LinkMONO-RipartiredaZero

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illustrato da

Ben Jones




Editoriale

LINK I MONO

Per presentare questo volume di Link è più facile partire dicendo cosa non è. Non vuole essere l’almanacco degli ultimi dieci anni di tv (e dintorni). Non ha la pretesa di investigare, riassumere e interpretare l’economia e la produzione culturale dei media nel decennio. Il monografico sfrutta invece la fortunata finestra temporale che si è creata tra la fine del millennio, dove qualcuno si aspettava la fine del mondo, e il duemila-dodici, quando altri si aspettano la stessa cosa, per cercare di capire la traiettoria attuale del sistema televisivo (anche se leggendo alcuni pezzi viene il dubbio che non esista più un sistema televisivo). Qualche esempio per capire ciò di cui stiamo parlando. Come affrontare la discontinuità che si crea nel passaggio dalla tradizionale televisione lineare (generalista o tematica non ha importanza) a quella non lineare? L’editore sarà solo l’organizzatore del flusso di prodotti (programmi), o sarà soprattutto l’ente che deciderà tempi e modalità della messa a disposizione (per gli usi più differenti da parte degli utenti) di questi prodotti? Cosa distinguerà l’editore dalla figura dell’aggregatore/distributore? Avrà ancora senso parlare di segmentazione del pubblico in termini meramente socio-demografici? E di preferenza di prodotto? O la segmentazione avverrà anche in base alla predisposizione all’“attività” (o “passività”) nei confronti dell’offerta? Domande conosciute e risposte incerte. Non che in queste pagine vi sia la soluzione. Anzi. Ma qualche stimolo di riflessione ulteriore forse sì. Alla fine, per dirla con Popper, “tutta la vita è risolvere problemi”. Buona lettura, Marco Paolini 5


Link mono

LINK I MONO

Ripartire da Zero

televisioni e culture del decennio

A volte una cover story non basta. Anche questo Link Mono, secondo numero speciale della rivista, ferma il flusso delle continue novità e lascia spazio all’approfondimento. Prendendosi tutto il tempo per raccontare il passato prossimo: dieci anni di cambiamenti vorticosi avvenuti sotto una coltre di apparente immobilità. E facendo esercizi divinatori sugli anni Dieci. Tanto le cose poi vanno come vanno. Illustrazioni di Ben Jones, in perfetto mood anni Zero. Indie, nuovo mainstream...................................................................................................... 13 di

H. Jenkins, V. Bellocchio, F. Pacifico, T. Tessarolo, F. Cleto, F. Spampinato

Dal cinema indipendente americano alla narrativa postmoderna, dalla musica alternativa ai movimenti dal basso: fenomeni prima indie e sottotraccia, ai margini della cultura ufficiale, giunti negli anni Zero a occupare il centro della scena e il suo medium incontrastato, la tv. La retroguardia non subisce più le incursioni dell’avanguardia: la affianca con garbata ironia, e la spiazza. ***

Il tubo dell’abbondanza....................................................................................................... 65 di

J. Ellis, A. Grasso, C. Freccero, M. Vecchia, M. Scaglioni

Nella tv degli anni Zero, il flusso continuo di programmi nelle ventiquattr’ore non basta. Le offerte si moltiplicano, i prodotti trovano infinite repliche/espansioni, i canali sono centinaia. Anziché morire la tv (o quel che è diventata) si moltiplica e arriva dovunque: non si sfugge più. Link prova a tracciare i confini e a disegnare la mappa dell’abbondanza. Senza perdere la bussola, indicando alcune strade. top ten: i brand tv del decennio

***

La caduta degli dei.............................................................................................................. 111

di M. Ferraris, A. Dini, M. Bittanti, M. Boroni, E. Pucci, C. Momigliano, D. Turi, M. Temporelli

Gli dei del passato non bastano più. I fattori economici e tecnologici non sono più sufficienti. Le variabili da considerare degenerano nel sociale e non si sa ancora come misurarle. Un mondo va in frantumi, mentre un altro si profila all’orizzonte, avvolto dalle nebbie della creazione. Come in Mad Men, tutto crolla senza speranza. Link butta giù dal piedistallo le tecnologie. Per vedere che c’ è sotto. top ten: le tecnologie del decennio

***

Le metastasi del prima....................................................................................................... 189

di S. Pistolini, A. Zaccuri, F. Pasquali, A. Sfardini, M. Farci, N. Morabito, M. Lenardon

Corruzione e disfacimento. Ma anche contaminazione e ricreazione. La tv e i media sembrano popolati sempre dalle stesse forme e dagli stessi generi. Mentre siamo girati da un’altra parte, però, sono in corso mutazioni e rivolgimenti. I grandi classici – informazione, intrattenimento, fiction – sono concetti ormai vuoti: a forza di scavi e aggregazioni, siamo finiti altrove.

