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editoriale
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Non è una novità: la mole di informazioni che abbiamo a disposizione è cresciuta esponenzialmente nel corso degli ultimi anni. Motori di ricerca, link e database intelligenti ci permettono di recuperare gran parte di quello di cui abbiamo bisogno. Il problema è diventato esattamente l’opposto. La veridicità dell’informazione e l’attendibilità delle fonti sono due questioni che, per esempio, il giornalista deve affrontare ogni giorno quando scrive o commenta qualcosa di cui non è stato diretto testimone: è vero che se lo fosse si porrebbe il tema degli schemi interpretativi nella descrizione della realtà, ma per ora ci accontentiamo del livello più semplice della cosa. Vengono generati sempre più dati: calcolatori, software, sistemi di trasmissione e condivisione, a costi decrescenti ogni anno, permettono questa proliferazione, e in certo senso la determinano. A volte abbiamo l’illusione di poter seguire il comportamento di ogni singolo attore di un dato mercato, non solo in maniera puntuale ma addirittura diacronicamente, lungo tutta la sua esistenza. Ovvero di trasformare la massa di dati in informazioni. Negli anni ci siamo inventati di tutto per raggiungere questo scopo: segmentazioni socio demografiche, cluster, psicografia (qualcuno ricorda i “Cipputi” e i “Delfini”?), analisi di regressione (lineare, multipla, non lineare) eccetera. Questo numero di Link affronta un “particolare” di questa illusione. Quello più spettacolare. La rappresentazione grafica delle informazioni. O meglio, come trasformare i dati, attraverso la grafica, in informazione intelligibile. Ci siamo divertiti a fare qualche sperimentazione, e la mettiamo a disposizione dei lettori. Che ovviamente, nel resto del numero, sono aggrediti da centinaia di altri dati e informazioni su tutt’altre questioni. Per rimanere in tema. Buona lettura, Marco Paolini 5
calabria
sicilia
sardegna basilicata campania
Che genere d’Italia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 77
1995
1996
1997
Tele+ diventa digitale
Parte Stream
1998
1999 Sviluppo di Napster
evento Calcio
diritti Film
Il pubblico fuori dalla casa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 87
autoprodotto Intrattenimento
autoprodotto Informazione
autoprodotto Fiction evento Sanremo
evento Religione
Flussi d’incoscienza. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 107 evento Premiazione
evento Sport basso
medio
0,5 m
evento Miss Italia
6 alto
1m diritti
evento Politica
00:00
18:00
06:00
Tutto l’ascolto minuto per minuto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 113 12:00
Parole, parole, parole.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 125
Personaggi dispersi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 133 7
Cover story LINK 10
DECODE OR DIE L’infografica applicata alla tv con elaborazioni grafiche di DensityDesign e testi di Donato
Ricci e Matteo Bittanti da pag. 74
La moltiplicazione dei dati: una complessità che minaccia di schiacciarci. Le visualizzazioni grafiche, come le carte geografiche dei grandi esploratori, sembrano l’unica strada per capire chi siamo e dove stiamo andando. I disegni, gli insiemi, le mappe e gli schemi sono per l’uomo del XXI secolo quello che la psicanalisi è stata per l’uomo del secolo scorso. Sempre di più, l’ infografica conquista il centro della scena. Diventando l’unico modo per avvicinarsi a una comprensione completa dei fenomeni. O trasformandosi fino a sembrare un’opera d’arte. Anche stavolta, Link prova a raccontare il mondo televisivo. Ma solo con l’ausilio delle immagini. La massa è la mia diversità..................... 17
Eccola, dunque, la rivoluzione. ............ 177
Intervista a Walter Siti
Il software entra in tv (con Google, Apple & Co.)
di
Francesco Borgonovo
di
Carlo Alberto Carnevale Maffé
Walter Siti, critico de La Stampa e romanziere, ci regala le sue riflessioni sulla tv di oggi e su quello che la circonda. E ci dice che la tv si è fatta borgata più di quanto le borgate si sono fatte tv.
Altro che nuovi media. Apple, Google e le corporation del web hanno intrapreso l’assalto alla diligenza della “vecchia” televisione. Molliamo il telecomando, adesso arriva il browser.
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Fuori format. ........................................... 29
This week in zombies................................ 213
Come (e perché) l’anti-tv si fece tv
Le false notizie, il loro ciclo di vita e le persone che rendono possibile tutto ciò
di
Massimo Scaglioni
di
Violetta Bellocchio
Mica solo Fazio e Saviano. La tv che fa finta di non esserlo, e cerca di diventare evento, comincia ad avere una lunga storia. Tra serie e fuori serie, uno sguardo alternativo per capire che succede.
Siamo talmente circondati da fandonie, esagerazioni e notizie di dubbia provenienza che non ci facciamo più caso. La realtà virtuale è tutto intorno a noi. Il falso è il nuovo vero.
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Bestiario televisivo............................... 174
streghe, noi?. ......................................... 229
L’ospite e Il regista
L’ascesa comunicativa del Tea Party e i dubbi sul futuro
di
Giovanni Robertini
di
In una nuova rubrica di Link, i primi ritratti delle “strane bestie” che popolano il mondo televisivo. Tra paranoie e trucchi del mestiere, atteggiamenti spavaldi e idiosincrasie d’autore.
Stefano Pistolini
Obama governa e pensa alla ricandidatura, ma qualcosa ribolle nel basso ventre dell’America. Sono i Tea Party, che si fanno strada sui media e nel partito repubblicano. E ora, che succede?
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SOMMARIO
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editoriale................................................................................................................ 5
product intervista a.. ..............
Walter Siti..... di Francesco Borgonovo....................... 17
La “violenza” di…. .. di Aldo Grasso. ........................................ 26 Fuori format. ................................................. di Massimo Scaglioni.............................. 29 divagazioni semi-serie.............. True Blood e…........ di Dr. Pira.................................................. 38 A proposito di HBO.......................................... di Mariarosa Mancuso........................... 41 il nuovo e il sempre uguale.. .......
intervista a.. ..............
Hagai Levi........ di Stefania Carini.................................... 47
Dove eravamo rimasti?................................ di Nico Morabito..................................... 52 Siamo factual................................................. di Manolo Farci. ....................................... 55 Estero. Share e top ten.. ........... Il fascino….............. di Paola Capra........................................... 63 .................................... Originali d’autore.... di Ludovica Fonda................................... 65 COVER STORY
DECODE OR DIE L’infografica applicata alla tv
Che genere d’Italia................................................................................................................ 77 Il pubblico fuori dalla casa............................................................................................... 87 Flussi d’incoscienza........................................................................................................... 107 Tutto l’ascolto minuto per minuto................................................................................... 113 Parole, parole, parole. ....................................................................................................... 125 Personaggi dispersi............................................................................................................. 133 In poche parole............................................... di Donato Ricci...................................... 143 La vita vista da lontano................................ di Matteo Bittanti. ............................... 155
INDUSTRY
Una nave fantasma......................................... di Antonio Dini...................................... 165 Bestiario televisivo................ L’ospite e il regista.. di Giovanni Robertini. ......................... 174 Eccola, dunque, la rivoluzione. .................... di Carlo Alberto Carnevale Maffé. . 177 Il social fuori dal network. ......................... di Michele Boroni................................. 187 Sguardi sul mercato globale.. ..... India................................................................................................ 193
SIGHTS
Creare falsi su Wikipedia............................... di Stefano Ciavatta............................... 205 This week in zombies....................................... di Violetta Bellocchio........................ 213 Convergenze separate.................................... di Paolo Interdonato........................... 219 Non sono morto, volevo solo vedere….. di Violetta Bellocchio........................ 226 Streghe, noi?. ................................................. di Stefano Pistolini............................... 229 Visioni laterali..................... Dataismi...................... di Francesco Spampinato..................... 237 Portfolio.. ......................... Christiane Baumgartner. .............................................................. 245
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Illustrazioni
Claudio Parentela
ha realizzato i separatori
È un illustratore, pittore, fotografo, artista, collagista, cartoonist, giornalista freelance e altro ancora. Attivo da anni nella scena underground internazionale, ha collaborato e collabora con magazine di arte contemporanea, letteratura e comics in Italia e nel mondo. I suoi lavori sono esposti in molte gallerie sul web. www.claudioparentela.net
Elena Rapa
ha realizzato le illustrazioni di Product
Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Macerata e di Roma, e ha esposto in varie gallerie italiane, tra cui la Galleria Antonio Colombo e la Galleria Cannaviello di Milano, il Dorothy Circus e Mondo Bizzarro di Roma, l’Ortobotanix di Bassano del Grappa, e in mostre pubbliche come Arte italiana (Palazzo Reale, Milano), Allarmi (Como) e la Biennale di Praga. Ha pubblicato illustrazioni in Antropoide, Lamette, CollettivoMensa, XL, Ipercarta e in altri mensili di arte visiva. È presente nei volumi Laboratorio Italia, nuove tendenze in pittura (Johan e Levi), Italian Neobrow (Giancarlo Politi) e Pop up! Arte contemporanea nello spazio urbano (Panini). Collabora alla fanzine di illustrazione e fumetto Graffa. elenarapa.blogspot.com
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A
Cristina Amodeo
ha realizzato la mappa della metropoli televisiva
Nata a Verbania, dopo il liceo si trasferisce a Milano, dove frequenta un corso di illustrazione. Dal 2008 lavora come illustratrice freelance e realizza immagini per progetti differenti collaborando con magazine, associazioni, blog e case editrici. Nel tempo libero viaggia, produce liquore al cioccolato e colleziona voliere. www.flickr.com/rubalaparruccarosa
Enrica Casentini
ha realizzato le illustrazioni di Industry
Diplomata all’Isia di Urbino, successivamente frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia al dipartimento di Animazione a Torino. Selezionata al concorso internazionale di illustrazione Bologna Bookfair 2008, nel 2009 vince il premio Iceberg e partecipa alla Biennale d’arte del Mediterraneo a Skopje. Ha collaborato con la rivista letteraria statunitense Black Warrior Review. Vive e lavora a Londra. 5
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enrica-casentini.blogspot.com
GRUPPI EDITORIALI Rai
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Mediaset Telecom e altre terrestri
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Sky e altre satellitari Mediaset Premium
Stefano Adamo Mayakasa
CANALI
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ha realizzato le illustrazioni di sights
78 Sky Calcio 8 La5 Sky Uno +1 79 Sky Sport 24 Rai 4 Sky Calcio 1 artistico a base di graffiti wriDopo un 80 background La7d 81 Rai Sport 1 ting, studia prima Arti visive a Milano e poi Fine Art a Mediaset Extra 82 Premium Calcio / HD Londra. Ha83 lavorato Cielo Rai Sport 2per Andrea Caputo alla pubblicaIris Sky Writers. Calcio 2 Crea artwork per marchi come zione di All84City Comedy Central 85 Eurosport Sony Music, Rai Premium 86 Smoking Poker Italia 24e Porsche, e per enti pubblici e Sky Uno 87 Eurosport News indipendenti e autoprodotti privati. Realizza progetti Lei 88 Sky Calcio 12 con il collettivo MoodMorning. Appassionato di cultuItalia 1 89 Sky Calcio 5 Raitre 90 ESPN re underground, neClassic amaSport soprattutto l’arte e l’editoria. La7 91 Sky Sport 1 Raidue 92 Premium Calcio 2 Raiuno mayakasa.tumblr.com 93 Supertennis Canale 5 94 Sky Calcio 11 Retequattro 95 Sky Sport 2 Fox Crime +1 96 Premium Calcio 3 Rai Movie 97 Sky Calcio 4 Fox Crime / HD 98 Betting Channel Sky Cinema Max +1 99 Sky Calcio 7 Sky Cinema Family 100 Sky Calcio 6 Sky Cinema Hits 101 Sky Sport Extra Sky Cinema +24 102 ESPN America AXN / HD 103 Sky Calcio 9 Fox / HD 104 Premium Calcio 5 Coming Soon Television 105 Sky Sport 3 Sky Cinema Italia 106 Premium Calcio 4 Sky Cinema 1 107 Sky Calcio 10 Cult 108 Sky Calcio 14 Jimmy 109 Sky Calcio 3 Fox Retro 110 Sky Calcio 15 Sky Cinema +1 111 Premium Calcio 6 Fox +1 112 Eurosport 2 Sky Cinema Max 113
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Product
intervista a
Walter Siti
La massa è la mia diversità
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Francesco Borgonovo
di illustrazioni di Elena Rapa
Davanti a casa di Walter Siti dovrebbe esserci la fila. Una bella coda, lunghissima, di pellegrini in attesa di abbeverarsi alla sua saggezza. Se c’ è uno scrittore italiano che abbia saputo raccontare il nostro Paese – peraltro senza l’arrogante pretesa di farlo – quello è lui. E lo ha fatto parlando quasi esclusivamente di se stesso e delle sue ossessioni, creandosi un alter ego che per tre romanzi – Scuola di nudo, Troppi paradisi e Il contagio – ha scandagliato l’uomo e lo scrittore Siti in ogni dettaglio. Inoltre, gli si deve il più bell’ incipit degli ultimi vent’anni di narrativa italica: “Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa”. Comincia così Troppi paradisi, il libro che più di ogni altro ha messo in scena, nella sua finzione e nella sua verità estrema, il mondo della televisione, e di quella italiana in particolare. Walter ha spiegato la tv nell’unico modo in cui era possibile farlo, raccontandone il funzionamento e concludendo (almeno così pensiamo) che il piccolo schermo non va capito, va semplicemente guardato. Però purtroppo la fila davanti a casa sua non c’è. Abita a Roma, vicino a piazza Risorgimento, in un casermone che ha molto di popolare, ricorda un po’ la classica “casa della nonna”. Solo che il suo appartamento è foderato di libri e imbottito di foto d’uomini nudi col fisico scolpito, il collo gonfio e le braccia enormi. Mi apre cordiale, in vestaglia, e mi fa accomodare in salotto. La prima cosa che mi chiedo è dove guardi la televisione (è anche il critico televisivo de La Stampa, dunque deve guardarla parecchio). Ma non mi pare che tra poltrone e divani ci sia un luogo privilegiato per l’adorazione del piccolo schermo. 17
Francesco Borgonovo è caporedattore cultura di Libero e vicedirettore di Satisfiction.
