A quel punto ho voluto mettere in discussione il ruolo maschile, indagarlo, ricercarlo, in quanto noi baby boomers abbiamo avuto pochi modelli a cui ispirarci. E dopo aver visto la serie in onda mi sono reso conto di un altro aspetto ancora. I miei genitori si sono sposati nel ’59: ho realizzato che avevo voglia di guardare nella loro camera da letto, di rovistare tra le loro cose, oltre a interessarmi a quello che è accaduto al mio Paese. Che fine avevano fatto la grinta e l’arroganza che tutto il mondo ci ammirava? Che fine aveva fatto il mito dell’America? Ma c’ è infine un altro elemento: mi piace molto la capacità americana di vendere, e questo è un tratto in comune con la pubblicità. Un mondo che nella sua essenza ha un’aspirazione positiva, comune a tutti gli esseri umani. C’ è sicuramente della buona e della cattiva pubblici-
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Mad Men Prende il nome dal termine gergale con cui venivano chiamati, già negli anni Cinquanta, i professionisti della pubblicità. I cui uffici avevano sede in Madison Avenue, a New York.
tà, e si può dibattere a lungo su come essa venga utilizzata, però trovo che quest’“arte” si abbini molto bene al mio desiderio di affrontare questioni che riguardano l’essenza stessa della vita delle persone. In fondo, nel corso della nostra esistenza, ci facciamo continuamente domande come: “Cosa c’ è che non va in me?” e “Perché mi sento così diverso?”. Mad Men sembra non partire da nessun genere di riferimento. Cosa avevi in mente quando l’hai sviluppata? Quello di Mad Men, in realtà, era un genere: un genere che è semplicemente scomparso. Dai primi anni Quaranta ai tardi Sessanta, quando il legal drama ha preso il suo posto, c’era una forma che aveva a che fare molto con il dialogo, i drammi interiori, il business, il conflitto tra la vita lavorativa e quella familiare. Poi è sparito, ma conoscevo questo genere diffuso dappertutto: show televisivi, film, fumetti. Ho provato a usare questi elementi. Io non credo nel mercato. Chiunque cerchi di seguirlo finirà per fare qualcosa di insignificante. Sia io sia il canale che avrebbe trasmesso la serie, AMC, abbiamo deciso di fare qualcosa che piacesse innanzitutto a noi. Senza preoccuparci di essere troppo intelligenti, o troppo oscuri. A volte il pubblico vuole uno specchio in cui riflettersi, altre volte invece vuole solo fuggire. Spero che la serie offra la possibilità di sfuggire ai problemi quotidiani, ma che aiuti anche a sentirsi meno soli, vedendo rappresentata la propria vita. Parte di questo effetto è dato dal fatto che le storie si svolgono in un tempo differente, come nella fantascienza: un mondo in cui non puoi andare e che non esiste più. Donald Draper è un eroe ambiguo e reazionario. Non solo sul piano personale. È portatore di vecchi valori nell’advertising di fronte a un mondo,
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Il karaoke videoludico tra televisione e social network di Matteo Bittanti
Giovani che cantano concentrati davanti ai videoclip trasmessi dallo schermo televisivo. Teenager che si radunano nei centri commerciali per imbracciare chitarre di plastica. Padri e figli che si passano il microfono, alla ricerca del giusto ritmo e intonazione. Sono solo alcuni degli indizi dell’enorme successo dei videogame musicali, come Guitar Hero e Rock Band. Matteo Bittanti, ricercatore a Stanford, ci spiega come funzionano i giochi basati sul canto, da SingStar a Lips. Tra ritorno del karaoke e user generated content.
illustrazioni di Valerio Vidali
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Svolge attivitĂ di ricerca sui videogiochi presso la Stanford University e la University of California, Berkeley. Insegna Game Studies presso il California College of the Arts. Dopo la Laurea in Filosofia e comunicazioni sociali, ha ottenuto un Master of Science in Mass Communications presso la San Jose State University a San Jose, California e un dottorato in Nuove tecnologie della comunicazione presso lo IULM di Milano. Ha scritto e curato numerosi libri e saggi sui videogiochi, in italiano e in inglese. Vive a San Francisco.
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I
l gustoso trattato Don’t Stop Believin’. How Karaoke Conquered The World (2008) si apre con un aneddoto divertente. L’autore, Brian Raftery, descrive le numerose iniziative repressive di Don Henley per porre fine all’uso “indiscriminato” dei suoi brani da parte dei fan. “L’uso indiscriminato”, in questo caso, riguarda “l’esecuzione pubblica di canzoni come Hotel California, The Boys of Summer e All She Wants to Do is Dance da parte di cantanti amatoriali per mezzo di un microfono in bar”. In altre parole, l’ex membro fondatore degli Eagles detesta il karaoke. Com’era lecito attendersi, la sua riluttanza a condividere la musica con i fan non è rimasta “impunita”. Non a caso, il sito I Hate Don Henley fa registrare, ogni mese, decine di migliaia di contatti. Ma Don Henley è una mosca bianca: la maggior parte degli artisti adora il karaoke o, molto più probabilmente, gli introiti derivanti dal licensing. Perché il karaoke è un gorilla da 400 chili che nessuno può fermare. Tradotto letteralmente, karaoke significa “orchestra vuota”. Il termine deriva infatti dal giapponese kara (vuota) e kesutora (orchestra). Le origini di questa forma di intrattenimento, che prevede momenti di performance e ascolto, si perdono nella notte dei tempi: come spesso avviene, varie nazioni rivendicano l’invenzione del formato. In questo caso, sono gli Stati Uniti e il Giappone a contendersi il primato. Tra le prime aziende a offrire un rudimentale sistema di canto sincronizzato (sing-along) spiccano le americane AudioSynTrac e Numark Electronics, anche se il primo vero karaoke porta la firma di un musicista di Kobe, Daisuke Inoue. Introdotta sul mercato nei primi anni Settanta, la sua macchina musicale riscuote un enorme successo e si diffonde rapidamente nel Sud-Est Asiatico, anche se, paradossalmente, l’inventore non la brevetta e così, negli anni Ottanta, l’imprenditore filippino Roberto Del Rosario gli soffia il copyright sotto il naso e inventa “Minus One”: nonostante le evidenti somiglianze con l’invenzione di Inoue, Del Rosario vince tutte le cause legali. Negli anni Novanta, il fenomeno conosce un’esplosione di popolarità anche in Occidente, e in Italia viene “sdoganato” sulla tv commerciale, dove riscuote un successo nazional-popolare grazie a un performer come Fiorello. Ma quella del karaoke è una storia tecnologica prima ancora che sociale: è la storia dell’avvicendarsi rapidissimo di sistemi, formati e supporti di registrazione, una storia punteggiata dalla sistematica diminuzione dei costi di produzione e dall’integrazione con i sistemi di home theatre che negli anni Novanta invadono la sfera domestica. Questi fattori spiegano, almeno in parte, il successo di un fenomeno che ha oltre trent’anni di storia alle spalle. Cruciale, a questo proposito, l’introduzione dell’X2000 da parte dell’azienda di videogiochi nipponica Taito (Space Invaders, Qix, Bubble Bobble). L’X2000 è uno dei primi sistemi di karaoke a sfruttare un meccanismo di aggiornamento telematico: il catalogo di brani poteva infatti essere scaricato “in rete” a costi contenuti. Trattandosi del 1992, prima dell’avvento del web e della fibra ottica, il nuovo sistema di distribuzione presentava caratteristiche rivoluzionarie, come l’esistenza di una libreria di brani in costante espansione e continuamente aggiornata, e creava l’illusione che si potesse contrastare il fenomeno dell’obsolescenza che affligge tutti i nostri “giocattoli” high-tech. Questo sistema – nonostante la lentezza delle connessioni dial-up – fu una svolta nella storia del karaoke e anticipò, come vedremo, successive evoluzioni.
Una soglia di ingresso minima e l’appeal dei successi pop ne spiegano lo straordinario successo.
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Per via della sua natura interattiva e sociale, il karaoke si presta benissimo a una traduzione videoludica. Non a caso, negli ultimi vent’anni sono state sviluppate innumerevoli versioni per console. Uno dei primi esempi è Karaoke Studio (1985) per Famicom, ma un catalogo limitato e l’inadeguatezza tecnologica della piattaforma Nintendo ne compromettono il successo. Dobbiamo attendere gli anni Novanta e l’introduzione di sistemi dotati di lettori cd per assistere a un’autentica proliferazione di proposte. Uno dei best-seller è Karaoke Revolution (2003), sviluppato dallo studio americano Harmonix Music Systems per PlayStation 2 e distribuito da Konami. Qui il giocatore deve cantare dei brani seguendo i testi che scorrono sullo schermo. L’entità del punteggio dipende da parametri quali l’altezza del suono, il timing e il ritmo. Piccola parentesi-trivia: fondato da due ex studenti del MIT Media Lab, Alex Rigopulos ed Eran Egozy, Harmonix è lo studio che ha poi sviluppato Guitar Hero (Activision) e Rock Band (Electronic Arts), due videogame musicali multi-milionari. Rigopulos ed Egozy sono gli unici game designer citati da Time nell’annuale classifica delle personalità più creative. Ma restiamo in Giappone, per il momento. Il successo travolgente di Karaoke Revolution spinge Konami a sfornare seguiti a ritmi industriali: Karaoke Revolution Vol. 2, Karaoke Revolution Vol. 3, Karaoke Revolution Party Edition, CMT Presents Karaoke Revolution: Country e Karaoke Revolution Presents: American Idol Encore. Nel 2004 l’azienda nipponica distribuisce la versione Xbox di Karaoke Revolution, che a differenza di quella per PlayStation 2 offre la possibilità di scaricare brani extra attraverso l’allora acerbo sistema di gaming online Xbox Live. Un’innovazione importante, che riprende la logica dell’X2000 di Taito. Ma, come si dice in questi casi, è troppo poco e troppo tardi: nello stesso anno, Sony rivoluziona il genere del karaoke elettronico con SingStar e Microsoft resta alla finestra.
SingStar: anatomia di un successo travolgente
SingStar è un videogame di karaoke interattivo sviluppato da Sony London Studios e pubblicato da Sony Computer Entertainment per PlayStation 2 e PlayStation 3. Dalla sua introduzione sul mercato, avvenuta nel maggio 2004, a oggi sono state commercializzate in tutto il mondo oltre settanta versioni per PS2 e quattro per PS3 (tra cui sedici in Inghilterra e dieci negli Stati Uniti). Questi prodotti sono venduti in due formati: solo software o in bundle con due microfoni. Il gameplay è semplicissimo: il giocatore deve cantare un brano musicale – i generi disponibili includono pop, rock, rap e country – ripetendo fedelmente il testo originale che scorre sullo schermo, prestando particolare attenzione al ritmo e all’intonazione. Com’è facilmente intuibile, maggiore è l’accuratezza del performer, più alto il punteggio. Il feedback in tempo reale e le numerose modalità competitive e cooperative rendono l’esperienza particolarmente avvincente. Si spazia dall’assolo al duetto, dalla competizione pura modello American Idol al “passa il microfono”, che consente a un massimo di otto giocatori di ingaggiare una vera e propria battaglia musicale sul modello del tag-team del wrestling. Una soglia di ingresso minima e l’appeal dei successi pop utilizzati spiegano, almeno in parte, lo straordinario successo commerciale di SingStar – oltre dodici milioni di copie vendute a oggi. Ma il vero salto di qualità per SingStar è avvenuto nel 2007 e ha coinciso con la pubblicazione del primo episodio per PlayStation 3. La caratteristica di multimedia hub della console Sony, unita al collegamento broadband always-on e all’integrazione con il web 2.0 (YouTube e siti dedicati, come singstargame.com) stanno profondamente trasformando le dinamiche del karaoke ludico. Durante la Nordic Game Conference 2007, tenutasi a Malmö, in Svezia, l’ex-direttore del progetto
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singstar Piattaforme
PS3, PS2 Karaoke interattivo sviluppato nel 2004 da Sony London Studios, vanta oggi circa settanta differenti configurazioni per PlayStation 2 e 3, tra cui episodi monografici dedicati agli Abba e ai Queen. Campione di incassi in Europa e Australia, dove ha venduto oltre 12 milioni di copie (cui si aggiungono 1,5 milioni di copie sul territorio nordamericano). Gli oltre 400 brani disponibili sul SingStar Store sono stati scaricati oltre un milione di volte dal lancio di SingStar per PS3, avvenuto nel 2007. Il gioco sfrutta la webcam EyeToy in modo innovativo, consentendo agli utenti di creare videoclip e di condividerli con gli amici.
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ROCK BAND Piattaforme
Wii, Xbox 360, PS3, PS2, Nintendo DS, PC. Creato da Harmonix Music System, pubblicato da MTV e distribuito da EA, Rock Band ha ridefinito la formula originale, introducendo un intero set di strumenti musicali. Sono disponibili due episodi per le principali piattaforme. Il catalogo include oltre 260 brani, scaricati circa 21 milioni di volte. Rock Band 2 è stato introdotto in Italia nel novembre 2008 e per il momento è disponibile solo per Xbox 360.
SingStar, Paulina Bozek, ha reiterato la natura sociale dell’intrattenimento elettronico, aggiungendo che la killer application del titolo Sony è individuabile nelle enormi possibilità di personalizzazione dell’esperienza di fruizione rese possibili da PlayStation. Per esempio, i fan possono registrare la propria performance con la webcam PlayStation Eye e condividerla con gli amici via internet. L’integrazione tra web e videogame (in particolare, con i siti di social networking) rappresenta una delle tendenze più interessanti sul piano commerciale e tecnologico. Si tratta di un fenomeno in corso da diversi anni e in forte crescita. In tutti i casi, le corporation dell’entertainment – Sony, in questo caso – offrono ai fan gli strumenti e gli spazi per creare e diffondere i propri contenuti. Le implicazioni sono tutt’altro che banali: il vero successo di SingStar non risiede tanto nella tecnologia, quanto nella possibilità di condividere i filmati delle performance in modo semplice e immediato attraverso strumenti quali MySingStar Online. La differenza rispetto al karaoke-bar è evidente. Il game 3.0 – equivalente videoludico del web 2.0, per usare il mantra dell’ex-direttore di Sony Computer Entertainment Phil Harrison – si sostiene e si sviluppa essenzialmente grazie all’user generated content, ovvero i contenuti generati spontaneamente dagli utenti. Attraverso MySingStar Online, gli utenti possono catturare immagini e video delle loro performance e visualizzarle sulla propria pagina, à la Facebook. Una leggenda metropolitana vuole che MySingStar Online sia stato ideato dai designer Sony dopo il successo del tutto inaspettato del fenomeno “Numa Numa”, la tragicomica performance del rumeno Gary Brolsma diventata un autentico meme grazie a YouTube. Attraverso SingStar, il televisore, apparecchio inerte e sconnesso, diventa uno studio di registrazione, un club e un sito di social network. Il passaggio da una modalità all’altra è facilitato da un’interfaccia elegante e intuitiva. La personalizzazione dell’esperienza di consumo creativo riflette, a sua volta, il credo di Charlie Denson, presidente di Nike Corporation, che qualche anno fa ha lanciato una vera rivoluzione riassumibile nello slogan “You Choose”: dove “you” è, ovviamente, il cliente. In una riga: all’era della produzione di massa si sostituisce la produzione massiva dell’individualità. Ovvero, la personalizzazione, la customizzazione e il self-branding di scarpe e prodotti Nike. Va ricordato, tuttavia, che al successo di SingStar ha contribuito in modo non indifferente la televisione – intesa come network e non come tecnologia: nel maggio del 2005, Sony introduce sul mercato SingStar PopWorld in Inghilterra, massimizzando il potenziale di co-branding con un popolare show televisivo di MTV UK, Throwdown. Gli spettatori vengono invitati a registrare la propria performance karaoke e a caricarla sul sito MTV Flux: i migliori video vengono poi mostrati nel corso del programma. Nel periodo della campagna (settembre 2006-febbraio 2007) le vendite di SingStar nel Regno Unito sono cresciute del 15%. Per cavalcare l’onda del successo, a cadenza semestrale Sony distribuisce nei negozi o in rete nuove versioni dedicate a particolari generi musicali (pop, rock, hip-hop eccetera), eventi (Natale) o band (Abba, Queen eccetera). Ogni disco e/o pacchetto include circa trenta brani. Il SingStore – che sta a SingStar come iTunes all’iPod – offre a oggi più di 500 brani (e corrispondenti video in definizione standard), che possono essere acquistati al prezzo di 1,49 euro. I file sono memorizzati sul disco fisso della console e possono essere usati ad infinitum. Finora è stato scaricato più di un milione di pezzi. E Sony ha acquistato i diritti di oltre 800 brani: il catalogo è in continua espansione. Un altro aspetto legato al successo del prodotto consiste nell’accurata localizzazione: ogni versione di SingStar include canzoni di star locali (si pensi al successo di SingStar Top Italian Party, che offre pezzi di artisti come 883, Vasco Rossi, Subsonica, Fiorello, Irene Grandi e molti altri). Sony aveva inizialmente previsto
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di localizzare solo il 15% dei contenuti per ragioni di costi e tempi, ma oggi la personalizzazione riguarda tra il 50 e il 90% dei brani. L’Europa di SingStar è suddivisa in nazioni “core” (Francia, Italia, Germania e Spagna) e nazioni “satellite” (Norvegia, Svezia, Polonia e Belgio). SingStar è stato creato negli studi londinesi di Sony Computer Entertainment. I prototipi includevano dei sistemi di visualizzazione vocale che de facto rendevano il gioco simile a un visualizer elettronico (si pensi all’ipnotico Magnetosphere di iTunes). Nella versione definitiva, tuttavia, Sony ha preferito usare i video ufficiali dei brani, sfruttando l’ampio catalogo della propria etichetta musicale e negoziando con le altre major i diritti di utilizzo. Oggi SingStar si rivolge principalmente a due tipologie di utenza: i giovanissimi (8-15 anni), a cui sono indirizzati prodotti come SingStar Pop e SingStar e la Magia Disney, e quelli che Sony chiama social gamer (18-35 anni), utenti appassionati di tecnologia e musica ma non necessariamente di videogame. Si tratta di fruitori che danno vita a SingStarparty, feste con amici che usano il game come lubrificante sociale e pretesto per divertirsi insieme. Un aspetto interessante è che l’utenza di base prevede un 50% di donne, fenomeno tutt’altro che comune per l’intrattenimento videoludico. Sony ha intelligentemente promosso SingStar su riviste indirizzate a un pubblico femminile (come Heat in Inghilterra) e omosessuale (si pensi alla pubblicità apparsa sul mensile Attitude nel 2006). Inoltre, SingStar è il videogioco ideale per il maschio metrosexual, per gli hipster e perfino per i geek. In altre parole, un prodotto dall’appeal universale. Negli Stati Uniti, l’introduzione di SingStar Rocks! è stata accompagnata da campagne pubblicitarie che mostravano performance in luoghi pubblici – un centro commerciale, una stazione della metropolitana e le scale antincendio –, a ribadire la natura sociale e diversificata del prodotto.
