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Tracce Atlante warburghiano della televisione

a cura di Fausto Colombo con fotografie di Jacopo Benassi


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SOMMARIO Introduzione L’eredità culturale della televisione di Fausto Colombo - 11 · Sezione I

Materiali La percezione televisiva Di cosa è fatta la televisione di Piermarco Aroldi - 29 di

In cornice Matteo Stefanelli - 35 -

Questioni di superficie di Matteo Stefanelli - 41 Specchio e focolare di Piermarco Aroldi - 47 Varchi e passaggi di Piermarco Aroldi - 53 Spiazzamenti Andrea Bellavita - 59 -

di

· Sezione II

Rituali L’esperienza televisiva Riti di vittoria, di morte e d’amore di Fausto Colombo - 67 L’esperienza di non esserci di Fausto Colombo - 73 di

L’intérieur Alberto Abruzzese e Luca Massidda - 79 -

di

Il panopticon Alberto Abruzzese e Manolo Farci - 85 Sul palco e alla sbarra di Giorgio Simonelli - 91 La festa e il grido di Giorgio Simonelli - 97 3


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Sezione III

Flussi L’emozione televisiva di

La novellante Giuseppina Baldissone - 103 -

Il sogno futurista di Giuseppina Baldissone - 109 di

Il maestro Giorgio Simonelli - 115 -

Il lettore onnisciente di Giuseppina Baldissone - 121 Il racconto a pezzi di Andrea Bellavita - 127 La guerra e la morte di Andrea Bellavita - 133 di

Il dolore Alberto Abruzzese e Manolo Farci - 139 -

di

La torre Alberto Abruzzese e Luca Massidda - 145 · Appendici

Nota del curatore - 153 La Biblioteca Ambrosiana - 157 Note biografiche - 160 L’esplorazione del noto - 163 -

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ISTRUZIONI

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Introduzione

L’EREDITà CULTURALE DELLA TELEVISIONE Fausto Colombo

nel 1929 aby warburg tenne alla biblioteca hertziana di roma una conferenza su Mnemosyne, il progetto di un atlante illustrato dedicato alle permanenze delle antiche immagini di divinità nella cultura europea moderna. Quel materiale era stato pensato, raccolto e inventariato in anni convulsi, di studi e di malattia mentale, da un intellettuale inquieto, figlio di banchieri, che aveva rinunciato alla primogenitura familiare per avere il diritto di costituire una immensa biblioteca. Dopo la sua morte, l’ultima notte del 1933, con il nazismo alle porte, l’allievo Fritz Saxl trasportò la biblioteca a Londra, dove divenne il primo nucleo del Warburg Institute. Il lavoro dello studioso fu così salvato dalla diaspora intellettuale che sarebbe seguita al nazismo. La ricerca warburghiana ha dato origine a una straordinaria serie di riflessioni non soltanto sui flussi culturali che hanno attraversato il tempo della civiltà umana, ma anche e soprattutto sul ruolo che le immagini possono esercitare nell’indagine scientifica, in particolare storica, estetica e culturologica. Dare in breve un’idea dell’approccio warburghiano non è semplice. Ha scritto Carlo Ginzburg: “Il fine della ricerca di Warburg era duplice: da un lato, bisognava considerare le opere d’arte alla luce delle testimonianze storiche, di qualsiasi tipo e livello, in grado di illuminarne la genesi e il significato; dall’altro, l’opera d’arte stessa, e in generale le 11


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1. “Da A. Warburg a E.H. Gombrich. Note su un problema di metodo”, in C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Metodologia e storia, Einaudi, Torino 1992, p. 43.

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figurazioni, dovevano essere interpretate come una fonte sui generis per la ricostruzione storica”1. Lo stesso Warburg scriveva: Ho dato inizio al progetto di mettere insieme i risultati delle mie ricerche, che hanno a che fare con l’influenza dell’Antico nella cultura europea, in un grande atlante tipologico. Una pubblicazione di questo genere permetterebbe di fornire una solida cornice, pur sempre elastica, a tutto il mio materiale. Sono riuscito a raccogliere il materiale per un atlante di immagini, nel quale si può vedere, proprio grazie alle immagini, la diffusione della funzione del valore espressivo improntato all’Antico nella rappresentazione dei movimenti della vita esteriore e interiore.

E così descrive il suo lavoro più noto l’introduzione che la rivista Engramma ha dedicato nel 1994 alla figura del grande studioso: Mnemosyne è un atlante figurativo (Bilderatlas) composto da una serie di tavole, costituite da montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse: testimonianze di ambito soprattutto rinascimentale (opere d’arte, pagine di manoscritti, carte da gioco eccetera); ma anche reperti archeologici dell’antichità orientale, greca e romana; e ancora testimonianze della cultura del XX secolo (ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli). Nel Bilderatlas, che contiene un migliaio di fotografie sapientemente composte e assemblate, le immagini sono oggetto privilegiato di studio in quanto sono un modo immediato di “dire il mondo”. L’immagine è il luogo in cui più direttamente precipita e si condensa l’impressione e la memoria degli eventi. Dotate di un primordiale potere energetico di evocazione, in forza della loro vitalità espressiva le immagini costituiscono i principali veicoli e supporti della tradizione culturale e della memoria sociale, che in determinate circostanze può essere “riattivata e scaricata”. Nell’atlante la giustapposizione di immagini, impaginate in modo da tessere più fili tematici attorno ai nuclei e ai dettagli di maggior rilievo, crea campi di energia e provoca lo spettatore a un processo interpretativo aperto: “la parola all’immagine” (zum Bild das Wort). Mnemosyne è dunque una macchina, una sorta di gigantesco condensatore in cui si raccolgono tutte le correnti energetiche che hanno animato e ancora animano la memoria dell’Europa. Obiettivo dell’atlante è illustrare i meccanismi di tradizione di temi e figure dall’antichità – orientale e greco-romana – all’attualità, con particolare riguardo alla ripresa di moti, gesti e posture che esprimono l’intera gamma dell’eccitazione emozionale (l’aggressione, la difesa, il sacrificio, il lutto, la malinconia, l’estasi, il trionfo eccetera). Si tratta di Pathosformeln – formule espressive dell’emozione – dedotte direttamente in forma artistica dai mo12


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delli antichi, o anche riemergenti senza diretto collegamento ai modelli, nella forma di engramma, esito spontaneo dell’istinto gestuale umano2.

Vi è chi riprende ancora il metodo warburghiano, non riproponendolo tout court, ma riattualizzandolo sia in quanto concerne lo studio della contemporaneità, sia in ciò che riguarda gli strumenti tecnologici, che oggi offrono ben altri supporti delle ormai mitiche tavole di Mnemosyne. Ma vi sono, a continuare questa ripresa, altri luoghi e altri tempi. Qui mi preme piuttosto mostrare l’utilità dell’approccio in questione, magari con i suoi limiti epistemologici, nell’attuale contesto di studi sulla televisione. Studi che, tanto per tracciarne una sintetica panoramica, hanno prodotto negli ultimi anni certamente importanti passi avanti per quanto concerne i risultati delle singole discipline. Basterà citare la storiografia (della televisione e più in generale dei media, ma anche la tradizionale storia contemporanea) per cogliere progressi straordinari non soltanto nei contenuti, ma anche nella consapevolezza dei significati del mezzo e delle sue connessioni con la società nel suo complesso. Ma lo stesso potrebbe dirsi della semiotica, o della sociologia, o in generale delle discipline dello spettacolo. In un recente numero di Link3, dedicato ai discorsi sulla televisione, si è dato conto di quanto l’accademia (italiana, ma lo stesso mi sembra accada un po’ dovunque) – nel complessificarsi delle discipline che si applicano alla tv – abbia raggiunto un livello senza precedenti di interdisciplinarietà e specializzazione. Allora che dire dell’utilità di un ulteriore approccio? Che, forse, quello che Warburg ci aiuta a indicare è la necessità di riconsiderare il mezzo televisivo in questa fase alla luce di un duplice processo di dissoluzione. Il primo è quello che fa letteralmente scomparire l’oggetto come accade – per usare una metafora – alla macchia di colore che si mescola all’acqua nella tecnica dell’acquerello: la digitalizzazione sta facendo venire meno la monoliticità del medium televisivo, sciogliendolo in un sistema meno preciso e catalogabile, visto che ormai le piattaforme tv si sono moltiplicate, e che programmi o loro frammenti si diluiscono in esse, o addirittura in piattaforme che niente avrebbero in sé di televisivo (la rete in generale, a partire da YouTube o Google Video, ma senza dimenticare l’ampia circolazione via social network, o le varie tv dei quotidiani online). Il secondo processo riguarda invece l’assorbimento e la naturalizzazione che le società avanzate hanno compiuto del mezzo televisivo, inglobandolo a tal punto nella vita quotidiana e nei saperi spiccioli dell’esperienza che è ormai assai difficile distinguere tra ciò che è fuori o dentro il piccolo schermo, o quella versione ormai frammentata che ne rimane. 13

2. http://www. engramma.it/ engramma_v4/ homepage/35/ index_atlante. html; dalla stessa introduzione è tratta la citazione precedente di A. Warburg. Sull’atlante, su Warburg e sulla sua figura, si veda K.W. Forster, K. Mazzucco, Introduzione ad Aby Warburg e all’atlante della memoria, a cura di M. Centanni, Bruno Mondadori, Milano 2002.

3. F. Colombo, “Tenere la rotta. Viaggio sentimentale nell’università ‘televisiva’”, in Bla, Bla, Bla. Parlare di televisione, Link Mono, RTI, Milano 2009.


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Una tavola di Aby Warburg. Il pathos del vincitore.