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Sommario

editoriale................................................................................................................ 5

Indie, nuovo mainstream

Se non si diffonde, muore. ............................. di Henry Jenkins....................................... 15 Il diavolo che non conosci............................ di Violetta Bellocchio.......................... 23 Anni di scarto. ............................................... di Fabio Cleto........................................... 31 I don’t even know anymore............................ di Francesco Pacifico. ............................ 37 Electro-luminescenza.................................... di Francesco Spampinato....................... 47 à vanguard...................................................... di Tommaso Tessarolo............................. 55

Il tubo dell’abbondanza

Televisione evento. ........................................ di John Ellis. ............................................. 67 Il privato è spettacolo.................................. di Carlo Freccero................................... 73 Il cinismo non basta. ..................................... di Aldo Grasso. ........................................ 83 Tutto muove dalle torri............................... di Marco Vecchia. ................................... 89 Tv.T.B................................................................ di Massimo Scaglioni.............................. 99 Top ten............................. Superclassifica show.................................................................. 105

La caduta degli dei

In mare aperto. .............................................. di Emilio Pucci......................................... 113 Fine della fantascienza. ................................ di Antonio Dini...................................... 121 Quando le nuove tecnologie erano vecchie.. di Massimo Temporelli......................... 129 La risposta è nella domanda......................... di Carlo Momigliano. .......................... 137 Kotler è morto............................................... di Michele Boroni................................. 147 Ci mancava solo internet.............................. di Davide Turi.......................................... 155 Videogame a pezzi............................................ di Matteo Bittanti. .............................. 163 Facciamo finta................................................ di Maurizio Ferraris. ........................... 173 Top ten............................. Tecnologie scopiche.. .................................................................. 181

Le metastasi del prima

Notizie che spaccano. .................................... di Stefano Pistolini............................... 191 Incontinenza emotiva..................................... di Manolo Farci. .................................... 197 Cadere con stile............................................. di Alessandro Zaccuri......................... 205 Cara Bree, tra noi è tutto finito.................. di Nico Morabito................................... 211 Gli anni degli ultracorpi............................... di Francesca Pasquali........................... 219 Invasioni e morti annunciate......................... di Anna Sfardini..................................... 225 “Plagiarismi”. ................................................. di Matteo Lenardon............................. 231 2020: Dispaccio dal futuro......................... di Gregorio Paolini............................... 236 9

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sezione 1



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Se non si diffonde, muore Henry Jenkins Memi e viralità: metafore spuntate

DI

Traduzione di Luca Barra

Da un certo punto in poi, è diventato di moda riempirsi la bocca della parola “virale”. Per il marketing, per le campagne, per le pagine e le mode del web. Ma siamo sicuri di aver capito bene di cosa stiamo parlando? Il guru della cultura convergente, Henry Jenkins, prova a spiegarci il concetto. Alla ricerca delle ragioni del successo di una metafora così cruenta (in tempi di aviaria e suina, poi). Ma anche rivelandoci tutti i punti deboli di un approccio troppo frettoloso a temi così complessi. Toh, un meme! 15

è professore di Comunicazione, giornalismo e cinema presso la University of Southern California. Collabora con il Convergence Culture Consortium e per oltre un decennio ha diretto il Comparative Media Studies Program al MIT di Boston. Figura a metà tra l’accademico e il fan, è uno degli studiosi più influenti nel campo dei media e della pop culture. I suoi ultimi libri tradotti in Italia sono Cultura convergente (Apogeo, Milano 2007) e Fan, blogger e videogamers (Franco Angeli, Milano 2009).


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1. G. McCracken, “Consumers or Multipliers. A New Language for Marketing? ”, 10 novembre 2005.

L’