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Guitar Hero Piattaforme
Wii, Xbox 360, PS3, PS2, Nintendo DS, PC. Creato da Harmonix Music System tra il 2005 e il 2007, attualmente Guitar Hero è sviluppato da Red Octane e pubblicato da Activision. Autentico fenomeno di massa, Guitar Hero si articola in una serie canonica (giunta al terzo episodio, Legends of Rock), titoli mono-band (Aerosmith e in futuro Metallica, ma si parla anche di Beatles) e spin-off (Guitar Hero World Tour). Nelle varie configurazioni, Guitar Hero ha venduto oltre 21 milioni di copie, generando oltre un miliardo di dollari di fatturato. Lo store online dedicato offre poco meno di 300 brani, scaricati oltre 30 milioni di volte.
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Lavora nel campo dei media musicali come giornalista per il sito Rockol.it. In passato ha scritto per la tv (è stato autore di diversi programmi per MTV) e per la radio. Docente universitario, dirige il Master in Comunicazione musicale per la discografia e i media dell’Università Cattolica di Milano. Il suo ultimo libro è Musica e media digitali (Bompiani, Milano 2008).
dal videoclip a x-factor di
Gianni Sibilla
È la fine del videoclip come lo conosciamo (… ma la promozione della musica sta bene).
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iusy Ferreri. Snow Patrol. Metallica. Cos’hanno in comune questi artisti così diversi tra di loro per genere musicale, storia e pubblico? Semplice, si sono messi in mostra nelle nuove vetrine della musica: reality show, fiction, videogiochi. L’industria della musica è, dalle sue origini, il narratore occulto delle canzoni e degli artisti: costruisce storie usando strumentalmente i media per raccontarcele. Rimane nell’ombra, posizionando i cantanti negli spazi mediali ritenuti più idonei. La musica è ovunque, ma non è mai presente per caso: questo sistema di “vetrinizzazione mediatica” della musica ha avuto il suo picco negli anni Ottanta e Novanta, quando non solo si promuovevano artisti, ma li si costruiva in vitro a uso e consumo dei media, usando sopratutto i videoclip. Le boy band esistevano da tempo – si pensi ai Monkees, risposta americana ai Beatles, creati e lanciati da una serie tv – ma esplodono in questo periodo, grazie a MTV e alla cultura dell’immagine musicale. Questo sistema è mutato negli ultimi anni, e le nuove vetrine sono il prodotto e il sintomo di questa mutazione: la musica, gli artisti, l’industria cercano spazi diversi, perché quelli tra-
dizionali non esistono più o hanno perso impatto. Il simbolo del cambiamento delle vetrine mediali della musica è il videoclip, morto e rinato dalle sue ceneri come una fenice. Il clip è stato, negli anni Ottanta e Novanta, il cavallo di troia dell’industria discografica sui media. Poi è successo qualcosa: l’industria, a seguito dell’avvento del digitale, è andata in crisi; questo ha significato meno soldi nei budget promozionali. Contemporaneamente è avvenuta una trasformazione delle emittenti videomusicali da televisioni di flusso musicale puro a canali più vicini al modello generalista: sempre meno spazio ai video e sempre più spazio a reality show, fiction, varietà. Oggi il videoclip è standardizzato, stereotipato, sterile. Mancano i soldi, gli spazi sono nicchie come il satellite. I clip esistono ancora, come necessità per grandi artisti (che peraltro li fanno sempre uguali). Ma il clip rinasce su internet, autoprodotto dagli artisti o più spesso creato artigianalmente dagli utenti. Comunque sia, oggi bastano una videocamera e un programma di montaggio su pc: c’è meno attenzione alla forma e più alla sostanza. I clip user generated content mirano a YouTube e al passaparola.
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L’ascesa di nuovi spazi si spiega in questo panorama: diminuito l’impatto di massa del videoclip, la discografia ha sempre bisogno di costruire gli artisti, e di lanciare le loro canzoni. Da questo punto di vista, il reality show musicale porta in primo piano il processo di costruzione dell’artista come personaggio. Prima tutto era nell’ombra: per intenderci, sarebbe stato bello vedere in diretta i provini delle future Spice Girls… Non è un caso che il primo reality show musicale sia stato “creato” da Simon Fuller, proprio l’inventore delle Spice. Si intitolava Pop Idol e venne trasmesso per due stagioni su ITV, tra il 2001 e il 2002. American Idol, versione statunitense del format, in onda su Fox, è diventato uno dei programmi più popolari del network, nonché fucina di star come Jennifer Hudson e Kelly Clarkson. Con i reality musicali, le case discografiche testano sul campo il gradimento dell’artista, applicando alla musica la logica televisiva di costruzione “in diretta” del personaggio. Una vetrina fenomenale, quindi, che però in Italia non ha avuto lo stesso impatto che altrove: i vari Popstar, Operazione trionfo e X-Factor hanno registrato ascolti bassini. Gli artisti “prodotti” da questi programmi sono presto caduti nel dimenticatoio, quelli “rigenerati” da Music Farm non sono riusciti a rilanciare la loro carriera. Costruire un personaggio musicale è un processo simile solo in parte alla costruzione di un personaggio tv. Non basta l’esposizione mediatica, non bastano una bella faccia e un carattere memorabile, come i tanti prodotti stile Grande fratello e simili. Per durare ci vogliono belle canzoni e talento. Chi ricorda le Lollipop? Vinsero Popstar nel 2002, andarono prime in classifica. L’anno dopo parteciparono al Festival di Sanremo, steccando dal vivo sul palco. E da allora non le ha più sentite nessuno. Giusy Ferreri è l’eccezione che conferma la regola, anche se solo il tempo dirà se si tratta di un fenomeno duraturo. Per il momento è stata “costruita” ricalcando un personaggio molto presente nell’immaginario musicale odierno, la cantante retrò dalla voce strascicata, alla Amy Winehouse per intenderci. E soprattutto ha trovato un grande autore di canzoni come Tiziano Ferro, che ha firmato Non ti scordar mai di me e buona parte del suo disco d’esordio Gaetana. Altre due “vetrine” della musica emerse
con prepotenza negli ultimi anni rispondono a una funzione meno strategica e più tattica: far conoscere artisti già esistenti attraverso una loro canzone. Dai tempi dei primi broadcast radiofonici, piazzare una canzone in uno spazio ad alto impatto comunicativo è una delle logiche più (ab) usate dell’industria discografica. Ça va sans dire che fiction e videogiochi sono due degli spazi che, negli ultimi anni, più rispondono a queste caratteristiche. Da qualche anno la fiction è diventata uno degli spazi più ambiti per la “sincronizzazione” delle canzoni, come da decenni avviene negli spot. La fiction non ha esposizione ripetuta come questi ultimi, ma nemmeno il fardello del “vendere” il proprio nome a un’azienda, cosa che gli artisti musicali spesso fanno fatica ad accettare. La fiction permette di inserire le canzoni in un mondo, associarle a una storia, renderle appetibili. The O.C., per esempio, con le continue citazioni dei Death Cab For Cutie, ha trasformato il gruppo da nome di nicchia del rock indipendente a fenomeno di massa. Gli U2 e i Coldplay hanno scelto episodi della serie per presentare al pubblico nuove canzoni. Si pensi ancora, per fare un altro delle centinaia di esempi possibili, a Grey’s Anatomy, che ha lanciato gli irlandesi Snow Patrol piazzando la loro Chasing Cars nel finale della seconda stagione: è diventato il singolo più venduto del gruppo, quello che l’ha fatto conoscere oltreoceano. I videogiochi sono un fenomeno di mercato altrettanto impressionante, con vendite che superano facilmente quelle dei dischi degli artisti più noti. Molti artisti hanno iniziato a concedere l’uso del proprio repertorio a giochi come Guitar Hero, che vanta una puntata interamente dedicata alla musica degli Aerosmith: e presto ne uscirà una dedicata ai Metallica. Ultimamente nei videogiochi si possono trovare pure delle première di canzoni. Certo, si tratta di una vetrina diversa rispetto ai media tradizionali, una vetrina a pagamento – pago per avere il videogioco con la canzone –; ma l’impatto sul pubblico giovanile è tale che ciò non sembra preoccupare né gli artisti né le case discografiche. Insomma, cambiano gli spazi da cui la musica ci arriva e le vetrine sono nuove, ma le logiche restano quelle di sempre: raccontarci storie musicali, venderci gli artisti e le loro canzoni.
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un’altra storia Da Los Serrano a I Cesaroni, l’adattamento di format di Luca Barra
Si sente sempre più spesso parlare di format di fiction, con l’ovvia conseguenza di accomunarli a quelli di intrattenimento. Ma sarà vero che Ugly Betty è come Grande Fratello? Alle continuità, ma soprattutto alle differenze, tra prodotto d’origine e declinazione nazionale, è dedicato questo pezzo/intervista, che prende in esame temi come l’ambientazione, la costruzione dei personaggi, il formato, il registro e lo sviluppo narrativo di una fiction di successo: I Cesaroni.
illustrazioni di Valerio Vidali
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LINK 7 Product un’altra storia 1. Per “bibbia” di un format di fiction si intende l’insieme di script, linee guida, indicazioni sul cast e sul setting.
2. Il team dei Cesaroni comprendeva, in una prima fase, gli headwriter Fabrizio Cestaro e Herbert Simone Paragnani, i produttori RTI Maria Grazia Saccà ed Elisabetta Trautteur, il produttore artistico Publispei Carlo Principini e la responsabile editoriale, sempre Publispei, Benedetta Fabbri.
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i fa presto a dire format, quando si tratta di fiction. Da un lato, la “bibbia”1 del modello di origine va adattata alla lingua, alla cultura e alle abitudini mediali del paese di destinazione. Dall’altro, la fiction per sua natura sfugge da schemi e confezioni troppo rigide, alla ricerca di nuove soluzioni: e così finisce per diventare un prodotto ibrido, almeno in parte affrancato dai legami originari con il format. Prendiamo un caso esemplare, quello che da Los Serrano porta a I Cesaroni: fiction di successo, che si inserisce in una tendenza di lungo periodo al rifacimento italiano di format spagnoli, da Medico de familia / Un medico in famiglia a Cuentame como pasò / Raccontami, indubbiamente favorita dall’omogeneità del contesto culturale e produttivo dei due paesi di partenza e di arrivo. I passaggi sono sempre gli stessi: la selezione del format, l’acquisto dei diritti, l’adattamento e le sue limitazioni da contratto. Come racconta Simona Santoro, della Direzione Affari legali e societari del gruppo Mediaset, e dal 2004 legale di supporto alla Direzione Fiction: “La serie fu individuata da Guido Barbieri e Francesco Pincelli, all’epoca rispettivamente direttore diritti e fiction e direttore fiction di RTI. Una volta definita la trattativa commerciale, Globo Media, titolare del format, ha concesso a Publispei, produttore esecutivo, il diritto di realizzare una versione locale destinata al territorio italiano. Il contratto di licenza in esclusiva è vincolato quanto a numero di episodi, territorio, periodo di produzione, restrizioni di natura editoriale; inoltre, abbiamo l’obbligo di sottoporre all’approvazione di Globo Media tutte le decisioni relative all’adattamento delle trame e delle sceneggiature, la scelta del cast e qualsiasi cambiamento sostanziale del format. La versione locale è stata quindi prodotta da Publispei, su incarico di RTI”. E qui avviene il primo salto. Sotto la supervisione di Globo Media, il team di lavoro2 ha profilato le direttrici dell’adattamento. Un adattamento che si muove lungo tre direzioni, tra loro intrecciate e complementari. In primo luogo, l’adattamento è tematico: l’ovvio spostamento del setting dalla Spagna all’Italia porta a ridefinire i nomi dei personaggi e le loro relazioni. La rivalità tra Barcellona e Madrid si trasfigura nell’opposizione tra Milano e Roma, gli ingenui provinciali giunti in città diventano popolani urbani del quartiere Garbatella. In secondo luogo, si ha un adattamento di formato, dovuto soprattutto alla volontà editoriale di cambiare il genere di riferimento, dalla sitcom alla serie. Los Serrano ha una struttura rigidamente verticale, con un tema forte di puntata declinato lungo le varie linee narrative e un perenne ritorno alla situazione iniziale. I Cesaroni, invece, provano a ibridare la struttura verticale con una vicenda orizzontale, più o meno forte, che si estende di puntata in puntata e di stagione in stagione. Questo cambio ha reso necessaria una struttura più rigida, con una compattezza che manca all’originale: nell’edizione italiana le tre linee narrative (amore, famiglia, bottiglieria) sono sostanzialmente equilibrate, e vengono tutte introdotte nei primi cinque minuti dell’episodio. La singola puntata si accorcia da 70 a 50 minuti, con scene più brevi e ritmate e un passaggio costante da una linea narrativa all’altra, da una generazione all’altra. A genere diverso corrispondono inoltre differenti modalità produttive: se Los Serrano è girato in digitale, con regia in diretta, I Cesaroni utilizza la più tradizionale ripresa su pellicola e un numero molto ampio di riprese in esterna, alla ricerca di una maggior corrispondenza con i luoghi reali. Infine, un terzo tipo di adattamento è quello stilistico, che riguarda soprattutto il tipo di umorismo portato sullo schermo. La comicità del prodotto spagnolo è marcata, basata sull’interpretazione da parte di comici che diventano vere e proprie maschere: spesso scorretta, grossolana e triviale, non risparmia rutti e altre volgarità, come pure frequenti richiami caustici alla realtà sociale e politica e guizzi verso il surreale. Per I Cesaroni si è scelto uno stile differente, più
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vicino alla commedia: con un forte lavoro sui personaggi, gli elementi caricaturali sono stati addolciti, i riferimenti alla realtà “vera” sono scomparsi, al riso si è sostituito il sorriso, con una comicità più scritta e più verosimile, alla ricerca di un difficile (ma non sempre raggiunto) equilibrio tra la dolcezza della fiction e la scorrettezza del modello. Infine, spesso nella vita di un format di fiction c’è un secondo salto. Per quanto se ne curi l’adattamento nei dettagli, il rifacimento presto diventa autonomo, mentre il format si riduce a una semplice griglia di personaggi e sfondi su cui innestare storie pensate e scritte ex novo. A partire dalla fine della prima stagione, il legame dei Cesaroni con gli intrecci spagnoli si complica, fino a sfumare quasi del tutto. Se già nelle prime quattro puntate è stata inserita una vicenda orizzontale che seguiva il matrimonio tra Giulio (Claudio Amendola) e Lucia (Elena Sofia Ricci), punto di partenza dato invece per scontato dalla serie spagnola, presto i personaggi – specialmente Eva (Alessandra Mastronardi) e Marco (Matteo Branciamore), la cui storia d’amore impossibile si articola di puntata in puntata – iniziano a vivere di vita propria, con l’originale che si limita a fare da spunto. Tutti questi sviluppi si rivelano essere a volte delle restrizioni, altre volte nuove opportunità. Ma incidono direttamente sulla scrittura delle stagioni, degli episodi, dei dialoghi. Ne parliamo con Giulio Calvani e Federico Favot, a più livelli “autori” dei Cesaroni: hanno scritto una dozzina di sceneggiature a testa, i testi delle canzoni di Marco e le novellizzazioni (Quello che non sai di me e Ovunque andrai, Sperling & Kupfer); sono stati assistenti headwriter nella prima stagione, co-editor nella seconda (con Francesca Primavera) ed editor nella terza (con Francesca Primavera e Simona Giordano, per Salvatore De Mola e Alberto Taraglio).
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come creare una serie tv LINK 7 Product
Manuale di istruzioni per una scrittura davvero televisiva di Denis McGrath
Lo sapevate che l’arma segreta di Friends era Joey? Oltre a questo, qui si confida all’Aspirante Autore che per scrivere una serie tv bisogna dimenticarsi del cinema e capire che la scrittura seriale è tutta un’altra cosa. Che un break pubblicitario non è una pausa ma la chiusura di un atto. Che il motore di una serie è tutto quello che ha bisogno di trovare.
traduzione di Paolo Micheli
illustrazioni di Valerio Vidali
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Autore televisivo, creatore della serie mystery canadese Across The River To Motor City, ha lavorato per diverse serie tra cui Blood Ties, Charlie Jade, Skyland e The Border. Il suo blog, Dead Things on Sticks, dedicato alla scrittura seriale, è uno dei più seguiti. Vive e lavora a Toronto.