È allora forse utile ripensare alla tv dentro a un frame più ampio, che ci parli delle connessioni profonde fra la circolazione culturale ai tempi della televisione e le altre forme di questo scambio, siano esse passate (antiche o più recenti), presenti o future (anche se visibili magari solo allo stadio seminale), riconoscendo e mostrando nessi, recuperando continuità oltre che – naturalmente – sottolineando differenze e fratture, nella consapevolezza che il tempo della tv non appartiene soltanto al mezzo, ma più in generale alla società che l’ha prodotto e ospitato, e che il cambiamento sociale ha piegato più di una volta lo strumento alle sue esigenze, influenzandone le svolte e le metamorfosi parziali. 14


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Ecco allora che il formato delle tavole di Mnemosyne recupera una sua utilità, come un passo indietro verso il punto di origine di alcune discipline che hanno indagato la cultura dell’uomo: una prima ridefinizione del quadro teorico generale. Un tentativo di partire di nuovo, senza rinunciare alle consapevolezze già acquisite. Infine, una proposta di riflessione che apra nuovi filoni di indagine. E tuttavia, ancora, la semplice riproposizione di una tecnica di catalogazione e collegamento non basta, perché il medium tv risente in generale della crescente difficoltà di definirlo. Ecco, verrebbe da chiedere, in che senso la televisione è un medium, e più in generale di cosa parliamo quando parliamo di medium? Siccome rispondere a queste domande pare oggi quasi impossibile, può darsi che la domanda stessa sia inutile, e che possa essere sostituita da una batteria di altre questioni che spostano il modo di studiare e interrogare tutti quelli che abbiamo definito comodamente media, fino a oggi. Per esempio: come avviene la circolazione culturale al tempo della tv? Esiste una specificità di questa circolazione? Se si imposta l’approccio scientifico ai media da questo nuovo punto di vista, alcune tematiche paiono d’un tratto farsi irrilevanti, e altre invece emergono con un rilievo inaspettato. Ma il punto nodale sembra essere questo: possiamo finalmente paragonare i media ad altre forme antropologiche della circolazione culturale, e cercare di cogliere in quel collegamento ciò che davvero ci interessa. Naturalmente anche questa, come molte altre intuizioni delle scienze umane, somiglia alla scoperta dell’acqua calda. Voglio dire: non c’è quasi singola questione tradizionale della mediologia che non venga riproposta in questo nuovo quadro. Ma, appunto, è il quadro che cambia, e ciò che importa è il flusso di temi e forme, l’utilizzo che i soggetti sociali ne fanno e il modo in cui questo uso modifica la loro vita, plasmando ogni percezione del mondo e delle relazioni con gli altri. È insomma a questa diluizione, a questa scomparsa del medium tv in una più vasta indagine sulle forme della cultura ieri, oggi (e forse domani), che guarda come a un obiettivo il nostro atlante, il cui cammino può ora cominciare. Ogni tipo di circolazione culturale si rende possibile attraverso tre ordini di elementi, ciascuno dei quali è necessario, ma non sufficiente a consentirla. Sono i Materiali, i Rituali, i Flussi. Nella confusione fra ruoli e funzioni di questi elementi si generano spesso naufragi interpretativi, con attribuzione all’uno delle caratteristiche dell’altro, o con sovrapposizioni esplicative. Ma la via per uscire da queste insidie esiste, naturalmente, e consiste nell’usare la bussola della distinzione e della concettualizzazione. A questo – si spera – dovrebbe collaborare un atlante. 15


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15. J.L. Borges, I quattro cicli, in L’oro delle Tigri (1972), ora in Tutte le opere, vol. II, Mondadori, Milano 1985.

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Ha scritto Borges che – per quanto ci si avventuri nell’invenzione – solo quattro sono le storie che possiamo raccontare: la città assediata e difesa da coraggiosi, il ritorno dell’eroe, la ricerca di un tesoro prezioso, il sacrificio di un dio15. Così è in fondo anche per la tv, che per quanto si riempia di contenuti, sembra ossessivamente riprendere i temi cari a ogni cultura: l’amore, la morte, l’eroe. La novità della tv nella storia della cultura non sta forse allora in quello che racconta, ma nella peculiare forma del suo statuto di narratrice, e del singolare rapporto che la lega al suo pubblico. Una via di mezzo fra il bardo e la serie di famosi o anonimi oratori che danno vita a quell’angolo di Hyde Park, a Londra, insieme al loro pubblico, allo Speaker’s Corner. Una via di mezzo la cui forma specifica è ben esemplificata da due grandi personaggi come Adriano Celentano e Fiorello. Il primo, per sua natura tendente all’enfasi paradossale, fatta di sottrazioni e silenzi, di monologhi carichi di pause e di apparenti incertezze e confusioni, che in uno dei grandi varietà del sabato sera invoca il silenzio televisivo chiedendo agli spettatori di spegnere l’apparecchio per qualche minuto. E Fiorello, che in occasione di una registrazione in teatro di un suo spettacolo, messo di fronte all’impossibilità degli spettatori stessi di raggiungere il teatro, sceglie di recitare nel vuoto, solo per i tecnici e gli addetti alla produzione. Niente direbbe meglio il paradosso del bardo televisivo, atto a parlare con tutti, capace di invocare il proprio silenzio o l’assenza di ascolto come estremo atto di comunicazione. Niente ci confiderebbe con maggior nettezza che in gioco nello scambio culturale, come effetto delle azioni comunicative, c’è quello che confusamente definiamo emozione.

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Materiali Fausto Colombo

1. I megaliti di Stonehenge. 2. I graffiti rupestri della grotta di Levanzo, Genova. 3. Tacabanda di Roberto Gavioli per Doria, da Carosello (1957-1977). 4. Vetrata di Santa Caterina da Siena, Duomo di Milano. 5. Schermi negli schermi. 6. Spoon River, installazione (Alessandro Matucci, 2002). 7. Viking Studios, Londra (anni Cinquanta). 8. Scena da Pleasantville (Gary Ross, 1998).

Rituali Fausto Colombo

1. Approvazione della regola, Basilica superiore di Assisi (Giotto, 1290-95). 2. Calvaire di Guimiliau in Bretagna (1581-1588). 3. Laveno Mombello a Campanile sera (1961). 4. Pantomima acquatica al teatro Sadler’s Wells (1815). 5. La sigla di Carosello. 6. Orlando furioso (Luca Ronconi, 1975). 7. Il Café de la Régence a Parigi (1800). 8. La radio in un salotto borghese. 9. Bontà loro di Maurizio Costanzo (1976-1978).

Flussi Fausto Colombo

1. Il maestro Manzi di Non è mai troppo tardi (1960-1968). 2. Padre Mariano. 3. Un comizio di Enrico Berlinguer. 4. Mario Soldati. 5. Vanna Marchi e il Mago Do Nascimento. 6. Silvio Berlusconi firma il contratto con gli italiani a Porta a porta (2001). 7. Vittorio Sgarbi. 8. Lo Speaker’s Corner di Hyde Park a Londra. 9. Adriano Celentano.

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Sezione I

Materiali – La percezione televisiva –

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forme, stili, valori, personaggi

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Di cosa è fatta la televisione

Di cosa È FATTA LA TELEVISIONE Piermarco Aroldi

di che materia è fatta la televisione? la domanda è più insidiosa di quanto sembri e le risposte possono essere molte: luce, pixel, linee scandite dal pennello luminoso, ovviamente; ma anche onde sonore, e prima ancora onde radio. E poi: vetro, plastica, legno, materiali conduttori e semiconduttori, valvole, transistor, circuiti integrati, chip e microchip. Tasti, pulsanti e, una volta, grosse rotelle zigrinate; led luminosi, device gommosi come i telecomandi, una gran quantità di cavi e prese, e ingressi definiti da standard variabili. Per certi versi è anche difficile capire dove finisce la materia della televisione: l’antenna condominiale e i set top box che si impilano sotto lo schermo fanno parte della materia televisiva o no? E l’home theatre? Il lettore di Dvd? Di più: il divano e le poltrone orientati per consentire la migliore visione familiare non ne fanno forse parte, esattamente come la sala cinematografica, con la sua architettura e le sue file imbottite, il banco dei popcorn e il venditore di gelati, fa parte del dispositivo “cinema”? Si potrebbe obiettare che questi materiali hanno a che fare con il “televisore” e non con la “televisione”; ovviamente è vero, ma proprio questa obiezione suggerisce di riflettere brevemente sul rapporto tra l’uno e l’altra, ovvero su quel principio che Silverstone ha chiamato doppia articolazione della tv1: la sua capacità di produrre senso – e dunque di partecipare ai processi di mediazione dei significati sociali – sia 29

1. R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2000 (ed. or. 1994); si veda anche S. Livingstone, “On the Material and the Symbolic. Silverstone’s Double Articulation of Research Traditions in New Media Studies”, New Media & Society, 9(1), 2007, pp. 16-24.


Di cosa è fatta la televisione

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attraverso il software dei suoi programmi, sia mediante l’hardware del suo device di ricezione. Può darsi la “televisione” senza il “televisore” così come siamo abituati a conoscerlo? Certamente: basti pensare, in tempi recenti, alla possibilità di guardare la tv direttamente sul computer, senza nemmeno passare attraverso internet, oppure mediante lo streaming o il download di file mp3 visibili sui piccoli display di iPod e Psp; oppure alla ricezione di programmi tv sullo schermo del telefono cellulare. O alle avveniristiche ipotesi di proiezione ologrammatica evocate da tanta fantascienza (ma forse basterebbe fermarsi all’uso dei maxischermi allestiti nelle piazze, soprattutto quelli basati su sistemi di proiezione, magari su materiali fluidi, come l’acqua). Ma anche alle origini della tv troviamo qualcosa di simile: la visione condivisa del periodo 1954-57, per esempio, con il televisore collocato nelle sale cinematografiche o parrocchiali, nei bar, all’aperto dei cortili o delle piazze, con le file di sedie portate da casa o l’obbligo della consumazione, istituisce una primordiale definizione dell’apparecchio di ricezione che sembra lontana anni luce dal materiale domestico di cui è fatta la nostra recente esperienza televisiva. È vero, però, che sempre di un dispositivo tecnologico si tratta, affine ad altri dispositivi, ad altre tecnologie – prima di tutto quella radiofonica – che hanno conosciuto simili percorsi di attraversamento dei nostri spazi quotidiani. Per inciso, vale la pena osservare fin da subito che si tratta di percorsi che si sviluppano secondo direttrici simmetriche, ora spostandosi dagli spazi pubblici o semipubblici a quelli domestici e privati (proprio come il televisore), ora guadagnando più o meno rapidamente una mobilità che li disancora dall’ambiente domestico per farne oggetti nomadi (come il telefono o la radio). In ogni caso, oggetti materiali, device e dispositivi si portano dietro forme e significati originali, incorporati nel loro design e nella loro ergonomia, ma anche nei loro rituali d’uso, che modificano gli ambienti a cui approdano, per farsi poi, a loro volta, modificare e trasformare dalle traiettorie dell’incorporazione sociale cui sono sottoposti: basti pensare ancora all’ingresso del televisore nei bar, trasformati in piccole sale cinematografiche, con lo schermo “innalzato” su mensole e tavoli e il conseguente riorientamento delle sedie a far da platea; e come, introducendosi nelle case, esso sia stato prima collocato, in modo analogo, su alti trespoli per poi “scendere” su mobili più bassi, in linea con divani e poltrone, contribuendo così a dare ai nostri soggiorni e salotti la forma che ormai conosciamo. Se pure è pensabile la televisione senza il televisore, è dunque più difficile, almeno per ora, pensarla senza un dispositivo di ricezione 30