LINK 10 Product La massa è la mia diversità
Walter, oltre a guardarla, la tv l’ha anche “fatta”, come si dice di solito: l’ha vista dall’interno. Dunque non la può liquidare alla stregua di una “cattiva maestra”, come fa la maggior parte degli intellettuali italiani. Gli butto lì la domanda: “Aldo Busi mi ha detto in un’intervista che hai lavorato con Alda D’Eusanio”. “No, ho lavorato per Al posto tuo, ma la D’Eusanio non lo conduceva già più. C’era Paola Perego, alla quale poi è subentrata Lorena Bianchetti. Ma dovevo solo scrivere le storie dei vari protagonisti. Io purtroppo la televisione non l’ho fatta quanto avrei voluto. Mi sarebbe piaciuto lavorare per programmi mainstream. Ho lavorato anche con Enrico Papi, per un programma che si chiamava Jackpot. Però anche in quel caso non sono entrato a fondo nel meccanismo. Dovevo solo scrivere le domande, era un lavoro sporadico, ne mandavo da casa cento o duecento alla volta, e finiva lì”. Quindi che programma scriverebbe oggi Walter Siti se ne avesse la possibilità (produttori all’ascolto, drizzate le orecchie)? “Farei un programma sull’alfabetizzazione sentimentale. Un po’ come il maestro Manzi, insegnerei a parlare dei sentimenti”. Beh, esistono già Love Line, Sex Academy, … “No, lì si parla di sesso, è diverso, ognuno se la gestisce per conto suo. Sui sentimenti ormai c’è un tale casino… E poi non vorrei soltanto parlare d’amore, ma anche di odio, d’invidia, di orgoglio, di euforia e di tanti sentimenti che rischiano di abortire prima di esser nati”. Siti non ha perso l’ottimismo nei confronti della scatola magica: quando mi spiega il format che ha in mente sorride candido come un bambino, appare entusiasta. Eppure tempo fa, durante un’altra conversazione, mi aveva detto che lavorare dietro le quinte “è stata un’esperienza bella per l’intensità con cui si lavora; sempre con l’acqua alla gola, sempre con la tensione addosso, adrenalina a mille – in confronto, il campo letterario sembra una bocciofila per pensionati. Ma non buona quanto al valore di ciò che si fa, con la brutta sensazione che fossero più o meno tutti rassegnati alla merda”. Beh, la rassegnazione alla merda pare svanita. E da spettatore, come si avvicina alla televisione Walter Siti? “Il mio programma preferito è lo zapping. Senza lo zapping entro in astinenza. Il momento che preferisco è quando mi metto un paio d’ore alla sera a girare i canali. Ho Sky e il digitale, arrivo fino a Current e poi torno indietro. La cosa più bella di questo modo di guardare la tv è che non aspetto i programmi, ci capito sopra. Per me, stranamente, la cosa che funziona di più è questa: il caso. Sono felice quando mi capita di guardare Jersey Shore o di trovare Chef per un giorno. Oggi sei spinto a programmare, a registrare tutto. Invece non sapere che cosa troverai sullo schermo è bellissimo. Io, per esempio, non affitto mai i film, perché poi guardarli mi sembra un obbligo. Invece l’aspetto liberatorio è proprio quello della casualità. L’opera televisiva che mi piace è dadaista. E non penso a Blob. Anzi, non mi piace perché lì la selezione la fanno già gli autori”. Dico a Walter che tra i miei programmi preferiti c’è La Corrida. “Trovo che la conduzione di Flavio Insinna sia molto valida. Mi ricordo per esempio questa scena, che ora si trova su YouTube. Si esibisce una cantante scozzese,
Non sapere cosa troverai sullo schermo è bellissimo, la casualità dello zapping è liberatoria
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canta I Believe I Can Fly e Insinna si mette a piangere. Ecco, questo è lo specifico della televisione”. Una delle accuse che più spesso vengono mosse alla tv, specie negli ultimi tempi, è quella di regalare una via preferenziale per la celebrità, una scorciatoia che tutti vogliono prendere. Non si tratta soltanto dei warholiani quindici minuti di fama, ma di qualcosa di più, del desiderio di “svoltare”, di cambiare vita senza fare troppa fatica. Tempo fa Siti mi offrì una definizione piuttosto cruda di che cosa significhi oggi “essere famoso”: “La definizione varia a seconda dei periodi. Il senso per cui, anticamente, si considerava famosa una persona – perché aveva fatto cose importanti, capaci di restare nella storia – è passato in sottofondo. Famoso è chi ha visibilità sui mezzi di comunicazione. Tutti si riempiono la bocca con la ‘società dello spettacolo’, ma ho la sensazione che non esaminiamo fino in fondo le conseguenze della definizione. Lo spettacolo è una forma d’arte e se viviamo in uno spettacolo vuol dire che le regole dell’opera d’arte valgono anche per la vita: per esempio, la non-pertinenza dei concetti di vero e falso, e il prevalere della forma sul contenuto”. Ora però, sui giornali e nei talk si esagera con il moralismo sulle mamme che portano le figlie in coda ai provini per il Grande fratello o Veline. Essere famosi, dopo tutto, non è brutto. Anzi, può essere molto piacevole, e non capisco perché uno non possa legittimamente aspirare alla notorietà. “Certo che non è brutto. Il problema è un altro. Non voglio fare il moralista, ma mi chiedo: se poi ti va male, che genere di paracadute hai? Basta vedere che cosa è successo a chi ha fatto i reality”. L’unico che è riuscito a distinguersi in modo netto è stato Pietro Taricone. Ricordo una considerazione molto intelligente di Tommaso Labranca: è stato l’unico a perdere il patronimico “del Grande fratello”. Era Taricone, non “Pietro del GF”. “Vero. È successo anche a Luca Argentero, che ha fatto un altro tipo di carriera. Ma gli altri?”. Gli altri si barcamenano fra serate, ospitate, ruoli da inviato… “Conosco la storia di uno dei partecipanti, non voglio dire il nome”. Me lo ricordo. Partecipò una volta a un programma domenicale Mediaset, credo che fosse il 2007. Raccontava che, dopo qualche apparizione, non l’avevano più chiamato, e non riusciva a pagare le bollette. “Ecco. Ha fatto un po’ di comparsate, la gente intorno a lui per un po’ l’ha favorito, dopo tutto era ancora famoso, era quello che aveva partecipato al Grande fratello. Poi è finita. So che è strafatto di droga, che se la pagava vendendo i vestiti che gli regalavano prima, quando faceva le serate. Per queste persone riadattarsi è difficile. Per un po’ sei famoso, ma poi devi vivere altri quarant’anni. Il problema vero è la mancanza di mediazioni. Il fatto di diventare famoso ti abitua a pensare che tu possa farne a meno. Un conto è se uno si costruisce quello che ha in una vita, ma se non lo fai poi riadattarsi è molto difficile”. Siti ha curato l’edizione dei Meridiani Mondadori su Pasolini, si è sempre dedicato all’esplorazione e al racconto delle borgate. Una volta gli chiesi come fosse arrivato a interessarsi a questo mondo: “Mi occupo delle borgate”, mi rispose, “perché penso che siano il sintomo di qualcosa di più generale che sta accadendo. Ci sono dei modi di vedere la vita che per quelli che una volta si chiamavano sottoproletari erano delle verità date, cose naturali: l’assenza di futuro, l’impossibilità di programmare la propria vita, un misto di fatalismo e di imprudenza, il fatto che, in fondo, qualunque azione sia a somma zero, che non ci sia poi molta distinzione fra legale e illegale, che tutto si risolva con la frase, ‘E che problema c’è?’. Mi sembra che tutto questo si stia estendendo 19
LINK 10 Product La massa è la mia diversità
Fuori format
LINK 10 Product
Come (e perché) l’anti-tv si fece tv di Massimo Scaglioni
Una corrente sembra attraversare la stagione tv: quella di programmi-evento che di televisivo hanno ben poco, e che sembrano persino materia estranea catapultata per sbaglio dentro il televisore. Ma se invece anche questo, ormai, fosse poco più che l’ennesimo genere? E se si potesse rintracciarne la storia tra le pieghe dei programmi e dei volti del passato? Del resto, prima di Fazio e di Saviano, altri autori, da Arbore a Fiorello, da Santoro a Celentano, hanno provato a “domare” l’anti-televisione…
illustrazioni di Elena Rapa
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È ricercatore presso l’Università Cattolica di Milano, dove insegna Storia dei media. È coordinatore delle attività di ricerca del Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi) dell’Università Cattolica e collabora con il Corriere della Sera e Il grande talk (Tv2000). Fra le sue pubblicazioni, Tv di culto (Vita e Pensiero, Milano 2006), MultiTv. L’esperienza televisiva nell’età della convergenza (con A. Sfardini, Carocci, Roma 2008), Arredo di serie (con A. Grasso, Vita e Pensiero, Milano 2010) e Televisione convergente (con A. Grasso, Link Ricerca, Milano 2010).
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P
iù che “incarnazione della televisione”, com’è definita dal suo mentore e amante, Diana Christensen, impareggiabile figura satirica disegnata dalla penna di Paddy Chayefsky, incarna del piccolo schermo la sua logica implacabile e, forse, universale. Da intellettuale “interno” alla macchina mediale, Chayefsky tratteggia fin troppo minuziosamente, nei dialoghi di Network, tale logica, spingendola all’eccesso nella raffinata parodia del mondo dei tv executive americani. Nel visionare in moviola le immagini di una rapina compiuta alla Flagstaff Independent Bank da un gruppo di marxisti eretici votato alla lotta armata – denominato Ecumenical Liberation Army che riprende in pellicola le proprie imprese criminali – Diana sente esaltare il proprio fiuto di produttrice (“questa è roba fantastica!”) ed enuncia la propria filosofia: “non ho fatto che dirvelo, da quando ho preso questo lavoro sei mesi fa, che voglio programmi arrabbiati. Non li voglio i programmi convenzionali, su questa rete, li voglio contro-culturali, li voglio anti-sistema”. Diana, “a racist lackey of the imperialist ruling circles”, come si presenta poco dopo, è a capo del “servizio programmi” di una rete che è diventata una “barzelletta industriale” per la sua offerta scadente, ed è alla ricerca di qualcosa di veramente esplosivo: non “l’irresistibile serie sui nuovi avvocati, con protagonisti un ex giudice della Corte Suprema, burbero ma bonario, una bella studentessa in attesa di laurea e un procuratore distrettuale molto brillante e abbastanza di larghe vedute”; non certo “la squadra delle amazzoni, con protagonisti un burbero ma bonario tenente di polizia che viene sempre tartassato dall’ispettore-capo, un testardo e risoluto detective che pensa che le donne debbano stare in cucina e una brillante e bellissima ragazza poliziotto che combatte la battaglia femminista”; non, infine, “un burbero ma bonario direttore di giornale…”. Provvidenzialmente piomba dal cielo, sulla sua scrivania, un vecchio anchorman sboccato e sbroccato, in patetico equilibrio fra un glorioso passato di cronista e un più prosaico presente alcolico: ecco la soluzione per risollevare le sorti della rete. È pressoché noto a tutti il prosieguo di Network, il cui titolo italiano (Quinto potere) perde molto dell’acida vena satirica che Chayefsky riversa sul mondo della televisione, per sposare in toto una critica un po’ scontata del potere del “grande fratello”. Qui ci interessa piuttosto il cruccio di Diana Christensen. Mente sveglia, fresca e cinicamente lucida, Diana comprende perfettamente che di televisioni, in verità, ce ne sono due. C’è quella convenzionale, “formulaica” fino all’esasperazione, che racconta sempre la stessa edificante storia del protagonista burbero ma bonario e della sua bella controparte femminile… Poi c’è la tv che esplode come dinamite nelle case degli spettatori, che surriscalda il mezzo con la sua lava rovente, che incolla allo schermo gli occhi di tutti, comunque la pensino, solidali con le immagini trasmesse o profondamente indignati per quello che va in onda. Nella finzione di Chayefsky e Sidney Lumet, questa seconda televisione si incarna nelle prediche esasperate di un vecchio anchorman ubriacone, ma anche in un trash show con indovini al posto di giornalisti che (anno 1976) anticipa alcune tendenze della tv americana successiva (si intravede già l’ombra sinistra di Jerry Springer). Qualcosa di inusuale, di nuovo, di mai visto, di vitale, … Il cruccio di Diana è però più profondo, si trasforma in un autentico problema. Perché il suo compito, la sua missione si avvicina alla quadratura del cerchio: spingere l’anti-tv dentro il perimetro della tv. Normalizzare l’eccezione, “formattizzare” l’imprevisto. Un omicidio in diretta è la grottesca so30
luzione del problema di Diana, almeno nella finzione. Ma il problema, nella realtà, non trova effettive soluzioni: perché l’anti-televisione, nel suo paradossale statuto ontologico, è insieme il carburante della televisione e la sua antitesi. La soluzione di Diana è giustamente molto pragmatica, un continuo work in progress: se un gruppo di terroristi rossi filma le sue imprese criminose (siamo sempre negli anni Settanta), mi procuro le immagini migliori – “uno spettacolo mai visto prima” – e ci costruisco una serie che chiamo Mao Tse Tung Hour. Piego e manipolo l’“evento” per farlo entrare nel piccolo schermo. È così che l’anti-tv si fece tv.
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Il dilemma di Diana e la lista di Fazio
Tornare su un film che ha più di trent’anni è utile per due ragioni: perché è quella l’enunciazione più esplicita e articolata del problema, e perché il problema si è ripresentato, quasi immemore, nei numerosi commenti e nelle molte analisi che si sono prodotte, recentemente, in Italia. L’inatteso successo – almeno per le sue dimensioni – di Vieni via con me, show in quattro puntate condotto da Fabio Fazio e Roberto Saviano, ha generato una varietà d’interventi che potremmo chiamare “definitori”. Ecco il problema: che cos’è Vieni via con me? E, in virtù di questo suo essere, perché tanto successo? Vieni via con me è un “nuovo format” televisivo che cambia il rapporto fra tv e politica, che ne inverte i ruoli, con la televisione (meglio, uno scrittore sui generis prestato alla tv) che “fa uso” della politica1. Oppure Vieni via con me non è un format, essendo impossibile “standardizzare il fuori norma”: è piuttosto il calco di un rito religioso radicalmente laicizzato, a rappresentare “l’audience democratica”2. In fondo, i termini della questione richiamano direttamente in causa il problema di Diana Christensen. Vieni via con me ne è una soluzione, ovvero l’ultimo esempio di anti-tv, qualcosa di nuovo, inusuale e mai visto (dove “televisione” si traduce con “norma”), o che, quanto meno, appare tale agli oltre 8.700.000 spettatori medi che hanno seguito le quattro puntate. Spettatori essi stessi inusuali, come rivela l’analisi dei flussi di consumo: piuttosto giovani (con picchi di share fra i 15 e i 34 anni), prevalentemente maschi, con ottimi e buoni livelli di istruzione e di reddito, con una maggiore concentrazione al centro-nord. Chiunque sia almeno un po’ familiare con i dati del consumo tv, riconosce la fotografia dell’anti-pubblico tv: che non è costituito da non-spettatori – è una minoranza davvero residuale chi non è, almeno un po’, consumatore di tv –, quanto piuttosto da spettatori-imprendibili, infedeli, dotati di una dieta mediale varia e non esclusivamente tele-centrica, interessati al piccolo schermo in certe particolari circostanze. Questo pubblico di light-viewer si è ovviamente mescolato a quello generalmente televisivo di heavy-viewer, generando un successo: un’anti-televisione che riesce nell’impresa rara di farsi tv. Il caso specifico interessa meno in sé che per quello che è in grado di dirci sia sulla società e la cultura italiana contemporanea sia sul sistema tv e sulle sue logiche. Nonché, ovviamente, sulla connessione fra cultura (intesa in
1. I. Diamanti, “Vieni via con me: il format Saviano”, in Repubblica, 22 novembre 2010. 2. A. Grasso, “Vieni via con me: un po’ come a Messa”, in Corriere della Sera, 24 novembre 2010.
L’anti-pubblico: spettatoriimprendibili, infedeli, interessati alla tv solo in particolari circostanze.
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LINK 10 Product FUORI FORMAT 3. R. Williams, Culture and Society, Chatto-Windus, London 1959. 4. J. Ellis, “Televisione evento. La tv nell’età dell’abbondanza”, in Link Mono. Ripartire da Zero.
senso largo, come un “intero modo di vivere” di una società)3 e televisione. Come ha rilevato John Ellis, la televisione non tramonta e non tramonterà, perché è la migliore messa in forma “del presente, del qui e ora”4. Messa in forma nel palinsesto, orologio a cui ci conformiamo. Le tecnologie mettono a disposizione un’offerta à la carte o on demand sempre più ampia, flessibile e diversificata di audiovisivi, ma la specificità della televisione è di farsi evento. Ciò vale anche per la tv più ordinaria, quella che ripete più o meno stancamente delle formule, che annoiava tanto l’arrembante Diana. Non è un caso che il miglior successo del decennio, nei mercati internazionali di tv, sia stato Big Brother, che sa fondere una struttura formalizzata e serializzata estremamente semplice e immediata con l’attitudine a “eventizzarsi”, ovvero – nelle edizioni più riuscite – a farsi carico di temi, rappresentazioni, storie, personaggi che entrano nello svagato “qui e ora” delle chiacchiere quotidiane, del gossip, persino, in casi eccezionali, della pubblica indignazione. L’anti-tv, allora, rappresenta l’evento alla sua massima potenza: non solo è contingente (qui e ora), ma non è ordinario, è in qualche modo “unico”, catalizza attenzione, discorsi, polemiche più o meno accese e feroci, vive nel presente e condivide spesso con la tv ordinaria l’attitudine a bruciarsi in fretta e a farsi dimenticare rapidamente, una volta consumato.
Anatomia e storia dell’anti-tv
5. T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
Cerchiamo di precisare meglio. La televisione vive di due spinte apparentemente inconciliabili: da un lato, per ragioni produttive, la tv elegge a proprio standard la formula, ovvero la norma, la routine, la ripetizione. Tecnicamente, la standardizzazione di adorniana memoria5 è la sua regola, fordista e profondamente moderna. L’industria deve prevedere al millimetro i costi, pianificare gli investimenti con ragionevoli certezze sui ricavi (avanzando ipotesi precise sulla quota di viewership e sul suo “prezzo”). Dall’altro lato, la televisione deve spingersi sempre oltre la propria norma, andare fuori dai propri perimetri, “scaldare” la relazione col pubblico cogliendo il suo “qui e ora” – dunque i suoi interessi/bisogni/piaceri/paure –, innovare le stesse routine che finiscono presto con lo sclerotizzarsi. Per anti-tv intendiamo così, paradossalmente, una forma di televisione, con particolari caratteristiche. È il limite cui la tv deve di tanto in tanto tendere per restare in vita e rinnovarsi. Se osserviamo con sguardo storico il passato del piccolo schermo, possiamo persino affermare che l’anti-tv è un genere. Se ammettiamo che il servizio pubblico, monopolistico – e perciò totalizzante – che pareva l’orizzonte assoluto fino agli anni Settanta, era in realtà una (felice?) parentesi dovuta a una particolare contingenza storica (l’impegno degli Stati nazionali, la necessità di “educare” alla modernità, di elevare e unificare le popolazioni col nuovo mezzo), la tv emersa in Europa dagli anni Settanta/Ottanta ha evidenziato alcune caratteristiche di fondo: è centrata su “formule testate” (i format), che circolano e possono essere adattate e localizzate, è imperniata sulla ripetizione nel flusso e sull’appuntamento atteso in palinsesto, genera un divismo minuto e quotidiano (non Sophia Loren, ma Barbara d’Urso), e i suoi “effetti” sono prevedibili e perlopiù previsti (finanche, con qualche approssimazione e inevitabili errori, nel numero degli spettatori). Ecco la norma: ecco quello che chiamiamo, di norma, televisione. Accanto a essa, vive una forma carsica di anti-televisione che ribalta alcuni suoi capisaldi: si propone come novità assoluta che sfugge alla formula, alla 32
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Giovane promessa dell’atletica, vede la sua carriera stroncata da un terribile incidente. Dedicatosi per ripiego al commercio e alla finanza, accumula grandi capitali che sperpera in seguito a una violenta crisi familiare. All’età di 15 anni decide di ricominciare dedicandosi all’editoria: fonda I fumetti della gleba, periodico di attualità e cultura. Attualmente vive e lavora tra Lobbi e Brugnato, ed è impegnato nella stesura del suo ultimo romanzo fantastorico, Arrembaggio a Gesù Cristo.
TRUE BLOOD E LA LOTTA al vampirismo psichico di
Dr. Pira
Come annoiare per ore i commensali, senza aver visto una sola puntata delle serie di cui tutti parlano.