uso di termini come “virale” e “memi” nel marketing, nella pubblicità e nei media crea più confusione che chiarezza. Entrambe le parole si basano su una metafora biologica per spiegare come i contenuti dei media si muovono attraverso le culture, e finiscono per mettere in secondo piano le concrete relazioni di potere tra produttori, oggetti, marchi e consumatori. Le definizioni dei media virali sono insieme troppo limitate e troppo comprensive. Il termine è usato per descrivere così tante pratiche – dal passaparola ai mash-up e remix video caricati su YouTube – che non è più nemmeno chiaro cosa sia davvero virale. È invocato nelle discussioni sul buzz marketing e sulla riconoscibilità del brand, e insieme sbuca nei discorsi sul guerrilla marketing, sullo sfruttamento dei social network e sulla mobilitazione di consumatori e distributori. Inoltre, il concetto di distribuzione virale è ovviamente utile a interpretare lo sviluppo di un paesaggio mediale “spalmabile”. Parlare di media virali è però un modo scorretto di pensare la distribuzione di contenuti attraverso reti informali, create ad hoc, di consumatori. Parlare di memi e media virali enfatizza la replica dell’idea originale, e questo impedisce di considerare la realtà quotidiana della comunicazione, in cui le idee vengono trasformate, rideclinate o distorte via via che passano di mano: un processo che accelera quando entriamo in una cultura di rete. È provato che le idee che sopravvivono sono quelle che possono essere più facilmente appropriate e rielaborate da una varietà di comunità diverse. Focalizzando l’attenzione sulla trasmissione involontaria di idee da parte di consumatori inconsapevoli, questi modelli permettono ai pubblicitari e ai produttori mediali di restare aggrappati al loro potere di dare forma alla comunicazione, mentre il comportamento indisciplinato dei consumatori diventa fonte di grande ansia nell’industria mediale. Uno sguardo ravvicinato a memi e virus del web evidenzia i modi in cui sono mutati, viaggiando in una cultura sempre più partecipativa. Date queste limitazioni, propongo un modello alternativo che racconta meglio in che modo i contenuti mediali circolano oggi, e perché: l’idea di media “diffondibili”. Questo modello evidenzia l’attività dei consumatori – quelli che Grant McCracken1 chiama “moltiplicatori” – nel dare forma alla circolazione di contenuti, spesso espandendo significati potenziali e aprendo i brand a mercati imprevisti. Piuttosto che sottolineare la diretta replica dei memi, la “diffondibilità” dà per scontato che la rideclinazione e la trasformazione del contenuto mediale aggiunge valore, permettendogli di stabilirsi in differenti contesti d’uso. La nozione di “diffondibilità” si oppone a modelli più vecchi di “viscosità”, che enfatizzano il controllo centralizzato della distribuzione e i tentativi di mantenere la “purezza” del messaggio. Esploreremo qui le radici del concetto di media virali, guardando al concetto di “virus mediali” e ai suoi legami con la teoria dei “memi”. Affidarsi a una potente metafora biologica per descrivere il processo di comunicazione presuppone un certo tipo di relazioni di potere tra produttori, testi e consumatori, che potrebbero oscurare le realtà che questi termini cercano di spiegare. La metafora dell’“infezione” riduce i consumatori a “portatori” involontari di virus mediali, mentre resta aggrappata all’idea che i produttori mediali possano progettare testi killer, che possono assicurarsi una circolazione non appena vengono iniettati direttamente nel “flusso sanguigno” culturale. Sebbene attraente, questa nozione non riflette la complessità dei processi culturali e comunicativi. La prolungata dipendenza da parole basate su fatti biologici 16


limita fortemente la nostra abilità di descrivere adeguatamente la circolazione mediale come un complesso sistema di pratiche e relazioni sociali, tecnologiche, testuali ed economiche. Proverò a esporre i limiti delle due analogie, per sostenere l’importanza di adottare un nuovo modo di pensare la circolazione grassroots dei contenuti nel paesaggio mediale contemporaneo. I concetti potranno poi essere messi da parte a favore di una nuova impalcatura teorica: i media “diffondibili”.

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INCOERENZE NELLE DEFINIZIONI considerate quello che è successo quando un gruppo di executive del settore pubblicitario si è seduto a un tavolo per discutere il concetto di media virali: quella conversazione dimostra quale può essere la confusione su che cosa siano, a che cosa servano, e perché valga la pena di rifletterci. Un relatore ha cominciato dicendo che i media sono virali in situazioni “in cui la comunicazione è potente al punto da diffondersi attraverso la popolazione come un virus”, e che quindi le proprietà virali sono all’interno del messaggio stesso, o forse in quelli che lo hanno realizzato. Un altro partecipante ha invece descritto i media virali nei termini dell’attività dei consumatori: “Ogni cosa sufficientemente cool da essere spedita agli amici è un virale”. Suggeriva poi che “il virale, per definizione, viene fatto girare tra le persone”. Mentre la discussione continuava, diventava sempre più chiaro che i virali, come l’arte e la pornografia, stanno nell’occhio di chi guarda. Nessuno sapeva come mai un messaggio “diventava virale”, ma poi si facevano un mucchio di chiacchiere sul “mappare il DNA” delle proprietà virali e sull’essere “organici” rispetto alle comunità dove i messaggi circolavano. A un certo punto, la forza di un messaggio virale sembrava dipendere da “come sia facile farlo passare”, suggerendo che la viralità abbia a che vedere con le proprietà tecniche del medium; poi velocemente ci veniva detto che dipende anche da quanto il messaggio si inserisce nelle conversazioni già in corso nella comunità. “Se ottieni una quantità enorme di commenti negativi, forse non ne stai parlando nel posto giusto”. Alla fine, nessuno avrebbe saputo mettere insieme una definizione di “media virali”, o quali metriche sviluppare per misurarne il successo. Questa difficoltà definitoria rende difficile approcciare il processo dal punto di vista analitico. Senza alcuna sicurezza riguardo alle pratiche cui il termine si riferisce, è impossibile provare a capire come e perché queste pratiche funzionino. Come notato, affidarsi a una metafora biologica per spiegare il modo in cui la comunicazione ha luogo – attraverso pratiche di “infezione” – è una prima difficoltà della nozione di media virali. L’attrattività della metafora dell’infezione è duplice: da un lato, riduce i consumatori, la variabile più imprevedibile nel modello emittente-messaggio-ricevente, a “portatori” involontari di virus mediali; dall’altro, resta aggrappata all’idea che i produttori possano progettare testi killer che, una volta iniettati direttamente nel “flusso sanguigno” culturale, circolano di sicuro. Il libro di Douglas Rushkoff del 1994, Media Virus2 , può non essere stato il primo a usare il termine “media virali”, ma descrive chiaramente il modo in cui abitualmente si considera che si comportino. Il virus mediale, dice Rushkoff, è un cavallo di Troia che porta surrettiziamente dei messaggi nelle 17