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che venga fatto oggetto di addomesticamento2, e che, durante questo processo, non si lasci leggere in analogia con altri dispositivi che lo hanno preceduto, anticipandone profeticamente forme, usi, funzioni, rituali, significati. Il televisore occupa così, in questo percorso, il ruolo dell’atteso, incarnazione del logos televisivo che, alla lettera, “viene ad abitare in mezzo a noi”, nelle nostre case; e se le profezie ne alimentano l’attesa, è appoggiandosi a esse, inverandole e talvolta falsificandole, che la televisione si attesta, si legittima e si istituisce attraverso il suo terminale domestico. Nel caso del televisore, come per la maggior parte delle tecnologie destinate a entrare nella vita quotidiana e nell’uso comune di grandi quantità di persone, la profezia assume spesso la forma retorica della metafora; può trattarsi della metafora verbale su cui si basa, in via definitoria, la descrizione anticipatoria della nuova tecnologia, spesso frequentata dai discorsi sociali che ne accompagnano la nascita e la diffusione (per la televisione è il caso de “il cinema domestico”, “il piccolo schermo”, “la radio illustrata”, “la finestra sul mondo”, “il mondo in casa”, “il nuovo focolare elettronico” e così via); o può essere la metafora iconica che, in modo sintetico, dà visibilità a questi schemi interpretativi del “nuovo”, appoggiandosi al “vecchio”, come accade spesso nel discorso persuasivo della pubblicità. Fatto sta che la metafora è, dal punto di vista che interessa in queste pagine, un indicatore straordinario in grado di segnalare affinità, analogie, calchi che mettono in relazione il televisore/televisione con i suoi, più o meno lontani, predecessori. Su alcune di queste relazioni si tornerà in altre pagine di questo volume. Qui basterà evidenziare, da una parte, come alcuni accostamenti, quasi autoevidenti, ai media che hanno anticipato la televisione – radio e cinema, ma anche grammofonia e fotografia – di fatto stravolgano il reale dispositivo tecnologico dell’apparecchio ricevente, facendone per esempio, di volta in volta, un semplice schermo di proiezione o un vero e proprio proiettore; d’altra parte, è interessante osservare come, oltre ai media già addomesticati, si affianchino altri riferimenti al moderno universo dei consumi, dagli elettrodomestici ai mezzi di trasporto (ed ecco riemergere la polarità tra spazio domestico, privato e familiare, e spazio esterno e pubblico). Costruita soprattutto in stretta continuità con quella radiofonica, l’esperienza tv finisce per replicare innanzitutto alcuni frame interpretativi del mezzo che l’ha preceduta. In questo percorso il televisore eredita dall’apparecchio radiofonico alcuni significati sociali, mentre ne risolve altri in modo netto, riducendone di fatto la pluralità. Tracce di questo accostamento si ritrovano, per esempio, nel discorso 31

2. Il riferimento è sempre a R. Silverstone, op. cit.; ma si veda anche R. Silverstone, “Domesticating Domestication. Reflections on the Life of a Concept”, in T. Berker, M. Hartmann, Y. Punie, K.J. Ward (eds.), Domestication of Media and Technology, Open University Press, Buckingham 2006, pp. 229-248; e L. Haddon “Roger Silverstone’s Legacies: Domestication”, New Media & Society, 9(1), 2007, pp. 25-32.


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3. R. Silverstone, E. Hirsch, D. Morley, “Information and Communication Technologies and the Moral Economy of the Household”, in R. Silverstone, E. Hirsch (eds.), Consuming Technologies. Media and Information in Domestic Spaces, Routledge, London 1992, pp. 15-31.

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pubblicitario, soprattutto quando esso si fa rappresentazione dei rituali sociali che l’avvento del nuovo medium rende possibili, come nel caso dell’ascolto familiare della radio che sfuma, senza soluzione di continuità, in quello della tv, accentuando ora il carattere intimo e privato di tale esperienza, ora l’aura di raffinata eleganza che la circonda. D’altra parte, il percorso di senso che lega la radio ai nuovi mezzi di trasporto che garantiscono una mobilità privata, soprattutto giovanile, e che si riflette, per esempio, nell’iconografia (non solo pubblicitaria) del déjeuner sur l’ herbe o del pic-nic, deve necessariamente arrestarsi di fronte della scarsa mobilità del televisore, oggetto decisamente domestico anche quando portatile. Al massimo, la traiettoria sembra destinata a convergere sullo stesso mezzo automobilistico come spazio intermedio, né totalmente pubblico né completamente privato, intimo quanto basta ma nomade, guscio protettivo o abito espanso dell’uomo moderno, dove lo schermo televisivo, apparso inizialmente come eccentrico e lussuoso gadget, tende oggi a guadagnarsi il posto che era prima solo dell’autoradio; oppure a confluire su altri device nomadi come il cellulare, ma con una vocazione al consumo più individuale che di gruppo. Ma, in modo ancor più radicale, l’accostamento all’universo dei significati della modernità si rende visibile nelle forme ostensive dei beni che in essa hanno assunto il valore di status symbol, come la Vespa e la Cinquecento; allo scooter e all’utilitaria si può aggiungere, a pieno titolo, proprio il televisore. Salvo poi richiamare, dal punto di vista iconografico, ideali estetici classicheggianti e una relativa etica del consumo: l’economia formale, come si sa, deve sempre essere negoziata con l’economia morale del nucleo domestico3. Nelle forme visuali che testimoniano questa dialettica, non a caso, i bambini sono i soggetti che più frequentemente vengono accostati al bene di prestigio, a marcare insieme lo status della famiglia di provenienza e il loro futuro destino di adulti consumatori, entrambi tramandati di generazione in generazione: come ci ricorda Bourdieu, l’habitus – da cui dipende il gusto – non è altro che una forma di amor fati4.

4. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1983 (ed. or. 1979).

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Di cosa è fatta la televisione

Di cosa è fatta la televisione Piermarco Aroldi

1. Il consumo televisivo in un bar negli anni Cinquanta. 2. Il consumo televisivo in piazza San Carlo durante le Olimpiadi invernali di Torino (2006). 3. Pubblicità di apparecchi radio-televisivi (anni Cinquanta). 4. Le Déjeuner sur l’herbe (Édouard Manet, 1863). 5. L’ascolto radiofonico all’aperto in un’immagine di calendario (anni Cinquanta). 6. Cornelia, madre dei Gracchi (Angelica Kauffman, circa 1785): “Ecco i miei gioielli!”. 7. 8. 9. Foto di famiglia (anni Cinquanta e Sessanta).

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Questioni di superficie Matteo Stefanelli

trasparenza e opacità: la dialettica costitutiva della materialità dell’immagine televisiva. Da quando lo sguardo televisivo ha generato un nuovo regime del visibile, si è fatto via via più centrale il ruolo di quello spazio fisico che è deputato a mediare, filtrare, valorizzare il visibile televisivo: lo spazio dello schermo. Nell’interfaccia televisiva è una superficie essenziale, una membrana fragile e sottile, oppure solida e resistente allo sguardo che “passa” attraverso di essa. Lo schermo è per la televisione insieme una soglia impalpabile e uno spazio planare autonomo, uno specchio di Alice e una pelle su cui si è iscritta una parte importante del senso del mezzo televisivo. A prendersi cura della “superficie del visibile” hanno operato e operano le conoscenze e le tecniche del graphic design televisivo: il design dell’identità visiva delle reti, titoli e credits o materiale grafico per programmi (still, caption, sequenze animate), la promozione on-screen di prodotti e canali, le istruzioni per l’interazione diretta con il flusso di contenuti, e un canale informativo “supplementare” esso stesso1. Tuttavia il graphic design dello schermo, alle origini, lavora su ben pochi elementi. La televisione che offre una nuova finestra sul mondo si interessa ben poco alla sua dimensione planare. La costruzione dell’immagine televisiva delle origini è essenzialmente di matrice teatrale, e a contare davvero è ciò che viene messo in scena in diretta, ciò che sta 41

1. G. Crook, The Changing Image. Television Graphics from Caption Card to Computer, Robots Press, London 1986.


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2. P.R. Lloyd, “Early Graphic Design in Television”, disponibile qui: http:// paulrobertlloyd. com/articles/ early_graphic_ design_in_ television.

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“al di là”. In questa fase la concezione della superficie dello schermo è chiaramente quella di una soglia trasparente, uno specchio di Alice che porta alla Wonderland della realtà sociale. Sebbene la superficie dello schermo, nella tv delle origini, sia quindi poco “trattata”, gli scenografi degli studi televisivi lavorano per sfruttare l’efficacia di una serie di “effetti di superficie”. Per trasmettere il marchio della rete, o il titolo del programma, la soluzione tecnica dominante è l’uso di una telecamera fissa per riprendere i pannelli che ospitano gli elementi grafici necessari, preparati manualmente. L’“effetto di superficie” sullo schermo è quello del cartello segnaletico, talvolta quasi del manifesto pubblicitario: i compositori e designer di segnaletiche sono così le prime figure professionali a occuparsi di grafica tv. Per un broadcaster di eccellenza come la BBC, che solo nel 1954 assume il suo primo graphic designer, John Sewell, è naturale che il lavoro di grafica debba dipendere dal dipartimento di scenografia. Sarà così fino al 1963. L’estrazione culturale è peraltro emblematica di questa epoca: la sua specializzazione è in illustrazione, con l’aggiunta di un interesse per il cinema 2. Nella sua nuova professione Sewell declina le proprie abilità di disegnatore per produrre lettering, immagini fisse e semplici sequenze animate, arricchendo – e spiazzando – il lavoro dei compositori di pannelli che, fino ad allora, avevano fornito alla BBC la maggior parte delle esigenze grafiche per la programmazione. La tipografia è in particolare un terreno in cui la giovane grafica televisiva cerca soluzioni formali che superino alcune rigidità pur all’interno dell’impostazione cartellonistica. Uno dei generi televisivi sottoposti a maggiore sperimentazione grafica è, da subito, l’informazione. In questo campo il graphic design deve cercare soluzioni per produrre sintesi visiva alla massima potenza, in grado di tradurre in pochi segni notizie e concetti di rilevanza giornalistica. Fra le pratiche più diffuse nella tv inglese e americana, ancora fino agli anni Settanta, per illustrare informazioni di attualità anche cruciali permane la consuetudine di ricorrere al disegno, attraverso vignette che si richiamano alla tradizione dei newspaper cartoon. Fra i tanti esempi celebri: l’indebolimento della sterlina britannica, sottoposta alle turbolenze economiche dei Seventies, nei telegiornali inglesi è spesso rappresentato con una caricatura che la ritrae antropomorfizzata, come una lettera diventata bruco e con una gamba fasciata; per accompagnare i commenti politici alle elezioni presidenziali, negli Usa del 1972, la sigla apre con un pannello composto dalla caricatura dei simboli dei due partiti – l’elefante repubblicano e l’asinello democratico – che riprende l’iconografia in voga sin dalle caricature ottocentesche di Thomas Nast su Harper’s Weekly. Le competenze più antiche, 42