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ficie degli intenti: spesso i fenomeni più interessanti sono documentati per sbaglio, come è accaduto nei casi della penicillina, dell’LSD e di un sacco di avvistamenti alieni. Mentre l’autore indugia su dettagli già arcinoti all’interno del folclore vampiresco, e si spinge tutt’al più a registrare faccende sentimentali di poco conto, tutt’intorno vediamo un’umanità intenta a spintonarsi e a rincorrersi, nell’affanno di accaparrare ogni volta che può pezzetti di attenzione altrui. “Attenzione!”. Un temine che diventa troppo vago, quando ci accorgiamo che con esso si indica quello che per moltissimi è un nutrimento quotidiano, necessario quanto l’aria. Quante volte, discorrendo con un amico, vi siete resi conto che la conversazione non tendeva a nulla, e che le vostre energie si stavano prosciugando? Quante persone, tra quelle che conoscete, riescono a costringervi a dividere il vostro tempo con loro, lasciandovi sfiniti ogni volta? Lasciamo stare i termini moderati: qui si tratta di vera e propria violenza. Del peggior tipo oltretutto, con l’efferatezza della costanza temporale unita all’impu-
iviamo in una società tremendamente ipermetrope. Prendiamo un telescopio per osservare nella loro grandezza gli enormi concetti di Bene e di Male, e per il resto del tempo osserviamo al microscopio tutte le nostre inezie quotidiane, prendendole una a una, senza vederne la connessione. Molti, per uscire da questa empasse, si occupano di problemi esotici, spinti dall’impressione di avere un’ottica più distaccata. Ma ha senso andare in giro a insegnare a costruire capanne, mentre la propria casa scricchiola sulle fonda menta? Eppure è una tendenza evidente, guardando gli ultimi prodotti in fatto di serie televisive. True Blood, per esempio, documenta un fatto di per sé preoccupante, anche se piuttosto circoscritto: l’ingrandirsi della popolazione di vampiri in una zona degli Stati Uniti meridionali, e i loro conseguenti tentativi di integrazione. Certo, ci sarebbe molto da dire riguardo al razzismo, alla colonizzazione e alla collaborazione tra popoli, ma in fondo son problemi che, se non si risolvono con il sangue, si quietano prima o poi con il tempo. Ma non fermiamoci alla super-
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merevoli altri problemi, di cui non siete nemmeno a conoscenza, e che vi aiuterà a risolvere con premura sempre maggiore. Basta non mostrare sufficiente riconoscenza, o prendere un’iniziativa autonoma, per risultare dei rozzi insensibili profittatori. Non servirà percuotere il vampiro psichico con le sue stesse armi per recuperare l’energia rubata in tutti questi anni. Mangeresti cibo di seconda mano? È proprio questo tipo di dieta che rende il parassita una brutta persona. Ci sono modi più sani di recuperare l’energia da fonti rinnovabili: l’amicizia sincera, la soddisfazione di un lavoro ben fatto, abbracciare gli alberi, fare il bagno nel mare e ululare in cima alle montagne. Non vergognarti di farlo! Tutt’al più, potresti risultare stupido. Ma, come dice la profezia, vestirà un’armatura buffa il pastore che insegnerà all’uomo a non essere lupo in mezzo agli altri uomini. Come nelle saghe epiche e cavalleresche, avrai da sopportare l’ignominia per riportare verità e giustizia: dovrai risultare rozzo alla finta cortesia, malvagio nei confronti della bontà mirata e nemico dei falsi amici, per ridare purezza alla buona azione e bellezza al rapporto umano. Guerriero psichico, sappi che dovrai muoverti sul campo di battaglia della cortesia, nel polverone dei buoni sentimenti, sotto il fuoco della pressione sociale. I saggi hanno sempre considerato la terra una tragedia teatrale: non sappiamo chi ne sia il regista, ma almeno conosciamo chi si cela dietro a qualche maschera. Impugna le tue armi, e rendi questa farsa un circo!
nità data dalla scarsa evidenza. Quelle persone si cibano delle vostre energie, e questa pratica è vampirismo psichico. Arthur Conan Doyle, oltre a dar vita alla saga di Sherlock Holmes, fu il primo a denunciare il fenomeno, nell’Ottocento. Da allora sono stati fatti pochi passi in avanti: il vampiro psichico non ha grossi canini a tradirlo. E solo per questo lo lascereste vagare liberamente a nutrirsi dell’allegria altrui? Là fuori, mentre leggete, è guerra aperta. E dato che questa rubrica è nata proprio per difendersi da chi risucchia ogni vostro impulso vitale per parlare di serie tv, lasciatemi riporre da parte la penna critica per mettervi in mano, grazie a un veloce breviario pratico, i paletti di frassino. Il vampiro psichico normalmente si serve di poche armi, e da queste si può riconoscere. Egli è di solito: 1. una persona con molti problemi, che vi chiede consiglio complimentandosi per il vostro equilibrio e buon senso, ma sulla quale nessuno dei consigli che elargite è applicabile. Il persistere dei problemi renderà man mano indispensabile la vostra presenza, e colposa la vostra assenza – senza peraltro assicurarvi alcun posto in paradiso. E su questo dettaglio i buoni cristiani dovrebbero riflettere, dato che sono le prede più facili di questo genere di vampiro; 2. un individuo manesco e iroso, che vi costringe a fare delle cose sotto minaccia: caso meno diffuso, perché troppo evidente, ma comune in passato. Persiste tuttavia nei contesti famigliari, e in serie tv come True Blood (perché ha un bell’effetto scenico); 3. un puntualizzatore, il più terribile e occulto. Vi approccia complimentandosi: “Bella questa cosa che hai fatto! Sei una persona fantastica”; a questo punto, avrete abbassato i guantoni. “Sai, però, non vorrei offenderti, ma cambierei questo dettaglio”; gli riconoscerete che è un onesto critico, e un attento osservatore. Un altro paio di attacchi simili e, soggiogati al suo giudizio, avrete perso ogni sicurezza – che poi è il suo cibo preferito. Glielo offrirete voi stessi, tornando ogni volta a chiedere un consiglio; 4. un premuroso: quando siete in difficoltà, si offre prontamente in aiuto. Gliene siete grati ma, una volta che vi avrà tratti in salvo, scoprirà in voi innu-
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A PROPOSITO DI HBO
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Come la tv sta vincendo la battaglia con il cinema di Mariarosa Mancuso
“Mica è cinema, è solo televisione”: quante volte ci è capitato di pensare che sul grande schermo corra la settima arte, mentre quello piccolo che abbiamo in casa serva perlopiù a riempire un po’ di tempo libero. Ma, mentre ce ne stavamo nella torre d’avorio, le cose cambiavano. E così le grandi produzioni della fiction televisiva hanno attratto sempre più registi e sceneggiatori di fama. Da Cannes alla HBO, da Scorsese a Spielberg, forse l’avanguardia artistica si è spostata in tv.
illustrazioni di Elena Rapa
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Ha iniziato a occuparsi di cinema e di libri per la Radio Svizzera di lingua italiana. Scrive per Il Foglio dal 1996. Ha collaborato al Corriere della Sera e a Panorama. Guarda molti telefilm, sperando che i registi e gli scrittori non si offendano: le belle storie bisogna andare a cercarle là dove ci sono.
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L
a sorpresa del Festival di Cannes 2010 si intitolava Carlos. Un biopic di cinque ore e mezza sul terrorista venezuelano Carlos lo sciacallo, che ora sconta l’ergastolo in Francia e 35 anni fa a Vienna sequestrò 11 ministri dell’Opec (nell’età dell’innocenza che consentiva a sconosciuti con basco alla Che Guevara di irrompere armati in un summit internazionale). Non tutto andò secondo i piani: l’aereo richiesto dalla banda era troppo piccolo per raggiungere lo Yemen, la Libia negò il fiancheggiamento, gli ultimi ostaggi furono liberati in Algeria in cambio di 20 milioni di dollari, il guerrigliero pieno di ideali fu declassato a mercenario. Diretto da Olivier Assayas e prodotto da Canal+, che lo ha trasmesso in tre puntate lo scorso maggio, Carlos non ha avuto a Cannes l’onore del concorso. Per timore di creare un precedente: ammetterlo tra i candidati alla Palma d’oro avrebbe spalancato le porte alla serialità televisiva, contaminando la purezza cinefila del più importante festival internazionale. Purezza inviolata, giacché la giuria con a capo Tim Burton ha così premiato Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti, film thailandese diretto da Apichatpong Weerasethakul. Regista che – con tutto il rispetto per le cinematografie periferiche – appassiona solo i critici inchiodati agli anni Settanta, ora e sempre convinti che il cinema degno di questo nome debba punire lo spettatore. Nella fattispecie, con immagini di révenant (uno sotto forma di scimmione dagli occhi di bragia), dialisi improvvisate sotto la capannuccia, pesci-vibratori, monaci buddisti che si sdoppiano, uno rimane in camera a guardare la tv e il doppelgänger esce a mangiare la pizza. Conviene segnare la data, per futura memoria. Prima di diventare regista (nel 1986, con Desordre; poi seguiranno il cinefilo Irma Vep, il rockettaro Clean, il romanzesco Les destinées sentimentales, il globale e assai confuso Demonlover), Olivier Assayas lavorava come critico ai Cahiers du cinéma. Proprio la rivista che con un articolo firmato François Truffaut lanciò negli anni Cinquanta la “politique des auteurs”. Il suo sbarco in tv segnala che “il mezzo che ognuno ama odiare” (copyright Larry Brody, sceneggiatore americano – sappiamo che la sindrome colpisce gli intellettuali in generale e i francesi in particolare) ha smesso di essere considerato l’origine di tutti i mali. Di più: in controtendenza con la casistica che descrive il rapporto tra registi e produttori come un eterno braccio di ferro, in un’intervista uscita sui Cahiers a maggio 2010, Assayas racconta i rapporti con Canal+ come un idillio. Basta il titolo: “Impossible au cinéma, possible à la télé”. Carlos era stato proposto ad Assayas dal produttore Daniel Leconte. Doveva essere un film di durata normale, che dopo due anni di certosina documentazione e continue riscritture si è sdoppiato e infine triplicato. In contrasto con l’idea della tv che tutto appiattisce per un pubblico generalista, è parlato in cinque lingue (spagnolo, francese, tedesco, inglese, arabo) e ambientato in una decina di nazioni sull’arco di vent’anni. È stato realizzato in tempo record (“ritmi lavorativi da film di serie B, otto minuti di girato al giorno invece dei soliti due”, conferma il regista), con un budget di quindici milioni di euro, comunque difficili da trovare perché il pacchetto non comprendeva attori di nome. Niente a che vedere con le miserie narrative e produttive note un tempo come originali televisivi (e ora come fiction, nel gergo della tv italiana). Di concerto con il presidente Gilles Jacob, il direttore di Cannes Thierry Frémaux ha scelto la politica dello struzzo, se non quella dei luddisti che nell’Ottocento distruggevano i telai meccanici. Presentato come evento spe42
ciale, Carlos ha avuto solo applausi, e lo stesso vale poi per il film uscito a luglio nelle sale francesi: 2 ore e 45, ottenute con tagli sapienti. La presentazione del personaggio più sincopata, il pezzo di bravura sull’Opec (dove anche lo spettatore più distratto afferra ogni dettaglio) conservato integralmente, un terzo atto che mostra il terrorista grasso e sconfitto.
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INTRATTENERE, ATTORNO AL FUOCO
Tra grande e piccolo schermo non è soltanto questione di dimensioni. Nata come parente povero, la televisione si impone subito come nemico che ruba spettatori. Oggi la parola chiave per il futuro di Hollywood sembra essere il 3D, e per un Avatar che sfrutta la tecnologia fino in fondo molti altri titoli vengono frettolosamente riadattati per fregiarsi della sigla. Il primo tentativo in questa direzione – occhialini bicolori sagomati in cartone, una lente in plastica verde e una rossa – risale appunto agli anni Cinquanta, quando gli incassi nelle sale diminuirono per la concorrenza con il salotto di casa. Come il cinemascope, il 3D era un’esca spettacolare. Non funzionò, i film erano piuttosto bruttini. Quelli che non lo erano, come Il mostro della laguna nera o Il delitto perfetto di Alfred Hitchcock, reggono benissimo anche senza le mani o le zampe palmate che si protendono verso lo spettatore. Ma non funzionerà neppure questa volta: la tv, in particolare la serialità americana, ora combatte sul terreno dell’ottima scrittura, regalando storie e personaggi più avvincenti di quelli proposti dal cinema. Valga come esempio, altri non ne servono, la misera, schematica e più che prevedibile trama di Avatar. Basta fare un confronto con Terminator, che agli effetti speciali d’avanguardia univa un plot originale. Infatti resterà, e non solo nella classifica degli incassi. Aldo Grasso segnala Twin Peaks come punto di svolta, vent’anni fa. Quando un regista come David Lynch – indipendente se mai ce n’è stato uno, e piuttosto fanatico: litigò con i produttori perché non voleva saperne di svelare l’assassino di Laura Palmer – firmò una serie tv. Gli spettatori si riunirono in gruppi d’ascolto, con i tazzoni di caffè e la crostata di ciliegie. Time gli dedicò una copertina – “Il genio selvaggio dietro Twin Peaks” – e un articolo che lo definiva “zar del bizzarro”. Nulla di tutto questo è accaduto con Inland Empire, autoprodotto grazie al basso costo del digitale. E, a parte pochi fanatici, autocelebrato: un buon committente aiuta a frenare il narcisismo. Un po’ di serendipity rende la guerra tra cinema e tv ancora più stuzzicante. Il 22 maggio finiva Cannes, il 23 maggio andava in onda l’ultima puntata di Lost: attesissima, chiacchieratissima, sviscerata come mai era successo con gli episodi di una serie tv, corredata di minuziose enciclopedie e chiose filosofeggianti. Difficile immaginare la stessa passione, le stesse discussioni, gli stessi litigi attorno a un film di successo (meno che mai attorno a una pellicola da cineclub). Difficile immaginare una serie più complessa e affascinante di quella creata da J.J. Abrams e Damon Lindelof, su un modello narrativo noto come robinsonata (le prime risalgono ai tempi di Defoe, tra le ultime c’è Foe del premio Nobel J.M. Coetzee, che la butta sul postmoderno e la rende
Il mezzo che ognuno ama odiare, la tv, ha smesso di essere considerato l’origine di tutti i mali.
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intervista a
Hagai Levi
In Treatment
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Stefania Carini
di illustrazioni di Elena Rapa
“Un docu-drama su quelli che definirei poeti maledetti”: è ciò a cui sta lavorando Hagai Levi, sceneggiatore, regista e produttore israeliano. A lui si deve l’ ideazione di Be’ Tipul (2005), serie dedicata alle sedute di un terapista con quattro suoi pazienti. A fine settimana, però, è lo stesso terapista a confessare i suoi dubbi a un altro psicologo. Cinque pazienti e due terapisti, cinque sere a settimana per mezz’ora: Be’ Tipul unisce la serialità giornaliera propria delle soap opera al dramma di parola. Dopo il successo in Israele, nel 2008 arriva la consacrazione internazionale con l’adattamento HBO, che produce In Treatment – in Italia è andata in onda su Cult e Rai 4; la terza stagione parte in estate su Fox Life. Versioni locali della serie sono state realizzate in Serbia, nei Paesi Bassi, in Romania, e si prevedono altri adattamenti in diversi Paesi europei. Levi ha supervisionato ogni fase di Be’ Tipul in Israele, seguendo la sua creatura anche nei suoi viaggi per il globo. Cosa ti ha portato a ideare Be’ Tipul? Ho studiato psicologia per diversi anni, prima di andare alla scuola di cinema. Inoltre, quando ero più giovane, sia da bambino che da adolescente, sono stato in terapia, e vi sono tornato da adulto. Dunque, psicologia e terapia sono state molto presenti nella mia vita. Diversi anni fa questo interesse e il mio lavoro di sceneggiatore si sono fusi. È accaduto mentre lavoravo ad alcune daily series, e ho pensato che sarebbe stato interessante crearne alcune un po’ più intelligenti. Avevo visto diversi film che parlano di psicologia, ma non mi piacevano molto; avevo guardato anche I Soprano, ma pensavo che sarebbe stato interessante vedere qualcosa di più di quanto già mostrato in quegli show. Ciò che diede vita alla serie fu però pensare di metter in scena lo stesso terapista in cura da un altro terapista. In questo modo avevo effettivamente qualcosa da sviscerare: non solo l’andare in 47
Stefania Carini, dottore di ricerca in Culture della comunicazione, è critico televisivo del quotidiano Europa e cura la videorubrica Tv Usa per il Corriere della Sera. Ha collaborato alla stesura della nuova edizione della Garzantina della televisione (Garzanti, Milano 2008). Fra le sue pubblicazioni Il testo espanso. Il telefilm nell’età della convergenza (Vita e Pensiero, Milano 2009).
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terapia, ma lo stesso meccanismo che soggiace alla terapia. La scelta importante fu quella di mettere in scena non un terapista senza emozioni, ma al contrario uno psicologo con forti sentimenti: la terapia è come una relazione, si è arrabbiati e allo stesso tempo innamorati dei propri pazienti. Poi venne il duro lavoro… Che cosa vogliono i pazienti dal proprio terapista? Quando vai in cura, che cosa tu voglia è la sola grande domanda. Il terapista deve cercare di capire se stai bluffando, cosa vuoi effettivamente da lui, cosa vuoi che lui sia per te. E così, quello che i pazienti vogliono spesso – ed è così nella serie – è che il terapista sia responsabile al loro posto, e che restituisca loro questo senso di responsabilità. Allo stesso tempo però i pazienti vogliono anche che ristabilisca dei confini nella loro vita: mancano le linee guida e i pazienti ne sono preoccupati, non sono capaci di affrontare tale perdita. Quello che fanno è controllare i propri confini personali, e vogliono che lo psicologo faccia lo stesso. Come dei bambini, vogliono conoscere le regole. Questo è ciò che il terapista deve fare per loro: ristabilire i limiti. La chiave è l’amore: ai pazienti non manca certo la terapia, quello che manca è l’amore. Sono apprezzati da chi li circonda, ma nessuno pare accettarli e amarli incondizionatamente, per quello che veramente sono. Il terapista non è un partner, ma è importante per il meccanismo seriale che sia amabile e sensibile. La serie ha un’impostazione teatrale, richiama un certo teatro di parola europeo. E in fondo la tv è un medium incentrato sulla parola, basti pensare oggi al ruolo del talk show… Come hai combinato queste tradizioni: il teatro introspettivo, la parola televisiva e infine il meccanismo seriale del medium? Quando ero giovane guardavo il canale pubblico israeliano: davano molte riduzioni di opere teatrali, ne ho ancora una viva memoria e sono un ottimo esempio di ciò che può fare la tv. Sempre su quel canale, circa venti o trent’anni fa vidi Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, che mi è stato d’ ispirazione. Ovviamente il talk show è molto comune: è facile vedere due persone che parlano in tv… Ma quello che è essenziale in In Treatment è la parola, il potere della parola. Per questo ripeto spesso che è una serie più ebraica che israeliana, nel senso che è legata alla tradizione ebraica dell’ interpretazione dei testi. La cultura occidentale è fatta di immagini, mentre per gli ebrei l’ immagine è addirittura qualcosa di proibito. La religione ebraica si basa sui testi e sulla loro interpretazione. I libri sacri, come il Talmud, sono tutte interpretazioni della Bibbia. In questo senso, uno degli aspetti importanti di In Treatment è il suo essere un testo da interpretare: ci sono dei testi, come le parole e i gesti dei personaggi, che vanno decifrati; ci sono delle discussioni su come questi vadano interpretati; infine vengono confrontate più interpretazioni differenti. È un’ idea tipicamente ebraica. In effetti, anch’ io mi considero uomo del testo, più che uomo di immagini. Mi interessava poi imitare la realtà del processo terapeutico: per questo ho scelto il formato quotidiano. È come se si fosse davanti a cinque diverse serie: puoi seguirle tutte o una sola, un solo personaggio. Certo, in alcuni casi, in altri Paesi, anche negli Stati Uniti, è stata cambiata la tipologia di messa in onda, e non c’era più una puntata al giorno, ma venivano raggruppate. Ma ciò che mi interessava, l’essenza del progetto, è la daily weekly formula, ed è per questo che In Treatment ha questo formato: l’obiettivo era mettere in scena un processo quotidiano, che imitasse sia la terapia sia la vita. 48
Come è stata accolta la serie in Israele? Come pensi che abbia rispecchiato o influenzato la vita del Paese? In Israele, la serie fu un vero fenomeno, accolta molto bene a livello critico. Furono alti anche gli ascolti, e ricevemmo molti premi. C’ è una storyline tipicamente israeliana, quella del pilota, e differenti riferimenti alla situazione del Paese, ma ho sempre voluto e sperato che la serie riflettesse la condizione umana in generale, più che quella dello stato israeliano. Il fatto interessante fu che la serie ha cambiato almeno un aspetto della realtà israeliana: le persone hanno iniziato a vedere in maniera diversa l’ idea di entrare in terapia. Secondo varie ricerche, molte persone iniziarono ad andare dallo psicologo, o vi tornarono dopo aver visto lo show. Le tariffe dei terapisti salirono molto dopo la messa in onda della serie… fare lo psicologo era diventato un mestiere prestigioso!