2. D. Rushkoff, Media Virus. Hidden Agendas in Popular Culture, Ballantine, New York 1994.



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Il diavolo che non conosci Violetta Bellocchio Diversità e cultura di minoranza

DI

La serialità come versione finzionale della tv dell’accesso. La sistematica corsa di cable e network alla difformità sessuale e alle minoranze. Sei gay? Sei mormone? Sei uno scambista? Sei un vampiro? Non ti preoccupare: non solo la tua comunità sarà visibile in tv, ma ti useremo come maschera per raccontare il mondo contemporaneo senza neanche chiederti il permesso. La “politica della sbirciatina”, attraverso la nobilitazione del linguaggio telefilmico, diventa zeitgeist di inizio millennio. 23

lavora o ha lavorato in diversi posti, tra cui Rolling Stone, Radiodue e la Mostra del Cinema di Venezia. I suoi ultimi racconti sono usciti in Ho visto cose… (BUR, Milano 2008), I confini della realtà (Mondadori, Milano 2008), Dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango, Milano 2008) e Voi non ci sarete (Agenzia X, Milano 2009). Il suo primo romanzo è Sono io che me ne vado (Mondadori, Milano 2009). Sta scrivendo il suo secondo romanzo.


Meglio il diavolo che conosci rispetto al diavolo che non conosci.

LINK I MONO Indie, nuovo mainstream Il diavolo che non conosci 1. Da noi, secondo Wikipedia, “Colpo in canna”.

Modo di dire diffuso negli Stati Uniti, di origine irlandese.

H

omicide, nbc, 1994. “a many splendored thing”1. Viene trovata morta una giovane donna. Commessa in un negozio per feticisti, voce occasionale di una chat line erotica, appassionata di BDSM. Dominata. La professionalità del detective assegnato al caso non nasconde la stizza e il disagio provati da lui nel confrontarsi con un mondo che gli fa schifo. You know something? Everyone keeps saying how normal Angela was, how wonderful she was. Well, if she’s so wonderful, what is she doing working in a dump like that? I don’t know. How’ d she end up being strangled?

Il colpevole si trova in un uomo lontano da quegli ambienti, e l’episodio termina con uno scambio di battute tra il poliziotto e un’amica della vittima: - If you know that you could be killed then why do you keep doing it? - Believe it or not, when I’ve given myself over completely to the control of someone else, I’m free. - Free? - Yeah.

2. Nello sviluppo della serie, quel detective (Timothy “Tim” Bayliss) diventerà il primo lead bisessuale del piccolo schermo americano. 3. Simon lo racconta nella postfazione all’edizione inglese di Homicide. A Year on the Killing Streets. 4. L’ho intervistato per l’edizione italiana di Rolling Stone nel numero di settembre 2008.

5. Variante accettabile, nei “ragazzi etero”, per general consensus portatori di gusti musicali orribili e idee ritardate sul rapporto tra i sessi: la ragione principale dell’esistenza di The Big Bang Theory.

Per molti spettatori Homicide è il primo incontro con una cultura sessuale di minoranza, trattata come se fosse una cosa normale. Quello che in effetti è, per chi ci vive dentro2. L’autore del reportage a cui è ispirata la serie, David Simon, supererà il suo pregiudizio verso la tv3, ne diventerà sceneggiatore e produttore, l’anima di The Wire e poi di Treme. Serie dove tutto è collegato. Christian Salmon individuerà questo elemento vincente nella strategia di Barack Obama: “ognuno può credere di ritrovarci un pezzetto di sé. Uomo o donna, bianco o nero, se partecipi alla sua elezione diventi protagonista del cambiamento. Il destino del mondo sta nelle tue mani”4. E gli anni Zero stabiliranno la cable tv come “tv dell’accesso”, primo piccolo ma cruciale passo verso più legittimazione, più visibilità, felicità, fortuna, più canzoni dei Journey sui titoli di coda. Più occasioni. Oppure no. Le culture di minoranza vengono ancora usate come maschera. Lo stratagemma con cui raccontare un mondo più ampio. Il mondo di chi guarda. Quindi sono messe in luce, per dire, le dinamiche familiari che si ripropongono a casa del giudice come del narcotrafficante. Un percorso che affonderà anche le radici in un vago senso comune, ma che serve soprattutto a rassicurare l’estraneo, a renderlo più sereno nelle proprie (smilze) certezze. Il peep show invece dei diritti civili. Chiamiamola pure politica della sbirciatina: permettendo “un’occhiata” al prato proibito, si crea una narrazione che esclude fingendo di allargare, pianta steccati ancora più alti tra vicini di casa. E il discorso vale nei due sensi. Comunque scelga di identificare me stessa oggi, arriverò sempre a una conclusione. Io non esisto che per fornire intrattenimento ai ragazzi bianchi5. Individuerò in loro il nemico e tornerò a stendere il mio rapporto di minoranza. Quando dovrò scegliere cosa guardare, cercherò 24