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Questioni di superficie

persino precedenti all’invenzione della grafica come il disegno e la caricatura, sono gli strumenti chiave per caratterizzare l’identità visiva della superficie schermica. Peraltro quelle stesse elezioni del 1972, con la grande presenza di pannelli e cartelli negli studi televisivi, segnano la fine di un’epoca: saranno le ultime elezioni americane a presentare ancora i risultati con pannelli composti manualmente. Proprio nella pratica del disegno a mano, tuttavia, si nasconde il germe di una consapevolezza differente, che contribuisce a erodere l’idea stessa di trasparenza della superficie televisiva. Il contrasto è quello fra strutturazione visiva e gestualità, grafica vs. disegno. Lo spettatore trova infatti nel disegno qualcosa che eccede la funzione documentale della superficie televisiva: in esso rinviene le tracce di una mano creatrice, “usando le immagini per acquisire l’esperienza consapevole di vedere attraverso gli occhi di chi le ha create”3. All’animazione, sempre più diffusa nella programmazione – non solo per bambini, visto il suo uso nella pubblicità – spetta quindi il compito di scardinare le vecchie concezioni suggerendo con forza un’idea centrale: la natura bidimensionale dello schermo. La presenza di disegni che “animano” e trattano ludicamente la superficie del video mette in crisi l’idea di una mera “finestra” sul mondo. La trasparenza, affermano i segni animati dei cartoon, è un’illusione, una convenzione dell’interfaccia dello schermo. Il punto più alto di questa riflessione lo raggiunge un disegnatore italiano, Osvaldo Cavandoli, che con La Linea usa l’ibridazione di disegno e grafica per creare una serie di straordinari meta-racconti sulla natura convenzionale dello spazio televisivo: uno spazio che è anche – o innanzitutto – superficie “scritta” dalle mani dei suoi creatori. Sul piano materiale, anche l’evoluzione delle tecnologie di ripresa e di trasmissione contribuisce a ridefinire le condizioni percettive della superficie televisiva. La fiction dedicata al tema dei viaggi spazio-temporali è l’occasione giusta per spingere ancora più avanti la consapevolezza delle complesse relazioni fra soglie e piani implicate nell’interfaccia video. Per la sigla del programma Doctor Who, nel 1963 Bernard Lodge punta una telecamera davanti a un monitor, sviluppando nuovi effetti di sovrapposizione: la superficie dello schermo si fa multilayer, segnalando così l’avvento di una nuova era di opacità dello/nello schermo televisivo. L’avvento del colore e gli standard di maggiore definizione dell’immagine a esso connessi scatenano nuove sperimentazioni. Lo spazio multi-scrivibile della superficie schermica è pienamente appropriato dal graphic design televisivo, e con gli anni Settanta – età della maturità per la grafica televisiva – arrivano innovazioni come le identità cromatiche dei building blocks creati da Martin Lambie-Nairn per Channel 4, pri43

3. J. Berger, Sul disegnare, Scheiwiller, Milano 2007 (ed. or. 2005), p.13.


Questioni di superficie

4. T. Murakami, Superflat, Madra, Tokyo 2000.

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mo successo della computer grafica in tv, che con un effetto valanga arriverà a sostituire rapidamente le vecchie tecniche di lavorazione manuale con quelle digitali. L’estetica multilayer del video fa il suo ingresso nell’epoca della simulazione, avvicinando sempre più le esigenze di superficie dello schermo televisivo a quelle del video del computer, come testimonia lo scenario contemporaneo della tv digitale. Ma la complessità culturale della superficie rivela anche il significato antropologico dell’interfaccia televisiva, per esempio nella diversità tra Occidente e Oriente. Nei generi informativi, da sempre avamposto strategico per lo sviluppo dell’interfaccia, questa differenza è massimamente evidente: i programmi di news in Asia sono diversi anche – soprattutto – sul piano della superficie schermica, piena di scritte, sottotitoli, oggetti grafici e segnaletiche multilayer. La superficie è sfruttata spazialmente al punto da ridurre persino l’importanza spettacolare dell’estetica da studio, tanto amata dalla tv occidentale. La flatness dell’immaginario visivo asiatico, ben raccontata dall’arte di Murakami, è la vera risorsa strategica per generare forme di attenzione: non solo parole, ma anche linee ed elementi vettoriali che si muovono continuamente, fino alla debordante presenza di character disegnati, ad antropomorfizzare la relazione d’uso fra l’utente e lo schermo televisivo4. Nell’economia politica della tv contemporanea, non è un caso che il Giappone abbia conquistato un ruolo di leader mondiale proprio nel segmento della produzione più tipicamente flat: l’animazione. Una leadership che dice di un diverso modello di integrazione industriale e insieme culturale. In Occidente i telefilm, ovvero il cinema; in Oriente gli anime, ovvero il disegno (il manga). Questioni antiche: questioni di superficie.

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Questioni di superficie

Questioni di superficie Matteo Stefanelli

1. Previsioni del tempo sulla tv australiana degli anni Sessanta. 2. Prime grafiche tv. 3. La sterlina britannica in una caricatura degli anni Sessanta. 4. Grafiche per l’Election Night americana del 1972. 5. Spot della tv a colori RCA nei primi anni Sessanta. 6. La Linea di Osvaldo Cavandoli. 7. La sigla di Doctor Who creata da Bernard Lodge. 8. Ident di Channel 4 disegnato da Martin Lambie-Nairn. 9. L’affollamento grafico della tv giapponese.

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specchio e focolare Piermarco Aroldi

come è stato più volte osservato, l’addomesticamento della tv in quanto medium è passato anche attraverso l’integrazione dell’apparecchio come pezzo di arredamento cui trovare una collocazione (una stanza adeguata, prima di tutto: la cucina, il tinello o il salotto?), uno spazio (legato alla profondità del tubo catodico: una nicchia o un angolo, un carrello apposito, una mensola, una parete?), una logica (continuità per mimetismo con l’arredamento tradizionale o rottura esplicita per evocazione della modernità; occultamento dietro serrande e saliscendi od ostentazione dichiarata?). In questa negoziazione entrano in gioco l’estetica della tecnologia e i valori a essa attribuiti: le linee liberty o decò delle prime radio, il rigore razionalista dei primi televisori, l’esplosione delle plastiche colorate in pieno gusto pop degli anni Sessanta e Settanta, il ritorno high tech nero di fine millennio, l’effetto seamless degli schermi piatti, Lcd o al plasma, dei nostri anni. Colori, materiali, forme e, soprattutto, volumi; in questo senso, l’evoluzione più significativa è rappresentata dal passaggio dal cinescopio al flat screen o, meglio, dalla “scatola” alla “cornice”: la prima, esageratamente tridimensionale, strettamente imparentata con la “scatola teatrale” del repertorio borghese dal Settecento in poi, esplicita l’idea di un “contenitore” che racchiude un “contenuto”, storie, personaggi ed eventi che hanno luogo “lì dentro”, dove tutto convive a rischio di 47


Specchio e focolare

1. P. Valery, Scritti sull’arte, Guanda, Milano 1984 (ed. or. 1934).

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mescolamento, contaminazione e parodia; la seconda, sfacciatamente bidimensionale, da appendere al muro, come un quadro o una specchiera, ridotta a sola superficie riflettente, quasi a ricordare la lezione decostruzionista e, ancor più, la pratica televisiva da metà anni Ottanta in poi, tutta volta a dimostrare che la “scatola è vuota”, o è piena solo di altre scatole, in un rinvio interminabile all’autoreferenzialità. L’ingresso dell’apparecchio radio-televisivo tende non solo a ridefinire la dimensione domestica, ma ad articolare questa ridefinizione lungo una serie di contraddizioni estremamente feconde: per esempio, quella che si articola intorno alle due (apparentemente?) opposte metafore del “mondo in casa” (con la variante più voyeuristica della “finestra sul mondo”), da una parte, e del “focolare elettronico”, dall’altra. Metafore banali, si direbbe, certamente datate se non desuete, ma che forse proprio per questo potremmo provare a prendere sul serio, se non addirittura alla lettera, per verificarne fino in fondo la natura profetica a cui si alludeva nelle pagine precedenti. Una prima serie di metafore, infatti, fa leva sulla natura di “conduttura” che consente il trasporto di ciò che è “esterno” verso ciò che è “interno”, l’esperienza a domicilio di ciò che è distante, disperso nel vasto mondo “là fuori”. Come profetizzava Paul Valery in un saggio dal significativo titolo de La conquista dell’ubiquità (1928)1, “come l’acqua, il gas, la corrente elettrica giungono da lontano nelle nostre case per rispondere ai nostri bisogni con uno sforzo quasi nullo, così saremo alimentati da immagini visive o uditive, che appariranno e spariranno al minimo gesto, quasi a un cenno”. Si tratta dell’intuizione, pienamente moderna, dell’abitazione come nodo di una rete di distribuzione, e il nome proposto da Valery per questo servizio, descritto quasi al dettaglio del gesto con cui manipoliamo il telecomando per fare zapping, è – non a caso – “Società per la distribuzione della realtà sensibile a domicilio”. Questa rete, destinata oggi a concretizzarsi in internet e a dare forma alla cosiddetta broadband society, connette locale e globale, individuale e collettivo, domestico e nazionale; e se il mondo diventa familiare, una volta entrato nel piccolo schermo, ecco che la sua esondazione dalla “scatola” televisiva nell’ambiente domestico rende quest’ultimo esotico, trasfigurando usi, costumi e abitudini dei suoi abitanti. Una seconda serie di metafore, invece, agisce su altri elementi di arredo, già presenti nell’abitazione e dotati di una loro funzione propria che, in qualche misura, nella modernità viene assunta dallo schermo tv. Tanto per cominciare, tra i materiali di cui è fatto il televisore c’è, indubbiamente, il vetro, a fare da “quarta parete”, trasparente, alla scatola di legno o plastica, più o meno ingombrante, che costituisce la 48