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Ci puoi descrivere il processo di scrittura dello show originale? Per prima cosa creai l’ idea dello show, il concept, e ne diressi due pilot, così quando l’ ho venduta avevo un’ idea chiara di cosa stavo per fare. Successivamente assunsi un capo sceneggiatore, e per mesi insieme scrivemmo le storyline. Quindi chiamai un gruppo di autori, che lavoravano per me e per il capo sceneggiatore, che scrissero lo script finale, basandosi sulle sinossi di ciascun episodio. Ho poi diretto personalmente la gran parte delle puntate. Ero lo showrunner, figura che in Israele, diversamente che in America, coincide spesso con quella del regista. Perciò, dopo aver ideato il concept dello show, si è trattato anche di supervisionarlo in ogni singolo aspetto, parola e gesto, dalla regia all’editing. Come avete scelto gli attori? Come è stato dirigerli in questa sorta di set teatrale? Abbiamo scelto gli attori nella fase iniziale del lavoro, così da sapere esattamente per chi stavamo scrivendo. Era importante per me, in fase di scrittura, “prendere” qualcosa dall’attore e metterlo nel personaggio. E dirigerli… in un certo senso, è stato come dirigere in un teatro. Giravamo infatti lunghe riprese, e talvolta metà episodio in un solo take. Per cui mi sono concentrato molto sulla recitazione e poco sul resto, ed è ciò che ho amato di più. Mi sono focalizzato sulla performance del testo, e questo ha creato una particolare concentrazione.
Il potere della parola è essenziale in In Treatment. Per questo è una serie più ebraica che israeliana
Pensi ci siano somiglianze tra scrittura e terapia? La terapia non è un lavoro collettivo, dal momento che avviene tra due persone, ma penso che vi sia una somiglianza: sia i terapisti sia gli sceneggiatori cercano di svelare i meccanismi umani. Quando scriviamo una sceneggiatura, cerchiamo di capire le motivazioni dei personaggi: perché si comportano in un determinato modo, cosa vogliono. Solo così possiamo scrivere cosa faranno, come reagiranno. Il terapista fa, in un certo senso, la stessa cosa: cerca di scovare ciò che non viene detto, cosa c’ è dietro i comportamenti di una persona. In entrambi i casi, si vogliono capire le azioni e i sentimenti umani. Solo che i terapisti cercano di decostruire la struttura della persona, mentre noi sceneggiatori dobbiamo costruire la struttura del personaggio. 49
cover story
decode or die l’infografica applicata alla tv
DS
tavolta facciamo a meno delle parole, e lasciamo spazio a mappe, rappresentazioni e visualizzazioni. Per raccontare il piccolo schermo, e quanto vi accade dentro e intorno, da punti di vista differenti, che possono regalarci dettagli imprevisti e qualche intuizione per capire il futuro. Poco tempo fa al Victoria and Albert Museum di Londra si è tenuta una mostra dedicata alle moderne tecniche di rappresentazione del dato, tra scienza e arte, dal titolo Decode: Digital Design Sensations, fondata su un concetto molto chiaro: chi non trova il modo di gestire la complessità delle nostre vite (ah, la modernità!) è destinato a non capire le dinamiche di quanto lo circonda. E questo, nella società dell’ informazione, equivale 74
a soccombere. Decode or Die. Imparare a decodificare masse enormi di dati, quindi, è divenuta una capacità essenziale per ogni governo e per ogni impresa. Anche televisiva. La mole impressionante di dati – dall’Auditel agli script dei programmi, dalle parole sparse sulla rete ai download di serie tv, dalle top ten ai sottotitoli –, una volta messa in prospettiva, ridotta a schema, flusso e cartografia, può dischiuderci le porte della percezione.d
DensityDesign DensityDesign è un laboratorio di ricerca del dipartimento Indaco del Politecnico di Milano, coordinato dal prof. Paolo Ciuccarelli. Il laboratorio esplora la relazione fra design della comunicazione e la visualizzazione di dati ed informazioni. Il lavoro del gruppo è fortemente legato a processi di ricerca interdisciplinari, che negli anni hanno permesso di costruire una fitta rete di collaborazioni con altri istituti di ricerca in Italia e all’estero, fra cui il Médialab di Science Po, lo Stanford Humanities Center, il CRISP dell’Università Bicocca e il Centro interuniversitario di ricerca SCNAKC dell’Università di Salerno. DensityDesign è costantemente impegnato anche sul fronte
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della ricerca applicata, sviluppando piattaforme di visualizzazione, come il progetto DUST per l’ONG americana Iridescent, e infografiche per l’editoria, come la Mappa del futuro per Wired Italia, e per la divulgazione scientifica. Questa cover story è stata sviluppata con i ragazzi di Density Design: Donato Ricci, coordinamento e supervisione; Michele Mauri, sviluppo, gestione dati, visualizzazione; Mauro Napoli, Luca Masud e Mario Porpora, attività di supporto. www.densitydesign.org
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Che genere d’Italia Quale televisione si guarda nelle diverse regioni
Il centocinquantenario dell’unità d’Italia, quest’anno, porta tutti a parlare del nostro Paese: se con toni enfatici dal sapore risorgimentale, o con i più biechi stereotipi del confronto nord-sud, poco importa. Anche Link dà il suo contributo, perché la tv è un osservatorio da cui si scorge tutto lo stivale. Iniziamo il viaggio nell’ infografica entrando nei meandri dell’ascolto tv, per vedere chi guarda cosa nelle varie regioni d’Italia. Alla ricerca di conferme. E di qualche sorpresa.
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125k
250k
500k ascolto medio
15% 20% 25% share -15%
0%
+15%
scostamento dall’ascolto medio della regione
veneto lombardia
friuli venezia giulia valle d’aosta trentino alto adige
I generi da nord a sud In Friuli piacciono gli sport, in Veneto i talent show, in Lombardia i reality. Lo scostamento rispetto alla media fa vedere i generi preferiti, e quelli meno apprezzati, in ciascuna regione. Il Trentino non ama i film, lo sapevate?
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fiction miniserie telefilm usa telefilm europei film sport informazione politica cultura e documentari varietà reality show talent show factual
piemonte emilia romagna liguria
toscana
marche
Reality e talent show sono i generi più seguiti nelle regioni del nord e del centro, mentre i telefilm, sia europei sia statunitensi, faticano a tenere desta l’attenzione del pubblico piemontese, ligure o toscano. E lo sport piace poco in Liguria…
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o, quella che avete appena visto non è la ruota della fortuna. Ma un modo efficace di rappresentare la complessità dell’ascolto televisivo italiano, segmentato sul lato testuale secondo i generi e le tipologie di programma, e sul versante del pubblico lungo le diverse regioni di appartenenza. Così da scoprire quali sono le preferenze degli abitanti di ciascuna regione. O, meglio, che cosa più le differenzia rispetto alla media. Scoperto qualcosa di nuovo? Bene. Ora proviamo a vedere alcuni approfondimenti mirati, con tre generi del prime time televisivo molto diversi: i talk show di approfondimento politico, lo sport, i varietà. Se i consumi tv sono le tessere di un puzzle, per ciascun genere le regioni compongono un mosaico differente. Fatto di programmi preferiti e scelte di visione cangianti. Se lo sport unisce la comunità e appiattisce (almeno un po’) le differenze, il quadro offerto dagli altri due generi è quasi speculare. Perché il confronto tra nord e sud avviene, ogni giorno, anche sul divano di casa, davanti allo schermo tv.d
DN
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Trentino Alto Adige
Lombardia
Veneto
Liguria
Toscana
Abruzzo
Lazio
Campania
Friuli Venezia Giulia
Valle d’Aosta
Basilicata
Piemonte
Emilia Romagna
Marche
Umbria
Molise
Sardegna
Puglia
Sicilia
Calabria
1% 5%
-15%
0%
+15%
10 % share
scostamento dall’ascolto medio della regione
Informazione politica Santoro, Floris, Lerner e gli altri. L’informazione politica, in forma di talk show, occupa spesso la prima serata delle reti generaliste. Ma sono le regioni del nord e del centro a fare il grosso degli ascolti: persino il Lazio, sede dei palazzi del potere, è meno interessato.
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Tutto l’ascolto minuto per minuto Una bussola per la “metropoli” televisiva
Che cosa sono tutti questi nuovi canali che sbucano come funghi, tra il satellite e il digitale terrestre? E come cambia, di conseguenza, l’ intero ecosistema dell’ascolto televisivo? Ecco una mappa che descrive il nuovo ambiente. Come cristalli che, giorno dopo giorno, e ora dopo ora, ci mostrano cosa preferiscono (e dove vanno) gli spettatori. La mattina per le massaie, il calcio la domenica. Ma non solo.
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Raiuno 00:00
18:00
06:00
sab ven 12:00 gio mer mar 00:00 lun dom
18:00
06:00
12:00 Canale 5
share
5%
Sette giorni in tv Che forma assumono gli ascolti delle reti? Proviamo a vedere la collocazione degli spettatori, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Qui sopra, le ammiraglie: Raiuno stretta ai fianchi, Canale 5 pi첫 regolare, con una punta per le news della mattina.
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Raidue
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18:00
06:00
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00:00
18:00
06:00
12:00
Italia 1
share
5%
Fonte: Dati Auditel, share (individui con ospiti) nella settimana campione 21-27 febbraio 2010.
Continuano le grandi reti. Raidue e Italia 1, anche se piÚ piccole, aggiungono elementi alla nostra tassonomia. La prima è forte al mattino, mentre la seconda si riprende a mezzogiorno e continua a crescere nelle ore pomeridiane. I giovani, si sa, amano dormire fino a tardi‌
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Sky Cinema 1
Discovery Channel
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18:00
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Real Time ascolti solo su satellite
Sky Uno 00:00
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National Geographic
FX
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18:00
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Premium Calcio 1
Cartoon Network 00:00
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18:00
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06:00
12:00 share
5%
Fonte: Dati Auditel, share (individui con ospiti) nella settimana campione 21-27 febbraio 2010.
E ancora. Per chiudere, un altro po’ di reti pay. Sky Cinema 1 si ispessisce le sere delle prime visioni (e le mattine successive), Discovery Channel e Real Time sono forti in preserale e in prima serata, Cartoon Network si spalma sulle altre ore della giornata.
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La5
Mediaset Extra
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18:00
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Rai 5
Cielo
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18:00
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06:00
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La7d
Real Time
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18:00
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share
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share
5%
Fonte: Dati Auditel, share (individui con ospiti) nella settimana campione 20-26 febbraio 2011.
I nuovi arrivati E ora, un salto in avanti nel tempo. Perché, a un anno di distanza, nel febbraio 2011, nuovi canali (o nuove declinazioni) popolano l’etere digitale. Da Rai 5 a La5, da Cielo a La7d, da Mediaset Extra a Real Time, non più limitata al satellite ma in chiaro. Tutto scorre…
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Personaggi dispersi Come districarsi nella narrazione di Lost
Ora, a bocce ferme, possiamo farcela. Se per sei anni ci siamo persi nelle storyline sempre piÚ intrecciate, abbiamo mescolato i flashback con i flash-forward, abbiamo confuso i volti dei personaggi minori, adesso, conclusa la serie con l’occhio di Jack che si spegne (per sempre?), possiamo finalmente riprendere in mano il fenomeno Lost. E dare forma compiuta alla complessità del suo racconto. Eccola!
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I stagione Un aeroplano si schianta su un’isola apparentemente deserta. I naufraghi cercano riparo, trovano sistemazioni di fortuna. Ma soprattutto parlano. Parlano tanto. Il più loquace è Jack Shepard, ma anche Hugo “Hurley” Reyes e John Locke non sono da meno…
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Fonte: script delle 6 stagioni di Lost , DensityDesign / Link.
II stagione La botola si apre, mettendoci a conoscenza dell’esistenza del Progetto Dharma. Arrivano altri naufraghi, che occupavano la sezione di coda dell’aereo e si riuniscono al gruppo: tra questi, il mistico Mister Eko. Michael, invece, cerca il figlio Walt rapito dalle strane presenze sull’isola…
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Industry
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una nave fantasma
LINK 10 Industry
Il nuovo mondo (e mercato) delle app di Antonio Dini
Vi ricordate del Wap? O di Snake sui Nokia d’annata? Probabilmente sì, ma con nostalgia, come se fossero cose ormai lontane e sbiadite dal tempo. Perché nel frattempo sono arrivate le app, che hanno fatto piazza pulita di applicazioni e widget. Semplificando l’esperienza d’uso e creando un mercato dalle dimensioni enormi, permettendo nuove forme di interazione con l’utente e rendendo il cellulare uno strumento sempre più multifunzione. Tutto merito del solito Steve Jobs? O c’è dell’altro?
illustrazioni di Enrica Casentini
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Giornalista economico e saggista, scrive (o parla) di economia digitale e mercati dell’innovazione per Il Sole 24 ore, Nòva, Radiodue Rai, Radio Popolare, L’espresso e altri. Collabora con l’Università Cattolica e l’Università degli studi di Milano. Ha scritto quattro libri editi da Il Sole 24 ore, l’ultimo dei quali è Emozione Apple. Fabbricare sogni nel XXI secolo (II ed.).
LINK 10 Industry UNA NAVE FANTASMA
È
un mercato nato dal nulla, comparso all’improvviso in meno di dieci anni. Una specie di nave fantasma, entrata improvvisamente nel porto del software con tutto l’oro delle Americhe chiuso nei forzieri della sua stiva. L’impatto economico e sociale è stato gigantesco, ancora non compreso (e forse neanche comprensibile) fino in fondo. Nei forzieri di questa nave fantasma comparsa all’improvviso c’era l’intero mercato delle “app”, i software-bonsai che si installano nei telefoni cellulari intelligenti di oggi. Nel 2000 a malapena esistevano una decina di grossisti delle applicazioni per smartphone. Erano negozi online improvvisati, privi di un reale modello di business, che rifornivano una mezza dozzina di sistemi: Palm, Symbian, Windows CE, Epoc, Java ME, Brew. Nomi destinati all’oblio. Invece, alla chiusura del 2010, la trasformazione: le app sono fiorite e sicuramente diventate le dominatrici del mercato del software di consumo. Al mondo ne sono state realizzate più di 750.000 su cinque piattaforme – iPhone di Apple, Android di Google, Ovi Store di Nokia, BlackBerry, Windows Phone di Microsoft –, per un valore complessivo di 2,2 miliardi di dollari in rapida crescita rispetto agli 1,7 miliardi dell’anno prima. Nei titoli dei giornali si è cominciato a parlare di app revolution, di nuova corsa all’oro digitale, di mercato talmente innovativo da essere capace di distruggere i paradigmi esistenti, addirittura di essere responsabile della “morte del Web”, come a settembre 2010 ha titolato il mensile americano Wired. Joseph Schumpeter probabilmente avrebbe citato le app come esempio di distruzione creatrice, che genera discontinuità e poi innovazione nel mercato. E avrebbe puntato il dito contro la “solita” Apple. A gennaio 2007, quando Steve Jobs ha presentato il primo modello di iPhone (commercializzato a luglio di quell’anno negli Usa, e mai arrivato ufficialmente in Italia), sul display del telefonino più desiderato dell’anno c’erano solo 11 applicazioni, tutte create da Apple stessa. La possibilità per gli sviluppatori software di creare applicazioni indipendenti era praticamente nulla. Steve Jobs aveva spiegato: se volete fare del software per iPhone, potete realizzare dei siti web ottimizzati, usando le tecnologie web 2.0. La situazione era evidentemente interlocutoria, un prendere tempo in attesa di apparecchiare una soluzione che ancora nessuno conosceva, ma rispecchiava un cammino storico iniziato più di dieci anni prima.
LE TRE PRIME ONDATE
Nei vecchi telefoni cellulari che cercavano timidamente, con grande spesa, di navigare in rete, si erano infatti già succedute tre generazioni di soluzioni. La prima, la più drammatica e fallimentare, era stata quella del Wap (wireless application protocol). Il sistema, una versione semplificata e riadattata del web a esclusivo consumo dei telefoni cellulari, non era piaciuto per niente agli utenti: ideato dall’americano Alain Rossmann a fine 1994 e per la prima volta adottato nel 1999 dall’italiana Omnitel, si era dimostrato al di sotto delle aspettative degli utenti. Ben diversa è invece la sorte in Giappone dell’iMode, che comincia dal 1999 a costruire un impero di contenuti voluti da Ntt DoCoMo (il più importante operatore di telefonia mobile dell’arcipelago nipponico) ed è basato da una parte sulla capacità della lingua giapponese di “arredare” con gli ideogrammi il display del telefonino, dall’altra di costruire un mercato di fornitori di contenuti e servizi (servizi bancari, oroscopi, giochi, suonerie, codici QR) con i quali collaborare in un modello di revenue 166
sharing. Da noi questo standard non ha avuto grande successo, nonostante sia stato portato nel nostro Paese da Wind dal 2003. La seconda ondata, sempre negli anni Novanta, è stata di software più convenzionale, di entità molto limitata. È stata l’epoca delle piccole utility e dei giochi-scacciapensieri. L’idea era di tentare di vendere i primi prodotti nati in ambiente amatoriale, fatto da produttori per hobby o poco più. Il modello era quello dei produttori di software per palmari, come la capostipite di tutti questi apparecchi, la Palm di Sunnyvale, in California. La scala nella quale veniva realizzato e distribuito il software era limitata: non solo per la diffusione relativamente ridotta dei telefoni, ma anche per i vincoli che i singoli operatori di rete imponevano. Nel modello pre-iPhone, infatti, il dominus della relazione tra operatore telefonico e produttore di telefoni per lunghissimo tempo è stato il primo. È l’operatore telefonico infatti che ne ha dettato le soluzioni tecnologiche preferite e che ha imposto anche i tempi dell’innovazione; quest’ultima costruita in Europa attorno al consorzio del GSM, nel 1981 originariamente formato da 13 Paesi con il nome di Groupe Spécial Mobile e con l’obiettivo di realizzare un sistema di telefonia mobile standard attraverso i paesi comunitari e le compagnie telefoniche statali che gestivano il monopolio delle telecomunicazioni nella maggior parte di essi. La terza ondata è avvenuta in tempi più recenti e ha visto come protagonisti i widget. Le piccole applicazioni nel linguaggio di programmazione javascript (di cui è fatta la maggior parte delle pagine web più interattive) o in Flash (software dell’americana Adobe per la creazione di mini applicazioni) sono figlie della riflessione avviata da alcuni innovatori rimasti ingiustamente in secondo piano. Tra questi, vale la pena di citare Anssi Vanjoki, per un decennio uomo di punta nella creazione delle tecnologie di Nokia, il gigante europeo della telefonia mobile che, insieme a Motorola, Ericsson e poche altre aziende ha dato forma al settore. Vanjoki ha sostenuto per anni che il telefono sarebbe diventato non solo il computer che portiamo sempre nelle nostre tasche o nelle nostre borse, ma il “telecomando della nostra vita”. L’apparecchio capace, cioè, di trovare le informazioni che ci servono, indirizzarle in altri ambiti, svolgere una pletora di attività a partire dalla fotografia digitale fino alla musica e alla posta elettronica. Per fare questo, avrebbe avuto bisogno di una serie di caratteristiche software oltre che hardware: non solo particolari terminali fisici, ma anche pezzetti di codice informatico adeguati ai bisogni di una vita digitale. I widget, in particolare, erano i più importanti: contenitori adatti allo schermo ridotto di un telefonino, capaci di “succhiare” le informazioni più importanti dal web (da molti siti o da uno solo in particolare) e ripresentarle in modo adeguato.