quello che racconta la mia nicchia? Cercherò l’esatto opposto, perché è il diverso che parla di me? E fino a che punto mi lamenterò se non troverò la mia autenticità nel lavoro di un altro? HBO, terra madre nel 1975 la rete via cavo hbo ottiene i diritti per la messa in onda nazionale dell’incontro di boxe tra Muhammad Ali e Joe Frazier, Thrilla in Manila. È l’inizio dell’inizio. Il primo margine di libertà per le cable tv sta nel mostrare un po’ di nudo, un po’ di violenza in più, a prescindere dal contenitore. HBO trova la formula in sangue, cinema e tette. Mentre la rotazione di un ristretto numero di film6 può far scambiare prodotti minori per vecchi successi o “segni” involontari della loro epoca7, dal ’92 va in onda Real Sex, serie di documentari con premesse tra l’esile e il tragicomico. Continuerà fino al 2009. Quindi sì, l’esistenza di Tony Soprano è pagata dai corsi di pompino alle casalinghe. E tutti i successi contemporanei, tra cui il dramma carcerario Oz, seguono la stessa ricetta: una nicchia come allegoria per la società in generale; sbirri, tagliagole ed entusiasti della supremazia ariana come specchio lievemente deformante con cui prendere contatto tredici volte l’anno. È il periodo d’oro che cementa la reputazione della rete, il suo super cool bad-ass logo. It’s not TV: it’s HBO. La seconda metà degli anni Zero coincide con un vuoto d’aria: la sbandata per cui una grossa fetta di palinsesto si riempie di show meta, dietro le quinte di reality show, provini aperti, agenzie per divi. Al di là della qualità, l’effettovalanga è il sì, ma anche un po’ chi se ne frega. Possibile spiegazione: HBO affronta peggio dei concorrenti la spinta aspirazionale. I suoi prodotti per adulti finiscono in mano ai teenager, i suoi prodotti seriosi a chiunque li guardi “ironicamente”. Allora il distacco e l’ironia diventano parti integranti della sbirciatina. Ma l’unica minoranza che a un certo punto sembra interessare a HBO – come pubblico e come soggetto in campo – sono gli sceneggiatori di HBO, e scambiare l’universo con il proprio bagno porta a decisioni catastrofiche anche per il portafoglio8. L’inversione di rotta avverrà con Big Love e Hung, in misura minore True Blood. Serie esclusive proprio perché non danno spiegazioni a nessuno. Se stabiliscono uno straccio di dialogo con chi sta fuori, questo si baserà sulla buona riuscita dell’operazione più che sull’obbligo malinteso di “dare voce a…”. Ci si affeziona ai Mormoni poligami di Big Love sapendo che il loro è un mondo minuscolo, emblema solo di se stesso; l’allegoria “vampiro = diverso” di True Blood è declinata quasi sempre nella satira o nella comicità bassa, un po’ da ubriachi9. L’eredità della vecchia scuola potrebbe essere raccolta da Starz, appena finita sotto la direzione dell’ex HBO Chris Albrecht, e quindi “passata dal network che stimola l’eterna domanda, wtf is starz lol, al posto dove la Storia prende vita, e poi si toglie i vestiti”10. Ma se dobbiamo trarne una lezione è che la nicchia rappresentata non ti guarderà mai. A meno che quella nicchia non sia talmente affamata di legittimazione da fiondarsi sul primo treno che passa. Per dirla con Aziz Ansari, just mention my name and the fact I exist.

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6. È spesso citata la battuta del comico Dennis Miller: “Don’t you remember when HBO stood for H.O.T.S. and Beastmaster only? ”. 7. Jonathan Bernstein, Pretty in Pink. The Golden Age of Teenage Movies, St. Martin’s Griffin, New York 1997.

8. La più celebre: aver detto “no, grazie” a Mad Men e “sì, attuale!” a John from Cincinnati , ambiziosa serie-mondo (una comunità di surfer professionisti viene sconvolta dall’ultimo arrivato, un giovane idiota con spiccati caratteri messianici) cassata senza pietà dopo una stagione. 9. Nice try. Still gay. 10. L’ha scritto Sean O’Neal su AV Club ; personalmente sfido chiunque a riassumere una puntata di Spartacus: Blood and Sand con un filo logico che non sia la parola “cazzo”. Se HBO è un addetto stampa e Showtime è un pappone, Starz organizza combattimenti tra cani e spara in faccia al perdente.