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Specchio e focolare

componente, per così dire, di “mobilio” della televisione. La superficie vetrata dello schermo costituisce l’interfaccia principale della tv e uno dei suoi elementi materiali di maggiore impatto nell’ambiente domestico e nei rituali familiari e sociali che vi si svolgono. Oltre a quella della finestra, la metafora dominante, qui, è quella dello specchio. In quanto oggetto di lusso domestico, tipicamente femminile e tradizionalmente connotato di vanità, esso è innanzitutto motivo di contemplazione della bellezza e del suo formidabile (divino) potere sugli uomini; anche quando è ridotto a borghese strumento di seduzione, esso mantiene però un potere di fascinazione ben rappresentato dalla figura dello “specchio magico”. Se la radio si accompagna alla toilette e alla specchiera, il televisore vi si sostituisce, dando forma tanto al “sex appeal dell’inorganico” (Mario Perniola) quanto alla dimensione femminile della tecnologia, altrimenti tristemente “maschile”. Non è possibile, però, ignorare come la superficie specchiante del televisore racchiuda, al tempo stesso, una promessa che spetterà, poi, alla televisione mantenere: darsi come un luogo in cui ci si riflette, in cui l’identità dello spettatore cerca conferme (“specchio delle mie brame…”), da cui attingere modelli e paradigmi con i quali confrontarsi; in esso la stessa realtà del mondo si rispecchia, offrendosi ora al riconoscimento, dunque a una forma di conoscenza che oscilla tra il senso comune e forme più mature di riflessività, ora all’opera di chirurgia estetica che la rende irriconoscibile ma totalmente telegenica. Parte di queste metafore, invece, insistono sulla dimensione della chiusura e dell’intimità: la radio prima, il televisore poi, sono il nuovo focolare domestico, sia nel senso che intorno a esso si riunisce il nucleofamiglia (in continuità, peraltro, con il luogo simbolico per eccellenza di questa unità che è il desco familiare), sia in virtù della sua apparente capacità di “scaldare” l’ambiente. Fuoco, cibo, unione del gruppo sono, dunque, alcuni dei significati che tale metafora proietta sull’apparecchio tv a conferma della sua vocazione a sostenere la “sicurezza ontologica” della nostra quotidiana percezione della vita. In modo analogo, d’altra parte, i rituali del consumo pongono spesso il televisore in relazione con i momenti del pranzo e della cena, e gli “usi ambientali”, documentati dagli Audience Studies da Lull2 in poi, sottolineano la potenzialità del mezzo come strumento di “arredo” dell’attesa e della solitudine, specie con la sua funzione di “rumore di fondo” e di accompagnamento. E, sempre prendendo alla lettera le metafore, non sarà forse un caso che il verbo che usiamo per il televisore sia proprio “accendere”: come il fuoco, come il gas della cucina, come una caldaia. Ma, come è noto, la metafora è un procedimento retorico di slittamento semantico potenzialmente in grado di innescare una semiosi 49

2. J. Lull, In famiglia, davanti alla tv, Meltemi, Roma 2003 (ed. or. 1990).


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illimitata; così, retrocedendo dal caminetto acceso in quanto “cuore della casa”, è possibile approdare al “sacro fuoco di Vesta”, l’emblema rituale del focolare che celebra, contemporaneamente, la sopravvivenza della città e quella di ogni singola unità familiare che la compone. Riassunte nel simbolo del fuoco perenne conservato nel tempio, “doppio” del focolare regale, infatti, convivono tanto la natura intima e privata della familia quanto quella collettiva e politica dell’urbs e della res publica, quasi a confermare, ancora una volta, l’integrazione sociale – per esempio su base nazionale – allusa dalla mediazione simbolica dal televisore, costantemente acceso tra le nostre mura domestiche.

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Specchio e focolare

Specchio e focolare Piermarco Aroldi

1. L’ascolto radiofonico in famiglia (anni Trenta e Quaranta). 2. Il consumo televisivo in famiglia nella pubblicità americana degli apparecchi radio-tv (anni Cinquanta). 3. Pubblicità di apparecchi radiofonici (anni Trenta). 4. La storica sigla del Tg1. 5. Denario di Quinto Cassio Longino con il tempio di Vesta. 6. L’ascolto domestico della radio nella pubblicità degli apparecchi radiofonici (anni Trenta e Quaranta). 7. Venere allo specchio (Diego Velazquez, 1650). 8. Pubblicità di apparecchi televisivi (anni Cinquanta e Sessanta). 9. Pubblicità di un televisore a schermo piatto (2009).

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Varchi e passaggi Piermarco Aroldi

a ben guardare, anche le metafore che insistono sulla dimensione intima e domestica dell’esperienza televisiva, come nel caso del focolare o dello specchio, celano una seconda dimensione, più aperta e, ovviamente, comunicativa. Entrambe, infatti, alludono anche a un’apertura, e dunque a un varco e a un passaggio. Per quanto riguarda il camino, esso consente non solo l’uscita del fumo ma anche il transito di e la comunicazione con gli esseri del mondo superiore, elargitori di protezione o di beni materiali, come San Nicola/Babbo Natale; o, in molte culture tradizionali, con gli spiriti degli antenati e dei trapassati. Potremmo anche dire che il focolare acceso testimonia che la casa è sì abitata, ma questa “abitazione” non è solo faccenda di chi “vive” nella casa. La casa è abitata anche da chi non vive più: i Lares familiares, per stare ancora entro l’orizzonte delle radici italiche della nostra cultura, o gli spettri e i fantasmi, se ci affacciamo all’immaginario popolare del folklore e di tanta parte della narrazione massmediale. Ed è proprio questo immaginario a offrire alcune testimonianze iconografiche interessanti: la fascinazione, mista di curiosità e timore, vagamente ipnotica con cui i bambini guardano al camino acceso, o alla canna fumaria aperta verso l’ignoto, riecheggia, per esempio, sia nella locandina di Poltergeist (Tobe Hooper, 1982), sia nell’inquadratura di 53


Varchi e passaggi

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Ringu (Hideo Nakata, 1998), in cui i figli dei protagonisti subiscono il richiamo, perturbante e letale, dello schermo televisivo. Entrambi i film ruotano, infatti, intorno alla capacità del televisore domestico di farsi, a tutti gli effetti, medium, evocatore di spiriti, varco aperto sull’aldilà, passaggio frequentato dai revenant: nel primo essi parlano attraverso il televisore alla piccola Carol per rivelarle che la casa è infestata dai fantasmi di coloro che riposano nel cimitero sul quale la speculazione edilizia ha eretto il nuovo complesso residenziale, mentre nel secondo la visione di un misterioso video è seguita da una telefonata che preannuncia la morte dell’occasionale spettatore nel giro della settimana seguente. Passaggio aperto su entrambi i lati, dunque, sul quale è pericoloso affacciarsi, pena essere risucchiati e annientati dal gorgo che si spalanca attraverso lo schermo. Due, e opposti, i possibili esorcismi: espellere il televisore, lasciandolo fuori dalla porta di casa (l’inquadratura finale di Poltergeist), o al contrario moltiplicarne la visione, diffondere, come in una catena di Sant’Antonio, il video fatale, estendendone il contagio (l’inquadratura finale di Ringu). Ambigua e polivalente come poche, poi, la metafora dello specchio è all’origine stessa dell’immagine occidentale, così come emerge dalla mitologia classica fino alla sua sopravvivenza nella fotografia, “specchio dotato di memoria” (Oliver Wendell Holmes); ma in questo itinerario essa non perde del tutto la sua natura inquietante, l’enigma del doppio, l’incubo dell’alter ego, o il richiamo di morte che condanna tanto la Medusa quanto Narciso: specchiarsi è smarrirsi nel proprio orrore o perdersi nell’amore di sé, sprofondare in acque stagnanti ma profonde, entrare in un’altra dimensione da cui è difficile riemergere indenni. Massima ambiguità: quegli stessi specchi che è bene velare quando una casa è colpita dal lutto per impedire che l’anima vi resti intrappolata nel suo cammino verso l’aldilà non riflettono l’immagine dei non-morti, i vampiri o dei revenant. Ancora una volta, cifra di un passaggio (im)possibile tra mondi. Il modello di questo transito è, alcuni millenni dopo Narciso, Alice: attirata in uno specchio non dalla seduzione della propria immagine, ma dalla curiosità circa la reale natura della “Casa dello specchio”, cioè del riflesso della stanza familiare restituito dalla grande specchiera posta sopra al caminetto (a partire, guarda caso, proprio dal camino: “Quanto mi piacerebbe veder quella parte! Chi sa se nell’inverno c’è il fuoco”). Entrarci, dice la stessa Alice, fu la cosa più facile del mondo; “quello che trovò dall’altra parte” ce lo descrive, invece, il gusto perverso di Carroll per il nonsense. Per ora ci basti soffermarci sull’iconografia di questo transito, come proposta dalle illustrazioni dell’edizione originale (Through the Looking-Glass and What Alice Found There, 1871), 54