LINK 10 Industry UNA NAVE FANTASMA
L’app revolution è la nuova corsa all’oro digitale, un mercato innovativo che distrugge i paradigmi esistenti.
UN CAMBIO DI MODELLO
Anche i widget, come le utility e i siti Wap prima ancora, sono caduti nel dimenticatoio. Non perché l’idea non fosse valida – anzi, lo è talmente che in realtà molte delle odierne app non sono nient’altro che widget con un altro nome e soprattutto un differente modello di distribuzione –, quanto perché 167
LINK 10 Industry UNA NAVE FANTASMA
la spinta della storia procedeva in una diversa direzione. Il mercato aveva cominciato infatti piuttosto repentinamente a orientarsi sul modello introdotto nel giugno 2008 da Apple. Un App Store, un negozio dal quale comprare, gestire e aggiornare le applicazioni, con un unico sistema di pagamento (legato all’identità di iTunes Store, sistema già in uso da decine di milioni di persone) e senza nessun costo nascosto. A far girare rapidamente la barra del mercato verso il negozio di Apple sono state però altre due categorie di attori. I primi sono stati gli sviluppatori, quell’ecosistema di programmatori indipendenti che riesce nel suo insieme a determinare il successo e la salute di una piattaforma. Gli sviluppatori del software per iPhone hanno trovato nell’offerta di Apple un sistema più chiaro e semplice della concorrenza. Il circolo virtuoso che si instaura è semplice: quanto più una piattaforma (come iPhone) è vitale e conveniente dal punto di vista di chi produce e vende software, quanti più programmatori imparano i linguaggi e le particolarità tecniche necessarie a sviluppare software in quell’ambiente e non in altri. Centinaia di migliaia di sviluppatori hanno così sottoscritto il programma di Apple per la realizzazione e distribuzione del software (sono più di 350.000), pagato 99 dollari l’anno per ottenere il certificato digitale che permette loro di pubblicare le nuove app sul sistema di Apple per la distribuzione al pubblico, e ricevuto eventualmente il 70% di quanto guadagnato sulla base del prezzo liberamente stabilito da loro, senza altre spese di gestione o di amministrazione rispetto a questo 30%. Un taglio netto della complessità, unito all’utilizzo di una tecnologia per la programmazione delle app di minore complessità rispetto a molte della concorrenza, ha reso l’ambiente iPhone uno dei più invitanti per gli sviluppatori. Soprattutto per quelli piccoli e piccolissimi, micro-aziende spesso composte da un solo individuo, capaci di realizzare al massimo uno o due software: nessuna app troppo complessa, molte completamente inutili, ma anche qualcuna assolutamente creativa e innovativa. La seconda categoria di attori del mercato che ha trovato nell’App Store un ambiente interessante, e che quindi ha deciso di investire decretandone ulteriormente il successo, è stata quella delle imprese, soprattutto piccole e medie, alla ricerca di alternative al solito sito web. L’app è un prodotto facilmente realizzabile, dai costi contenuti di produzione e di distribuzione, aggiornabile senza grandi sforzi, sviluppabile su una piattaforma sostanzialmente stabile. Uno sviluppatore di app per iPhone a fine 2010 chiedeva – negli Usa come in Italia e negli altri paesi dell’Europa occidentale – dai 5.000 ai 15.000 euro per realizzare un software, fino al massimo di 40.000 necessari per la realizzazione di app più complesse per grandi gruppi industriali.
INTERAZIONE CON L’UTENTE
Questa economia ha permesso ad aziende di piccole e medie dimensioni di utilizzare una nuova modalità di comunicazione e interazione con il proprio pubblico. Invece di ricorrere soltanto a un sito web vetrina o a un ben più costoso conctact center e relativo sistema di assistenza, con un’app hanno potuto dare una forma più leggera e facilmente erogabile a servizi di questo tipo. L’app si caratterizza come un atto comunicativo innovativo e performativo, che offre qualcosa di più che non la semplice brochure/catalogo di prodotti, o i riferimenti di un servizio di assistenza. Ancora di più, le app hanno facilità non solo a interagire con l’utente, ma a prelevare contenuti predisposti e visu168
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Eccola, dunque, la rivoluzione
LINK 10 Industry
Il software entra in tv (con Google, Apple & Co.) di Carlo Alberto Carnevale Maffé
Non ci si può limitare a parlare di convergenza di tecnologie internet e tv, ma bisogna studiare le strategie dei nuovi attori competitivi che entrano nel territorio economico e sintattico della tv. Quando un grande motore di ricerca come Google e un grande motore di relazione come Facebook si ibridano con il più grande motore di attenzione – la tv –, l’intero business model del settore cambia. Si affaccia una nuova forma di “sistema operativo sociale”. E parte la battaglia per il controllo.
illustrazioni di Enrica Casentini
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È docente di Strategia presso la scuola di Direzione aziendale dell’Università Bocconi, consigliere di amministrazione e advisor strategico di aziende del settore ICT e media e commentatore economico per diverse testate economiche nazionali e internazionali.
LINK 10 Industry Eccola, dunque, la rivoluzione
N
ato come “device di flusso”, eracliteo, dove tutto scorre e nulla permane, il televisore esce dall’attuale stagione di definitiva transizione al digitale trasformato in “sistema cartesiano”, pensante e cosciente. Più prosaicamente: finora amante svampita e senza memoria, ninfa plebea del divertissement, giocattolo per trastulli dell’attenzione e somma meretrice dell’intrattenimento, che ha sempre resistito alle tentazioni di programmazione esogena, il non-più-tanto-piccolo schermo, una volta digitalizzato, si fa saggia massaia, che conserva e indirizza, e avanza pretese di controllo domestico. O meglio, rischia di fare da avatar, quinta colonna per l’ingresso di nuovi attori che vengono da un mondo apparentemente diverso, ma che punta allo stesso modello economico e distributivo, e sempre di più allo stesso tipo di pubblico: sono i vari Google, Apple, Facebook, la sempre presente Microsoft, protagonisti del nuovo mondo informatico che l’ultima corrente della transizione al digitale ha definitivamente fatto sbarcare sulle rive del vecchio mondo televisivo. Non sempre con intenzioni pacifiche. Qui non si vogliono fare previsioni sul successo o l’insuccesso delle attuali o future versioni di Google Tv o Apple Tv, ma si ha l’obiettivo di riflettere con spirito critico su questi fenomeni dal punto di vista economico, organizzativo e culturale, per poi evidenziare le implicazioni per il mondo del broadcasting televisivo di fronte a questa ibridazione a lungo prospettata, ma che sta mostrando caratteristiche molto diverse da quelle inizialmente attese.
Content is still King, but Software is King Kong
Nella ben difesa fortezza televisiva, al centro dei nostri salotti, si è surrettiziamente introdotto un cavallo di Troia: il software. E porta in sé nuovi protagonisti, determinati a contendere la sovranità al Re Contenuto. Quando, accendendo un televisore, invece del rassicurante flusso di immagini di un canale a caso apparirà un desktop o addirittura un’homepage configurati come il vostro telefonino touchscreen, saprete che l’inoculazione è avvenuta, e con essa si dà inizio a un epico conflitto di poteri. Finora limitato a ruoli ancillari, come quelli di rispondere in modo goffo e spesso incomprensibile ai tasti di un telecomando, il software ha saputo approfittare delle nuove condizioni tecnologiche della convergenza digitale. I concetti di desktop e homepage erano finora estranei al mondo della televisione tradizionale. Il loro arrivo marca indelebilmente il passaggio a un nuovo modello economico ed editoriale, dove si completa l’ibridazione dei media ma soprattutto vengono redistribuiti i poteri e le rendite economiche. L’affermarsi del concetto di homepage sulla tv costituisce un fondamentale elemento di re-intermediazione sintattica rispetto alla classica EPG (electronic program guide) proposta dai broadcaster con una logica di esposizione diretta a un palinsesto preconfigurato di canali e contenuti. La nuova homepage tv non è fatta solo di canali televisivi, ma di app, siti web e dati digitali personali, come foto, musica o film/video, corredati da un sistema automatico di aggiornamento e sincronizzazione. L’arrivo di un vero file system con cartelle e gerarchie di dati consente la strutturazione ordinata delle preferenze. Così i nuovi attori del software possono apprendere non solo dal flow, ma anche dallo stock delle nostre preferenze televisive. Già oggi Google Tv offre il servizio Google Queue, playlist destrutturata di contenuti/bookmark da registrare e rivedere successivamente, anche tramite sottoscrizione a podcast video. Ed estrae, e vende, informazioni sulle preferenze degli utenti. 178
Sono molti anni che questa trasformazione viene continuamente annunciata e poi smentita dai fatti. Ma, come è successo con i telefonini, c’è voluto l’ingresso di nuovi attori per cambiare le regole del gioco. Apple, con la sua semplicità d’uso, Google, con la sua universalità, e Facebook, con la sua pervasività relazionale, hanno rivoluzionato il mondo dei telefoni, portando il proprio software e la propria concezione di interfaccia utente al centro dell’innovazione del settore. Ed è con le economie di scala, di scopo e con le esternalità di rete maturate nella convergenza tra telefonini e computer che i grandi attori del software e del social networking si preparano a conquistare un ruolo di primo piano anche nel mercato televisivo. La vendita di nuovi televisori è stata il fenomeno più rilevante dell’elettronica di consumo domestica negli ultimi due anni, e ha fatto diffondere device con capacità elaborative del tutto paragonabili a quelle di un normale computer. La vera novità non è tuttavia nell’hardware, ma nel software e in chi ne controlla gli standard. Poiché i grandi attori dell’high-tech non sono ancora riusciti a portare in modo sistematico la tv su internet per carenze infrastrutturali e per specificità di linguaggio, ora provano con la tecnica contraria: installare un po’ di software sul televisore. Qualcuno preconizzava che la tv diventasse una finestra sul pc, o che il web diventasse un canale tv. Invece sta succedendo una cosa diversa: il software si sta impadronendo del controllo sui processi di ricerca e selezione dei contenuti e di profilatura comportamentale degli utilizzatori. Per assaltare il fortino della tv, il software fa leva sulla onnipresenza in diversi device, a cominciare dagli smartphone. È importante evidenziare gli effetti economici di questa evoluzione; oggi il modello di business tv pay si basa sulla possibilità di fruire a pagamento di contenuti premium e quello free sull’estrazione di valore dall’attenzione concessa a un flusso di immagini video. Nel nuovo scenario, l’estrazione del valore deriva non solo dalla fruizione di contenuti, ma soprattutto dalla selezione e dalla ricerca. Per il mercato pubblicitario, la profilatura comportamentale avviene nell’intenzione espressa e confermata, non solo nell’effettiva attenzione più o meno accidentalmente concessa. Estrarre valore dall’irreversibile frammentazione dei canali e dei contenuti è un modo che ancora sfugge ai broadcaster tradizionali, abituati a gestire bene la concentrazione, ma non la dispersione dell’audience. Chi proprio da una frammentazione estrema, quella del web, ha saputo spremere il massimo valore, si presenta a questa sfida con tecnologie e competenze ben diverse. Si prospetta la nascita di una nuova forma di rendita oligopolistica sul mercato tv, costituita dal presidio del gateway di indirizzo e redistribuzione verso contenuti diversi dell’attenzione comportamentale profilata. Così le rendite economiche di un grande motore di ricerca sul web promettono di trasferirsi anche sullo schermo tv. C’è inoltre un altro grande fenomeno, costituito dalla disaggregazione del soggetto economico del mercato tv, che passa dall’aggregato familiare, almeno nominale, all’individuo, oggi riconoscibile tramite un processo di autenticazione e grazie a un pattern comportamentale associato.
LINK 10 Industry Eccola, dunque, la rivoluzione
Bisogna essere consapevoli che il software è la continuazione della battaglia dei contenuti con altri mezzi.
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IL SOCIAL FUORI DAL NETWORK
LINK 10 Industry
L’applicazione alle aziende, al brand, al commercio, al sociale di Michele Boroni
Altro che amicizie, status, commenti. I social network – reti sociali, come dice la parola stessa – possono diventare lo spazio in cui la società non soltanto si rappresenta, ma si rafforza. Le comunità di acquisto collettivo, i brand che coinvolgono i propri clienti, le forme di dialogo tra consumatori e con le aziende, l’integrazione della tv con la chiacchiera (non più del giorno dopo) e i social impegnati nel sociale sono solo alcune delle forme possibili. Giochi di società, o qualcosa di più?
illustrazioni di Enrica Casentini
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È consulente di marketing e comunicazione on e offline per aziende, agenzie e persone fisiche. Scrive su Il Foglio, GQ, Rolling Stone e cura la rubrica hi-tech per Style Magazine. È anche autore tv e radio. Ha scritto i libri CoolBrands (sb, 2006) e Brand 2.0 (B&P, 2007). Da otto anni ha un blog personale, EmmeBi, come si fa chiamare in rete.
LINK 10 Industry IL SOCIAL FUORI DAL NETWORK
L
e parole sono importanti, diceva qualcuno. Le parole cambiano la percezione delle cose e degli eventi e, se usate impropriamente, stravolgono i pensieri, le azioni e i contesti. Questo accade in maniera più evidente quando si tratta di neologismi o di parole inglesi che, improvvisamente, fanno la loro comparsa nelle nostre conversazioni, negli articoli dei giornali e nei documenti strategici delle aziende. Così, out of the blue. Senza preavviso e, sopratutto, senza darci il tempo di capirne davvero il significato. Prendiamo “social”, per esempio. Guardiamoci in giro, leggiamo sul web, ascoltiamo le dichiarazioni di chi opera nel mercato. L’impressione, sempre più forte, è che il termine social sia ancora molto utilizzato (diciamo pure monopolizzato) nel suo significato di socialità: amicizia, socializzazione, strumento per creare nuove relazioni. Al limite, come aggregatore di interessi intorno a un tema o a un argomento. I social media come agorà, così tanto amati da certa letteratura di settore; insomma, quella che un tempo veniva chiamata community. Tale associazione di idee suona, da molti punti di vista, come una riduzione delle opportunità che, nelle pratica, i social media potrebbero sviluppare, nel business e in altri contesti. Questa, ovviamente, non è soltanto una questione semantica. Forse varrebbe la pena di considerare e approcciare il termine social così come usato dagli economisti, cioè come rappresentazione della società. Non pensare quindi al social solo come processo e mezzo di comunicazione, bensì come un ecosistema (ok, l’ho detto) che si fonda su un sottile equilibrio di economia, politica, ruolo sociale e tecnologia, che ha al suo interno applicazioni e potenzialità ancora inespresse. Quello del social è un archetipo che oggi vale la pena indagare più da vicino: con le sue luci e ombre, con le opportunità ma anche le false chimere che offre.
ACQUISTI DI GRUPPO
1. Definizione tratta dalla presentazione Social Commerce di Paul Marsden, durante il Womma – Word of Mouth Marketing Association –, settembre 2010, Londra.
Si sente parlare sempre più spesso di social commerce, ovvero un sottoinsieme del commercio elettronico che prevede l’uso sociale dei media online, e che quindi supporta l’interazione e i contributi degli utenti al fine della compravendita di prodotti e servizi in rete1. Nell’interpretazione pratica del social commerce, il lato della domanda sembra sempre più organizzato rispetto a quello dell’offerta, come accade sovente di questi tempi. I gruppi di acquisto sono una realtà piuttosto consolidata e matura: sia quelli nati per finalità solidali o per empatia con i valori di un’azienda, sia per “bieche” motivazioni puramente commerciali – leggi: “fare gruppo per strappare al produttore uno sconto maggiore”. Insomma, qualunque sia il mercato di riferimento – alimentare, soprattutto, ma anche tecnologia e servizi –, iniziano a nascere nuovi comportamenti d’acquisto: le persone si aggregano, si organizzano su internet, usano in modo intelligente i gruppi di Facebook o le vecchie mailing list per dare vita a dei comportamenti virtuosi, per disintermediare, generando un rapporto diretto con il produttore. Dall’altro lato, l’offerta sta tentando di sfruttare le peculiarità bottom-up della rete, portando i prodotti e i servizi alle persone. Due tra gli strumenti più popolari oggi sono i club d’acquisto online – in Italia, Saldi Privati, Privalia, BuyVip –, outlet virtuali che consentono l’accesso a prodotti di marche prestigiose con prezzi fortemente scontati, o i cosiddetti social coupon – Groupon è il più celebre a livello globale, ma anche altri siti come Citydeal o Tuan188
gon – in cui vengono venduti coupon promozionali per l’acquisto scontato di servizi in ambito lifestyle e benessere, come abbonamenti a palestre, cene o aperitivi, trattamenti corpo e massaggi. Il problema di queste soluzioni d’offerta è il numero crescente di mail che arrivano all’utente-cliente, zeppe di marchi di ogni tipo, mescolati a caso senza una reale connessione tra loro, se non quella del basso prezzo, che inevitabilmente saturano la casella di posta, la pazienza e l’attenzione dell’utente stesso. Ciò che manca è la rilevanza, che nel mondo dell’online rappresenta uno dei valori risolutivi: mancando una segmentazione per interesse, il tutto rischia di banalizzarsi molto rapidamente sia agli occhi dei consumatori che non si “affezionano” al prodotto/brand, sia per i marketer che trattano tali attività come vendite temporanee, tattiche e non strategiche, svalorizzando il brand. Il social commerce ha valori e regole di funzionamento piuttosto chiare: la reputazione e l’autoprofilazione sono alla base dell’aggregazione e della condivisione in rete. Per questo motivo tornano comode anche le vecchie community, i forum e gli altri luoghi virtuali in cui si riunivano persone diverse, ma unite da uno o più interessi comuni. Il social commerce fatto come si deve permette di dare un senso, un fine e un modo di monetizzare tutte queste pratiche con un approccio win win. La speranza è che il social commerce, una volta diffuso e maturo, potrà finalmente decretare la morte dell’inutile advertising online così come è stato concepito e tuttora praticato: banner e pop-up che appaiono agli occhi dell’utente in modo del tutto inopportuno e casuale. Come si domanda Gianluca Diegoli sul blog MiniMarketing: “Perché devo andare ora a visitare il tuo sito se posso trovarlo (solo) quando mi serve?”2.