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I don’t even know anymore Francesco Pacifico L’ironia negli ambienti culturali filoamericani

DI

Ironia. Un’espressione in cui il significato reale è opposto rispetto a quello apparente. Una figura retorica in uso da secoli, ma che mai come negli anni Zero è stata una chiave di lettura pregnante della realtà, del quotidiano, dei mass media. Tanto usata da sfumare nell’ imbarazzante (awkward), da ribaltarsi nel peggiore mainstream. C’ è ancora qualcosa che si può prendere sul “serio”? Se tutto è ironico, quale lettura ci può dare un salutare distacco? Prova a raccontarlo lo scrittore Francesco Pacifico. 37

è nato a Roma nel 1977. Ha scritto i romanzi Il caso Vittorio (minimum fax, Roma 2003) e Storia della mia purezza (Mondadori, Milano 2010). Scrive su Rolling Stone, è redattore di Nuovi argomenti. Ha tradotto, tra gli altri, Rick Moody, Dave Eggers, Henry Miller, Will Eisner, Chris Ware.


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A

metà degli anni novanta è stato chiaro che ci eravamo dentro: dopo pranzo andavano in onda I Simpson, e in videocassetta ri-guardavamo Pulp Fiction. L’ironia era la conseguenza elegante dell’imporsi del postmoderno, per cui non esistevano più nuovi generi, solo il passato frullato a piacere: consapevolmente rivissuto attraverso parodie, pastiche, citazioni, cover, recuperi. Il che rendeva inevitabile che si imponesse da sé un distacco. In Pulp Fiction i gangster parlavano di gangster “che fanno cose da gangster”, era tutto mediato. Prima di andare a riscuotere la famosa valigetta risplendente per conto del capo, dopo aver parlato di massaggi ai piedi i due killer si esortavano: “entriamo nei personaggi”. E l’oggetto da riscuotere corrispondeva alla mediatezza ironica di tutto, dei gangster che devono recitare per essere gangster, in un’America perfettamente fotografata e scenografata in modo che non si capisse se fossero gli anni Settanta o i Novanta (trucco magico riuscito anche nei Tenenbaum e nel “Cassavetes look” del primo film di Vincent Gallo, o in Jesus’ Son, tratto dai racconti di Denis Johnson); l’oggetto da riscuotere, dicevo, era una valigetta il cui contenuto non veniva mai rivelato, ma che all’aprirsi illuminava d’oro i volti di chi guardava dentro, come a dire: non c’è bisogno che ci inventiamo il contenuto della valigetta, la valigetta è la valigetta, è un McGuffin, e noi ne siamo consapevoli, e come i gangster fanno i gangster la valigetta fa la valigetta. Ironia è una parola che significa fondamentalmente due cose: da una parte, una certa qualità di distacco critico nell’affrontare qualcosa, nel dire qualcosa; dall’altra, dire una cosa intendendone un’altra, in linea di massima intendendo il contrario. Ora, l’unico futuro che da qualche decennio sembriamo avere è perlopiù, in arte e architettura e musica, una mescola di passati; noi, di fatto, quando diciamo futuro, diciamo passato: il che è, seppure un po’ legnosamente, un caso involontario di ironia, dire una cosa (futuro) intendendone un’altra (passato). A ben vedere l’ironia era destinata a imporsi senza che lo scegliessimo. IRONIA DELLA SORTE: ANDIAMO SUBITO IN STALLO un’intuizione espressa dai simpson già quindici anni fa, nel corso della settima stagione, a metà degli anni Novanta, nell’epoca d’oro dell’ironia. Nell’episodio “Homerpalooza”, Homer Simpson viene assunto come attrazione trash da un festival itinerante americano, che è in sostanza il Lollapalooza, fenomeno grunge (nell’episodio compaiono eroi dell’epoca come Smashing Pumpkins, Cypress Hill e Sonic Youth). Homer, sul palco, si fa sparare palle di cannone in pancia. Il trash spiegato ai bambini. A un certo punto, come Homer sale in scena, due ragazzini in camicia di flanella fra il pubblico commentano la cosa:

1. - Oh, ecco quello che si becca la palla di cannone. Che ganzo. - Adesso fai il sarcastico, amico? - Non lo so più neanch’io.

- Oh, here comes that cannonball guy. He’s cool. - Are you being sarcastic, dude? - I don’t even know anymore1.