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reare una serie televisiva è una cosa diversa dallo scrivere un film. Un film inizia sempre con una grande idea. E dopo tanti anni di produzioni, l’idea è quasi sempre una variazione su un genere consolidato. Per esempio il viaggio di un eroe, un racconto che ti porti dal punto A al punto B, che in qualche modo produca in te un cambiamento e che magari ti faccia imparare qualcosa di nuovo sul protagonista e quindi, per traslato, sulla vita. Scrivere la sceneggiatura di un film è come costruire una casa partendo da uno schizzo. Creare un serie televisiva, invece, è sì progettare la casa, ma anche disegnare le basi della comunità che ci andrà a vivere. Tutto sta nel trovare il “motore”. Cos’è il motore? In parole povere, è il principio che muove la serie. Mentre il film può essere una sola storia raccontata bene, una buona serie televisiva è composta da una pluralità di storie che partono dalla stessa premessa. Tanto più spinge il motore, quanto più funzioneranno le storie che esso muoverà. Per questo motivo spesso la televisione racconta di gente comune e le sceneggiature descrivono la vita di tutti i giorni, all’interno di una centrale di polizia, di uno studio legale o di un ospedale. Una volta decisa la “comunità” che popola il mondo della tua serie tv, devi darle vita. C’è un piccolo trucco che mi piace usare quando mi viene un’idea per una potenziale nuova serie. Inizio a fantasticare sui protagonisti e sui personaggi strani su cui vorrei basare le mie storie. Poi, per chiarirmi le idee, cerco di “vedere la locandina”. Fisso un muro e immagino che sopra vi sia appesa la locandina del primo episodio della serie. C’è una persona sola, in piedi, che mi guarda? Ci sono un paio di persone, o tre? È ritratto un gruppo, uno accanto all’altro, e non c’è nessuno in primo piano? Oppure c’è un gruppo di persone sullo sfondo, con uno o due di loro in risalto? A volte le serie hanno un unico protagonista e tutto gira attorno all’eroe (L’ incredibile Hulk e la maggior parte delle serie tipiche degli anni Settanta), oppure una coppia di protagonisti (X-Files), o più personaggi principali (Friends, L.A. Law, West Wing), o ancora un gruppo che ruota attorno a un leader (Dr. House, I Soprano). Qualche volta anche le serie di maggior successo ci mettono un po’ prima di trovare la propria strada. Nelle prime stagioni di West Wing ed Ellen c’erano personaggi che avrebbero dovuto essere protagonisti ma che nel tempo sono stati fatti fuori. Persino una serie storica come Mary Tyler Moore è mutata moltissimo – è passata dall’essere equamente ambientata tra la casa di Mary e il suo posto di lavoro a concentrarsi esclusivamente sul lavoro, quando il personaggio di Rhoda ha lasciato la serie. All’inizio sembra naturale lavorare su come i personaggi ruotano attorno al protagonista. E raramente si analizza come possano relazionarsi anche i gruppi e i personaggi secondari. Dovete ricordare che state per mischiare e abbinare i personaggi in più di un centinaio di diverse storie. Per esempio, ogni volta che a Friends si voleva provare qualcosa di nuovo e diverso, qualcuno andava a vivere con Joey. Pensateci, vedrete che è vero. Joey è stata l’arma segreta di Friends. Chandler, Rachel e persino Phoebe non sono mai stati più spiritosi di quando vivevano con Joey.
Il pilota
Una volta completata l’analisi iniziale siete finalmente pronti per il primo episodio. Ora, che genere di puntata pilota volete? Potete scegliere tra due possibilità. Uno è il “prologo pilota”, dove si raccontano le origini del vostro supereroe: come Peter Parker sia diventato Spiderman, o Bruce Wayne Batman. Ci sono un sacco di pilot di questo tipo: pensate a Cin Cin. Nella prima puntata Diana entra nel bar per aspettare il suo moroso. Nell’attesa conosce la combriccola del bar, poi il fidanzato la molla ed entro la fine dell’episodio lei finisce per accettare un lavoro
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come cameriera. Nel pilot di Friends c’è Rachel in crisi per il suo matrimonio che si mette in contatto con Monica, un’amica che non vedeva da tempo. E alla fine dell’episodio va a vivere con lei. Certo, il problema del “prologo pilota” è che non è esattamente il tipico episodio della serie. È risaputo che gli episodi pilota sono i più difficili da scrivere. Ti tocca spiegare le premesse, introdurre tutti i personaggi e raccontare una storia in una botta sola. Per questo spesso gli autori alla fine optano per un secondo tipo di episodio pilota: “l’episodio tipico”. In cui, in pratica, il telespettatore viene catapultato dentro una storia già avviata. All’inizio di E.R. vi siete trovati improvvisamente nel County General Hospital di Chicago. Dovevate capire chi erano i dottori e le infermiere in gioco. Il primo episodio era già molto simile a ogni altro della serie.
Struttura
Ora vediamo come si sviluppa una storia. La struttura cambia in funzione di queste variabili: se la serie è basata su puntate di mezz’ora o di un’ora; se è seriale (quando le vicende continuano tra un episodio e l’altro) o se ogni singolo episodio è a sé (cioè si raccontano storie autoconcluse); in base agli eventi che introduciamo di volta in volta nella trama; se stiamo lavorando su una serie per la tv commerciale, che quindi verrà interrotta per le pubblicità, o se la puntata non avrà interruzioni. Conosco un po’ meglio i formati standard nordamericani, dove ci sono molte interruzioni pubblicitarie, per cui parlerò di questi. Le interruzioni rappresentano in pratica il numero di atti in cui va spezzettata la puntata. Non occorre stare a perder tempo per capire cosa significhi suddividere una puntata in tanti atti, in pratica si tratta banalmente di pensarli in termini di momenti cruciali.
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Quando parte la pubblicità tocca lasciare lo spettatore come sospeso, così che rimanga in trepidazione durante la pausa e che non ci abbandoni. Le serie tv da un’ora erano suddivise in quattro atti (della durata di mezz’ora ogni due), ma i cambiamenti recenti fanno sì che oggi non sia raro trovarne anche cinque o sei. In pratica sei costretto a progettare più momenti di suspense, possibilmente che preludano a nuove scoperte o a un pericolo per il personaggio principale. Per questo la gran parte degli autori partono dalla fine. Mettono a fuoco tutto quello che deve accadere entro la conclusione dell’episodio e poi lavorano all’indietro, spostando i personaggi lungo la puntata, scandendo così i tempi e tutti i singoli eventi della storia. La maggior parte delle serie contemporanee tendono ad avere al proprio interno una trama A e una trama B (ma anche C, D eccetera). La trama A riguarda il personaggio principale e tutto quel che gli gira attorno. La trama B gli altri personaggi. Man mano che si scende nella lista, le trame perdono d’importanza, per cui verrà dedicato loro meno tempo. Il vero lavoro sta nell’imbastire i singoli eventi per ogni trama, dall’inizio alla fine – cosa succede, dove accade, chi è coinvolto. Occorre farlo separatamente per tutte le trame. Una volta fatto, sommati tutti i momenti salienti, ti trovi con 70/100 eventi cruciali per un’ora di spettacolo. Ovviamente non si possono fare tutte queste scene. Inizi con il preparare l’intreccio, avvicini tutte le trame e cerchi di legarle insieme senza forzature. Spesso accade che un evento cruciale delle trame B o C non abbia bisogno di una scena tutta per sé e che possa essere abbinato ad altre scene, o meglio ancora a una parte della trama A. Se metti sulla carta tutti questi momenti cruciali con i loro sviluppi puoi farti una prima idea della storia, di come può procedere e di come
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suonerà una volta che verranno stesi i dialoghi. Questo è un processo di scrittura indispensabile per la tv. Al cinema lo spettatore è concentrato. Devi proprio fare un errore madornale perché il pubblico si alzi e se ne vada. In tv non è così. Il pubblico ha in mano l’oggetto magico che può farti sparire in un attimo, cambiando canale. Devi essere certo che la tua trama proceda senza intoppi e che abbia una buona base di partenza. Buttare giù subito l’intreccio è il metodo migliore per capire se le scene funzioneranno ancor prima di scriverle. Quando si arriva ai dialoghi è più difficile capire dove sta l’errore, e di conseguenza provare a mettere a posto le cose. Nel momento in cui esamini le singole scene, dopo aver steso la traccia, ricorda che ogni scena può avere da una a tre funzioni. Primo, serve a sviluppare la trama. Secondo, può rivelare qualcosa di importante e gustoso sui protagonisti. Terzo, può servire per spiegare qualcosa di rilevante riguardo al tema dell’episodio. Una scena scritta bene infila almeno due di queste funzioni. Una scena perfetta riesce a inserirle tutte e tre. Definita la traccia, a seconda degli accordi presi con il produttore o con il network che ti ha ingaggiato, puoi stendere un primo abbozzo, in altre parole la descrizione in prosa di quello che accade nell’episodio (una sorta di lungo racconto senza dialoghi), oppure scrivere direttamente la sceneggiatura.
Essere Autori
C’è un bel po’ di lavoro da fare, vero? E tutto ancor prima di aver scritto: “Inizio – Fade in”. Anche per questo in Nord America la maggior parte del lavoro di spezzettamento della storia viene fatto da un team di autori. Assieme si eseguono i passaggi che ho descritto fin qui, finché non si ha una storia che funzioni. Solo a quel punto si identifica un autore a cui affidare la puntata per finirla. Il vantaggio è chiaro. Con un gruppo che conosce bene la serie e lavora in sincronia si possono produrre le nuove storie molto in fretta. In più, siccome si lavora in cinque o sei, le trame avranno meno buchi o errori strutturali che non lavorandoci da soli. Nonostante ciò tutti gli autori televisivi prima o poi si trovano a dover pensare la struttura di un’intera storia da soli. Non è divertente per niente. Ti scopri a fissare il foglio bianco o la lavagna sperando che ti colga l’ispirazione. Che non arriva mai. Chi non è autore non mi crederà, ma per esperienza vi garantisco che quando ci si mette a scrivere una sceneggiatura significa che il 60-70% del lavoro è già stato fatto. Si tende a confondere la traccia con i dialoghi. Ma i dialoghi sono solo l’ultimo passaggio, e anche il più semplice. Si trova facilmente uno che sappia scriverli. Mentre un autore che sappia stendere bene la struttura della storia è molto, molto più raro. Quando inizi a scrivere una serie televisiva, normalmente ti viene chiesto di consegnare il testo guida, e anche una sorta di “bibbia” – cioè un documento in cui siano riportate le basi generali della serie, la descrizione dei personaggi, i loro rapporti, le storie principali e una manciata di possibili sviluppi. Possono anche chiederti di scrivere una o più sceneggiature, così i produttori più ansiogeni possono stare tranquilli che le vostre proposte stiano in piedi. È incredibile come una sceneggiatura per la tv possa essere un animale tanto studiato e tenuto strettamente sotto controllo. Il creativo che lavora dentro questi limiti è come il poeta che lavora a un haiku, o il cantautore che cerca quei tre versi perfetti per il coro che li canterà. È uno sporco lavoro che non va bene per tutti. Ma a chi lo esercita può procurare dipendenza. Diventare il creatore del mondo che vive all’interno di una serie televisiva e vederlo crescere, per quel che ne so io, è il modo più vicino, per noi mortali, di giocare a essere Dio.
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路 share e top ten 路
tutto in famiglia di
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Paola Capra
Tutti parlano di famiglia: sarà un segno dei tempi?
a famiglia si consolida come tematica trasversale a vari generi, unita nella buona e nella cattiva sorte. In televisione questa presenza non è certo una novità: basti ricordare il classicissimo Family Feud, format statunitense del 1976, dove due concorrenti, affiancati dalle rispettive famiglie, dovevano elencare le risposte più ricorrenti date da cento persone, intervistate precedentemente, su un dato argomento; di recente il programma è tornato al successo con la rivisitazione inglese, l’adattamento francese e, infine, una nuova versione americana. Tuttavia non può sfuggire la presenza massiccia, nel 2008, di programmi che vedono protagonista la famiglia: dai game show in studio ai reality game in esterni, dagli adventure alle docusoap, dagli observational documentary ai dating show. Una famiglia foriera di buoni sentimenti, ma anche da seguire, consigliare, curare nelle sue debolezze e incrinature. L’istituzione familiare non rappresenta solo il “mondo” di riferimento di alcuni giochi, ma ne ispira i meccanismi con i propri valori e dinamiche: fiducia, solidarietà, responsabilità, memoria, abitudini, conoscenza reciproca, ma anche segreti
e conflitti. La coesione è l’elemento chiave del pilota svedese Family Links, dove la famiglia costituisce una catena di cui ogni membro è un anello: se in ogni manche riesce a comporre la catena di risposte corrette procede nella scalata ai premi, altrimenti la catena si interrompe. Anche gli aiuti sono coerenti al tema: si può passare la domanda al familiare successivo o cambiare posto nell’ordine con colui che si pensa sappia la risposta, o ancora allestire una breve riunione di famiglia per discutere. La conoscenza reciproca e la fiducia sono fondamentali in Opportunity Knocks, game show dell’autunno di ABC in cui viene coinvolta un’intera famiglia, nel giardino di casa: le domande a ciascun membro riguardano la famiglia stessa e, nell’ultima fase, gioca solo un componente designato. La memoria è centrale nel gioco statunitense Amne$ia, il cui meccanismo ruota sul tema dei ricordi che il concorrente ha di sé e della propria famiglia. Nella gara tra papà My Dad is Better than Your Dad prevalgono prove dinamiche, ma nel round di domande il bambino deve premere il pulsante se crede che il papà sappia la risposta. Alcuni giochi si basano sui conflitti o comunque sui rapporti familiari non proprio
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È responsabile Analisi trend e format, Dipartimento format, RTI.
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la memoria in diretta
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sulle possibilità dell’archivio tv
di CARLO FRECCERO
“C’ è un vita che non sapevamo di vivere e che la televisione ha conservato per noi. La cera Liù, le palline del clic-clac sono per la nostra generazione come la Rosabella di Citizen Kane”. Passato televisivo / identità presente. Freccero ci svela la particolare fruizione del tempo resa possibile dagli archivi televisivi e la sua influenza sulle nostre vite. Una caratteristica: attraverso la tv, il passato è ripercorso da ciascuno innumerevoli volte, con sentimenti, gusti e valori diversi, talvolta opposti. Il nostro ieri vive in eterno, e finisce per rendere eterna anche la nostra giovinezza.
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È stato responsabile capo del palinsesto di Canale 5 dal 1979 al 1983, quando è passato alla direzione programmi di Italia 1 e poi a Rete 4 (1984). Nel 1985 comincia l’esperienza francese, assumendo la direzione programmi di La Cinq fino al 1990. È direttore di Italia 1 dal 1991 al 1994, quando torna in Francia come responsabile programmi per France 2 e France 3. Nel 1996 rientra in Italia, dove fino al febbraio 2002 è direttore di Raidue. Attualmente è presidente di Raisat, dirige Rai Quattro e insegna presso l’Università degli Studi Roma Tre e l’Università di Genova.
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1. Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 151.
2. Ivi, p. 152.
L’
archivio costituisce da sempre la memoria dell’umanità rispetto a settori specifici. È un insieme di documenti che si accumula spontaneamente, prima di trovare un ordine e una classificazione.
TRE MODELLI DI ARCHIVIO Nell’utilizzo dell’archivio esistono almeno tre grandi modelli. Nell’antichità e nel mondo romano l’archivio svolge soprattutto funzioni giuridiche. I documenti vengono conservati per essere consultati a fini legali. Quest’ordine dura per tutto il Medio Evo e sino alla metà del XVI secolo. La prima grande frattura nell’uso e nel significato dell’archivio si ha nel passaggio da un uso giuridico a un uso storico. I documenti conservati negli archivi rivelano la possibilità di utilizzo per ricostruire il passato in modo attendibile. Gli archivi si prestano all’attribuzione di opere d’arte, alla ricostruzione di episodi storici, ma anche e soprattutto all’elaborazione di una microstoria che non ha per oggetto i grandi eventi, ma le condizioni materiali di vita di un’epoca. La nascita dell’archivio storico così come noi l’intendiamo si colloca secondo Michel Foucault nel XIX secolo. Il museo e la biblioteca sono in effetti fenomeni costitutivi della cultura occidentale di questo periodo. Foucault, con L’archeologia del sapere, dà a sua volta una propria definizione di archivio. “È il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati”1. Ma non si tratta di enunciati contemporanei: “La descrizione dell’archivio sviluppa le sue possibilità […] a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere nostri; la sua soglia di esistenza è instaurata dalla frattura che ci separa da ciò che non possiamo più dire, e da ciò che cade fuori dalla nostra pratica discorsiva”2. Anche nella versione di Foucault, l’archivio si riferisce a culture ed epoche che presentano una discontinuità rispetto al presente. Non si può fare archeologia dell’oggi, ma solo rispetto a qualcosa che ci è ormai estraneo. L’archivio è quindi il repertorio della discontinuità e della differenza nei confronti del presente. È un materiale storico archeologico, non integrabile nella nostra cultura. L’abbandono di questa seconda prospettiva dell’archivio si ha con il cosiddetto postmoderno. Il postmoderno sancisce l’uscita dalla modernità. Finiscono i grandi sistemi filosofici, le cosiddette “grandi narrazioni”. Ha fine anche il mito del progresso. Il postmoderno è caratterizzato da un eterno presente, in cui elementi contemporanei e del passato convivono fianco a fianco in un assoluto anacronismo. Prima di essere un movimento filosofico, il postmoderno è un movimento architettonico. Esaurita la spinta razionalistica dell’architettura moderna, elementi di decorazione del passato vengono reintegrati nell’estetica presente: la colonna, la voluta, il capitello entrano o ritornano a far parte della sensibilità estetica attuale. C’è una riscoperta del barocco e della decorazione fine a se stessa che sopravvive sino a oggi nell’arredamento e nella decorazione di interni. Lo stesso processo è identificabile in tutti i campi. Nessuno stile e nessuna forma, anche di cattivo gusto, sono mai completamente superati, ma vivono in eterno come prototipi atemporali, insieme ad altri modelli e prototipi. La moda scopre il vintage e il revival. Il cinema privilegia la serialità, il remake, la citazione. L’archivio non è più un repertorio storico a cui attingere per la ricostruzione del passato, ma una risorsa viva, attuale, a cui attingere per la produzione presente. La rivoluzione nell’uso dell’archivio in epoca postmoderna non è casuale. L’archivio non è più una raccolta di documenti cartacei, registri, bollette, ricevute, delibere, verbali, ma comincia a essere costituito da immagini, filmati, notiziari, film. All’archivio dell’epoca Gutenberg si sostituisce l’archivio visivo della società dell’immagine. A proposito del rapporto di causa ed effetto tra archivio e postmoderno, potrem-
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mo usare il solito paradosso dell’uovo e della gallina. Il postmoderno rivoluziona l’uso e il significato dell’archivio, spostandolo dalla storia al presente, secondo un’ideologia che annulla lo scorrere del tempo, ma questa ideologia, questo spirito del tempo, non sarebbe stata possibile né pensabile senza la presenza di un archivio visivo, fatto di immagini che sopravvivono eternamente e possono essere fruite indefinitamente, rendendo conoscibile anche a livello visivo, sensoriale, il passato come un’esperienza ripercorribile infinite volte nel presente. CREAZIONE DI SECONDO GRADO C’è un secondo elemento di carattere culturale che fa dell’archivio una risorsa per molti versi preferibile al nuovo. La produzione artistica di oggi è in qualche modo una produzione di secondo grado, non tanto l’espressione di una creatività autonoma, quanto piuttosto la riflessione su espressioni culturali precedenti. Con l’avvento della fotografia le arti figurative abbandonano la rappresentazione della realtà in favore di una riflessione sull’arte stessa e sull’immagine. L’artista non è più pittore o scultore. Il suo compito è la lettura in chiave concettuale dell’esistente. Nasce il ready made, l’utilizzo a fini artistici di oggetti di uso comune (l’orinatoio di Duchamp) e il citazionismo, l’uso di opere consacrate dalla storia dell’arte per riflettere sull’arte stessa e sulla figurazione. La riflessione può abbracciare, come nel caso di Andy Warhol e della Pop Art, l’intera società dell’immagine. Warhol lavora sulla moltiplicazione delle icone del nostro tempo (le Marilyn, le Liz, i Mao), ma anche sulle icone della storia dell’arte (Il cenacolo di Leonardo). Un’immagine codificata, un’icona, ha un valore atemporale spendibile perennemente. L’archivio è oggi il repertorio di questa classicità contemporanea. Lo stesso fenomeno, di recupero e riciclo dell’immagine, riguarda anche le im-
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intervista a
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piero angela
Il video della Rivoluzione francese Fabio Guarnaccia
di illustrazione di Fabrizio Barletta
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“Mi sono immaginato che programmi potremmo fare se solo avessimo la stessa quantità di immagini odierna per periodi come l’epoca di Garibaldi, o della Rivoluzione francese. Avremmo tutte le interviste con i rivoluzionari, con le donne che portano i pani, avremmo la presa della Bastiglia filmata con una telecamerina: un archivio fantastico per ricostruire la storia. E scopriremmo magari delle cose molto diverse da quelle che ci raccontano i libri”. Intervista a Piero Angela, sull’uso presente e futuro dell’archivio come risorsa culturale.