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forse le più famose, quelle di John Tenniel: Alice, dopo essersi arrampicata sulla mensola del camino, attraversa la superficie dello specchio appoggiandosi a essa con la mano destra; ne tradisce così la consistenza, in parte solida, in parte no, “come un velo” o “una specie di nebbia”; o forse liquida. Dall’altra parte trova, come è noto, una realtà simmetrica che ben presto sfugge a ogni logica. Se la consistenza dello specchio di Alice ricorda molto da vicino quella, acquorea o nebulosa, del teleschermo, ciò che è possibile trovare “dall’altra parte” risponde, invece, ad alcune logiche che si articolano nello spazio tra realtà e rappresentazione; chi viene risucchiato “dentro” la realtà televisiva può essere, così, condannato a ripeterne all’infinito i meccanismi narrativi (come i protagonisti di Pleasantville, Gary Ross, 1998; salvo stravolgere, con la consapevolezza della vita reale, l’apparente innocenza della sitcom anni Cinquanta). O a vagare da un canale all’altro, da un programma all’altro, da un dispositivo all’altro come un’onda elettromagnetica in grado di disturbare tutte le trasmissioni, mescolandone i contenuti (è ciò che accade a Gip, il bambino protagonista del racconto di Gianni Rodari Gip nel televisore, 1962). O, peggio, a perdersi in un labirinto allucinatorio, in cui è impossibile distinguere la realtà dalla sua percezione, patologicamente deformata, come capita al protagonista di Videodrome (David Cronenberg, 1983): unico esito possibile, la rivolta – tumorale, e dunque omicida e suicida – della carne viva contrapposta all’immagine elettronica. Rimanere fisicamente esclusi da questa rappresentazione, rigettati al di qua dello schermo con il corpo e l’immaginazione totalmente assorbita dal video, ha effetti alienanti o tragicomici: Fantozzi, in Fantozzi contro tutti (Neri Parenti, 1980), sorpreso in piena notte dalla moglie Pina mentre cerca di abbracciare, attraverso il teleschermo, il corpo provocante di una pornostar apparso su una tv privata, aziona inavvertitamente il telecomando e cambia canale, ritrovandosi a baciare l’immagine di un sacerdote, conduttore di un programma religioso. Nel nostro caso il transito si complica; il passaggio è, infatti, frequentato in entrambe le direzioni. Si può “entrare” nello specchio/ televisore, così come ci sono cose e persone che possono “uscire” da esso. Passando “dall’altra parte”, Alice “esce” dallo specchio in un’altra realtà; cosa “esce”, invece, dal televisore per abitare la nostra realtà, quotidiana e domestica? Innanzitutto ciò che quotidiano e domestico non è (altrimenti saremmo ancora nell’ambito del riconoscimento puramente “speculare”, al massimo in una forma grammaticalizzata e normativa, come suggeriva già anni fa Casetti1, della nostra quotidianità e domesticità); piuttosto ciò che è esotico, o romantico. Anche in questo caso la televisione replica in forme proprie l’espe55

1. F. Casetti (a cura di), Tra me e te, Rai Vpt, Roma 1988.


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2. Si ricorderà a proposito il caso dell’attore Nick Novecento e, più recentemente, del volto che ha incarnato le diverse stagioni della tv italiana, Mike Bongiorno, protagonista di uno spot pubblicitario programmato pochi giorni dopo la sua scomparsa.

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rienza che è già stata del cinema: romantica ed esotica insieme è, per esempio, la storia d’amore della protagonista di La rosa purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985), spettatrice cinematografica appassionata di cui il personaggio del suo film preferito si innamora, al punto da uscire dallo schermo per raggiungerla. Ma più spesso la tv sembra frequentare i territori del “perturbante”, del freudiano Unheimliche, insieme familiare, rimosso e dunque estraneo. È, per esempio, il ritorno del passato, un passato in bianco e nero che sembra esaltare la nostalgia a discapito della memoria; è, alla lettera, il ritorno degli “spettri”, nella cui radice verbale è possibile cogliere tanto la natura visiva dello “specchio” quanto la nostra condizione di “spettatori”: immagini di repertorio che si danno come se le persone rappresentate fossero ancora vive, in grado di agire e parlare, e suscitare sentimenti2. È, ancora, il ritorno dei nostri fantasmi e delle nostre paure, rese iconograficamente – ancora – dal film Ringu, nonché dal suo remake statunitense The Ring (Gore Verbinsky, 2002) e delle sue innumerevoli parodie: il demone/bambina, sepolta in un pozzo, riemerge dalle viscere della terra per poi scivolare fuori dallo schermo e uccidere, con il solo orrore della sua visione, lo spettatore. È forse un caso che a costituire un punto di svolta epocale nella storia della televisione italiana ci sia stato il tragico episodio di Vermicino?

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Varchi e passaggi Piermarco Aroldi

1. L’attesa del Natale da parte di una bambina americana (fotografia del XIX secolo). 2. La locandina di Poltergeist (Tobe Hooper, 1982). 3. Narciso (Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, 1597-1599). 4. 7. Illustrazioni di John Tenniel per Through the Looking-Glass,

and What Alice Found There di Lewis Carroll (1871). 5. Videodrome (David Cronenberg, 1983). 6. Fantozzi contro tutti (Neri Parenti, 1980). 8. Ringu (Hideo Nakata, 1998). 9. La rosa purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985).

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CAPITOLO I

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CAPITOLO I

Sezione II

Rituali – L’esperienza televisiva –

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L’INTéRIEUR Alberto Abruzzese e Luca Massidda

“Cugino mio! Adesso mi rendo conto che in te non arde neppure la più piccola scintilla di talento per la scrittura. Ti manca il requisito primario per poter un giorno seguire le orme del tuo degno cugino paralitico; vale a dire un occhio che sappia vedere. A te quel mercato non offre la veduta di una variegata e vertiginosa calca che si agita senza senso. No, no, amico mio, per me da ciò si dispiega il molteplice scenario della vita borghese e il mio spirito, come un sagace Callot o un moderno Chodowiecki, produce uno schizzo dopo l’altro, i cui tratti sono spesso piuttosto sfacciati. Su, cugino! Voglio vedere se mi riesce di insegnarti le primizie dell’arte di osservare. Prova a guardare proprio davanti a te giù in strada, eccoti il mio cannocchiale…” 1

E.T.A. Hoffmann

quindici anni prima che lo spettatore dell’uomo della folla di Poe, seduto nella sala di un café londinese, con lo sguardo fisso sul grande schermo della sua vetrina, immaginasse il cinema, il cugino di E.T.A. Hoffmann, seduto nella propria casa berlinese, lo sguardo immobile sul piccolo schermo della sua domestica finestra, prefigurava la televisione. Il primo si stanca presto del flusso disordinato delle immagini della folla. È lì per essere spettatore di una Storia, per inseguire 79

1. E.T.A. Hoffmann, La finestra d’angolo del cugino, Marsilio, Venezia 2008 (ed. or. 1822), p. 61.


L’intérieur

2. W. Benjamin, “Di alcuni motivi in Baudelaire”, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p. 108.

3. R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006 (ed. or. 1976), p. 349. 4. A. Abruzzese, Lo splendore della tv. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Costa e Nolan, Genova 1995, p.116. 5. W. Benjamin, I “passages” di Parigi. Volume primo, Einaudi, Torino 1982, p. 11. 6. E. Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma 2002 (ed. or. 1962), p. 236. 7. W. Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 229.

8. S. Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 1995 (ed. or. 1983), p. 181.

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un divo, per guardare un film. Il secondo è costretto a imparare i principi di una diversa arte di guardare. Con il suo binocolo-telecomando impara a “isolare scenette di genere”2, a dilettarsi facendo zapping tra i quadri viventi che il palinsesto metropolitano offre al suo sguardo. Possibile trovare già agli inizi del XIX secolo le tracce di una relazione, quella tra la televisione e la casa, che dovrà attendere più di cento anni prima di essere finalmente consumata? Già Richard Sennet aveva visto nella passività obbligata dello spettatore di Hoffmann una rappresentazione perfettamente iscrivibile nella logica della tecnologia televisiva: nella storia del cugino berlinese il sociologo britannico coglie l’anticipazione letteraria di quel “paradosso della visibilità e dell’isolamento”3 che caratterizzerà l’esperienza tv. Rivoluzione industriale, metropoli moderna, ascesa della borghesia: è proprio il XIX secolo che impone alla dimora il compito di “programmarsi come luogo di consumo e di riproduzione dell’immaginario collettivo”4. Aprendo inedite vie d’accesso al suo interno e creando nuove protesi che si propagano verso l’esterno, l’abitare scopre e rivela la sua natura compiutamente audiovisiva. Ben prima che lo facesse la televisione sono state dunque le “fantasmagorie dell’intérieur”5 a inscrivere “l’estrema ubiquità degli altrove nell’estrema immobilità del qui”6. Arredamenti, drappi, ritratti, collezioni. L’intérieur della dimora borghese diventa una wunderkammer, una stanza delle meraviglie, un palco in cui la metropoli si mette in scena e lo spettacolo del mondo e delle sue merci accade. Benjamin ci racconta l’illusione continuamente perduta e nuovamente rincorsa del piccolo borghese che “vuole avere la sensazione che nella stanza accanto avrebbe potuto aver luogo sia l’incoronazione di Carlo Magno che l’assassinio di Enrico IV, la firma del trattato di Verdun o le nozze di Ottone e Teofano”7. L’immaginazione in differita del borghese benjaminiano dovrà attendere l’incoronazione di Re Giorgio VI (1937), prima grande cerimonia in diretta della storia della televisione, per essere pienamente soddisfatta. Ma i desideri e i bisogni del pubblico, così come le strategie spettacolari della loro soddisfazione, erano già sulla scena dell’intérieur ottocentesco. Per funzionare, quel prodromo televisivo che è il salotto borghese ha però ancora bisogno di specchiarsi nella metropoli moderna. Per gestire il paradosso di visibilità e isolamento, per tenere insieme il qui e l’altrove, per trovare un equilibrio tra i suoi ingressi e le sue uscite è necessario che la stanza si affacci sulla metropoli. Che sia il mercato Berlinese del Gendarmenmarkt o l’ubiquità parigina della Tour di Delaunay8, la presenza fisica della città è ancora indispensabile per gestire le nevrosi di un immaginario che è già pervasivamente metropolitano. Dove questa manca, dove la finestra dà sul piccolo paese di provincia, 80