Un problema simile si è presentato di recente ad alcuni miei amici. Uno di loro, in seguito a una potente operazione di rebranding, è diventato una specie di folletto indie rock, new wave, giovanilista (trentaquattrenne), drogato, 38


slacker. Nel tentativo di rifarsi una vita dopo la fine di una lunga relazione, si è ben nascosto in un codice condiviso con un ristretto gruppo di amici simpatici e un po’ drogati con cui si passa il tempo a sentire musica e idolatrare oggetti inanimati in una sorta di animismo in cui marshmallow e cherry cola colorano il mondo di meravigliosa simpatia. Due suoi amici della vecchia guardia, che lo vedono solo un paio di volte all’anno, e che sono anche miei amici, mi hanno riferito il loro sbigottimento di fronte ad alcuni discorsi del rebrandizzato: “Mi ha parlato per mezz’ora del suo pupazzetto astronauta. Ha detto che è colpito da questa cosa lui stesso, ma ha sviluppato un affetto strano e profondo per quel pupazzo, e lo porta sempre con sé, gli fa le foto. Dice che per lui è molto importante”. In effetti le pagine di Facebook, sua e dei nuovi amici, sono piene di foto a personaggi inanimati. Alcuni di questi, specialmente certi peluche, hanno perfino loro profili Facebook “personali”, distinti da quelli dei loro proprietari o padroni. E fin qui capisco il gioco. Ma quel che mi hanno riferito i due amici va oltre: in una chiacchierata di quelle che capitano ogni sei mesi, il nostro amico, chiuso ironicamente nel suo personaggio, nel suo codice (come Tarantino che fa film di genere e poi dice “Che ci posso fare se c’è sangue? È sangue finto, è un codice di quel genere”), ha parlato di un pupazzo come fosse uno dei suoi affetti. I don’t even know anymore. Sta facendo il Kaiser Söze? In fondo il personaggio di Kaiser Söze, ne I soliti sospetti, metteva in piedi narrazioni coerenti e false a partire dagli oggetti sparsi nella stanza del poliziotto che lo interrogava, per fuorviarne le indagini. In quel caso, era un tentativo di fregare il poliziotto. Quella del mio amico è malafede? O ha assunto troppo mefedrone? O è il sogno di parlare di qualcosa, qualunque cosa, con trasporto, in un’epoca di relativismo assoluto, o meglio in cui siamo tutti diversamente credenti? Il suo pupazzetto, in effetti, potrebbe essere un oggetto transizionale per attraversare tempi di troppi e incomprensibili cambiamenti, proprio come il suo orsetto l’ha accompagnato nell’infanzia. Ma allora ogni racconto inventato, se estendiamo la procedura al nostro tempo ironico, varrebbe come oggetto transizionale: narrazione di peluche per farci attraversare l’infanzia di una nuova era di cui ancora non sappiamo niente. “AWKWARD”, l’UMORISMO DELL’IMBARAZZANTE una storia di copertina sull’edizione americana di rolling stone a fine 2008 ricapitolava gli ultimi sviluppi della comicità d’oltreoceano. Con antecedenti illustri, come alcuni risvolti di Letterman e Seinfeld, la comicità americana è entrata nella fase dell’“awkward”, l’umorismo della situazione imbarazzante, grazie soprattutto a una piccola British invasion che ha portato in America una serie tv BBC, The Office, nella doppia forma della versione inglese originale e del remake americano. Per assicurare la continuità di una poetica del gelo, della tensione e dell’imbarazzo fra i personaggi, i due creatori della serie britannica, Ricky Gervais e Stephen Merchant, producono anche il remake; il protagonista, il capo ufficio che in Inghilterra era interpretato dalla stessa facciotta imbarazzante di Gervais – memorabile incrocio di sfiga e spocchia (binomio comico inglese tipico, ce l’ha perfino Mr. Bean) – prende le fattezze similmente ridicole di 39

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Electroluminescenza Francesco Spampinato Videoarte a dorso di Mini Pony (fluo)

DI

Non capita solo con i media. Anche l’universo della videoarte si rivolge all’ immediato passato e alla nostalgia istantanea. Negli ultimi anni, c’ è chi si è impossessato di icone nerd come Super Mario. Chi ha preso spezzoni dei Simpson e di Garfield. Chi prepara remix user generated. Come sempre, per provare a sovvertire le cose, a cambiare il mondo a partire dall’arte. Però, questa volta, con competenza e sincera ammirazione per ciò che si reinterpreta e si distrugge: non da apocalittici, ma da fan. 47

è artista e teorico dell’arte. Dopo la laurea in Storia dell’arte presso l’Università di Bologna, nel 2006 ha conseguito un master in Modern Art presso la Columbia University di New York. Collabora con la NABA di Milano, dove è visiting professor di Performance Art. Scrive per Flash Art , Kaleidoscope, Impackt e Artlab. Il suo libro Experiencing Hypnotism è stato pubblicato da Atomic Activity Books nel 2009. Vive e lavora tra Bologna e New York.