Nei suoi programmi si fa spesso ricorso a film e sceneggiati. Vorremmo partire da qui, dall’archivio usato per rendere accessibile un tema complesso. Sull’archivio possiamo fare diverse riflessioni. La Rai ha fatto in passato molte fiction storiche. A differenza di quelle odierne, però, non erano giocate esclusivamente sul piano delle relazioni affettive, ma erano storicamente rigorose. In particolare autori come Giuliano Montaldo (Marco Polo), Alberto Lattuada (Cristoforo Colombo) e soprattutto Renato Castellani, regista ingiustamente dimenticato (Leonardo, Giuseppe Verdi), avevano il merito di documentarsi molto bene. Quando innestiamo sul nostro racconto alcune parti di fiction, per creare una narrazione più gradevole o che risponda ai criteri delle prime serate, vediamo molto spesso lavori che sono lontani o lontanissimi dalla realtà. Le faccio un esempio fra tutti. Abbiamo fatto una puntata su Mata Hari. Un personaggio che io ho “conosciuto” benissimo: nel 1963 feci una lunga inchiesta che durò circa un anno, dove intervistai oltre una quarantina di testimoni dell’epoca, soldati del picchetto d’esecuzione, la suora che stava con lei, compagni di scuola eccetera. Quando abbiamo cercato delle fiction sulla sua storia ci siamo trovati di fronte il vuoto. Non c’era niente, tranne uno sceneggiato Rai fatto abbastanza bene, in bianco e nero, ma con attori italiani poco adatti a rappresentare quella realtà. E non potevamo certo prendere in considerazione il famoso film con Greta Garbo, nient’altro che un romanzo d’amore, o il film di François Truffaut con Jeanne Moreau, anch’esso piuttosto ridicolo dal punto di vista storico. Ci siamo trovati di fronte all’esigenza di fare in prima persona una fiction con un’attrice che assomigliava a Mata Hari, girata a Roma, ambientate a L’Aja o in Spagna. Oltre a dover ricorrere ai documenti e alle interviste dell’epoca, che avevo fatto negli anni Sessanta.
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Ci può raccontare il lavoro di scelta e reperimento del materiale, e come questo viene piegato alle esigenze narrative della singola puntata? Il punto di partenza sta all’ incrocio tra la scelta di un singolo personaggio e il recupero dei materiali che siano inerenti alla storia da raccontare. Una delle difficoltà di questa progettazione però è che spesso questi sceneggiati non si possono tagliare per ragioni di unitarietà dell’opera, e quindi non si possono utilizzare. Noi in realtà utilizziamo poco del materiale originale: in genere mezz’ora per una trasmissione, mentre l’altra ora e mezza è fatta con materiale nuovo. Peraltro si tratta di una mezz’ora spezzettata in più parti, così da dare aria alla trasmissione. Spesso usiamo anche film storici, biografie di personaggi. In quel caso un altro problema è quello dei costi. Per esempio, volevamo utilizzare un vecchio film, in bianco e nero, ma il costo è da sei a diecimila euro al minuto, cifra che per i nostri budget, specialmente per la terza rete, è insopportabile. Potremmo recuperare qualche minuto, ma per fare un programma di due ore non serve a niente. La fonte più valida è rappresentata dalle docufiction internazionali, a volte anche dagli sceneggiati della BBC, che fa cose eccellenti. Penso alla storia di Elisabetta I, praticamente un film, con protagonista Helen Mirren. In Italia troviamo poco o nulla, l’archivio Rai lo abbiamo già usato tutto. Abbiamo fatto una puntata di Ulisse sulla conquista della Luna recuperando il lavoro che avevo fatto sul progetto Apollo, con interviste nei laboratori della Nasa, servizi per Tv7 e per i telegiornali, telecronache e documentari. Un materiale enorme, che per fortuna siamo riusciti a recuperare quasi per intero, con il quale abbiamo costruito la puntata alternando alcune nuove interviste ai tecnici e agli astronauti che sono ancora in vita con questi miei servizi dell’epoca. Che effetto le ha fatto rivedersi a distanza di anni? Devo dire, onestamente, che questi servizi funzionano ancora adesso [ride]. Malgrado siano passati quarant’anni, erano abbastanza moderni e vivaci. Mi sono persino stupito. Solitamente le cose vecchie sono rigide, stantie, e invece lì funzionano bene. La cosa divertente è che in questa puntata di Ulisse c’era la parte “moderna” girata da mio figlio Alberto che si alternava ai miei materiali di allora. In una specie di ping pong tra due personaggi che, a quarant’anni di distanza, parlavano delle stesse cose in luoghi e con intenti diversi…
Oggi abbiamo 24 ore di tv su centinaia di canali, gli storici non sapranno dove mettere le mani
Una curiosità. A suo parere, che uso faranno gli storici e archeologi del futuro dell’infinita quantità di immagini che abbiamo oggi? Che idea si faranno di chi siamo e cosa vogliamo? Ci ho pensato spesso immaginando che programmi potremmo fare se solo avessimo la stessa quantità di immagini odierna per periodi come l’epoca di Garibaldi, o della Rivoluzione francese. Avremmo tutte le interviste con i rivoluzionari, con le donne che portano i pani, avremmo la presa della Bastiglia filmata con una telecamerina: un archivio fantastico per ricostruire la storia. E scopriremmo magari delle cose molto diverse da quelle che raccontano i libri. Oggi abbiamo ventiquattr’ore di televisione su centinaia di canali in tutto il mondo, gli storici non sapranno neanche più dove mettere le mani. Ci sarà un problema di cura degli archivi, ma avranno a disposizione tutto. Già vediamo che ci sono programmi come La grande storia o La storia siamo noi, che recuperano negli archivi le cose più recenti, della guerra e del dopoguerra, con immagini tratte dai do-
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Quark Una delle prime trasmissioni di divulgazione scientifica rivolte al pubblico generalista, nasce nel 1981. Da allora darà vita a numerosi spin-off: Pillole di Quark, Il mondo di Quark, Quark speciale, fino a Superquark.
cumentari. Oppure prenda Non è mai troppo tardi con il maestro Manzi. Lei vede un’Italia che ormai è scomparsa del tutto, con gli analfabeti che vengono in studio a scrivere. O le immagini di quando è cominciata la televisione, con le persone che si portavano la sedia nei condomini o nelle parrocchie per vedere i filmati. O quando, come mi raccontava un mio operatore, andando a far le riprese nelle valli di Comacchio e girando la sera con il flash portatile, i bambini impazzivano perché vedevano per la prima volta la luce elettrica. C’ è un’Italia di cui sopravvivono poche cose negli archivi. Però sono significative, e gli storici e gli antropologi, vedendo questo materiale su di noi, potranno raccontare delle storie che noi non riusciamo a immaginare. Ci sarà il problema opposto di orientarsi nell’archivio. Un po’ è vero. Ci vorranno motori di ricerca qualitativi. Non si tratta solo dei documentari. Anche L’isola dei famosi o il Grande fratello saranno una fonte preziosa. C’ è un’Italia in diretta di persone normali, che parlano tra loro, e che sarà interessante per gli antropologi di domani. La società è fatta di tante cose, anche di quello. Lei è un pianista, appassionato di jazz. Secondo lei si può stabilire un parallelo tra l’improvvisazione a partire da uno standard e la costruzione di programmi come Superquark? Sì. È un lavoro di costruzione. Abbiamo una serie di pezzi con i quali si costruisce un oggetto diverso da quanto si aveva prima, alternando le parti da noi realizzate, le cose scoperte in archivio, i pezzi esistenti. Facendo questo tipo di lavoro di ricostruzione storica, abbiamo sempre un consulente molto competente che non solo ci aiuta nell’ individuare i materiali, ma rilegge i testi e dà il suo imprimatur per la correttezza dal punto di vista storico. E in questo c’ è molto della costruzione musicale,
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ancora tu?
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l’eterno ritorno dell’uguale in tv
di Aldo Romersa
“Ottobre 2007, mattina di sole. La giornata in ufficio comincia con una mia domanda: ‘Scusate, ci sono film o serie che dobbiamo portare in valutazione al nostro capo?’. ‘Il rinnovo di Beverly Hills’, mi rispondono in coro i miei colleghi. Guardo l’ora, il giorno e l’anno. Ho un moto di stizza, la voglia di uscire dalla casa dei genitori: ‘Beverly Hills? La serie? Ma davvero vi sembra il caso di riprenderla?’”.
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È responsabile coordinamento acquisti, RTI.
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1. Banca dati Mediaset/RTI.
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ì, gli sembra davvero il caso di recuperare Beverly Hills, e Italia 1 la chiede in una forma che non consentirebbe l’elaborazione di una perdita. Bene, i miei collaboratori avevano ragione, e Italia 1 era come sempre all’avanguardia persino del movimento di retroguardia che non mi piaceva vedere: un anno dopo, in America, di Beverly Hills è stato prodotto il sequel, 90210. Ottobre 2007: comincia l’età della consapevolezza... Scrivo e ripenso a quanta parte dell’ultimo anno abbiamo impiegato per ragionare su reperti di buon modernariato televisivo, forti dell’indispensabile lavoro della Direzione Acquisti. Metteremmo bandiere a lutto se nei nostri magazzini non ci fosse la tranquillizzante presenza di Una poltrona per due, il BTP della programmazione natalizia di Italia 1. I tre Rambo li terremo in ostaggio sino al duemila e passa. Abbiamo gioito quando i buyer ci hanno segnalato sul mercato la presenza di Sabrina, e non parlo neanche dell’originale, ma del film con Harrison Ford – qui siamo alla mise-en-abîme del riciclo, al riciclo del remake. Controlliamo apprensivi le date di scadenza di ogni puntata de I Simpson. Ci siamo sentiti a posto con la coscienza quando abbiamo avuto conferma che La tunica e La storia di Ruth saranno nostri per molti anni a venire – forti, certo, della longevità del longseller da cui sono tratti. E ci rammarichiamo, professionalmente, di non avere i diritti perpetui di Pretty Woman o di Ghost. Fino a che, un giorno, è suonato il campanello d’allarme: ci siamo trovati a riflettere, su richiesta delle reti, persino sul rinnovo della Famiglia Bradford. La famiglia Bradford, anno di grazia della sua prima comparsa in Italia 1978. Va bene il trentennale, ma forse eravamo arrivati alla raccolta indifferenziata. Mi fermo su quel ricordo e cerco di capire. Al di là dello scherzo, ci sono ovviamente ragioni tecniche che spiegano parte di questi acquisti – non ultima la necessità di riempire accordi detti “di volume”, che le aziende televisive chiudono con le major proprio per assicurarsi il prodotto nuovo, e non quello vecchio. Ma detto questo il dubbio rimane: siamo tutti noi, operatori programmatori e buyer, vittime di una nevrotica coazione a ripetere? O non è forse la risposta dell’audience a spingerci a considerare proficuo continuare a programmare titoli come quelli che ho citato? Come sempre, offerta e consumo televisivo si rimandano in un gioco di specchi in cui non è facile capire chi primo propone e chi risponde. Ma guardiamo ai dati. FILM, TELEFILM, FICTION Partiamo dal cinema. È un fatto ormai assodato che il suo rendimento, sulle televisioni generaliste, è in netto calo da alcuni anni. Stagione televisiva 2003/04, classifica dei film più visti: i titoli che superano i 5 milioni di ascolto medio, su Rai e Mediaset, sono 72. Stagione televisiva 2007/08, quattro anni dopo: nella stessa classifica i film che superano i 5 milioni sono soltanto 11. Una perdita d’appeal secca1. Ma cosa c’è di più bizzarro? C’è che nei primi ascolti del 2007/08 ben 3 dei 10 film sono evergreen all’ennesimo passaggio: Billy Elliott, What Women Want, Pretty Woman. Mentre quattro anni fa ce n’era solo uno: Mamma, ho perso l’aereo. Insomma, diminuisce l’ascolto complessivo dei film ma sembra più che stabile il rendimento dei sempreverdi: il pubblico chiede meno la novità ma continua a premiare la stessa favola. Il fenomeno è ancora più evidente se scendiamo a reti con minori obiettivi d’ascolto. Tre fra i film più visti su Rete 4 nel 2003/04 furono Trinità, Rambo 1, Rambo 2. E quali film troviamo invece ai primi posti della classifica 2007/08?
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Trinità, Rambo 1, Rambo 2. Ah no, c’è anche Rambo 3. Allargo il campo di riflessione ai telefilm e prendo come primo esempio La signora in giallo. Qualche dato di share: la signora Fletcher ha registrato il 16% alle 12.30 di Raiuno nel 2005 e due anni dopo, stessa rete stesso orario, un dato identico. I Simpson, prendiamo a caso gli episodi della quarta stagione. Ascolti registrati nelle ultime tre emissioni: 18% di share alle 14.30 del giugno 2003, 18% allo stesso orario nel febbraio 2005, poco meno di questa media nella medesima collocazione del giugno 2008. Vogliamo accusare di pigrizia i programmatori? Per niente: queste repliche sono un esempio di virtuoso utilizzo del numero di passaggi acquisiti per contratto sia da Rai che da Mediaset, tanto più se davanti allo schermo ci sono sempre gli stessi spettatori che li guardano. Ogni tanto, per provocare chi ci guarda, si prova a spiazzare le attese: si azzarda un cambio d’orario così che il prodotto, riscoperto in una nuova fascia, sembri inedito. Anche questo fa parte del “ciclo del riciclo”, delle esigenze di un palinsesto. Riprendiamo La signora in giallo e torniamo sul luogo del delitto: nell’estate 2004 Raiuno l’ha tolta dalla sede storica del mezzogiorno e spostata alle 14.00, raggiungendo circa un 18% di share; nel 2006 l’ha persino spinta alle 18.00 con ottimi dati, quasi un 20%. Ma il riciclo è forse lo spirito del tempo, e mi sembra di leggerlo anche nell’ambito della fiction domestica. Mesi fa visitavo una mostra alla Triennale di Milano dedicata agli anni Settanta e mi sono stupito nel vedere quanti fossero i “prototipi” televisivi, i pezzi unici o a scarsa serializzazione che nacquero in quegli anni. Quello fu il decennio in cui la Rai ci propose L’amaro caso della Baronessa di Carini (1975), Joe Petrosino (1972), Le avventure di Pinocchio (1972), Puccini (1973). E in quest’epoca di riciclo la Rai ha avvertito l’opportunità di rifarli.