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è ancora troppo forte il rischio di smarrirsi. In Madame Bovary gli ornamenti, i dipinti, le riviste di moda, la pianta di Parigi, i Misteri di Eugène Sue, l’abbonamento allo Spirito dei salotti, il portasigari di seta verde del Visconte rappresentano un altrove che fagocita il qui, oggetti che producono “un immaginario soddisfacimento delle proprie brame”9 condannato a una frustrazione ingestibile. Inutile a questo punto citare a sostegno tutte le numerose ambientazioni salottiere della storia della televisione che continuamente rimettono in scena questa genesi domestica dello spettacolo televisivo. Un riferimento però ce lo concediamo, a un programma che ha fatto la storia della televisione italiana: Bontà loro. Ogni puntata del talk show di Maurizio Costanzo andato in onda tra il 1976 e il 1977 si apriva con il baffuto e paffuto conduttore che andava a chiudere la piccola finestra aperta sullo sfondo della scarna scenografia. Tra lo spettatore e lo schermo non è più necessaria la mediazione dell’altrove metropolitano. La tv, il qui, ha fagocitato l’altrove, la metropoli. E non poteva esserci immagine più credibile per simbolizzarlo di quell’avvolgente rotondità che il conduttore romano morfologicamente condivide con lo schermo tv10. La metropoli è ora uno dei tanti ciuski a disposizione nel ventre di un Doraemon televisivo capace di dare senso al tessuto disteso e disconnesso dell’abitare suburbano del tardo Novecento: “isolata dalle relazioni primarie, l’abitazione suburbana rientra nel circolo della socialità tramite la televisione”11. Anche qui, inutile fare l’elenco delle decine e decine di programmi che attraverso le proprie immagini e la propria ambientazione hanno sancito la perfetta sintonia tra televisione e realtà suburbana12, il loro legittimarsi e finanziarsi reciprocamente (esattamente come avevano fatto un secolo prima cinema e metropoli), le loro affinità elettive. Valga per tutti l’esempio della più longeva delle serie tv animate: I Simpson. La più anonima delle città americane (Springfield), il più anonimo dei quartieri (Evergreen Terrace), la più anonima delle villette monofamiliari, per una narrazione episodica lunga ormai più di venti anni compiutamente suburbana e autoreferenzialmente televisiva. All’apice della pervasività della tecnologia televisiva, quel paradosso di visibilità e isolamento che aveva formato gli interni del salotto borghese ha subito una piccola ma significativa metamorfosi: il nuovo tessuto urbano diffusamente post-metropolitano dell’egemonia televisiva ora pretende che una mobilità assoluta si accompagni all’autosufficienza della residenza familiare13. La dimora borghese ha allora bisogno di trasferirsi nella più spettacolare delle sue protesi all’esterno. Per l’affermazione definitiva di quella forma di privatizzazione mobile descritta da Williams, la televisione 81

9. G. Flaubert, Madame Bovary, Garzanti, Milano 2007 (ed. or. 1856), p. 31.

10. A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 2000, p. 307.

11. A. Miconi, “Flussi. La televisione e l’ordine urbano del capitalismo”, in V. Giordano (a cura di), Linguaggi della metropoli, Liguori, Napoli 2002, p. 176. 12. R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2000 (ed. or. 1994), p. 101.

13. R. Williams, Televisione. Tecnologia e forma culturale, Editori Riuniti, Roma 2000 (ed. or. 1974), p. 46.


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14. A. Abruzzese, D. Borrelli, L’ industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Carocci, Roma 2000, p. 122. 15. R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994 (ed. or. 1971), p. 147148.

16. Si veda M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Net, Milano 2000 (ed. or. 1964).

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necessita di un nuovo complice, di una spalla capace di mettere in moto le fantasmagorie dell’interiéur, di un guscio capace di rinnovare per l’ennesima volta il paradosso della visibilità e dell’isolamento: l’automobile. Le immagini in movimento che l’abitacolo dell’auto offre ai suoi passeggeri-spettatori immediatamente sembrano “anticipare il modello di un’attenzione distratta, automatica e intermittente” che sarà poi propria della fruizione televisiva14. Per sancire questo patto, difficile trovare un esempio più significativo della miticamente moderna Déesse descritta da Roland Barthes. “Esaltazione del vetro”, “nuovo Nautilus”, “embrione di una nuova fenomenologia della connessione”, “spirituale e casalinga”15 : nelle parole con cui il semiologo francese descrive il mito moderno targato Citroën ritroviamo la stessa sublimazione della gestalt televisiva che abbiamo già visto in Costanzo. La Ds è tanto televisiva da incarnare perfettamente anche la più mediologica – e meno immediata – delle sue qualità: “è la grande fase tattile della scoperta, il momento in cui il meraviglioso visivo si accinge a subire l’assalto raziocinante del tatto”. Nelle parole con cui Barthes descrive l’automobile francese non è difficile vedere – o meglio, sentire – una perfetta immagine della partecipazione tattile che la freddezza televisiva pretende dal suo pantofolaio spettatore16.

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L’intérieur Alberto Abruzzese e Luca Massidda

1. Tour Eiffel (Robert Delaunay, 1909). 2. Museum Wormianum (1655). 3. Una scena di Madame Bovary (Vincente Minnelli, 1949). 4. Maurizio Costanzo a Bontà loro (1976-78). 5. Doraemon (Tsutomu Shibayama, 1973). 6. I Simpson (1989-). 7. La sigla di Drive In (1983-88). 8. La sigla di Love Boat (1977-87). 9. Citroën DS (1955-75).

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Sezione III

Flussi

– L’emozione televisiva –

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forme, stili, valori, personaggi

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Il maestro Giorgio Simonelli

la prima immagine che mi viene alla mente, pensando al teatro televisivo, del teatro in televisione o dell’eredità che il teatro ha lasciato alla tv, è un’immagine fotografica. La fotografia si trova all’interno di un libro raro e prezioso, che le bibliografie non citano quasi mai. Fu pubblicato dalla Eri nel 1964 per celebrare i primi dieci anni dell’esercizio televisivo nazionale e si intitola, infatti, Dieci anni di televisione in Italia. Curato dal Servizio documentazione e studi della Rai con il “coordinamento letterario e redazionale” di Geno Pampaloni, raduna alla redazione dei testi un gruppo di autori destinati a chiara e varia fama. Tra gli altri Andrea Camilleri, Paolo Valmarana, Federico Doglio, Emilio Garroni, Brando Giordani, Emanuele Milano, Francesca Sanvitale si dedicano alla ricostruzione dei percorsi seguiti nel decennio dalla produzione televisiva, corrispondenti ai diversi generi televisivi: il giornalismo, lo spettacolo leggero, la tv dei ragazzi e la “drammatica e narrativa”. I saggi introduttivi, impegnati ad approfondire e legittimare, in tempi in cui non era affatto scontato, il rilievo informativo, culturale e spettacolare del nuovo mezzo recavano le firme, ancora più pesanti, di Bonaventura Tecchi, Enrico Fulchignoni, Carlo Bo, Riccardo Bacchelli. Ecco: le pagine di Bacchelli, tutte tese a sostenere la tesi, ai tempi ardita, della continuità tra racconto di cronaca e messa in scena 115


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e a celebrare l’esperienza del teleteatro e la sua estensione nel teleromanzo (era recente il successo de Il mulino del Po), sono accompagnate da fotografie ricche di fascino e di significato. Una riproduce un ambiente domestico, familiare piccolo-borghese: una cucina in cui una donna stira mentre due ragazze fanno i compiti; alle loro spalle, lungo la parete piastrellata, campeggia un televisore e con esso la sua funzione pedagogica, lo stretto legame con l’acculturazione di massa. L’altra è quella, meravigliosa, da cui sono partito. Al centro c’è Eduardo De Filippo. In piedi su una panchetta, abbigliato in completo chiaro, giacca e cravatta; nella mano destra ha gli occhiali, con la sinistra regge un grosso libro e una bacchetta da maestro, o meglio da cantastorie. Alla sua destra, infatti, campeggia un pannello con vari quadri che illustrano una storia triste e popolare di un giovane povero arrestato dai carabinieri (con i pennacchi, come li descriveva Fabrizio de André); ai margini due figure femminili stilizzate, due ombre, incorniciano un quadretto in cui la semplicità, la povertà degli oggetti e dell’ambiente vela la ricchezza e la complessità dei significati. Sono concentrati in quell’immagine tutti i simboli di un’esperienza e di una stagione della teatralità televisiva. Non è tanto o soltanto la presenza di un autoreattore che ne fu grande protagonista a renderla tanto simbolica. Certo, Eduardo è Eduardo: lui che (come racconta una particolareggiata aneddotica ormai sconfinata nella leggenda) voleva tenere il suo teatro lontano dalle telecamere, lui che all’improvvido funzionario Rai che lo cercò presentandosi al telefono come “la televisione” rispose “sì, le passo il frigorifero”, lui che dopo questi difficili approcci fece del suo teatro un monumento televisivo, che fece di una rappresentazione di forte ispirazione locale, dialettale, regionale un appuntamento atteso e partecipato “dall’Alpi a Sicilia”, lui che ancor oggi a quindici anni dalla sua morte ogni volta che va in edicola con un Dvd del suo teatro vende come pochi altri. Eppure non è lui, o meglio non è l’Eduardo attore, protagonista di tante serate di teatro televisivo – in diretta, in Rvm, in Vhs, in Dvd – che dà il senso di quell’immagine. Sono gli oggetti che gli stanno intorno: la bacchetta, gli occhiali, il libro, la panca, il pannello con le illustrazioni. L’ho già detto: Eduardo è Eduardo. È il volto, il corpo, la voce di un grande attore di teatro che va in televisione; è la scrittura di un regista che va in televisione, è il mondo di un autore teatrale che diventa televisione, è un pezzo di teatro, di storia del teatro che diventa televisione. E la cosa vale per lui come per tanti altri. Quante di queste presenze abbiamo visto per un quarto di secolo, tra il 1955 e il 1980, quanti e quali volti, corpi, voci e scritture teatrali sono diventati volti, corpi, voci e scritture televisive. Insieme con Eduardo: Gassman e Albertazzi, Randone e Foà, Moriconi e Cortese, Squarzina 116