LA LOGICA DEL DONO
LINK 10 Industry IL SOCIAL FUORI DAL NETWORK
2. www.minimarketing. it/2008/07/la-teoria-delbanner-sociale.html.
Il social è un ecosistema fondato sul sottile equilibrio di economia, politica, ruolo sociale e tecnologia.
Social significa anche condivisione: nella definizione di sharing è contenuto anche il concetto di dono e questo fa sempre molta paura alla gran parte delle aziende, piccole e grandi che siano. Badate bene, però, che il dono in questo caso non è inteso nel senso disinteressato del termine, ma rientra in quella logica dello scambio simbolico che permette di far funzionare l’intero sistema. Ci sono esempi ormai classici per spiegare questa pratica: Skype eroga efficientemente e gratuitamente un servizio che ha un valore per noi utenti e, mentre lo fa, apprende qualcosa. Skype infatti è studiato in modo tale da usare e condividere le risorse dei computer connessi al network VoIP, perciò tenendo aperto il programma di Skype nel nostro pc, anche se non lo utilizziamo, contribuiamo a far funzionare meglio il suo network. Anche Google in fondo funziona così: la ricerca che effettuiamo è un dono che noi facciamo all’azienda in quanto questa, grazie a essa, può apprendere qualcosa e, allo stesso tempo, è un servizio che Google ci regala fornendoci i risultati della ricerca. Questi modelli di sharing commerce elaborati nell’ambiente web attraverso spazi comunitari e collaborativi, e quindi social, indicano le nuove regole di quello che viene chiamato commercio ibrido, che riesce cioè a intervenire su due mondi paralleli, quello commerciale e quello dello scambio gratuito e del 189
Š Hugh Routledge / Mail on Sunday / Rex Features
192
india
LINK 10 Industry
a cura della redazione
Paesi, culture, immaginari lontani. Cui corrisponde un sistema televisivo e mediale molto differente, tutto da scoprire. In questo numero, un’analisi del mercato televisivo indiano. Per chiudere con i Paesi del BRIC. E colpire i luoghi comuni con una mazza da cricket.
193
dati gener a li
Fonte: CASBAA, SNL Kagan, TAM India, ATAC.
Popolazione
1.167.062.590
Numero di famiglie
218.927.241
Numero di famiglie dotate di tv
140.130.681
Penetrazione tv sul totale famiglie Universo televisivo
64% 742.692.000
Numero di famiglie con pay tv
95.004.147
Numero di famiglie con internet
81.000.000
194
sistem a telev isi vo
Offerta televisiva Circa 300 canali gratuiti, via cavo e satellite PiĂš di 150 canali a pagamento, via cavo e satellite
Numero di abbonati alla pay tv per piattaforma Abbonati a servizi tv via cavo / MMDS
72.000.000
Abbonati a servizi di pay tv via satellite
18.446.000
Abbonati a servizi Broadband
8.737.310
Visione media quotidiana per individuo in India 2008
2009
Totale
130 minuti
138 minuti
Cavo/Satellite
149 minuti
154 minuti
Per confronto ¡ Visione media quotidiana per individuo in Italia
Totale Cavo/Satellite
2008
2009
234 minuti
239 minuti
-
230 minuti
Š Getty Images
195
Fonte: TBI Yearbook; EuroData Tv; Informa.
P R I N C I P A L I C A N A L I P E R A R E A G EO G R A F I C A
Fonte: PriceWaterHouse Coopers; EuroData Tv.
Tamil Nadu
Kerala
Sun TV
3,5 %
0,4 %
Kalaignar TV
0,6 %
0,3 %
KTV
1,4 %
n.d.
Asianet Plus
Vijay TV
n.d.
n.d.
Kiran TV
Jaya TV
0,4 %
n.d.
Kairali
Raj TV
0,2 %
n.d.
Amrita TV
Andhra Pradesh
Asia Net Surya TV
Marathi
Gemini TV
1,4 %
0,9 %
Zee Marathi
Teja TV
0,6 %
0,4 %
ETV Marathi
Eenadu TV
n.d.
0,3 %
Zee Talkies
Maa Telugu
0,7 %
0,4 %
Star Pravah
Zee Telugu
0,6 %
0,1 %
Star Majha
0,9 %
0,1 %
ETV Kannada
0,4 %
0,4 %
Zee Bangla
Udaya Movies
0,5 %
0,4 %
ETV Bangla
Zee Kannada
0,4 %
0,5 %
Star Jalsha
0,1 %
Star Ananda
Karnataka Udaya TV
West Bengal
n.d.
Aakassh Bangla
24 Ghanta
Share, totale giorno.
Š Getty Images
200
progr a mmi più v isti
Fonte: aMap; EuroData Tv.
Top 5 · Tv pubblica (2009 · Rating) Air Hostess Sapno Ka Aasman
7,2%
Serial
Doordarshan1
Kab Kyon Kaise?
7,1%
Serial
Doordarshan1
7%
Serial
Doordarshan1
Smart Shreemati
6,5%
Serial
Doordarshan1
Koi Toh Hoga Apna
6,4%
Serial
Doordarshan1
Krazzy Kiya Re
Top 5 · Cavo e satellite (2009 · Rating) Yeh Rishta Kya Kehlata Hai
6,5%
Serial
Rakhi Ka Swayamvar
6,4%
Reality Show
Bidaai
Star Plus NDTV
6%
Serial
Star Plus
Balia Vadhu
5,7%
Serial
Colors
Choti Bahu
5,6%
Serial
Zee Tv
le colonie battono i colonizzatori
© Getty Images
Le immagini documentano la finale della Cricket World Cup (chiamata anche Prudential Cup) del 1983, svoltasi in Inghilterra e vinta dall’India. Unico titolo mondiale guadagnato dalla compagine indiana, è stato nondimeno simbolico nel suo dipanarsi fino alla vittoria finale. L’India – la cui vittoria era data 66-1 dai bookmaker alla partenza –, guidata dal capitano Kapil Dev, sconfisse infatti la nazionale inglese (fino a quel momento
favorita del torneo) durante la semifinale all’Old Trafford di Manchester del 22 giugno e, successivamente, si aggiudicò il trofeo battendo, il 25 giugno, al Lord’s Cricket Ground di Londra, i campioni in carica delle Indie Occidentali Britanniche, una squadra multi-nazionale rappresentante una confederazione sportiva dei 15 principali Paesi caraibici di lingua inglese (dipendenti o meno dal governo britannico).
201
Sights
tav. i —
Splinter
creare falsi su wikipedia
LINK 10 Sights
Lo scontro tra custodi e sabotatori del sapere online di Stefano Ciavatta
Wikipedia ha appena compiuto 10 anni. E in questo tempo tutto sommato breve, l’enciclopedia collaborativa ha aumentato gli utenti, i collaboratori, le voci, le citazioni. Dagli articoli di giornale alle tesi di laurea, è ormai un riferimento costante, che sia citato o meno. Ma ci si può fidare dell’intelligenza collettiva? Invece di lanciarci in teorie e interpretazioni, abbiamo provato a dare voce a uno degli “attivisti” che instilla dubbi e variazioni tra le pagine. Con fini politici, dice lui. O per cazzeggio.
illustrazioni di Stefano Adamo Mayakasa
205
Giornalista professionista, lavora come redattore al Foglio dei fogli e per il Corriere della sera.
LINK 10 Sights CREARE FALSI SU WIKIPEDIA
C
apodanno 2005. Un giornalista dell’Espresso testa l’attendibilità di Wikipedia creando una voce del tutto fasulla. “Carlo Zamolli (Torino 1898 - Gressoney 1972). Poeta piemontese del Novecento, in stretto contatto con Mario Luzi e in accesa polemica con il Gruppo 63. La sua opera più celebre (Mai più con Paola e Ilaria, Mondadori 1939) esprime in endecasillabi le angosce di un uomo innamorato di due sorelle lesbiche. Il dibattito che ne seguì vide l’intervento di Alberto Moravia (Contro Zamolli, sul Corriere della sera del 18 febbraio 1967), a cui lo stesso Zamolli rispose con veemenza (La Settimana Incom, n. 38 del 1967). Vincitore di svariati premi (tra cui il Gorgona d’oro del 1971), si spense serenamente a Gressoney nel dicembre 1972”. 2011. Wikipedia, la libera enciclopedia fondata da Larry Ranger e Jimmy Wales, nata come progetto marginale nel 2001 e decollata autonomamente dal 2003, compie dieci anni. Edita in 280 lingue e con 60 milioni di accessi al giorno, è diventata una delle istituzioni del web: i suoi sostenitori hanno risposto all’appello di Wales per ottenere fondi necessari per rimanere (ancora per un anno) liberi dalla pubblicità. Sedici milioni di dollari donati da 500 mila persone in appena 50 giorni. Molti per un progetto no profit, ma Wikipedia è un fenomeno globale. Cosa succederebbe se un giorno Wales abdicasse alla pubblicità? Gli investitori accetterebbero la sua natura open source, con il corredo di voci controverse, pagine rimosse e falsi d’autore? Oggi che anche i numeri in questo senso sono aumentati, come racconta 17K, hacker italiano e attivista su Wikipedia: “Michael Jackson ha 26.000 revisioni, il Global Warning 28.000, Sarah Palin 27.000 e sappiamo che è stata beccata per questo in campagna elettorale. G.W. Bush ne ha 44.000. Qualcuno ha seriamente ipotizzato che fosse discendente di tedeschi e quindi nazista. Ci sono discussioni enormi sulle pagine di Gesù, la Striscia di Gaza, Adolf Hitler. La pagina della Chiesa cattolica ha tante revisioni come quella di Barack Obama, riscritta ventimila volte. Maometto, il Barcellona ed Elvis hanno gli stessi numeri. Ma come fai a notare discrepanza nel numero degli interventi e a metterti in allarme?”. Di fronte a questi numeri fanno sorridere le voci di personaggi inventati, etichettate da Wikipedia come “Scherzi e STUBidaggini”, come le improbabili biografie di Carlo Zamolli, Elia Spallanzani, pseudo scrittore oulipiano, o lo scienziato Klaus von Liebig. Oggi i falsi d’autore non sono più un divertissement. Per qualcuno sono diventati un impegno serio e a lungo termine. Nei primi di gennaio un servizio del Tg5 ha puntato il dito contro Wikipedia, definita inattendibile, piena di errori, faziosa, persino ideologica. “Meglio allora la cara e vecchia Treccani”, ha chiosato il giornalista in studio. È davvero così? Il peso del content di Wikipedia si conosce: non è un’enciclopedia classica, vuole uno stile più leggero, è sempre in costruzione. Quello virtuale pure: Wikipedia non è un’invenzione tecnologica, ma una comunità sociale del sapere. La più grande al mondo. Google si basa su Wikipedia come prima risorsa utile per documentare qualsiasi voce del sapere. Per questo Wikipedia è nella top ten di visite ogni anno. La misura di Wikipedia è invece il lato più fragile, perché sta tutta nel volontariato. Il sito è aggiornabile anche da utenti non registrati. L’upgrade continuo è uno dei principi della nuova enciclopedia: Wikipedia vuole riformulare il concetto stesso di attendibilità, sostituendolo piuttosto con quello di verificabilità. Ogni affermazione deve poter essere controllabile, perché il lettore capisca quello che sta leggendo, 206
quello che significa e il motivo per cui è stato scritto, invece di limitarsi a darlo per giusto. Per questo motivo, uno dei suoi motti è ‘citazione necessaria’”. Ogni tanto però anche l’esercito di appassionati volontari di Wikipedia fa cilecca o viene beffato. Ci sono gli scherzi di cattivo gusto, come dare per morto Lucio Dalla per poche ore sulla sua pagina il 12 dicembre 2010. Le bufale retrodatate, come il matrimonio di Umberto Eco con una figlia del suo storico editore, Bompiani. Gli spoiler letterari e cinematografici, come il finale del celebre giallo di Agatha Christie Trappola per topi, che in Inghilterra è diventato un caso. O le gaffe, come quella della politica francese Ségolène Royal, che ha citato in un suo discorso il naturalista settecentesco Léon-Robert de l’Astran, un abate dalle parole molto seducenti, ma inesistente. Tutto tramite Wikipedia. Per alcuni però questi sono solo esercizi di stile, per arrivare a risultati più profondi dopo un lavoro di lungo termine.
LINK 10 Sights CREARE FALSI SU WIKIPEDIA
ALTA TEMPERATURA, BASSA PRESSIONE
Sono gli hacker di Wikipedia, gli attivisti come 17K: “Per farti notare, puoi cominciare a correggere piccolezze in articoli perché trovi frasi scorrelate, oppure di tipo enciclopedico, con troppe subordinate. Se lo fai in maniera corretta, vuol dire che ami la tua lingua e stai già facendo molto per la comunità. Puoi anche intervenire in maniera casuale o contingente: magari fai una ricerca su qualcosa che non conosci, oppure vuoi subito il succo della questione, oppure ti gira di fare il saputello. Basta anche questo per mettere un piede dentro. Wikipedia ha un grosso numero di iscritti. Solo in Inghilterra ci sono 13 milioni di utenti registrati, tra questi 2.000 amministratori e 3.000 revisori. Ma si può intervenire anche senza essere registrati. Nel giro di tre giorni ogni tua revisione è moderata. Se è verosimile, resta due settimane finché qualche pignolo interviene. L’obiettivo è cambiare la temperatura piano piano senza cambiare la pressione. E in tre anni hai scritto la tua verità”. L’etica dell’attivista informatico punta più sullo scopo che sui mezzi: “Gli oggetti manipolati sono eterei, sono dati, informazioni da presentare e che devono colpire in un attimo, quindi non si può far male a nessuno, non si tratta di sparare. Di cosa stiamo parlando in fondo? Di verità e bugie, di pubblicità e di revisionismo. In una parola: delle sorgenti di sapere su internet. Io faccio l’attivista su Wikipedia perché è divertente. Non lo fai per necessità, non vinci nulla. In compenso riesci a piegare l’opinione della più grande enciclopedia del mondo, e farla bere a chi sta più sopra di te. Wikipedia ha dei moderatori molto rigidi e severi. Per costruirti una credibilità ai loro occhi ci metti molto tempo. Cerchi di farteli amici, anche perché non è che li incontri al bar, sei connesso virtualmente, ti scambi qualche mail. La strategia è appoggiarli nelle dure discussioni sui singoli punti delle voci controverse. Le occasioni non mancano di certo. A quel punto guadagni un po’ di margine per operare sulle cose che ti interessano davvero. Ti sorvegliano meno. Quando riesci a rovesciare tutto, hai vinto”. Ogni giorno, su Wikipedia, utenti professionisti e dilettanti aggiornano le voci della conoscenza, in tutti i campi: politica, economia, storia, fisica,
“Invento balle, come ogni pubblicitario. Solo che le metto in posti dove non le aspetti. Ed è efficace”.
207
tav. ii —
Skeletor
THIS WEEK IN ZOMBIES
LINK 10 Sights
Le false notizie, il loro ciclo di vita e le persone che rendono possibile tutto ciò di Violetta Bellocchio
Notizie riportate senza controllarne la fonte. Gossip gettati in rete in attesa che gli ingenui abbocchino. Profili falsi che raccontano le vite delle star. Omissioni strumentali e mancate correzioni. Non solo i media sono l’impero del falso, come direbbe François Jost, ma le deformazioni della realtà sembrano essere diventate un nuovo genere di racconto. Che a volte serve ad aumentare semplicemente il rumore di fondo che tutto assorbe e travolge. Ma altre ci apre gli occhi su un sistema dato troppo per scontato.
illustrazioni di Stefano Adamo Mayakasa
213
È l’autrice di Sono io che me ne vado (Mondadori, Milano 2009). Ha scritto diversi racconti, gli ultimi usciti su Rolling Stone e Alice Baum. Collabora a Studio.
LINK 10 Sights THIS WEEK IN ZOMBIES
3
1 luglio 2006. Interno notte. “Non sono un grande fan della realtà”, dichiara il conduttore televisivo Stephen Colbert dalla tribuna del suo talk show, The Colbert Report. Perciò si collega a Wikipedia, modifica una pagina e invita gli spettatori a fare lo stesso, suggerendo, per esempio, che “oggi in Africa il numero di elefanti è triplicato rispetto a sei mesi fa”. Potere della democrazia: se un numero sufficiente di persone crede in qualcosa, quella certa cosa diventerà un fatto. Colbert conclude: “insieme possiamo creare una realtà che mette d’accordo tutti. Ed è la realtà su cui ci siamo appena messi d’accordo”. Lui la chiama wikiality. L’anno precedente, nella prima puntata dello show, Colbert ha tenuto a battesimo la parola truthiness, cioè la vera verità che deriva dalle reazioni di pancia, in contrasto con quella desunta dal ragionamento, dalla competenza, dai libri. E trattandosi di un volto popolare, con un forte ascendente sui suoi spettatori, l’intervento su Wikipedia ottiene un prevedibile effetto-valanga: numerosissime le modifiche alle pagine “elefanti” e “Africa”; nasce un dibattito serio sulla condivisione delle informazioni, e su fino a quale punto possano essere verificate da un ristretto gruppo di persone. Stephen Colbert non esiste.