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intervista a
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Marco Giusti
la scomparsa del graal Fabio Guarnaccia
di illustrazione di Fabrizio Barletta
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Trovare, scegliere, rimontare. Più grande è l’archivio, più forte è il bisogno di dare senso ai frammenti. Questo è il lavoro di un autore-guida come Marco Giusti, creatore di Blob, Cocktail d’amore e Stracult: tutti programmi che hanno a che fare con la memoria e il gusto dello spettatore. Ma oggi un nuovo fenomeno mette in discussione questo ruolo. Grazie al web, i frammenti cine-televisivi diventano accessibili a tutti in numero potenzialmente infinito; mentre spettatori privi di consapevolezza storica accedono a questa raccolta, la usano, commentano e la rimontano senza più alcuna guida. Partiamo da Blob e dal tuo rapporto con l’archivio televisivo. In realtà tutto parte dall’amore per il cinema, più che per la tv. Quando affidi un programma a gente come me o Freccero, è inevitabile riportare a galla vecchi film e vecchi programmi tv come fossero cose nuove, perché siamo anche storici del cinema e della tv. Faccio un solo esempio. Quando i Cahiers du cinéma rileggevano John Ford agli albori della Nouvelle Vague, lo rendevano vitale per il presente e il futuro. Lo stesso fa oggi Quentin Tarantino quando rilegge Sergio Leone, gli spaghetti western o i vecchi film di kung fu: li rende vitali per oggi e “progetta” il loro futuro con un nuovo linguaggio cinematografico. In qualche modo la nostra piccola rivoluzione dentro Blob è stata quella di riprenderci il materiale sia della Rai sia del cinema, e renderlo vivo per il momento stesso. Quando per spiegare un fatto politico inserivo un vecchio film o una vecchia battuta non facevo che trasformare quel frammento in un momento di “culto” per il presente. Cosa che i ragazzi capivano al volo e rielaboravano come loro stessi culti cinematografici. Un atteggiamento molto sofisticato rispetto alla tv che si faceva allora. Blob è stato un progetto forte proprio grazie al suo approccio cinéphile e alla rimasticazione della tv del presente come fosse un racconto cinematografico. Ha usato il materiale tv vecchio come fosse vecchio cinema, da riprendere e rimettere in moto. Ecco, anche adesso che faccio Stracult il lavoro è simile. Stracult vive, oltre che sui ricordi del vecchio attore trovato chissà dove, sulle sue apparizioni televisive o su film assurdi, che diventano materiale nuovo per uno “straculto” attuale. Blob aveva però anche un carattere educativo: voleva spiegare cos’era la tv giorno per giorno, cioè il presente. In un certo senso era tutto repertorio, il vecchio filmato e il programma del giorno prima. La cosa buffa è che per me alla fine il repertorio partiva dal pezzo di un minuto
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LINK 7 Mash-up Television
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prima. Questa abitudine mi ha reso quasi impossibile lavorare a programmi dal vivo per un po’ di anni, perché tendevo a vedere tutto, anche quello che stavo facendo, come se fosse già accaduto, parte della memoria. Il mio lavoro di autore era stato completamente assorbito dall’archivio: trovare, scegliere e rimontare. Dare un senso nuovo e originale a frammenti di un’altra epoca e di altri contesti. Non puoi costruire immagini “nuove” quando tendi a vedere il nuovo come parte di una cosa antica, una sua ri-composizione. E questo è stato una sorta di lascito, ma anche di degenerazione di Blob. Del mio Blob. Nei primi anni seguivo ogni aspetto del lavoro e non mi sono perso nemmeno una puntata. Penso che il periodo d’oro sia quello tra il 1992 e il 1994. Il mio rapporto con Blob era totalizzante, perché il programma era stato costruito seguendo il mio gusto. Stracult è tarato sul gusto dei fan del cinema B che hanno trenta o quarant’anni, Cocktail d’amore era per i fan della tv dagli anni Ottanta, ma Blob era fatto proprio sul mio gusto. Per questo l’ ho visto come parte della mia vita. E, allora, mi assorbiva completamente. Se dovessi rifare Blob oggi, lo rifaresti diverso? Blob oggi è un programma vecchio, che ha perso gran parte del rapporto con il suo spettatore. È molto antipatico da dire, perché io sono uscito da Blob. Ma i programmi hanno un valore finché sono vivi, finché sono in contatto con uno spettatore ideale e riescono a catturarne di nuovi. Se un programma ripete sempre lo stesso schema e non colpisce più con gusto innovativo, è morto. Già nel 1992 secondo me Blob il meglio l’aveva dato in termini di innovazione, poi è diventato un grande programma di analisi politica. Oggi preferisco guardare Santoro. Qual è la differenza tra i tuoi programmi e quelli recenti che usano l’archivio, come Tutti pazzi per la tele o I migliori anni? Noi li abbiamo fatti in maniera un po’ più cosciente, un po’ più storica, andando a fondo nel gusto e nella memoria del pubblico. Un programma come Stracult o Cocktail d’amore prende lo spettatore di trenta o trentacinque anni e seziona il suo immaginario. In questo caso il repertorio è parte del suo amore, del gioco che intrattiene con la sua vita. È chiaro allora che non è un repertorio morto, ma vivo, che prende di petto l’ interesse dello spettatore e lo colpisce subito. Cocktail andava dritto al segno, Amanda Lear incarnava la vitalità e la sensualità del repertorio stesso e in questo modo potevi arrivare dove volevi, creando contemporaneamente, per chi era un po’ più giovane, un gusto retrò che lo rendeva attuale. Cosa ne pensi, proprio come prosecuzione naturale di questo approccio alla televisione, del lavoro che viene fatto su YouTube dagli utenti, andando a recuperare frammenti di televisione, isolandoli e mettendoli in contatto tra loro? YouTube in realtà è al tempo stesso sia il massimo sogno di Blob – tutto quello che vuoi vedere, subito – sia la sua negazione, perché elimina il montaggio, e quindi l’autorialità. Il gioco di Blob era mettere insieme un frammento televisivo di Craxi con uno cinematografico di Bombolo: un gioco fatto dalla autorialità di te che monti, dal senso che vuoi dare attraverso il montaggio. YouTube ti fornisce solo il pezzo integrale, quindi il gioco è dello spettatore che sceglie cosa vedere e scopre, se è curioso, il repertorio; qualcuno cerca e qualcuno mette in rete, fine della storia. C’ è comunque un aspetto politico forte: in rete metto quello che voglio, non solo il programma che mi piace ma anche il frammento che per me ha maggiore significato. Quindi ancora un lavoro politico, forse anche ideologico, sul repertorio. Manca però, lo ripeto, la componente autoriale che era il fondamento di Blob. Se elimini questa parte vuol dire che il gioco è diventato un altro. Quando realizzavo VHS di comici di culto per Monda-
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il fluido attacca il cinema Un frame del film Blob, Fluido mortale diretto da Irvin S. Yeaworth Jr. nel 1958. La sigla del programma conteneva alcuni spezzoni del film, tra cui la scena in cui la creatura extraterrestre attaca gli umani in un cinema.
dori, mettevo insieme i frammenti e davo loro un percorso razionale, logico, storico. Costruivo una storia. Adesso non è più possibile. Non interessa più questo lavoro di interpretazione, ma soltanto avere a disposizione i pezzi integrali tra cui scegliere e da rivedere fino alla morte. Diciamo che è la vittoria del repertorio sul montaggio. Aldo Grasso dice che gli elementi fondanti dell’archivio sono sì la quantità e la qualità dei contenuti, ma soprattutto la capacità di collegarli tra loro, quindi il ruolo dell’interprete che conosce l’archivio è essenziale. Mi sembra che tu sia d’accordo… Lo scopritore, l’Indiana Jones delle Teche o del cinema, ha proprio questa funzione, serve a portare a galla il filmato con un giovane Giuliano Ferrara, a renderlo vivo per te e a farlo diventare un culto nuovo. Però dietro c’ è una rielaborazione artistica. E questa rielaborazione che diventa “nuovo gusto” per lo spettatore del 2009 è diversa dal pezzo “bruto” che vuole il fan. In questo trovo che possa esserci un aspetto negativo della fruizione del repertorio attuale. Hai tutti i materiali delle tue ricerche davanti, ma chi ti dice quale cosa è più rara, più importante? Spesso è come essere di fronte a una biblioteca infinita senza indicazioni di percorso. In base alla tua esperienza, ti sei fatto un’idea di come funzioni la memoria dello spettatore, o meglio le diverse memorie generazionali dello spettatore? Il fan adesso vuole “materiale”, ha già in qualche modo il suo culto e gli serve semplicemente alimentarlo. Trovo che accadano cose molto buffe. Quelli che, come me, hanno circa cinquant’anni sono cresciuti in pieno Novecento, e lo conoscono bene: io so se quel film l’ ha diretto Richard Thorpe o John Ford. Posso riconoscerlo da un’ inquadratura. Lo spettatore di
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La nuova giovinezza di un’antica tecnica pubblicitaria di Marco Vecchia
La telecamera indugia su una bottiglietta di acqua minerale, etichetta in bella vista. L’eroe della nostra serie preferita chiede soccorso nella fuga con un cellulare ultimo modello. L’uniforme dei partecipanti al reality è una maglietta in vendita nei migliori negozi. Sono solo alcune forme di product placement, il posizionamento di brand e altre merci in contesti “naturali” reso possibile in televisione da un recente disegno di legge. Ma che affonda le radici ben più lontano, da Versailles ai palazzi papali.
illustrazioni di Luca Falcone
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Dopo una lunga carriera in pubblicità come copywriter e direttore creativo, poi come strategic planner e infine come presidente della FCB, dal 2001 si dedica all’insegnamento universitario di tecniche pubblicitarie. È stato tra i fondatori dell’Art Directors Club Italiano e dell’Art Directors Club Europeo. È membro del Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Ha pubblicato molti saggi e libri sulla pubblicità, tra cui il primo manuale italiano di creatività (Redazione e Visualizzazione Pubblicitaria, TP, Milano 1974), Hapù. Manuale di tecnica della comunicazione pubblicitaria (Lupetti, Milano 2003) e Leggere la pubblicità (CUEM, Milano 2006).
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nni Cinquanta. Henry Ford II si reca in Vaticano per un’udienza privata con Pio XII. All’uscita il segretario, vedendolo rabbuiato, gli chiede come sia andata. “Malissimo”, risponde l’industriale, “ha sdegnosamente rifiutato tutte le mie offerte. E cosa chiedevo di straordinario? Solo che facesse dire qualche volta ‘Ford’ durante la messa. Mi chiedo: cosa gli avrà mai dato Agnelli per far dire tante volte ‘Fiat’?”. Questa vecchia e famosa storiella è sicuramente stupidina, ma ritrae perfettamente l’espandersi in quegli anni di un fenomeno che oggi è al centro dell’attività pubblicitaria: il product placement. E d’altronde, se “Ford voluntas Dei” è un’ipotesi da barzelletta, le papamobili, di volta in volta regalate da Fiat, Toyota, Mercedes, Chrysler ai vari pontefici, sono una realtà storica; ed è di questi mesi un articolo pubblicato sul supplemento maschile de Il Sole 24 Ore, IL, in cui si afferma a più riprese e in grassetto la predilezione di Benedetto XVI per la Fanta. Molti pensano che questa sia una tecnica pubblicitaria recente: invece, sotto forme diverse, esiste già da secoli. Non è forse un esempio di placement quello messo in atto nel 1785 da Antoine Parmentier, che organizzò a Versailles una cena a base di patate, dall’antipasto al dessert, e convinse Luigi XVI e Maria Antonietta ad adornarsi dei fiori delle sue patate in modo che la Gazette de France ne pubblicasse il giorno dopo una cronaca-recensione piena di elogi?
COS’È, COME FUNZIONA
Oggi, più propriamente, per product placement si intende la collocazione di un prodotto o di un marchio all’interno di uno spettacolo cinematografico o televisivo o, più genericamente, all’interno di qualsiasi altro mezzo di comunicazione non esplicitamente riservato alla pubblicità, in modo che la sua presenza appaia normale e non pianificata a scopi propagandistici. Poiché è naturale che i personaggi di un film mangino, bevano, guidino un’automobile, è facile mettere nelle loro mani biscotti di una determinata marca, un determinato spumante, fare sì che salgano su una certa auto e così via; e il gioco è fatto. Funziona? Sembra proprio di sì, se alla Mars si mangiano ancora le mani per non aver accettato la proposta di Spielberg di piazzare il loro prodotto di punta, le M&M’s, nel film E.T. come dolcetto preferito dall’extraterrestre, lasciando così campo libero ai Reese’s Pieces (dei rivali Hershey): in brevissimo tempo le vendite del prodotto aumentarono dell’80%. Il potere dei messaggi audiovisivi di far nascere o uccidere mode è ben noto: nel 1934 Clark Gable si toglie la camicia in Accadde una notte mostrando che non indossa la canottiera e le vendite di quel capo di biancheria crollano; nel 1985 Nick Kamen in uno spot per i Levi’s 501 si sfila i jeans e si esibisce con addosso un paio di boxer e le vendite di questo tipo di mutande, fino al giorno prima considerate antiquate, esplodono. Ma quando è nato il product placement propriamente detto? Le versioni sono molteplici: c’è chi, come Gerardo Corti nel saggio Occulta sarà tua sorella, individua l’esordio di questa tecnica pubblicitaria nel primo documentario cinematografico, forse il primo film in assoluto, quella Sortie des usines Lumière del 1895, in cui si proiettava l’immagine dell’industria dei due fratelli inventori del cinematografo: un’ipotesi suggestiva, ma a me sembra che in quel caso si sia trattato invece del primo spot vero e proprio. Altri, come Mary-Lou Galician e Peter G. Bourdeau nell’utilissimo Handbook of Product Placement in the Mass Media, indicano invece il film Wings (1927) con la presenza, già allora, del cioccolato Hershey. Quel che è certo è che già nel 1920 un articolo comparso sul Saturday Evening Post spiegava che il grande successo di un film americano a Giava (dove tutte le famiglie avevano una macchina da cucire a pedale) era dovuto alla scena in cui si vedeva la protagonista con una macchina da cucire elettrica, e proponeva quindi l’inserimento di prodotti statunitensi nei film per favorirne l’esportazione.
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product placement · programmi
Programmi
Network
Gennaio - Giugno 2008
N. totale di occorrenze
LINK 7 Industry 1. American Idol
fox
4.636
2. Biggest Idol
nbc
4.364
3. Deal or No Deal
nbc
2.122
4. Extreme Makeover Home Edition
abc
1.776
5. The Apprentice
nbc
1.646
6. Hell’s Kitchen
fox
1.596
7. Big Brother 9
cbs
1.514
8. One Tree Hill
the cw
1.308
9. America’s Next Top Model
the cw
1.259
nbc
1.206
/
21.427
10. Last Comic Standing totale
L’autore dell’articolo precisava che questo poteva funzionare bene solo con film di intrattenimento “in cui la presenza di quei prodotti è quasi incidentale, ben diversamente da quanto succede con i film pubblicitari che le industrie americane programmano già da molti anni”; “è dunque possibile”, si chiedeva l’articolista molti anni prima che il product placement prendesse questo nome e venisse largamente praticato, “costruire i film in modo che aiutino il commercio?”.
NON SOLO CINEMA
Generalmente quando si parla di product placement si pensa al cinema, ma anche gli altri mezzi iniziarono ben presto non solo a ospitare spot pubblicitari, ma a inserire dentro le trasmissioni, come se facessero parte delle storie o delle scenografie, la citazione o l’elogio di qualche prodotto commerciale: tanto che nel 1948 il protagonista di un popolare programma radiofonico (McGee’s Magic Act) chiedeva a un altro personaggio della storia se fosse possibile fare una chiacchierata fra amici senza infilarci dentro un messaggio pubblicitario, e l’altro, dopo averci pensato un po’ fra le risate del pubblico, rispondeva di no. La battuta non ci deve stupire, se pensiamo che nel 1929 il 55% delle trasmissioni radiofoniche statunitensi era progettato e scritto dalle agenzie di pubblicità, e questa situazione non solo durò a lungo, ma venne trasferita anche nel nuovo medium, la televisione, quando dopo la Seconda guerra mondiale prese il posto della radio: nel 1957 più di un terzo dei programmi televisivi americani era prodotto e sovrinteso dagli inserzionisti e dalle loro agenzie. Così la Camel, che sponsorizzava la serie poliziesca Men Against Crime, diede nel 1949 precise istruzioni su come costruire le scene: “Non mostrate personaggi negativi mentre fumano una sigaretta. Non associate il fumo a scene sgradevoli”. Le sigarette andavano fumate “con grazia”,
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Fonte: Place*Views, Nielsen Product Placement Service Copertura. Programmi di prime time su ABC, CBS, The CW, FOX, MNT e NBC.
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Si può guadagnare con la net tv? di Tommaso Tessarolo
Dove stanno i soldi? Scottati dall’esplosione della prima “bolla” di internet, i network e le start up che negli anni scorsi hanno investito sul video e sulla net tv cominciano a chiedersi quale sia il modello di business più redditizio. Con alcune sorprese. Perché quasi tre milioni di views possono “rendere” solo qualche migliaio di dollari. E perché YouTube, pur forte dei suoi impressionanti numeri, potrà essere presto superata, almeno nei ricavi, da sistemi più strutturati come Hulu.
illustrazione di Luca Falcone
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È general manager di Current Tv Italia e fondatore di N3TV. Il suo blog è tra i più seguiti in Italia sui temi della televisione digitale e del web. Scrive per diverse testate online e offline tra cui Punto Informatico. In passato ha fondato e diretto Xmedia, una delle principali new media agency italiane, e xcontent, editrice di 35mm.it e Zapping.it. Come consulente ha rappresentato Mediaset nei tavoli europei del DVB e in quelli italiani del DGTVi. È autore del libro Net Tv. Come Internet cambierà la televisione per sempre (Apogeo, Milano 2007).