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e Strehler, Fo e Bene. Ma queste presenze carismatiche, divistiche, le loro scritture sublimi non sono il cuore della teatralità televisiva, del lascito che la tv ha trovato nel teatro. Il cuore è nella bacchetta e nel pannello della fotografia di Eduardo e in ciò che rappresentano. Ciò che il teatro ha lasciato alla nascente tv non è solo un repertorio, un immenso repertorio, le 2.275 opere messe in scena e in onda tra il 1954 e il 1986 da un gruppo di registi e di attori che vissero l’esperienza del nuovo mezzo come una continuazione della loro attività in teatro, il teleschermo come un’estensione del palcoscenico. La natura teatrale della televisione è nel progetto, nel fine a cui le 2.275 opere, i loro autori e attori mirano. Quello che in profondità passa in televisione del teatro, l’imprinting che il teatro lascia sulla tv statu nascenti è racchiuso in due parole che non si possono più pronunciare ma che, a mio rischio e pericolo (già mi fischiano le orecchie), non posso fare a meno di rispolverare. La prima parola è “pedagogico”. Quell’essere un grande apparato educativo, una fucina di storie, di personaggi, di azioni, capace di suscitare problemi, di dare indirizzi, di proporre modelli, quel modo di considerarsi e di proporsi che si definisce appunto pedagogico e che aveva caratterizzato il teatro in varie epoche e culture, era la ragione e la natura della televisione. Senza remore, senza timori reverenziali, senza paura di fare la parte della maestrina, con gli occhiali, il libro e la bacchetta tranquillamente esibiti da Eduardo. Una pedagogia che non solo utilizzava in gran quantità il repertorio teatrale per trovare le storie da raccontare, i personaggi e gli interpreti e si affidava ai “teatranti” per raccontarle, per riscriverle in forme televisive, ma che estendeva il modello di rappresentazione del teatro a testi di altra origine e a messaggi di altra natura: alla fiction con la teatralizzazione della narrativa, alla divulgazione della storia e alla pubblicità con quel grandioso teatrino di Carosello. L’altra parola, forse ancor più impronunciabile – ma senza la quale anche “pedagogico” non ha senso –, è “popolare”. La televisione è un teatro popolare e anche qui la fotografia di Eduardo, con il richiamo al cantastorie, lo dice chiaramente. Ma popolare non significa più nulla; se riferito alla televisione poi, peggio che andar di notte, con tutte le confusioni che hanno portato la definizione “nazional-popolare” dalla versione gramsciana a quella baudiana. Però la fotografia è così chiara ed eloquente che supera tutte le ambiguità dell’aggettivo, tutte le questioni che lo hanno svuotato di significato. Guardando quell’immagine sembra di capire al volo perché, come e in che senso lì, con Eduardo ma non solo, con Albertazzi e Gassman, con quelli che abbiamo citato e i tanti che non abbiamo citato, la tv era un grande teatro popolare. Lo era quando metteva in scena storie semplici o un po’ troppo semplificate (come dicevano i critici dello sceneggiato), ma 117


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lo era anche quando rappresentava testi di una certa complessità, opere di autori che all’epoca non comparivano ancora nei programmi dei licei e forse neppure di tutte le università. C’è una storiella raccontata da Andrea Camilleri in uno dei suoi libri meno noti, una raccolta di modi di dire del suo “ paese di terra e di mare” con breve spiegazione della loro origine. Il volumetto si intitola Il gioco della mosca e propone tra le altre, ordinate alfabeticamente, la voce Sunnu cose di Pirinnellu. “Sono cose di Pirandello”: così nell’agrigentino, patria di Pirandello e di Camilleri, già dagli anni Trenta i contadini e i pescatori commentavano le “situazioni familiari intricate, di persone date per morte e improvvisamente riapparse o di persone credute vive che invece erano morte da tempo”, facendo “stingere sull’uomo Pirandello i non facili colori dati ai suoi personaggi”. Nell’estate del 1960 Camilleri si trovava nella sua casa del paese d’origine, in vacanza, e una sera mentre guardava la tv che trasmetteva l’Enrico IV di Pirandello si presentò un vecchio contadino chiedendogli il favore di stilare una lunga e complessa petizione. Mentre Camilleri scriveva il testo, il contadino si sedette davanti alla tv, facendosi “sempre più attento, chino in avanti, le braccia appoggiate alle gambe”. La compilazione dell’atto terminò quando anche la trasmissione era terminata e lo scrittore, consegnando all’ospite il lavoro, gli chiese se aveva gradito lo spettacolo a cui aveva casualmente assistito. “Bah! – rispose il contadino con una smorfia – C’è uno che dice di essere imperatore ma non lo è per davvero. Però lo diventa sul serio quando gli fa comodo per scansarsi da un omicidio. E gli altri ora ci credono, ora no. Mi parinu cose di Pirinnellu”. Ecco in questo formidabile raccontino, reso ancor più gustoso dal particolare, nascosto nel testo, che Camilleri era sceneggiatore e regista della prosa televisiva, e anche di alcune messe in scena di Pirandello, in questa storiella di una pagina c’è la conferma e l’illustrazione più chiara e convincente di quel fenomeno che abbiamo chiamato la pedagogia popolare teatral-televisiva. Una teatralità diffusa, organica – come si sarebbe detto un tempo –, liquida – come si direbbe oggi –, che porta uno dei lavori più ostici e complessi di Pirandello in una prima serata estiva (forse una replica?) e cattura l’attenzione – si sa non c’erano il telecomando e gli altri canali, ma la possibilità di uscire, sì – di un contadino analfabeta che non solo legge a modo suo il testo, ma lo inserisce all’interno di una visione del mondo codificata in un modo di dire del suo paese. Una diffusione della teatralità trasversale ai palinsesti e al territorio, una divulgazione del nuovo, dell’avanguardia – tale era Pirandello nel 1960 –, che si inserisce naturalmente nelle categorie della tradizione popolare locale.

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Il maestro Giorgio Simonelli

1. Il “maestro” Eduardo de Filippo con bacchetta e lavagna. 2. Amleto con Carmelo Bene (1977). 3. Vittorio Gassman ne Il mattatore (1959). 4. L’idiota con Giorgio Albertazzi (1959). 5. Fotogramma dallo sceneggiato Il conte di Montecristo (1966). 6. Arlecchino servo di due padroni di Giorgio Strehler (1951). 7. Giorgio Gaber con Gianni Morandi nel programma Questo e quello (1964).

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Appendici

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Nota del cur atore

Nota del curatore

vi sono libri che – nel momento in cui si progettano e si realizzano – sembrano svelare il senso del proprio cammino. Giunto alla curatela del mio terzo atlante (il primo è stato il Dizionario della pubblicità. Storia, tecniche e personaggi – Zanichelli, 1994 – curato con Alberto Abruzzese; il secondo l’Atlante della comunicazione, realizzato per Hoepli nel 2005), mi è appunto capitato di ritrovare un vecchio compagno di strada, Aby Warburg, con le sue ossessioni per la raccolta iconografica e la storia dell’arte e della cultura. Vecchio compagno di strada dicevo, e a buona ragione, visto che lo incontrai per la prima volta durante la stesura del mio primo libro, Gli archivi imperfetti (Vita e pensiero, Milano 1986), studiando i lavori di Frances Amelia Yates, allora personaggio di spicco del Warburg Institute londinese (The Art of Memory, 1966, tr. it. L’arte della memoria, Einaudi, Torino 1972). Le questioni poste dallo studioso tedesco non sono mai uscite, da allora, dal mio campo di interesse, anche se con fasi alterne. La ricostruzione delle vicende del Warburg Institute operata da Carlo Ginzburg si è accompagnata alla lettura e rilettura del suo famoso saggio “Spie. Radici di un paradigma indiziario” (ora in C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie, Einaudi, Torino 1992), che mi fu di grande utilità per la stesura di un lavoro pubblicato ne Il prodotto culturale. Teorie, 153


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L’esplor azione del noto

L’esplorazione del noto Marco Cendron

portando lo sguardo a una distanza ridotta dal soggetto e combinandolo con un uso sfacciato del flash, Jacopo Benassi crea immagini sfrontate, nelle quali l’osservatore condivide non solo il punto di vista dell’obiettivo, ma anche lo spazio occupato dalla lampada che illumina il soggetto e che determina, con la sua presenza, la visione stessa. Queste fotografie ci rendono consapevoli dello sguardo come esperienza fisica. Nell’atto di fotografare, Benassi sembra non preoccuparsi del soggetto e di ciò che esso rappresenta, anche quando si tratta dell’Arte, della Cultura. Nelle sue immagini non si trovano né arroganza né reverenza, piuttosto lo sguardo di un fotografo che sembra osservare tutto come fosse la prima volta, come venisse da un luogo altro. Concentrandosi su dettagli inattesi, ci restituisce soggetti incredibilmente vivi, immagini che trovano profondità lì dove non avremmo mai guardato, per pudore o per noia. Un punto di vista che crea un soggetto nuovo. Il semplice rapporto triangolare tra fotografo, osservato e osservatore, vive così un’incredibile combinazione tra leggerezza dello sguardo e violenza della luce.

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TRACCE

Atlante warburghiano della televisione a cura di Fausto Colombo con fotografie di Jacopo Benassi Proprietà letteraria riservata · © 2010 RTI ISBN 9788895596075

direttore editoriale

Marco Paolini direttore

Laura Casarotto editor

Fabio Guarnaccia coordinamento redazionale

Luca Barra

si ringrazia per la collaborazione: Fondazione Cardinale Federico Borromeo, Biblioteca Ambrosiana, De Agostini editore, Giorgio Ricchebuono, don Francesco Braschi, Antonio Scuderi, Francesco Tempesta, Alessia Assasselli, Gabriella Mainardi. e-mail link2link@mediaset.it sito www.link.mediaset.it blog www.linkmagazine.blogspot.com link · rti Viale Europa, 48 20093 Cologno Monzese (MI)

art director

Marco Cendron progetto grafico Pomo impaginazione Alessandro I. Cavallini illustrazioni Scarful

L’editore si dichiara disponibile a colmare eventuali omissioni relative a testi e illustrazioni degli aventi diritto che non sia stato possibile contattare. finito di stampare da tipografia negri · bologna · nel mese di marzo 2010

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ricostruire le tracce di una storia culturale della televisione, e di quanto questa storia ci lascia in eredità. Affrontare per immagini, percorsi e mappe i temi più interessanti comparsi sul piccolo schermo. Seguire gli snodi del medium nel tempo, le sue costanti e le sue evoluzioni. Questi sono gli intenti di Tracce, un atlante che cerca di rendere espliciti i legami della tv con la tecnologia, l’arredamento, le arti grafiche, la letteratura, il teatro e gli altri media, così come con le relazioni sociali, gli spazi, i rituali. Il volume fa proprio – e adatta alla storia della televisione – il modello pensato (per la storia dell’arte) da Aby Warburg, che nel 1929 presentò a Roma il progetto di un atlante illustrato sulle antiche divinità nella cultura europea, da sviluppare con la raccolta e la giustapposizione di materiale iconografico anche molto eterogeneo. E stabilisce così legami e corrispondenze tra immagini, fotografie, testi, programmi. A corredo del lavoro, un servizio fotografico originale porta in primo piano luci e ombre della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Tracce è insieme una provocazione intellettuale e un oggetto di design, da consultare e collezionare. Un nuovo tassello nella storia della tv.

Contributi di: Alberto Abruzzese, Piermarco Aroldi, Giuseppina Baldissone, Andrea Bellavita, Fausto Colombo, Manolo Farci, Luca Massidda, Giorgio Simonelli, Matteo Stefanelli.

€ 25,00 ISBN 88-95-59607-5


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