Il falso a fin di bene
Nelle parole dell’attore Stephen Colbert, “Stephen Colbert” è “uno sciocco che ha passato gran parte della vita a recitare la parte del saggio”: un opinionista conservatore, disinformato e borioso, fino al 2005 presenza fissa nel programma di satira The Daily Show. Il successo porta a uno spin-off tutto per lui – The Colbert Report, appunto – che va in onda subito dopo il Daily Show sullo stesso canale a pagamento, Comedy Central. Con il passare del tempo il personaggio si arricchisce, prendendo in prestito alcuni vezzi da “amici” e “alleati” molto reali: Stephen è anti-ambiente e catto-tutto, omofobo e ossessionato dalla virilità altrui, si rivolge agli spettatori chiamandoli “nazione”, conia parole nuove per mascherare i propri deficit lessicali, e così via. L’invenzione comica non sta tanto nella faziosità esasperata del conduttore, ma nella tecnica con cui lui seleziona le notizie del giorno: dà la precedenza alle emergenze più convenienti (che magari coincidono con i suoi traumi personali), setaccia la cronaca locale in cerca di storie ispirazionali, dichiara sorridendo che “l’importante è tenere viva la paura”. Chi abbia mai guardato un pezzetto di Fox News trova lo stesso linguaggio, gli stessi set grotteschi, lo stesso sventolio di bandiere. Un gioco complicato dalla seconda parte dello show, dove Stephen intervista uomini politici, attivisti, imprenditori, restando (finché può) nel personaggio. Ma fa tutto parte del piano: creare un falso talmente pulito da obbligare il suo stesso autore a prenderne le distanze ogni tanto. The Wørd è un monologo illustrato da scritte che lo contraddicono o rendono più esplicito il gioco alla base dello sketch. Cheating Death with Dr. Stephen T. Colbert, D.F.A. si apre con notizie autentiche su medicina e scienza, ma si chiude pubblicizzando pseudo-farmaci miracolosi prodotti dallo sponsor del segmento. Atone Phone è un numero verde che Stephen attiva nei dieci giorni tra Rosh Hashanah e Yom Kippur “per permettere agli spettatori ebrei di chiedermi scusa se mi hanno fatto qualche torto”, e ogni tanto arriva la telefonata di quello che non capisce lo scherzo. “Stephen, vergognati”. Al Daily Show non sarebbe successo. 214
Il falso educativo
In onda dal 1996, il Daily Show affida i ruoli di “inviati” e “corrispondenti” a una squadra di attori comici che offrono le loro interpretazioni paradossali dei fatti del giorno. Come a dire: l’attualità regala già abbastanza spunti, noi ci ricamiamo un po’ sopra, i confini non vengono superati troppo a lungo. In concreto, però, lo show è un calderone dove tutto si fonde: la realtà, i commenti del mezzobusto Jon Stewart, i siparietti in cui interagisce con un corrispondente impalato davanti al green screen, i servizi realizzati in esterni che fanno giornalismo reale. Nell’ottobre 2008 l’inviato Jason Jones viene spedito davvero a Wasilla, Alaska, la cittadina di cui la candidata alla vicepresidenza Sarah Palin è stata sindaco e che spesso cita come un gioiello di provincia americana vecchio stile. La comicità, in questo caso, nasce solo dagli stacchi di montaggio e dal tono ispirato con cui Jones descrive la “perfezione bucolica” di un paese cementificato, sporco, monopolizzato dai punti-vendita delle grandi catene. A volte per costruire un’illusione basta fare la faccia seria. La serie di reportage investigativi Brass Eye, trasmessa da Channel 4 nel 1997, prende autentici “temi caldi” (“droga”, “crimine”, “scienza”) e li tratta sbeffeggiando il sensazionalismo dei media britannici. Torna nel 2001 con una puntata speciale sulla pedofilia. Riprendendo una tattica abituale del programma, alcuni personaggi pubblici vengono convinti a diventare portavoce di finte organizzazioni no-profit per la difesa dei minori, e poi filmati mentre leggono dichiarazioni quali “i molestatori hanno più DNA in comune con i granchi che con la razza umana”. Intanto un pedofilo irrompe in studio, viene catturato, messo alla gogna, presentato al figlio seienne del conduttore, dichiara di non volerci fare sesso perché “non lo trova carino” e il conduttore si blocca in una smorfia offesa. Bilancio dell’episodio: un’ondata di moral panic che supera quelle legate a veri sequestri e omicidi di bambini. C’è scritto su Wikipedia.
LINK 10 Sights THIS WEEK IN ZOMBIES
Potere della democrazia. Se un numero sufficiente di persone crede in qualcosa, diventerà un fatto.
Il falso democratico
Il meccanismo alla base di Wikipedia è tanto insolito da aver dato origine a quello che alcuni chiamano il paradosso di Wikipedia: il numero delle informazioni corrette supera sempre gli interventi maliziosi, e questo dimostra che le masse, lasciate libere, tendono naturalmente alla correttezza. In che mondo esemplare viviamo, se un’enciclopedia editabile da chiunque non è stata sostituita in toto dalla gif animata di una scimmia che sbatte i piatti tempo tre ore dalla messa online. E ora, aggiorniamo il paradosso di Wikipedia: 1. uno strumento selvaggiamente inaccurato rappresenta comunque il più accurato tra quelli disponibili gratuitamente, secondo solo ai siti ufficiali dedicati a una persona o a un prodotto; 2. qualsiasi strumento che racconti se stesso come il frutto della conoscenza condivisa propaga un falso. Nel maggio 2010 il fondatore Jimmy Wales annuncia che provvederà personalmente a una bonifica delle immagini contenute in Wikimedia Com215
tav. iii —
Slimer
CONVERGENZE SEPARATE LINK 10 Sights
Nuove narrazioni e un nuovo digital divide di Paolo Interdonato
Convergenza, in fondo, è un termine facile. Sta bene su tutto. Include questioni diverse, le mescola in un solo pastone. Forse è giunto il momento di tornare a separare alcuni aspetti, di dare occhiate più approfondite. Per esempio, per cogliere le enormi discrepanze – nuovi digital divide, per usare un termine che andava di moda qualche anno fa – tra chi ha capito come funziona e chi invece ancora si arrabatta. Perché non basta il cambio di paradigma, ma bisogna sforzarsi di metterlo in pratica. Davvero.
illustrazioni di Stefano Adamo Mayakasa
219
Si occupa di organizzazione e tecnologie e si interessa di narrazioni che miscelano parole e immagini. Nel 2007, è uscito il suo libro Spari d’inchiostro: Appunti per un canone del fumetto (Perdisa Pop, Bologna). Organizza eventi (Lucca Comics Talks dal 2007 e Streep dal 2009), progetta riviste in pdf come Nubi, aperiodico permanente di parole e immagini, e Mosso. 1000 buoni motivi per stare al mondo. Il suo blog è Spari d’inchiostro.
LINK 10 Sights CONVERGENZE SEPARATE
I
l dizionario di chi si occupa di tecnologie e di media vive di ossessioni. Ci sono parole che appaiono, quasi casualmente, e vengono ripetute, con frequenza sempre maggiore, fino a diventare una specie di mantra in cui una comunità, sempre più vasta, si acciambella in cerca di conforto. Può succedere che poi queste parole scompaiano. A volte lo fanno con la stessa velocità con cui si erano mostrate. Altre lasciando un’eco che riverbera nell’industria dell’informazione generalista e un po’ ritardataria. A quel punto, non sono più parole che vogliono divenire ambiente ed essere vissute: ma vocalizzi innecessari presso i quali fare capatine fredde e veloci come prelievi al bancomat. Alcune parole, dopo essere apparse e scomparse, tornano a emergere, come i corsi d’acqua carsici. E, quando riappaiono, hanno subito uno slittamento nell’uso, lieve o brusco, che le veste di senso nuovo. Prendiamo, per esempio, la locuzione digital divide, che da anni conosce, a fasi alterne, momenti di grande popolarità. Come è noto, si riferisce alla separazione, spesso insormontabile, tra chi accede alle tecnologie digitali e chi ne è tenuto forzatamente alla larga. Dopo che era stata usata un po’ di volte, a metà degli anni Novanta del secolo scorso, per indicare la differente distribuzione di pc tra i gruppi etnici negli Stati Uniti, è divenuta improvvisamente popolare quando, nel 1996, durante i loro discorsi, il presidente Bill Clinton e il vicepresidente Al Gore parlarono entrambi di digital divide per indicare la disparità di accesso alla tecnologia degli americani. Oggi quelle parole continuano a riferirsi alla presenza di pc connessi a infrastrutture, ma ci raccontano anche della difficoltà di usare le tecnologie digitali prodotta da analfabetismo, preconcetti e paure; possono avere connotazione squisitamente locale o valore globale, rimarcando così la distinzione tra le ricchezze dei paesi; indicano le tecnologie di accesso di base ma anche quelle avanzate come banda larga e wi-fi. Un “lemma” elastico, capace di significare tanto un divario sanabile con oculati interventi sociali quanto un baratro profondo e scosceso che non abbiamo alcuna possibilità di aggirare.
Convergenze in casa mia
Una parola, particolarmente cara ai lettori di Link, che ha recentemente arricchito il dizionario di chi si occupa di tecnologia e media è convergenza. Henry Jenkins, che ne è il massimo alfiere e teorico, nel suo Cultura convergente, ne dà questa definizione: Parola che descrive il cambiamento tecnologico, industriale, culturale e sociale nei modi in cui i media circolano nella nostra cultura. Tramite questo termine vengono generalmente indicati: il flusso di contenuto attraverso più piattaforme mediatiche, le cooperazioni tra diverse imprese della comunicazione, la ricerca di nuove strutture di finanziamento dei media che si innestano negli interstizi tra vecchie e nuove piattaforme, e il comportamento migratorio dei pubblici che andrebbero quasi ovunque pur di trovare il tipo di esperienze di intrattenimento che cercano. Più in generale, la convergenza mediatica si riferisce a una situazione in cui più sistemi della comunicazione coesistono abilitando un flusso dei contenuti fluido. Convergenza è un processo in corso come una serie di intersezioni tra diversi sistemi mediatici, non come relazione stabile.
Con questa definizione, che è anche una dichiarazione di intenti, Jenkins evidenzia come sia impossibile dare alla parola convergenza un senso nitido e 220
ben delineato. Essa non indica uno stato ma un complesso processo di trasformazione, si trova avvolta in una nube di piacevole imprecisione: tutto scorre. È interessante osservare come, nei discorsi della comunità che parla di tecnologia e narrazioni, questa definizione piuttosto vaga – che si adagia con tocco lieve su linguaggi, contenuti, industrie, mezzi e piattaforme – sembri, oggi, accettata da tutti. Eppure si tratta di un concetto difficile da spiegare. È molto più facile e naturale viverci dentro, con una tastiera (o uno schermo multi-touch) sotto le dita. Le convergenze si riferiscono ai contenuti che, attraversando linguaggi, supporti e piattaforme, cambiano forma e coinvolgono le comunità di utenti in circoli virtuosi di produzione e consumo. Esse toccano i processi di produzione, fruizione e condivisione dei contenuti digitali, vestendoli di modelli d’uso partecipativi che sembrano fare esplicito riferimento al vecchio concetto di prosumer (l’utente bricoleur che è, al tempo stesso, produttore e consumatore dei manufatti che usa) indagato, nell’ormai lontano 1980, dal futurologo Alvin Toffler in The Third Wave. Le convergenze si riferiscono anche alla forma che la tecnologia sta assumendo nella casa di ciascuno di noi. Il tinello degli italiani ospita, intorno al televisore, una foresta di elettronica e cibernetica: varie scatole, diversamente connesse, ognuna delle quali specializzata in una specifica funzione. Anche le scrivanie degli uffici, per un po’, sono state caratterizzate da una spianata di componenti distinte e da un intrico di cavi. Il momento di peggior disagio entropico è stato quando, da qualche parte a metà degli anni Novanta, sulla superficie bianca e impiallacciata c’erano vari oggetti che oggi sono già fulgidi esempi di archeologia informatica: dock-in station in cui innestare un pc portatile e a cui afferivano monitor, mouse, tastiera e masterizzatore per cd, telefono fisso con tantissimi tasti funzione e, qualche volta, fax e stampante. Tra tutti questi oggetti giacevano dischi di plastica (cd e floppy disk) e una sconsolante distesa di carta: come se l’informazione a schermo fosse meno vera di quella stampata. Oggi la scrivania serve sempre meno e i knowledge worker fanno molto più di quanto potessero fare solo dieci anni fa usando solo un laptop e un cellulare, che vengono sostituiti e aggiornati spessissimo.
Sedendo e mirando: senza passare dal via
CONVERGENZE SEPARATE
È facile affermare che nessuna delle generazioni precedenti ha letto e scritto tanto quanto quella di oggi.
Il concetto di digital divide prevede anche un posizionamento individuale. Chi guarda a quell’idea con interesse, pensando alle tattiche e alle strategie per ridurre il divario, sa di essere, al di qua del baratro, in una posizione privilegiata in cui l’accesso alle tecnologie è garantito da disponibilità di infrastrutture, possesso di device sempre più avanzati e competenze maturate in assenza di pregiudizi. Potremmo addirittura arrischiarci a maturare l’illusione che tutti coloro che hanno consapevolezza del digital divide godano di una condizione che consente loro di gettare sconfinati sguardi di là dal fossato e di accettare con naturalezza la nozione di convergenza. Quest’ultima è un’idea complessa e indefinita che può essere, però, brandita come un assioma, non avendo alcun bisogno di essere dimostrata o 221
LINK 10 Sights
LINK 10 Sights CONVERGENZE SEPARATE
vocazione, storia personale e professionale e volontà – deve necessariamente credere che i dispositivi che usiamo ci stanno trasformando e, con noi, stanno modificando radicalmente il modo in cui interagiamo con le storie. È una trasformazione talmente irruenta e radicale da poterla considerare una vera e propria rivoluzione. Thomas Kuhn ci spiega come le rivoluzioni scientifiche modifichino il paradigma attraverso cui guardiamo il mondo e, di conseguenza, come queste modifiche debbano essere metabolizzate attraverso una lenta rilettura del mondo. Scrive: “Non si può passare dal vecchio al nuovo solo per aggiunta a ciò che già si conosceva. Nemmeno si può descrivere il nuovo utilizzando il lessico del vecchio o viceversa”. E ancora: “Caratteristica principale delle rivoluzioni scientifiche è che modificano la conoscenza della natura che è intrinseca al linguaggio stesso, e che perciò è preliminare a qualunque cosa si voglia definire come descrizione o generalizzazione, di tipo scientifico o comune”. Ecco. Proprio in Kuhn, teorico delle rivoluzioni scientifiche che ha segnato l’epistemologia, troviamo una chiave di lettura fondamentale per capire cosa sta succedendo a chi produce e consuma narrazioni nell’epoca della convergenza. Siamo di fronte a una modificazione radicale del paradigma d’uso delle storie in cui viviamo e, ancora, non abbiamo maturato le parole per dirlo.
224
tav. iv —
Garfield
Streghe, noi?
LINK 10 Sights
L’ascesa comunicativa del Tea Party e i dubbi sul futuro di Stefano Pistolini
Non c’è soltanto Obama. Va bene, il misto di vecchi e nuovi media che ha innervato la sua campagna l’ha aiutato ad arrivare alla presidenza degli Stati Uniti (e già ne abbiamo parlato). Ma le lande americane sono ora popolate da nuovi fenomeni, insieme politici e mediali. Così, sul lato destro della scena, negli ultimi tempi si è affacciato il Tea Party. È solo un fenomeno da baraccone o c’è della sostanza? Sarah Palin è il profeta di un branco di esaltati o il futuro leader del Paese? Proviamo a capirne qualcosa in più.
illustrazioni di Stefano Adamo Mayakasa
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È giornalista e autore radiotelevisivo. Il suo principale settore di interesse è l’America, su cui ha scritto libri e ha realizzato inchieste e documentari. Scrive per Il Foglio (dove tiene anche una rubrica di musica settimanale) e Rolling Stone. In tv recentemente ha firmato, con P. Giaccio, il ritorno di Mister Fantasy su Rai Extra. Ha realizzato una videostoria del rap romano, Nessuna certezza nessuna paura.
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trana convergenza: è nato un movimento che per definizione è elitario, visto che tende a selezionare i suoi sostenitori su base razziale, sociale e di reddito. Eppure, nel contempo, lo stesso movimento è oggetto di accuse e sospetti per la superficialità e la volgarità populistica. Bene: siete arrivati nel frizzante mondo delle contraddizioni chiamato Tea Party. Correvano gli anni Sessanta quando nacque un movimento sociale che voleva smantellare l’establishment. Era stato battezzato Nuova Sinistra, e predicava il ritorno all’individuo, il depotenziamento delle élite e forse anche la Rivoluzione. Oggi è nato un nuovo movimento sociale. Si chiama Tea Party, e anch’esso vuole smantellare l’establishment. Vuole tornare alla “gente”, mettere la museruola alle élite e parla perfino di rivoluzione. In parecchie occasioni i tea partiers adottano le tattiche che furono della Nuova Sinistra. Per esempio, scendono nelle strade, ne fanno il teatro delle loro dimostrazioni e lo sfondo delle loro prese di posizione, studiate ad hoc per stupire la maggioranza silenziosa. È una parentela non casuale: Dick Armey, uno dei più ascoltati portavoce del Tea Party, racconta di ispirarsi ai metodi di Saul Alinsky, il principale stratega della Nuova Sinistra. Entrambi i movimenti professano “l’innocenza delle masse”, la convinzione che la “gente” sia virtuosa e che siano i governanti di professione a iniettare nel tessuto sociale il veleno della corruzione. L’analista Michael Lind ha paragonato Glenn Beck al leader della controcultura Usa anni Sessanta Abbie Hoffmann: entrambi hanno lavorato all’edificazione di un antisistema, attrezzato con i suoi attivisti, i suoi think tank, le sue sigle e i suoi leader pronti a diffondere la nuova ideologia. Eppure questo nuovo movimento ha saputo crescere a tempo di record e oggi gli americani cominciano a capire che i tea partiers non sono solo dei biliosi, ignoranti, razzisti retrogradi, che cercano di sabotare il primo presidente nero della nazione. Ma che, in maggioranza, sono gente appassionata, decentemente acculturata, attorno alla mezza età e su posizioni moderatamente critiche dell’amministrazione Obama. Il 37% è laureato, contro una media nazionale del 25%. Il 20% guadagna più di 100.000 dollari l’anno, a fronte del 14% certificato su base nazionale. E, quanto all’età media, i sospetti sono fondati e il 75% degli attivisti ha più di 45 anni: un dato che suggerisce un’aggregazione di gente con la testa sulle spalle ed esperienza della politica, più che un branco di provocatori.