LINK 7 Industry soldi, soldi, soldi
L
a domanda che più spesso viene posta agli addetti ai lavori in questo periodo è “come va la net tv? A che punto siamo? Quali sono le novità, quali i numeri e cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro?”. D’altra parte sono passati ormai tre anni dall’avvio di Current Tv negli Stati Uniti, due anni dall’acquisizione di YouTube da parte di Google e uno dalla nascita di Joost e Babelgum. È senza dubbio arrivato il momento di fare un primo bilancio. Qualche mese fa, per provare a tracciare una risposta più a lungo termine a questa domanda, ho provato ad adattare la cosiddetta curva di Gartner all’esplosivo fenomeno della net tv. Sin dal 1995, Gartner, una delle più quotate aziende americane di analisi e ricerca di mercato, ha definito il concetto di hype cycle, ovvero il ciclo di alti e bassi che segue l’uscita di una nuova tecnologia. L’hype cycle prevede cinque fasi, dalla rapida crescita d’interesse al boom, fino al crollo seguito da un progressivo periodo di consolidamento. È un andamento tipico, che viene registrato per quasi tutte le novità tecnologiche di largo consumo. Nella mia analisi ho tracciato in realtà due curve: la prima per definire un’ipotesi di hype cycle del mercato statunitense, la seconda per quello italiano. È indubbio infatti che il mercato trainante per l’industria della net tv sia quello Usa e che l’Italia arrivi immancabilmente a cascata, con diversi mesi di ritardo. Per fissare i punti di picco e di caduta delle curve ho preso come riferimento alcuni eventi significativi, come la già citata vendita di YouTube a Google e la comparsa di progetti industriali imponenti come Joost e Hulu, così come i primi riscontri numerici effettivamente registrati in Italia e negli Usa. Il risultato è una previsione che ritengo piuttosto verosimile di quello che sarà l’andamento della net tv nei prossimi anni: boom del mercato americano nel 2008, tenuta fino a metà 2011 e quindi momento di depressione massima verso la metà del 2012. Come sempre allo “sboom” segue una rapida risalita e un assestamento, che potrebbe avvenire intorno al 2017 (in pratica tra otto o nove anni il mercato dovrebbe essere maturo). In Italia, paese che vive nell’hype cycle “a cascata”, seguendo le mode e gli entusiasmi del mercato high tech Usa, i tempi sono leggermente differenti. La vera crescita d’interesse la stiamo avvertendo ora, con un picco che probabilmente sarà nel secondo quarto del 2009, quando già negli Stati Uniti sarà avvertita una prima flessione. Il picco negativo lo avremo alla fine del 2012 e all’inizio del 2013, poco più di sei mesi dopo il massimo momento di perdita d’entusiasmo nel mercato americano. L’assestamento del mercato in Italia avverrà quasi con gli stessi tempi del mercato Usa: in quel periodo modelli, tecnologia, protocolli e standard saranno stati tutti raffinati e questa condizione porterà immediato beneficio. Possiamo così prevedere che in Italia il mercato della net tv si consoliderà all’incirca tra dieci anni: nel 2018. Questo avverrà, ammesso che l’industria della net tv abbia un andamento come quello descritto da Gartner, che i parametri che ho provato a fissare per identificarne i momenti significativi siano effettivamente centrati e che non sopraggiungano accadimenti “esterni” che sconvolgano gli equilibri socioeconomici. Lo scopriremo presto, per il momento però questo andamento sembra verificato. In questi mesi stiamo vivendo il momento di massimo entusiasmo per questo settore nel mercato Usa. L’hype è altissimo. Tutti ne parlano: i grandi giornali come il New York Times o il Washington Post hanno una solida produzione net
Il principio di Hulu è dare agli utenti della rete i contenuti prima che li vadano a trovare altrove.
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Visibiltà
hype cycle della net tv
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Tempo ‘05
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tv; i principali network televisivi sono tutti impegnati nella produzione di serie originali “solo per il web”; piccole case di produzione indipendenti sfornano nuove serie ogni settimana; gli enormi progetti industriali come YouTube e Hulu continuano a crescere costantemente nel numero dei viewers; ricerche e controricerche suggellano il tutto misurando come soprattutto i giovani e i giovanissimi (in particolar modo maschi) spendono ormai più tempo sui video online – per l’intrattenimento e l’informazione – di quanto ne passino davanti alla tv. In Italia siamo in piena fase di accelerazione: tutti la cercano, tutti la vogliono. Le grandi testate giornalistiche e le agenzie d’informazione di base hanno la loro tv online; i broadcaster nazionali – seppur goffamente – sono approdati nell’era net-digitale avendo quasi sempre YouTube al centro dei loro pensieri; piccole e medie aziende inseguono il sogno di una loro presenza video sul web; latitano colpevolmente le piccole produzioni indipendenti. Riassumendo, siamo in pieno hype e – se guardiamo fuori dal nostro Paese – siamo anche strapieni di nuovi contenuti originali. Fermando la nostra analisi a questo punto non potremmo che concludere che la net tv si trovi in un ottimo stato di salute. Laddove si è a uno stadio di maturazione più elevato incominciano però a sorgere i primi dubbi, anzi, meglio, il grande dubbio che tutti li contiene: come si fanno i soldi con la net tv? I tempi lunghi che inevitabilmente accompagneranno la soluzione di questo problema saranno, a mio modo di vedere, il vero motivo del calo di fiducia che questa industria si troverà ad affrontare, a partire dagli Stati Uniti nel prossimo anno e poco dopo, a cascata, in Italia. Per intenderci: il problema della monetizzazione delle produzioni “solo per il web”, delle distribuzioni online e dei relativi
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ecologia dell’attenzione LINK 7 Industry
Come sopravvivere all’ information overload di Luca deBiase
Troppi messaggi ci bombardano in continuazione, in una strenua lotta che mira a una sola conquista: il controllo della nostra attenzione. Dall’informazione alla pubblicità, tanti stimoli a cui spesso non corrispondono risposte adeguate. Meglio colpire l’attenzione o trasmettere un contenuto? Meglio urlare e ripetere il nostro messaggio a tutti i costi o puntare su fattori diversi, come la fiducia e la reputazione?
illustrazioni di Luca Falcone
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È caporedattore di Nòva24, inserto del giovedì de Il Sole 24 ore dedicato alla ricerca e all’innovazione. È inoltre responsabile del bimestrale Nòva24Review e dell’aggregatore di blog Nòva100. Il suo ultimo libro è Economia della felicità. Dalla blogosfera al valore del dono e oltre (Feltrinelli, Milano 2007).
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elevisione, radio, giornali. Posta elettronica, social network, blog. Messaggi sonori nelle stazioni, cartelloni pubblicitari nelle vie della città, telecamere per la sicurezza degli uffici. La presenza capillare dell’informazione nella vita quotidiana delle persone nei paesi occidentali è un’esperienza generalizzata. Ciascuno ne fruisce e ne genera in continuazione. La quantità di messaggi cresce inesorabilmente, senza un ordine apparente. Cresce e basta. Il crollo del costo delle comunicazioni coincide con l’inflazione dei messaggi. Mai come in questa epoca il concetto di information overload, il sovraccarico di informazioni che si contendono l’attenzione della gente, è una condizione con la quale ogni ricerca sulla vita sociale deve fare i conti. C’è evidentemente una ricchezza straordinaria nell’abbondanza di informazioni. Ma c’è anche il rischio di una paralisi delle idee, di fronte all’eventuale ingestibilità dell’inflazione di informazioni. È un problema che ne contiene molti. E che si rivela strategico per tutta l’industria editoriale, per le piattaforme mediatiche, per gli autori e, naturalmente, soprattutto per il pubblico. Richiede una ridefinizione dei ruoli di tutti gli attori coinvolti, nel complesso passaggio storico che attraversa le società post-industriali. E si comprende solo nella consapevolezza del fatto che l’information overload non è solo l’effetto della moltiplicazione dei messaggi, ma anche la conseguenza del fallimento dei sistemi che dovrebbero filtrare l’informazione, come suggerisce l’internettologo Clay Shirky. Nel caos creativo cui assistiamo in questa fase di passaggio, si sperimentano strategie più o meno sostenibili. Quali percorsi ci possono condurre a costruire un ecosistema dell’informazione più sano e vivibile? Di certo, l’elaborazione di nuovi strumenti concettuali e pratici per affrontare il sovraccarico di messaggi e la loro svalutazione è sempre più urgente. E le ricerche nate intorno al concetto di “economia dell’attenzione” sono uno spunto di riflessione fecondo. È una ricerca teorica. Ma è anche, in un certo senso, una questione di sopravvivenza culturale. Perché, probabilmente, l’information overload non è una novità di per sé: è nuova l’ansia associata al fenomeno. C’è una moltiplicazione dei messaggi e contemporaneamente una crisi dei modi per filtrarli, anche come conseguenza di una crisi delle letture sintetiche del presente. Il che è pienamente comprensibile. Durante una grande trasformazione epocale, una popolazione può reagire proiettandosi fiduciosamente nella costruzione del futuro, oppure dilaniandosi in un labirinto di dubbi e paure. O ancora, dividendosi in gruppi che reagiscono in modo diverso, in base alle loro tensioni culturali, abitudini mentali, strutture organizzative, capacità interpretative e di adattamento. E poiché molti segnali ci inducono a pensare che il presente sia un periodo storico caratterizzato da una profondissima trasformazione connessa alla globalizzazione e alla smaterializzazione dell’economia, oltre che alla digitalizzazione dei media, non stupisce che uno dei fenomeni emergenti sia la difficoltà di leggere la prospettiva che le persone adottano per darsi un progetto di vita.
L’information overload non è di per sé una novità: è nuova l’ansia associata al fenomeno.
Critica dell’attenzione
Il concetto di “economia dell’attenzione” ha ormai una storia piuttosto lunga. Già nel 1971, Herbert Simon, premio Nobel per l’economia, scriveva: “L’informazione consuma attenzione. Quindi l’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione e induce il bisogno di allocare quell’attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare”. In un
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contesto nel quale l’informazione è sovrabbondante, si assiste a una diminuzione della capacità di attenzione. La teoria economica tradizionale ha trattato questa scoperta in modo piuttosto ovvio: la scarsità di attenzione ne aumenta il valore per chi riesce a produrla e rivenderla. L’industria che più di ogni altra è capace di produrre attenzione è quella dei media. E chi ha più interesse ad acquistarla è la pubblicità. Su questo semplice assunto si è basata gran parte della crescita impetuosa della televisione e dei giornali nell’ultimo quarto del secolo scorso. E su questa idea, per qualche motivo, si pensa in questo secolo che si possa basare gran parte dello sviluppo dei nuovi media digitali, internet in testa. Ma che questa concezione sia esatta, o lo sia ancora, è tutto da dimostrare. Già nel 1997 Michael Goldhaber, nel suo saggio intitolato The Attention Economy, invitava a tener conto della complessità dell’argomento. Pensare all’attenzione come a un qualunque bene industriale è sempre meno soddisfacente: troppe sono le relazioni bilaterali che intercorrono tra chi offre informazione, chi la riceve, chi cerca attenzione, chi la concede, chi cerca di sfruttarla indirizzandola su altri percorsi mentali allo scopo di pubblicizzare prodotti e marchi di ogni genere. L’interpretazione lineare del processo che va dalla generazione mediatica tradizionale di attenzione al suo trasferimento agli investitori pubblicitari si va sciogliendo nella complessità dei nuovi media digitali interattivi. Il sistema dei media appare in crisi di fronte alle sue stesse conquiste. La moltiplicazione dei canali televisivi digitali, il fenomeno esplosivo della telefonia mobile, il boom dei videogiochi e soprattutto la fioritura internettiana delle forme di comunicazione e informazione si sono manifestate tutte insieme e in modo relativamente improvviso nel corso di una quindicina d’anni: un vero e proprio
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russia a cura della redazione
Paesi, culture, immaginari lontani. Cui corrisponde un sistema televisivo e mediale molto differente, tutto da scoprire. In questo numero, si parte dalla Russia.
collage di Face - PanicRoom
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LINK 7 Industry
dati generali
Individui
142,8 milioni
Famiglie
52,9 milioni
Componenti per famiglia PIL crescita reale Inflazione
Aspettativa di vita
2,7 6,8% 9%
73 anni (donne) · 59 anni (uomini)
Tasso di natalità
10,7 per 1.000 abitanti
Tasso di mortalità
16,2 per 1.000 abitanti
Tasso di mortalità infantile
16,6 per 1.000 abitanti
Popolazione di ultra 65enni
13,8%
Scolarizzazione di terzo livello
68,2%
Società misurazione consumi tv Società rilevazione consumi tv Famiglie nel panel (people meter) Famiglie rappresentate
Own Service TNS Gallup 2.500 45% del totale (solo residenti in paesi sopra i 100.000 indivisìdui)
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dotazioni tecnologiche
Famiglie tv
48,1 milioni
90,9% di penetrazione
Famiglie con pi첫 di un tv set
21,4 milioni
40,5%
Famiglie VCR
22,3 milioni
42,2%
Famiglie DVD player
19,1 milioni
36,1%
Individui con cellulare
79,3 milioni
55,5%
Individui con pc
68,5 milioni
48%
Individui con internet
48,6 milioni
34%
7,9 milioni
5,5%
Individui con internet broadband
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meglio fantasma che invisibile LINK 7 Sights
Il video e i suoi paradossi di Andrea Lissoni
Con questo articolo inauguriamo una riflessione dedicata alla videoarte, un appuntamento fisso che tornerà nei prossimi numeri di Link. Un punto di vista eccentrico per raccontare il cambiamento in corso nella tv. Qui cominciamo a porci alcune domande di base: perché un video dovrebbe essere arte? E come lo si valuta in quanto tale? Le risposte le fornisce Andrea Lissoni.
illustrazioni di Marco Corona
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È dottorando presso l’Università di Udine e collabora con l’Università Bocconi. È co-fondatore del network curatoriale xing e co-direttore del festival internazionale Netmage. Titolare della rubrica dedicata all’arte su Rolling Stone, è inoltre ideatore e curatore del progetto editoriale Cujo. Per Bruno Mondadori ha curato Frontiere e territori. Il cinema di Amos Gitai; Gabriele Basilico. Architetture, città, visioni e Fra le immagini. Foto, cinema, video di Raymond Bellour.
LINK 7 Sights meglio fantasma che invisibile
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erché mai un video dovrebbe essere un’opera d’arte? Se anche lo fosse, come lo si guarda, come lo si valuta? E cosa significano infine quelle due definizioni in fondo così ambigue di “installazione video” e di “videoarte”? Molte domande, forse troppe. Per rispondere proviamo a seguire le tracce di una storia che ha ormai più di quarant’anni. Una storia che ne contiene annidate molte, alcune straordinariamente interessanti, soprattutto nelle loro relazioni e ripercussioni sul paesaggio mediatico e post-televisivo contemporaneo. Ma della vita segreta dell’assemblaggio – dallo scratch video al vj-ing, fra controcultura e videoclip – o di quella dell’animazione – da William Kentridge a Nathalie Djurberg o Blu, fra storia collettiva e politica sino agli incubi più intimi – non si può neppure accennare senza aver passato prima in rassegna, anche sommaria, la più minoritaria delle macrostorie. I cui quarant’anni del resto non rappresentano neppure l’unico momento paradossale nel nostro breve percorso. Cominciamo dal più evidente e problematico: il video, di fatto, non esiste. Per essere più precisi: non esiste più. La definizione di video in senso stretto, infatti, fa riferimento a una materia, l’elettronica, che è sostanzialmente scomparsa. Le cassette, i nastri magnetici come supporti di riprese variamente montate o di elaborazioni, le telecamere, i monitor… insomma, l’elettronica, così come la si è sempre chiamata, dalla metà degli anni Novanta ha lasciato il passo al digitale. Questa non è certo una novità. C’è però qualcosa di quantomeno bizzarro, ed è la storia infinita di un soggetto instabile e senza corpo, come se fosse a tratti visibile e a tratti del tutto invisibile: quello che continuiamo a chiamare video è da una parte il fantasma di una tecnologia, dall’altra un’idea possibile di opera, peraltro non necessariamente d’arte. E, come vedremo velocemente, la storia dell’evoluzione delle tecnologie avrà non poca importanza nel nostro breve percorso.
I Pionieri
1963. È lì che si fa risalire la prima comparsa ufficiale del video nel mondo dell’arte. In Germania due artisti, il coreano Nam June Paik e il tedesco Wolf Vostell, spalancano le porte di una storia lunga e articolata. Entrambi fanno parte di Fluxus, movimento che mette in crisi il mondo dell’arte contemporanea e le sue convenzioni, proponendo performance, happening, eventi collettivi, opere fuori dagli schemi, riprendendo uno spirito dadaista, divertito e contestatario che appartiene all’arte del Novecento fin dalle avanguardie. E di entrambi bisogna precisare un punto essenziale che riguarda la loro formazione: l’uno è anche musicista (Paik) e l’altro scultore (Vostell). Vale a dire: il video non entra in galleria come oggetto del reale, come se fosse cioè un ready made, un oggetto prelevato dal quotidiano ed esposto come arte. Arriva piuttosto presentandosi come uno strumento da esplorare, da plasmare, da manipolare, se possibile, in modo non convenzionale. Non è pertanto la forma o quel che rappresenta che interessa agli artisti, quanto come si possano alterare le immagini, come forzare il flusso del tempo, come mettere in relazione in modo non abituale suono e immagini. Nam June Paik non smetterà di fare ricerca per tre decenni interi. E resterà nella storia dell’arte contemporanea non solo come una figura seminale, ma anche come un artista eclettico, giocoso e visionario, il cui mezzo di predilezione assoluta è stato il video. Anzi, seguendo una linea del tutto personale, ne sarà letteralmente il “pioniere”. Tempo e spazio. Queste sono le due caratteristiche che sin dalle origini il video rimette profondamente in gioco. Esplorandole, man mano, gli artisti sono arrivati a ritrovare quello che è stato definito lo “specifico”, quella caratteristica unica che appartiene e al tempo stesso attribuisce identità al video. Torniamo alla seconda metà degli anni Sessanta. Il video non è un’arte a sé, ma
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entra nel “campo” dell’arte come un nuovo strumento a disposizione degli artisti. Nessuna novità stravolgente: sono molti i nuovi materiali che lungo il XX secolo hanno radicalmente trasformato la storia dell’arte, dalla plastica ai materiali industriali. E sono molti i nuovi supporti e media sperimentati dagli artisti, ansiosi di misurarsi con il presente: il cinema, la fotografia, la radio, il libro, il disco, ma anche direttamente il proprio corpo. Ecco perché, rispondendo alla prima domanda, possiamo stare tranquilli. Un mezzo penetra a buon diritto nel campo dell’arte nel momento stesso in cui gli artisti lo impugnano, lo esplorano e lo fanno entrare nel proprio repertorio. Il problema è, e sarà sempre, la qualità, non il mezzo. Ma a proposito di mezzi e materiali: resta il fatto che, all’epoca, il video sembrava possedere qualcosa di speciale, di unico. E mano a mano, i pionieri e, forse più di tutti, l’artista americano Bruce Nauman, ne mettono a fuoco la specificità: il tempo. Meglio, la capacità di misurarsi – cosa sin lì completamente inedita – con il tempo reale, di mettersi cioè in gioco “in diretta”, attraverso un mezzo che fa rimbalzare le immagini in un altro luogo più o meno distante da quello in cui avviene un’azione. Succede cioè che una generazione di artisti, per lo più con un background da scultori, inizi non solo a riprendersi e a registrare i propri movimenti nello spazio e la manipolazione del proprio corpo, ma anche a pensare di integrare telecamera e monitor dentro quei “nuovi” spazi che vengono denominati “installazioni”. Un monitor a terra, in fondo a un breve corridoio man mano più stretto verso il fondo, bagnato di luce al neon. Il monitor mostra l’avanzare del nostro stesso corpo nel corridoio, ripreso di spalle. È una delle opere più note di Bruce Nauman, della serie Corridors dei primi anni Settanta. È contemporaneamente sia un’installazione (o una videoinstallazione, cioè una scultura espansa in uno
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spazio con cui entra in relazione), sia un “dispositivo” che ci coinvolge o ci racchiude direttamente nell’opera rendendocene parte. E ancora una “distorsione” della maniera consueta e abituale di usare il monitor (né mezzo televisivo, né semplice strumento di controllo), infine un modo nuovo e originale per porre il problema della rappresentazione del tempo. Bruce Nauman, insieme (fra gli altri) agli scultori americani Joan Jonas, Dan Graham e Peter Campus, dà dunque forma a partire dagli anni Settanta a una serie di opere che mettono in gioco la presenza dello spettatore, la sua posizione e il suo movimento, ridefiniscono la forma tradizionale della scultura e si interrogano infine sulla rappresentazione e sulla percezione del tempo. E, per farlo, integrano nelle loro opere il mezzo video, che funziona un po’ come uno specchio nemmeno troppo anomalo. A meno di dieci anni dal primo e sorprendente ingresso del video nel mondo dell’arte, si sono ormai ben definite almeno due linee che resteranno per sempre parte costitutiva della storia dell’arte recente: una, rappresentata da Nam June Paik, di lavoro e di manipolazione sul flusso delle immagini, presentate poi in forma “monocanale” (cioè su un solo monitor) o attraverso file di monitor variamente accostati. E una invece di messa in gioco del tempo, fra diretta e differita, in monitor che sono parte integrante di una nuova forma di scultura. Le suddivisioni sono forse un po’ generiche, ma ci offrono lo spunto per almeno altre due risposte rispetto alle nostre domande iniziali: la definizione di “videoarte”, che indica un genere di opere che prevedono l’uso centrale del mezzo video. E quella, più specifica, di “videoinstallazione”, che vede il mezzo video definire un intero spazio-scultura, o esserne parte integrante.
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VideoArte?
La storia del video in arte è però solo agli albori e prende forma in un momento di grande fervore e di sperimentazione in cui l’arte conosce ben più di uno stravolgimento, sia in Europa sia in Nord America. La scultura, in particolare, vede esplodere la Land Art – l’arte che esce dallo spazio espositivo urbano e si misura con il territorio – e la Body Art – il lavoro diretto sul proprio corpo da parte dell’artista attraverso la performance. Gli artisti che fanno ricerca nei primi anni Settanta proseguono la loro attività anche nel periodo successivo, ora con il video ora senza, ma tenendolo sempre come parte integrante del proprio repertorio di “scultori”. La prima fase del video – chiamiamola “dei pionieri” – vede cimentarsi almeno una volta gran parte degli artisti attivi nei primi anni Settanta, con risultati di vario genere. Una fase che si chiude definitivamente quando – al di là degli stravolgimenti storici e sociali del decennio, di cui è sempre necessario tenere conto anche e soprattutto nella storia dell’arte – si affaccia una generazione di autori che usano il mezzo video in modo completamente nuovo. L’artista americano Bill Viola, di formazione musicale come Nam June Paik, inizia a creare video, per lo più monocanale, che non assomigliano a nulla che si fosse visto fino a quel momento. Innanzitutto, come accade a cascata anche nelle case del primo mondo, i suoi video non sono più in bianco e nero, ma a colori. Poi, sono opere piuttosto lunghe, svincolate dalla lunghezza standard di un nastro, i canonici 60 minuti, adatti a rappresentare una breve azione – un’idea d’artista – o riprese in tempo reale. Bill Viola, dando forma a video articolati fondati sulla rappresentazione del proprio corpo in azione – ora nel paesaggio, ora in situazioni quotidiane – ridefinisce completamente l’uso del linguaggio video dal proprio interno. C’è da puntualizzare che anche Nam June Paik e i suoi allievi conducono nello stesso periodo una ricerca che produce un nuovo linguaggio. La loro sperimentazione è in un certo senso “pop”: lavora sui ritmi frenetici, sugli effetti, sul colore, sul mescolamento di fonti e di repertori diversi, su una presenza intensa della musica elettronica, è in un certo senso molto spettacolare e anticipa il linguaggio che la televisione d’intrattenimento, specie quella musicale, assumerà come alfabeto soprattutto dagli anni Novanta in poi. Bill Viola invece, subito seguito dall’artista Gary Hill, dà vita a un linguaggio che prende decisamente le distanze dalla televisione, mettendo in gioco una nuova relazione con lo spettatore. Sequenze lentissime con leggere trasformazioni, stravolgimento nella ripresa dei corpi (spesso il proprio), ora in primissimo piano ora distanti, uso di suoni distorti, ma anche del proprio respiro amplificato, un montaggio completamente antitelevisivo che immerge letteralmente lo spettatore in una dimensione contemplativa e che può anche, perché no, respingerlo con autorevolezza. Raccontando il reale e riarticolandolo attraverso il proprio sguardo, artisti come Bill Viola o Gary Hill ridefiniscono non solo le convenzioni del linguaggio video, ma le sue stesse modalità di percezione. Anche in Europa, naturalmente, con istanze diverse caso per caso, artisti fra cui lo spagnolo Antoni Muntadas, i tedeschi Marcel Odenbach e Klaus vom Bruch, gli italiani Studio Azzurro, contribuiscono a trasformare il linguaggio del video. Ciò che diventa sempre più evidente nel corso degli anni Ottanta è che, se da
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Quello che chiamiamo video è sia il fantasma di una tecnologia, sia un’idea possibile di opera.
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l’invasione dei social network
LINK 7 Sights
Spazi pubblici, privati o altro? di dahah boyd
Amicizia. Profilo. Bacheca. Parole che, con la vertiginosa diffusione di Facebook anche negli ambienti più insospettabili, acquistano improvvisamente un nuovo significato. Così come prendono una nuova forma gli entusiasmi (e le paure) sulla facilità di “fare network”, sulla privacy, sul controllo. danah boyd (rigorosamente in minuscolo), ricercatrice a Berkeley e Harvard, ragiona sull’interazione via social network: dal “baccaglio” allo stalking, dai genitori apprensivi alle beffe ai loro danni.
traduzione di Elena Cappuccio
illustrazioni di Marco Corona
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Sta conseguendo il dottorato di ricerca all’Università della California, Berkeley School of Information, e collabora con l’Harvard University Berkman Center for Internet and Society. La sua ricerca, finanziata dalla MacArthur Foundation come parte di un ampio progetto sulla gioventù digitale, si concentra su temi come la ridefinizione degli spazi sociali e delle pratiche educative sui siti di social network.
LINK 7 Sights l’invasione dei social network
1. Si veda d. boyd, “Friends, Friendsters, and Top 8. Writing Community Into Being on Social Network Sites”, in First Monday, vol. 11 no. 12, 2006, disponibile al sito www.firstmonday.org/ issues/issue11_12/boyd/.
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siti di social networking come MySpace, Facebook o Bebo sono ubiqui. In ogni parte del mondo, i teenager (e non solo) che si collegano a tali siti creano un proprio profilo per poterli navigare, ossia si auto-rappresentano attraverso testi, immagini, video, link, quiz e sondaggi. I profili sono raggruppati in una rete di contatti attraverso liste di Amici (Friends). I membri possono infatti aggiungere altri utenti come loro Amici e, se questi accettano, la loro foto e un link al profilo verranno inseriti nel profilo di chi li aggiunge. Attraverso una selezione accurata, i partecipanti sviluppano la propria lista di Amici, che non è però semplicemente una lista di conoscenti stretti (quelli che normalmente si definirebbero come “amici”). La configurazione del sito permette piuttosto di strutturare quella che si potrebbe definire l’“audience presunta” di ognuno dei suoi membri, ossia l’insieme delle persone iscritte al sito che gli adolescenti considerano come parte del loro mondo. I siti di social network hanno milioni di utenti registrati, ma nella maggior parte dei casi ai membri sta a cuore solo una manciata di contatti: la lista di amici, appunto. Se un utente ritiene che il suo profilo sia interessante solo per un gruppo ristretto, è probabile che abbia pochi Amici e che, tecnologia permettendo, mantenga il suo profilo privato. Ma qualora voglia mettersi in contatto con altri membri, la sua lista probabilmente avrà centinaia o migliaia di Amici di età analoga, caratterizzati da uno stile simile, con i medesimi gusti musicali, e così via: è molto probabile, insomma, che renderà pubblicamente accessibile il proprio profilo, così da allargare la propria rete di contatti1. I profili e le liste di Amici sono due elementi chiave di ogni sito di social network. C’è poi una struttura pubblica (Testimonials, Comments, The Wall, Bacheca) che consente agli utenti di scrivere e visualizzare commenti sui profili dei propri Amici. Questi commenti occupano uno spazio notevole, e soprattutto sono visibili da chiunque abbia accesso a quel determinato profilo. Questi tre strumenti – profili, liste di contatti e commenti – costituiscono la base di tutti i siti di social network, anche se esistono molte applicazioni aggiuntive per massimizzare la partecipazione. I social network permettono agli iscritti di navigare da un Amico all’altro e di comunicare con chiunque abbia un profilo visibile, ma vengono usati soprattutto da gruppi di amici precedentemente costituiti. Le persone entrano a far parte di un social network attraverso i loro amici e poi utilizzano i diversi strumenti di comunicazione per socializzare, condividere prodotti e idee, scambiare informazioni.
SPAZI Pubblici Mediati
2. H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964.
I siti di social networking sono l’ultima generazione di “spazi pubblici mediati”, ossia ambienti dove le persone possono incontrarsi pubblicamente per mezzo della tecnologia. In un certo senso gli spazi pubblici mediati sono simili a quelli non mediati e familiari a tutti, quali i parchi, i centri commerciali, i parcheggi, i bar. I teenager li frequentano per entrare in contatto fra loro, in presenza di altre persone che possono essere coinvolte nella conversazione, se interessanti, oppure ignorate. Gli spazi pubblici svolgono funzioni differenti nella vita sociale: permettono agli individui di interiorizzare le norme sociali, ovvero di comunicare secondo uno standard condiviso; apprendere quali sono i comportamenti legittimi in particolari situazioni sulla base delle reazioni degli altri, così come conferire una forma di “realtà” a certi atti o certe espressioni per il semplice fatto che ci sono dei testimoni che li riconoscono2. Ma i siti di social network sono una forma diversa di spazio pubblico e, nonostante il ruolo socializzante del tutto analogo agli spazi tradizionali, hanno quattro caratteristiche che li rendono unici. 1. La persistenza. La traccia virtuale di ogni utente rimane visibile sul sito. Questo
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Mia madre avrebbe sognato di poter strillare “Trova!” nell’etere e localizzarmi in tempo reale.
facilita la comunicazione diacronica, ma significa anche che quello che si dice a quindici anni è ancora accessibile quando di anni se ne hanno trenta e (si spera) si sia maturati quanto a idee e opinioni. 2. La ricercabilità. Mia madre avrebbe sognato di poter usare una sorta di motore di ricerca reale, strillando “Trova!” nell’etere e localizzandomi in tempo reale. Ma questa funzione non esiste (ancora), e la cosa mi rende felice. Oggi invece, grazie a pochi click, i genitori possono ricostruire con relativa facilità le frequentazioni virtuali dei propri figli adolescenti. 3. La replicabilità. I bit si possono riprodurre. Questo significa che si può copiare una conversazione che è avvenuta da una parte e incollarla da un’altra parte, decontestualizzandola. E significa anche che è sempre più difficile capire se un determinato contenuto è falso o se è stato alterato. 4. Il pubblico invisibile. Nella vita pubblica di tutti i giorni è facile incrociare estranei, ma noi generalmente ce ne accorgiamo e notiamo immediatamente se qualcuno sta spiando la nostra conversazione. Negli spazi pubblici mediati l’agguato non solo è invisibile, ma la persistenza, la ricercabilità e la replicabilità delle nostre azioni virtuali consentono la partecipazione di pubblici che non erano nemmeno presenti nel momento in cui ci siamo espressi. Questi elementi cambiano radicalmente le regole del gioco. Anzitutto è difficile definire il contesto in uno spazio pubblico mediato. Gli ambienti pubblici, attraverso la socializzazione, ci forniscono indizi fondamentali su ciò che è appropriato
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3. N. Hass, “In Your Facebook.com”, in The New York Times, 8 gennaio 2006.
4. A. Melber, “MySpace, MyPolitics”, in The Nation, 30 maggio 2006.
zione. Esaminatori e datori di lavoro continueranno a cercare il profilo “reale” del loro candidato. Ammiratori indomiti continueranno a sondare ogni piccolo lato nascosto della persona oggetto dei loro desideri. E la stampa continuerà a ritenere corretto l’utilizzo di informazioni disponibili in rete per tratteggiare pubblicamente il carattere di qualcuno. I giovani sanno che chiunque può accedere ai propri profili online. Ma la risposta più frequente è: “Perché dovrebbero farlo?”. Naturalmente gli stessi giovani che sostengono che nessuno sia interessato a loro in realtà vanno a caccia di informazioni sulla “biondina” su cui hanno messo gli occhi. Non sono solo gli educatori a fare come gli struzzi pur di mantenere la propria sanità mentale. Come reazione a questo controllo, alcuni giovani hanno cominciato a prendere in giro la loro audience invisibile. Alla George Washington University gli studenti si sono presi gioco della polizia del campus. Hanno pubblicizzato un’enorme festa a base di birra, ma quando la polizia ha fatto irruzione ha trovato solo una marea di dolci con sopra scritto “birra”3. Giovani attivisti sfruttano le modalità di diffusione dei messaggi nei maggiori siti di social networking (bollettini, news feed) per spingere altri studenti a protestare o a votare (per le elezioni del campus o per American Idol), così da far sentire la loro voce: per esempio, migliaia di adolescenti americani hanno usato MySpace per protestare contro le politiche sull’immigrazione 4. Gli utenti stanno inoltre imparando a gestire le conseguenze del sistema di commenti. Per esempio, gli adolescenti spesso rompono con la loro fidanzata attraverso commenti su MySpace (generalmente sono i ragazzi che lasciano le ragazze). La ragione è semplice: una rottura verbalizzata e visibile a tutti gli Amici evita di entrare nel gioco del “lui ha detto/lei ha detto” e permette di controllare la
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narrativa della rottura attraverso la conversazione. Per concludere, tutto questo ora accade principalmente con il testo, ma il ruolo del video cresce ogni giorno. Al momento il video non è ancora ricercabile, ma è questione di tempo: la tecnologia permetterà di cercare da chi e dove è stato girato un video. Questi sistemi dialogheranno facilmente via cellulare, non appena saranno abbattute le barriere erette dagli operatori. E così si aggiungerà alle altre informazioni la collocazione spaziale, ampliando di un’ulteriore dimensione lo spazio iper-pubblico. Gli spazi pubblici mediati sono una realtà destinata a restare, nonostante complichino molti aspetti della vita quotidiana. Ma viviamo in tempi stimolanti. Tempi in cui i cambiamenti sociali vanno affrontati, così da influenzare la redazione di norme che ci aiutino a dirigerli.*
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* Tratto da “Social Network Sites: Private, Public, or What?”, in The Knowledge Tree, 13, May 2007.
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obama and the media
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USA 2008, una campagna elettorale nell’era della convergenza di Cristian Vaccari
Obama presidente degli Stati Uniti: una rivoluzione. Se non politica, per lo meno mediatica. Non solo per il massiccio ricorso al web. Non solo per la capacità di riportare la politica sul territorio. Ma anche per un nuovo uso della “vecchia” televisione, tra eventi a catena e spot di mezz’ora che hanno battuto anche American Idol. Storia dell’elezione di un presidente buono per tutte le piattaforme.
illustrazioni di Marco Corona
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È ricercatore presso il Dipartimento di Scienza politica dell’Università di Bologna. Si occupa di comunicazione politica comparata, con particolare attenzione ai nuovi media. Ha trascorso periodi di ricerca presso la Columbia University, il Massachusetts Institute of Technology e l’American University. È autore de La comunicazione politica negli USA (Carocci, Roma 2007) e coautore, con Roberto Grandi, di Elementi di comunicazione politica. Marketing elettorale e strumenti per la cittadinanza (Carocci, Roma 2007). È inoltre commentatore per l’agenzia di stampa Dire.
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1. B. Kovach, T. Rosenstiel, Warp Speed. America in the Age of Mixed Media, Century Foundation Press, New York 1999.