VISUALITÀ
L’idea di partenza del movimento, sotto l’aspetto comunicativo e rappresentativo, può essere definita “ossessione della base popolare”. È il continuo e insistito rilancio del valore dell’“espressione diretta” – ovvero mai mediata dai politici di professione – del sentimento di malessere condiviso, oltre che di sfiducia nei confronti dei delegati a rappresentare. È una spettacolarizzazione dell’insoddisfazione che, da sentimento individuale di scontento, diventa momento di un’aggregazione inattesa. Perché esistono fattori nativi del Tea Party che rivelano una sua natura eminentemente comunicativa: per esempio, la visualità. Quella visualità che si rileva nel suo essere un movimento open air e stradale, che si esplicita attraverso annunciati raduni nelle grandi città – con appuntamenti pubblicizzati dagli stessi media, che si fanno poi trovare pronti a testimoniarli – in cui si celebra la convergenza dei punti di vista di una moltitudine di americani fin lì ben poco avvezzi a inquadrarsi nella disciplina di un movimento di opinione. Ovvio, di conseguenza, che questa 230
natura estetica e visuale del movimento ne ecciti la stravaganza: quella bizzarria celebrata dai convenuti in occasione delle manifestazioni e dei raduni nei grandi alberghi, con il copioso utilizzo di costumi dal gusto festoso ed evocativo come quelli dei combattenti per l’indipendenza, dei Minutemen o delle suffragette. E poi con l’esposizione di cartelli fantasiosi e post-politici, con la diffusione di musiche tradizionali, con la coralità di slogan che somigliano ai rumorosi quanto innocui gridi di battaglia del football universitario. Tutto è da vedere. Da sentire. Da fotografare. Da portare a casa, in provincia, in formato souvenir. Il movimento è nato con un consumismo embedded, organico all’idea stessa del fare qualcosa insieme, intrecciato all’idea d’improvvisarsi attivisti. Una vera panacea per la tv post-elettorale, alla ricerca di nuove piattaforme su cui ricostruire l’ascolto, dopo il botto dell’apparizione di Obama nelle vesti del Nuovo Salvatore. Sulle entusiastiche e rustiche prese di posizione di queste facce nuove, Fox News e i talk show radiofonici hanno subito scommesso forte: grazie al Tea Party si poteva continuare a eccitare gli animi e a fare ascolti, alla faccia dei ronzini repubblicani, che non avevano saputo esprimere niente di meglio che la strana coppia McCain-Palin. È cominciata così, ed è stata una travolgente cavalcata mediatica. Paragonabile per molti versi (e “per opposizione”) alla campagna elettorale di Obama: là era tutto uno spirito raffinato e contemporaneo – quando non pionieristico – nell’approccio ai nuovi media, usati come potenti collettori di finanziamenti e come strumenti di propaganda, di aggiornamento e di coordinamento. Con il Tea Party, invece, ecco la rivincita dell’improvvisazione (almeno apparente), dello spontaneismo, dello slancio dilettantesco e sincero. Si va. Non si sa bene dove, ma intanto si va. Non c’è da stupirsi che ciò sia piaciuto da morire a chi, di professione, racconta per immagini. E che per osmosi sia arrivato al pubblico a casa nel formato di una festa a cui era semplice partecipare. Il segreto dell’accessibilità, insomma. Non a caso, quando nell’ala progressista dell’informazione qualcuno in gamba come Jon Stewart e Stephen Colbert ha deciso di manifestare dissenso (o, per meglio dire, disgusto) verso l’onda qualunquista del Tea Party, ha scelto di farlo imitandone lo stil novo: tutti in piazza, a Washington, a confondere una manifestazione politica con una festa popolare, un concerto rock e un happening – paesano e snob al tempo stesso. In fondo Michele Santoro, con il suo raduno Raiperunanotte di Bologna, non fece lo stesso, da noi, sotto le insegne di quegli italici e violetti “cani sciolti” che qualche risonanza con il Tea Party potrebbero averla? A saper ipnotizzare le folle e a farlo in grande stile, c’è tutto da guadagnare. La storia lo attesta. E lo sa il talento più puro che si aggiri nei dintorni del Tea Party, entrandone e uscendone come leader momentanea: Sarah Palin. È sua la titolarità del miglior exploit comunicativo del 2010, per quanto riguarda la politica Usa: quel filmetto messo su YouTube e intitolato alle Mama Grizzlies, le mamme orse che lavorano duro e si inferociscono se vedono minacciati i loro cari. Donne forti, tenaci, con l’energia per spostare le montagne. Esattamente come lei ama descriversi, mentre si accinge a dare bat-
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A saper ipnotizzare le folle e a farlo in grande stile, c’è tutto da guadagnare. La storia lo attesta.
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Sulle strade dell’ information art di Francesco Spampinato
Nuova tappa della nostra esplorazione lungo una delle (im)possibili frontiere dell’immagine televisiva: la videoarte. E visto che nella cover story si è parlato di dati, di rappresentazioni e di complessità, stavolta seguiamo gli artisti che si occupano di information art. I codici e i database possono diventare le sorgenti e le matrici di nuove modalità di espressione. Immagini e video possono essere generati a partire da set di oggetti e cluster di regole. A cavallo tra l’arte e il design, tra la musica e la pubblicità.
illustrazioni di Stefano Adamo Mayakasa
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È artista e teorico dell’arte. Dopo la laurea in Storia dell’arte presso l’Università di Bologna, nel 2006 ha conseguito un master in Modern Art presso la Columbia University di New York. Collabora con la NABA di Milano, dove è visiting professor di Performance Art. Scrive per Flash Art, Kaleidoscope, Impackt e Artlab. Il suo libro Experiencing Hypnotism è stato pubblicato da Atomic Activity Books nel 2009. Vive e lavora tra Bologna e New York.
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1. L. Manovich, The Language of New Media, MIT Press, Cambridge 2002.
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quarant’anni da Information al MoMA di New York, la cultura visuale all’alba degli anni Dieci del XXI secolo è ancora affetta da problematiche simili. La mostra faceva il punto della situazione su fenomeni allora emergenti come l’arte concettuale, l’arte povera, l’arte ambientale e la process art, a partire dalla presa di coscienza di una realtà che incominciava a smaterializzarsi in dati. Oggi sempre più artisti, musicisti e designer si confrontano con l’informazione attraverso la visualizzazione di realtà complesse e speculazioni estetiche sulla natura del codice binario. Molti lo fanno usando i media digitali e internet come strumenti creativi, ma solo dal punto di vista formale, senza necessariamente indagarne la struttura. Altri, invece, mutuano dai sistemi numerici il linguaggio, cambiando le regole della visione. La vera novità della rivoluzione elettronica, infatti, consiste nelle infinite possibilità di ri-scrittura che l’oggetto digitale offre all’utente, consentendogli un accesso random che rompe definitivamente le regole della narrazione su cui si reggevano i media analogici sino al secolo scorso e che destabilizza gli equilibri tra autore, distributore e consumatore. Come sostiene Lev Manovich in The Language of New Media, l’esempio perfetto di digitalizzazione è la pagina web che appare sempre diversa grazie alla combinazione di particolari diversi che noi stessi contribuiamo a generare1. Così oggi ci ritroviamo quotidianamente di fronte a dispositivi interattivi, che ci richiedono di intervenire. Si tratti di un sito web, di design relazionale, di un’app per il nostro smartphone o di un’installazione video, il nostro coinvolgimento è fondamentale e necessario. La nostra cultura ci impone di rispondere a più stimoli, inviare comandi, accarezzare schermi e attivare connessioni. Ma quante contemporaneamente?
CRONOSCOPIA
La information art, o arte del codice, o ancora algorythm art, ha origine nelle ricerche in materia di cronofotografia di Étienne-Jules Marey e Eadweard Muybridge nel XIX secolo. La fotografia, si sa, ha rivoluzionato il nostro rapporto con lo spazio, ma la cronofotografia ci ha permesso di conquistare il tempo, aprendo la strada a una delle più grandi rivoluzioni della modernità: il cinema. Con la cronofotografia, per la prima volta, il movimento di corpi umani, animali e oggetti viene sezionato su carta e analizzato nel dettaglio. La ricaduta sui media artistici tradizionali è notevole. Futurismo, dada, cubismo, costruttivismo e Bauhaus trovano linfa vitale in questi studi che, accompagnati dal fascino per l’ingegneria e il progresso, sono alla base delle loro ricerche sul rapporto uomo-macchina. Le avanguardie storiche virano così inevitabilmente verso l’astrazione grazie all’impiego di collage, assemblage, montaggi e fotomontaggi, inventando un linguaggio di natura proto-elettronica inizialmente omologo alla cronofotografia, poi al cinema, ai media e alle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche. Il cinema di Dziga Vertov, in particolare, diventa il simbolo dell’occhio elettronico che si muove sull’uomo-massa protagonista della rivoluzione russa prefigurandoci, in modo neanche poi così velato, un’inquietante metafora orwelliana, quella del cine-occhio come occhio del grande fratello che sorveglia dall’alto i movimenti delle comunità umane. Oggi invece siamo abituati a essere spiati dalle telecamere di sorveglianza, sotto i vestiti dai body scanner degli aeroporti e sotto la pelle dagli strumenti medici. Non c’è più porzione di noi stessi e dello spazio che ci circonda che non conosciamo. Ogni angolo della terra è mappato e le sue coordinate archiviate secondo parametri fa238
cilmente accessibili a chiunque grazie a un comune Gps o a software come Google Earth.
LA CITTÀ-CERVELLO
Come per Vertov, la preoccupazione di molti artisti contemporanei è ancora per una città che diviene cervello, densa di energia, dove l’essere umano è un numero che si muove entro apparati panottici esemplificati nel modello del database. Il database è la pre-codificazione dell’umanità, la prova della nostra esistenza in quanto somigliante a modelli ampiamente riconosciuti, avatar replicabili all’infinito. Il punto di partenza della information art dunque è proprio la coscienza della riduzione della realtà in dati così come emerge, per la prima volta dopo Information, in Les Immateriaux, mostra curata da Jean Francois Lyotard al Centre Pompidou di Parigi nel 1985 che spazia dalla pittura alla geofisica, dal video alla cibernetica, per ragionare su “le passage d’une société à énergie intensive à une société à information intensive”2. Il cervello dell’artista sintetizza il mondo in cui è immerso, lo rielabora e ne restituisce una possibile sembianza sulla tela o attraverso video, installazioni ambientali e software. L’opera d’arte non è più specchio che riflette la realtà, ma il mezzo per visualizzare un’infosfera immateriale fatta di onde, scariche elettromagnetiche e flussi e riflettere così sulla nostra satura esistenza mediale. Di questo ci parlano i Data Diaries (2003) di Cory Arcangel. Si tratta di email, musica, immagini e testi, ore di consumo digitale archiviate come jpeg, mp3 e doc nel computer dell’artista e “aperti” con Quick Time Player, programma notoriamente atto alla lettura di video. Ne derivano diagrammi digitali e tavolozze mnemoniche di natura ipnotica, tutte diverse ma tutte uguali. Come dice Maurizio Lazzarato: “La tecnologia video, dunque, non presenta delle immagini, ma unicamente delle linee e dei punti, come in un tessuto. Ma, a differenza della tessitura, tesse e ritesse sempre nuovi motivi”3. Video e immagini numeriche diventano, nelle mani di alcuni artisti, strumenti per esplorare la caducità del cyberspazio, dietro alla cui superficie sensibile non si nascondono che codici.
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2. J.F. Lyotard, Les Immateriaux, catalogo della mostra al Centre Georges Pompidou, Parigi 1985. 3. M. Lazzarato, Videofilosofia. La percezione del tempo nel postfordismo, Manifestolibri, Roma 1997.
L’opera d’arte non è più specchio della realtà, ma un’infosfera fatta di onde, scariche magnetiche e flussi.
DIGITAINMENT
Di recente, il Victoria & Albert Museum di Londra ha ospitato Decode: Digital Design Sensations, una rassegna sugli ultimi sviluppi della information art e del design interattivo organizzata con l’aiuto del collettivo Onedotzero, in seno a una tradizione che da vent’anni ruota attorno al festival Ars Electronica di Linz in Austria e a istituzioni come il ZKM di Karlsruhe in Germania. Mai come adesso la information art è stata vicina alla cultura digitale, ma non sempre questo vuol dire che si ponga anche come strumento per riflettere sulle nuove tecnologie. Spesso si esaurisce in puri esercizi di stile, operazioni manieriste che esplorano la consistenza del dato, ma solo da un punto di vista formale. Certo non è il caso di John Maeda, designer e teorico del MIT, il cui “intellectual and aesthetic rigour turns his investigations into spiritual rather than design exercises”4. 239
4. C. Paul, Digital Art, Thames & Hudson, London 2008.
Christiane Baumgartner intervista a cura di Helen Waters
Fissare il flusso del tempo. Riportare in vita le immagini, dando loro una consistenza corporea. Siamo talmente abituati al mescolarsi di foto e video vecchi e nuovi che si rischia di dimenticare il valore di tale operazione. O la sua stranezza. E la fatica, la difficoltà della memoria. L’artista tedesca Christiane Baumgartner cerca di reintrodurre la fisicità e la complessità dentro le immagini che passano in tv. E così ferma l’ immagine, la sceglie, la intaglia e la stampa. Il passato in un istante. Il testo dell’intervista è stato raccolto in occasione della mostra Reel Time, dal 17 febbraio al 19 marzo 2011 presso la Alan Cristea Gallery di Londra.
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LINK 10 Sights Portfolio
Eldridge Street, 2009. Incisione su carta giapponese Misumi. Dimensioni della carta: 59.5 x 73.5 cm. Dimensioni dell’immagine: 42.5 x 56.5 cm. Edizione in 16 copie. Eldridge Street Š Christiane Baumgartner, by SIAE 2011
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Solaris IV, 2008. Da una serie di quattro incisioni su carta Kozo. Dimensioni della carta: 140.0 x 240.0 cm. Dimensioni dell’immagine: 118.5 x 220.0 cm. Edizione in 6 copie. Solaris IV Š Christiane Baumgartner, by SIAE 2011
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Link idee per la televisione N.10
Decode or Die. L’infografica applicata alla tv Proprietà letteraria riservata · ©RTI ISBN 9788895596112 ISSN 1827-3963
direttore editoriale
Marco Paolini direttore
Fabio Guarnaccia coordinamento editoriale
Luca Barra in redazione
Alessia Assasselli si ringrazia per la collaborazione: Luca Bersaglia, David Capelli, Roberta Dalpasso, Gabriella Mainardi, Silvia Pellizzoni, Paola Ruggeri, Hanna Sorrell, Gabriele Trevisan. e-mail link2link@mediaset.it sito www.link.mediaset.it blog www.linkmagazine.blogspot.com link · rti Viale Europa, 48 20093 Cologno Monzese (MI)
art director
Marco Cendron progetto grafico
Pomo impaginazione e rielaborazione grafica mappe
Alessandro I. Cavallini, Tommaso Dell’Anna L’editore si dichiara disponibile a colmare eventuali omissioni relative a testi e illustrazioni degli aventi diritto che non sia stato possibile contattare. finito di stampare da tipografia negri · bologna · nel mese di marzo 2011
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Cover story
DECODE OR DIE L’infografica applicata alla tv con elaborazioni grafiche di DensityDesign e testi di Donato
Ricci e Matteo Bittanti da pag. 74
La moltiplicazione dei dati: una complessità che minaccia di schiacciarci. Le visualizzazioni grafiche, come le carte geografiche dei grandi esploratori, sembrano l’unica strada per capire chi siamo e dove stiamo andando. I disegni, gli insiemi, le mappe e gli schemi sono per l’uomo del XXI secolo quello che la psicanalisi è stata per l’uomo del secolo scorso. Sempre di più, l’ infografica conquista il centro della scena. Diventando l’unico modo per avvicinarsi a una comprensione completa dei fenomeni. O trasformandosi fino a sembrare un’opera d’arte. Anche stavolta, Link prova a raccontare il mondo televisivo. Ma solo con l’ausilio delle immagini. La massa è la mia diversità..................... 17 Eccola, dunque, la rivoluzione. ............ 177 Intervista a Walter Siti di
Francesco Borgonovo
Il software entra in tv (con Google, Apple & Co.) di
Carlo Alberto Carnevale Maffé
Walter Siti, critico de La Stampa e romanziere, ci regala le sue riflessioni sulla tv di oggi e su quello che la circonda. E ci dice che la tv si è fatta borgata più di quanto le borgate si sono fatte tv.
Altro che nuovi media. Apple, Google e le corporation del web hanno intrapreso l’assalto alla diligenza della “vecchia” televisione. Molliamo il telecomando, adesso arriva il browser.
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Fuori format. ........................................... 29 This week in zombies................................ 213 Come (e perché) l’anti-tv si fece tv di
Massimo Scaglioni
Le false notizie, il loro ciclo di vita e le persone che rendono possibile tutto ciò di
Violetta Bellocchio
Mica solo Fazio e Saviano. La tv che fa finta di non esserlo, e cerca di diventare evento, comincia ad avere una lunga storia. Tra serie e fuori serie, uno sguardo alternativo per capire che succede.
Siamo talmente circondati da fandonie, esagerazioni e notizie di dubbia provenienza che non ci facciamo più caso. La realtà virtuale è tutto intorno a noi. Il falso è il nuovo vero.
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Bestiario televisivo............................... 174 streghe, noi?. ......................................... 229 L’ospite e Il regista di
€ 15,00 ISBN 88-95-59611-2
Giovanni Robertini
In una nuova rubrica di Link, i primi ritratti delle “strane bestie” che popolano il mondo televisivo. Tra paranoie e trucchi del mestiere, atteggiamenti spavaldi e idiosincrasie d’autore.
L’ascesa comunicativa del Tea Party e i dubbi sul futuro di
Stefano Pistolini
Obama governa e pensa alla ricandidatura, ma qualcosa ribolle nel basso ventre dell’America. Sono i Tea Party, che si fanno strada sui media e nel partito repubblicano. E ora, che succede?