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a campagna presidenziale statunitense del 2008 ha portato a compimento una serie di importanti trasformazioni riguardo la modalità con cui le persone si informano, comunicano e mantengono relazioni. Il paesaggio dei media USA fino agli anni Ottanta era relativamente semplice e monolitico, dominato da pochi giganti: il 90% delle famiglie guardava i telegiornali di uno dei tre network generalisti (ABC, CBS e NBC), che a loro volta riprendevano quasi sempre le notizie pubblicate sui due quotidiani più prestigiosi, il New York Times e il Washington Post. Oggi le trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali hanno creato quello che Bill Kovach e Tom Rosenstiel1 hanno definito Mixed Media System, ovvero un ambiente policentrico, complesso, caratterizzato da un flusso continuo e non più unidirezionale di messaggi. La dieta informativa degli statunitensi durante le campagne elettorali è cambiata radicalmente e prevede meno televisione e meno giornali, ma soprattutto più internet. La televisione rimane saldamente in testa alle preferenze degli statunitensi, ma è cambiata radicalmente rispetto al passato. Nel campo dell’informazione, ai tre network generalisti si sono aggiunti, tra gli altri, tre canali all news (CNN, MSNBC e Fox News) che stanno conquistando quote crescenti di pubblico. Gli indici d’ascolto dei programmi informativi nella notte elettorale forniscono un buon termometro della situazione. Nel 2000, l’audience complessiva delle tre reti generaliste tra le 20 e le 23 fu di 46 milioni, contro 11 milioni per i tre canali all news; nel 2004 si è passati a 38 milioni contro 17; nel 2008 il divario si è accorciato ancora: 33 milioni contro 27. L’arricchimento dell’offerta informativa coincide con un aumento di interesse da parte del pubblico: 65 milioni di spettatori hanno seguito i risultati del voto del 2008 su canali in lingua inglese, contro i 60 milioni del 2004 e i 61,5 del 2000. La campagna del 2008 ha segnato la consacrazione di internet come mezzo di comunicazione politica. Oggi il 73% della popolazione USA ha accesso alla rete e il 55% utilizza connessioni a banda larga, uno statunitense su due si collega a internet tutti i giorni e il 56% si è informato sulle elezioni attraverso la rete. Questi cambiamenti nelle abitudini del pubblico hanno modificato anche le priorità strategiche delle campagne: grazie a internet è oggi possibile incanalare le energie dei propri sostenitori in modi impensabili con i media tradizionali. Il sito di Obama è stato strutturato come una piattaforma partecipativa attraverso la quale i suoi militanti potevano organizzare eventi, fare campagna porta a porta, reclutare altri volontari e telefonare ad altri elettori. La differenza tra “cyberspazio” e “realtà” è svanita: la rete non è più pensata come un canale a sé stante, ma come un’interfaccia con il mondo esterno, dove le persone parlano con amici, conoscenti e potenziali elettori e diffondono il messaggio del candidato nei luoghi in cui vivono e attraverso le loro reti relazionali. I nuovi media hanno così accelerato un processo, già in corso negli USA, di ripensamento delle strategie di comunicazione in campagna elettorale: gli spot televisivi e le grandi cerimonie sui media non sono più sufficienti per vincere, perché da un lato i pubblici migrano dai canali generalisti a quelli di nicchia, dall’altro il volume dei messaggi in una campagna presidenziale è così alto da raggiungere facilmente un livello di saturazione oltre il quale i rendimenti sono decrescenti o nulli. Come la pubblicità commerciale cerca nuove strade per raggiungere pubblici specifici con messaggi più coinvolgenti, così le campagne elettorali statunitensi stanno riscoprendo il valore della presenza sul territorio e della comunicazione interpersonale. Il paese che ha inventato la pubblicità commerciale e il marketing di massa applicandoli poi anche alla (comunicazione) politica, sta ora creando un nuovo modello, più locale, dialogico e partecipativo. La convergenza tra comunicazione mediata e diretta, tra messaggi generalisti e
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personalizzati, tra processi top-down e bottom-up, è la caratteristica dominante di questo nuovo scenario. Come scrive Henry Jenkins, “il potere dei media grassroots sta nella diversificazione, quello dei media broadcast nell’amplificazione. Ecco perché dovremmo occuparci più che altro della loro interazione: l’espansione del potenziale partecipativo rappresenta la più grande opportunità per la diversità culturale. Se gettassimo via il potere del broadcasting avremmo solo frammentazione culturale”2 . Il paesaggio dei media in campagna elettorale è simile a un diamante che in ogni sua faccia riflette la luce in modo differente: comprendere queste dinamiche è stato fondamentale per conquistare la Casa Bianca.
Obama, il “Presidente convergente”
Barack Obama ha rappresentato una “tempesta perfetta”, una combinazione riuscita di personalità, messaggio e strategia comunicativa. Come ha osservato Jenkins nel suo blog, “Obama è stato un uomo per tutte le piattaforme e la sua campagna […] vedeva le dinamiche politiche attraverso la lente della convergenza, in cui media vecchi e nuovi, privati e indipendenti funzionavano in concerto per definire la sua immagine pubblica e i messaggi della sua campagna”. Dopo la vittoria del candidato democratico, molti commentatori hanno “scoperto” il ruolo di internet nella sua organizzazione, dimenticando però che la tecnologia, di per sé, non crea entusiasmo e passione: senza una schiera di sostenitori che li “popolino”, gli strumenti di social networking online sono poco più che gadget; senza un collegamento diretto e costante con il territorio, ciò che avviene in rete rimane “virtuale” nel senso peggiore del termine; senza un messaggio coerente e unificante sui mass media, una campagna elettorale rischia di trasformarsi in una cacofonia di voci discordanti. Se Obama non fosse stato in grado di coinvolgere, grazie al suo
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2. H. Jenkins, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York 2006; tr. it. Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.
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video sign
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La storia videografica della BBC a cura di Mirko Pajé e Carlo Branzaglia
Video Sign è un giro del mondo in undici network, in uscita a marzo nella collana Link Ricerca. Attraverso i loghi, gli ident, i promo e l’immagine coordinata di emittenti e agenzie, Mirko Pajé e Carlo Branzaglia raccontano la storia e le sfide che la grafica televisiva si trova ad affrontare nel panorama digitale. Anticipiamo qui alcune immagini e parole su BBC, la “zietta” della televisione inglese, alle prese con il rinnovo e la coerenza di un brand autorevole, ma proprio per questo complesso da aggiornare e declinare su più offerte.
illustrazioni di Marco Corona
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Mirko Pajé è responsabile della Direzione Creativa e Coordinamento Immagine del Gruppo Mediaset. Carlo Branzaglia insegna all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha pubblicato volumi (come Marginali, Castelvecchi, 2004) e organizzato eventi (l’ultimo Immagine iT, 2008, con Simone Wolf). Insieme sono autori di Videologo. Vent’anni di marchi per la televisione commerciale (Link Ricerca, RTI, 2004) e di Video Identity. L’immagine coordinata delle reti Mediaset (Link Ricerca, RTI, 2007).
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N
el 1991 all’agenzia Lambie Nairn viene proposto di lavorare su diversi nuovi canali BBC, lanciati in risposta all’avvento di nuovi provider via cavo e satellite. La BBC aveva bisogno di sviluppare una strategia per gestire quella che di fatto era una vasta gamma di nuovi brand. Contemporaneamente, la direzione Corporate Affairs stava ripensando la corporate image globale, per assicurarsi che potesse soddisfare tutte le necessità dell’organizzazione nel XXI secolo. Ovviamente i due progetti finirono per coincidere. Quella che appariva una pura questione di design, in realtà nascondeva una serie di altri problemi. Il primo era che la gestione decentralizzata del brand aveva portato alla creazione di più di 250 loghi diversi della BBC: qualsiasi cosa avesse un nome aveva anche un logo. La BBC stessa risultava spesso invisibile nell’attribuzione dei suoi numerosi programmi e prodotti. C’era poi un problema tecnico: il logo era stato creato per identificativi da mettere sui veicoli e sugli articoli di cancelleria. Se in quei contesti funzionava, non era però adatto allo schermo, sul quale le tre lineette e gli “occhi” (gli spazi all’interno delle B) sparivano. Un altro problema riguardava la strategia da applicare al design. Il logo esistente derivava direttamente da quello degli anni Sessanta di BBC Television: i designer che lo avevano progettato avevano fatto confluire alcuni elementi del vecchio design nel nuovo logo. Nell’intenzione di mantenere una certa brand equity avevano conservato anche una atmosfera anni Sessanta, poco adatta per una moderna corporation di scala mondiale. Infine, il logo non funzionava a livello tattico, quando veniva affiancato agli altri brand di BBC: il carattere tondo stonava sempre un po’ con le losanghe diagonali.
CONCEPT
Partendo da questi presupposti, iniziò il processo di design del logo, che si ispirava all’opera di Eric Gill, maestro nella creazione di caratteri nonché grande scultore vissuto negli anni Trenta. Poiché sono sue tutte le sculture attorno alla Broadcasting House, Gill è sempre stato associato alla BBC. La cosa più importante, comunque, era trovare un carattere che rendesse chiaramente leggibile la scritta “BBC” e che fosse solido ed elegante allo stesso tempo: il Gill era perfetto. I tre riquadri sono stati mantenuti per una questione di brand equity: sostituendoli con un’altra forma geometrica, come un’ellisse o un rettangolo, parte della personalità di BBC sarebbe andata perduta. Fu pertanto proposto un cambiamento molto significativo, pur nella sua semplicità: raddrizzare i riquadri e inserirvi il Gill. Così facendo tutti i problemi tecnici si risolsero in un colpo solo. Non c’erano più linee troppo sottili e gli occhi erano sufficientemente grandi da consentire la riduzione del logo. Era un logo classico, ossia atemporale. E tuttavia la vera spinta al cambiamento non è arrivata né dalle argomentazioni estetiche né da quelle tecniche, ma dalla volontà di creare un logo in grado di agire a molti livelli. Diversamente da altre aziende, la BBC affida al suo logo molte funzioni: quella corporate e commerciale, quella relativa ai direttorati, alle quattro nazioni e alle regioni; poi ci sono le funzioni relative alla televisione, alla radio nazionale e alle locali e molto altro ancora. Il nuovo logo agiva a tutti questi livelli, assicurando che tutto provenisse dalla stessa azienda. Inoltre, era un sistema facilmente passibile di aggiunte: dopo l’acronimo BBC si può inserire ciò che si vuole, basta che sia in Gill. L’unica cosa che mancava a questo sistema era la personalità, che doveva quindi essere attribuita in modi differenti ai singoli brand. Non è stato soltanto sviluppato un logo, ma un sistema di branding per tutta l’azienda.
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Logo istituzionale e alcuni esempi della brand identity guide di BBC Two.
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mathieu bernard reymond a cura di Marco Cendron
Fantasmi che si muovono in cittĂ disabitate: questo sono le immagini televisive secondo Mathieu Bernard-Reymond. Le cui fotografie sono raccolte nel libro TV, edito da Hatje Cantz. Qui vi proponiamo un assaggio.
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Le tue immagini ci ricordano una versione “al contrario” del film Poltergeist. Dove non sono gli uomini a essere rapiti dalla televisione, ma gli abitanti della tv che invadono il mondo reale. Cosa ne pensi? Nelle fotografie di TV, personaggi televisivi invadono le strade e i parchi di metropoli contemporanee. Il riferimento ai film horror, o per lo meno all’estetica cinematografica, è appropriato. Sono sicuro che questa estetica a volte pervade la nostra visione della realtà, permettendo ai fantasmi e alle superstizioni di entrare nel nostro mondo più privato.
N°23, TV series, 2007 5/20. Nelle pagine precedenti, N°32, TV series, 2007 12/20.
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Come è nata questa idea? Guardando la città di notte, curiosando tra le molte finestre illuminate dalla mutevole luce emessa dai televisori. I tuoi fantasmi televisivi vivono in un mondo vuoto e scuro. Cosa è accaduto agli uomini? La televisione è un’immagine della nostra percezione. Gli uomini sono dall’altra parte della foto, dal lato degli spettatori.
N°35, TV series, 2007 20/20.
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ILLUSTRATORI
Fabrizio Barletta ha realizzato i ritratti delle interviste
Si diploma col minimo dei voti all’Istituto Statale d’Arte di Pisa, frequenta con costipazione decine di mesi di Accademia di Belle Arti di Firenze. Trova parcheggio per un anno intero alla Scuola di Comics della stessa città e si trasferisce a Roma nel 2007, dove tuttora felicemente sopravvive, ama e lavora come illustratore freelance per prestigiose case editrici e testate editoriali, tra cui questa. www.puverille.blogspot.com
MARCo corona ha illustrato la sezione sights
Ha pubblicato Frida Kahlo, una biografia surreale (Black Velvet, Rackham), 32 coups de toux (Le Dernier Cri), Comix 2000 (L’Association), Cadavre Exquise (Centro Andrea Pazienza) e, per Coconino Press, Bestiario padano, In mezzo, l’Atlantico, L’ombra di Walt e i primi 3 volumi di Riflessi. Alcune sue storie brevi sono state pubblicate su Blue, Mondo Mongo, Fetus. Ha esposto i suoi lavori a Treviso, Milano e Torino. www.il-canguro-pugilatore.blogspot.com
face
ha realizzato il collage sulla russia
Nasce e vive a Milano. Prima è chef nei ristoranti stelle Michelin, poi diventa grafico, stilista dei brand Supernova/Letal e creatore/ideatore di Panic Room. Dj, colleziona vinili e videogiochi d’epoca. www.panicroom.it
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luca falcone ha illustrato la sezione industry
Diplomato presso l’Istituto Europeo di Design di Roma, ha collaborato con la rivista satirica Il cuore, illustrato storie su Blue e collaborato con Publicis e McCann Erickson. Nel 2002 si trasferisce a Parigi, dove vive e lavora come illustratore free-lance. Collabora con Magazine literaire, l’agenzia Cart’Com, la casa di animazione Mr. Hyde. www.lucafalcone.com
elena giavaldi
ha realizzato in apertura e chiusura la texture
Laureata in Disegno industriale al Politecnico di Milano, ha studiato per un anno all’ENSAD di Parigi. Ha partecipato a varie collettive tra cui Un viaggio ma… presso la Triennale di Milano e Attraversamenti 2007. Ha lavorato per Zero, lo studio Designroom di Milano e ha fondato lo studio Domenica Mattina. Si è quindi specializzata in grafica per copertine di libri e collabora con Mondadori e Rizzoli. www.elenagiavaldi.com
money.less
ha realizzato i separatori di sezione
Ha iniziato nel 1995 graffitando con la tag Junior. Dopo la spray art, ha evoluto la sua tecnica spaziando dalle tele ai pannelli di legno e passando alla tecnica mista di rullo e pennelli, sempre puntando sul contrasto fra la precisione dei tratti geometrici e il contesto, ex fabbriche abbandonate. Ha partecipato a Pop Up Ancona, Look at Festival di Lucca, ASA ed EVES di Genova, Arte Bastardo di Trento. www.flickr.com/photos/moneyless
valerio vidali ha illustrato la sezione PRODUCT
Diplomato presso l’Istituto Europeo di Design di Milano, ha ricevuto riconoscimenti in esposizioni internazionali, come Ilustrarte, a Barreiro in Portogallo (2005 e 2007), e la biennale di illustrazione di Zagabria (2008). Ha collaborato con Ventiquattro Magazine, Marie Claire, Educacion y biblioteca, Guerini e associati, Liber e la casa editrice Topipittori, per cui ha illustrato il libro per bambini Senza nome. www.vivavidali.blogspot.com
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Link idee per la televisione N.7
mash-up television Proprietà letteraria riservata · ©RTI ISBN 9788895596044 ISSN 18273963
direttore editoriale
Marco Paolini direttore
Laura Casarotto editor
Fabio Guarnaccia coordinamento redazionale
Luca Barra si ringrazia per la collaborazione: Elena Cappuccio, Gabriella Mainardi, Alessia Assasselli, Paolo Micheli, Francesca de Michele, Matteo Stefanelli, Panfilo Castaldi, Andrea Mazzi, Giacomo Poletti, Anna Sfardini, Maria Grazia Mainardi, Limited No Art Gallery Milano, Chiesa Metropolitana Ortodossa Autonoma di Milano e Aquileia. e-mail link2link@mediaset.it sito www.link.mediaset.it blog www.linkmagazine.blogspot.com link · rti Viale Europa, 48 20093 Cologno Monzese (MI)
art director
Marco Cendron progetto grafico e fotografie dossier Pomo impaginazione Alessandro I. Cavallini correzione bozze ShaKe
ufficio stampa Eleonora Susanna eleonora@purplepress.it 06.979.97.101 purple press srl
L’editore si dichiara disponibile a colmare eventuali omissioni relative a testi e illustrazioni degli aventi diritto che non sia stato possibile contattare. finito di stampare da tipografia negri · bologna · nel mese di gennaio 2009
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COVER STORY
MASH-UP TELEVISION
. ................................... da pag .
con testi di Carlo
Freccero, Aldo Grasso, Fausto Colombo, Gregorio Paolini, Carlo Antonelli e molti altri
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La televisione del remix, del riciclo, del riuso. Mash-up, vale a dire il recupero dell’archivio, la creazione di nuovi significati, la nostalgia della tv del passato, il remake dei grandi classici del piccolo schermo, la replica sulle reti vecchie e nuove. Nervo scoperto di produttori e broadcaster o sola novità nei palinsesti degli ultimi anni? Con alcune guide d’eccezione, Link cerca di scoprirlo.
€ 15,00 ISBN 88-95-59604-4
SCOPRI COSA È VERO.................................... 15
ecologia dell’attenzione......................... 135
le sigle delle serie tv americane
come sopravvivere all’information overload
di Violetta
di Luca
Bellocchio
de Biase
Cosa si nasconde nella sigla di un telefilm: una soglia da attraversare per conoscere luoghi e personaggi a cui ci si affeziona presto, un marchio che si imprime nella memoria dello spettatore. In viaggio tra mondi, possibili e impossibili.
Sopraffatti dalla massa di informazioni e di messaggi che ci arrivano da una molteplicità di media, non sembriamo avere scampo. Almeno finché non riusciamo a usare meglio la nostra migliore (e più potente) risorsa, il tempo.
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COME CREARE UNA SERIE TV. ....................... 45
L’INVASIONE DEI SOCIAL NETWORK. .............. 175
manuale di istruzioni per una scrittura davvero televisiva
spazi pubblici, privati o altro?
di Denis
di danah
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Molti hanno un romanzo (o una sceneggiatura) in un cassetto. Ma pochi riflettono sulle strategie essenziali per una scrittura seriale che abbia successo. O che almeno possa venire presa in considerazione. La parola a uno scrittore tv.
Facebook è la nuova terra promessa dei fanatici del web. E la grande paura degli inevitabili apocalittici. Chiede le nostre informazioni personali, mostra le nostre fotografie, tiene traccia dei nostri pensieri. Qui, uno sguardo decisamente inedito.
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OBAMA AND THE MEDIA............................... 185
la nuova giovinezza di un’antica tecnica pubblicitaria
usa 2008, una campagna elettorale nell’era della convergenza
di Marco
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Vecchia................................ 121
Un marchio a favore di telecamera, con cui interagiscono distrattamente i conduttori o i personaggi. Ecco l’essenza del product placement. Non più (o non soltanto) “pubblicità occulta”.
Vaccari
Everybody loves Obama. Lontano dai fumi della propaganda, ecco il racconto del ruolo giocato dai media, dal web alla televisione, nella grande partita elettorale che lo scorso novembre ha portato alla sua elezione a presidente.