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L’

arte degli anni zero è caratterizzata dal ritorno a un tipo di produzione dal basso che risente della tradizione underground, del punk e dell’etica DIY, quanto della outsider art, in contrapposizione netta con l’ultimo decennio del secolo scorso segnato, invece, da costosissime operazioni di natura industriale come gli squali in formaldeide di Damien Hirst e l’epico ciclo di video performance Cremaster di Matthew Barney. All’alba del millennio riaffiorano nel mondo dell’arte generi legati a un tipo di produzione artigianale come il disegno, per esempio, e il collage. Il ritorno al disegno, da solo, testimonia un rapporto più intimo tra l’artista e l’opera, e una preoccupazione maggiore riguardo ai contenuti sulla forma. Non è un caso, infatti, che contemporaneamente cambi anche la figura dell’artista. Dai rampanti pr maniaci delle grandi misure si passa a nerd introversi che preferiscono le piccole dimensioni: piccoli supporti, piccoli destinatari, piccoli prezzi, piccole mostre e soprattutto piccole ambizioni. Al disegno poi si affianca il ritorno all’appropriazione di memoria post-modernista, come quando negli anni Ottanta, a New York, gli artisti della Pictures Generation, come Richard Prince, Sherrie Levine e Dara Birnbaum, utilizzano pubblicità, prodotti da supermarket e programmi televisivi per mettere in dubbio i sistemi di “rappresentazione” della società dello spettacolo. ORGANISMI LO-FI negli ultimi anni diversi artisti di downtown new york mescolano strategie di appropriazione con pratiche di produzione lo-fi, due ingredienti alla base dell’estetica dei primi anni del millennio, all’insegna dell’insicurezza nei confronti del futuro, della crisi di identità occidentale e del rinnovato contatto con il prossimo e la natura, seppur mediato dalle nuove tecnologie. Questi giovani artisti sono nati nella seconda metà degli anni Settanta, “ipnotizzati” dall’entertainment anni Ottanta, hanno conosciuto la cultura techno e rave nei Novanta per entrare poi, negli anni Zero, in una fase di insicurezza post-adolescenziale irrimediabilmente segnata da quell’evento di castrazione simbolica che è il crollo del World Trade Center. Non fanno differenze tra generi – utilizzano pittura, installazione, performance, fumetti e musica – stampano t-shirt, organizzano happening e autoproducono dischi e fanzine. Tra i veicoli di espressione che prediligono, però, vi è la video-animazione, con cui solitamente confezionano opere astratte e psichedeliche dove prende vita un universo impregnato di kitsch, popolato da creature immaginarie prelevate da vecchi cartoni animati e videogame, o create a loro immagine e somiglianza. I loro video hanno una struttura geometrico-primaria e organica, come visioni provocate da sostanze psicotrope. Per indicarli potremmo parlare di electro-luminescenza: da electro, in riferimento sia all’immaginario audiovisivo retrò che all’impiego di strumentazione elettronica vintage, e luminescenza, sia per l’uso di colori brillanti e fluorescenti (di memoria hippy quanto rave) che per l’aspetto psicanalitico di regressione attraverso la riscoperta di un immaginario infantile.

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I DON’T WANNA MY MTV questi artisti sono geek, pirati informatici e appassionati di cultura digitale, fanatici collezionisti di fumetti e giocattoli e cultori di antieroi. Lavorano da soli o in collettivo, spesso dietro pseudonimi, ed emergono da Brooklyn a partire dal 2001. Molti sono local, altri provengono dalla West Coast o da realtà periferiche come Providence e Virginia Beach, altri ancora arrivano dall’Europa e dal Giappone. Inizialmente trovano asilo nell’underground ma il salto over-ground è breve, in particolare grazie a Jeffrey Deitch e Kathy Grayson, alla testa di quello che negli anni Zero è il fulcro della comunità artistica di Downtown New York: Deitch Projects. Alcuni ricevono importanti riconoscimenti da parte di musei, gallerie e collezionisti del mondo dell’arte alta, ma il loro lavoro si muoverà a metà strada tra l’olimpo del mainstream e la cultura alternativa. “Punk”, dice Anne Elizabeth Moore, “was thought to be the thing that simply couldn’t sell out, because it was by definition ugly and nasty and based on an opposition to money and fame and success”1. Ma nell’epoca in cui le t-shirt dei Ramones sono vendute nei centri commerciali, non è forse legittimo che i nuovi punk vogliano trovare un compromesso con la cultura di massa? Molti dei nostri artisti, per esempio, lavorano a videoclip (“Standing in the Way of Control” dei Paper Rad per i Gossip ha conquistato Mtv) o, come Ben Jones e i PFFR, firmano serie animate per Adult Swim, Cartoon Network e MTV2. Numerose opere, tuttavia, sono conservate dall’organizzazione Electronic Arts Intermix ed esposte solo all’interno di mostre o rassegne di cinema sperimentale. Più spesso le troviamo su Vimeo e YouTube, caricate dagli artisti stessi per le proprietà virali di internet. La lista è lunga e in continua evoluzione ma tra i punk electro-luminescenti vale la pena ricordare: Cory Arcangel, Assume Vivid Astro Focus, Michael Bell-Smith, Paul B. Davis, Black Dice, Jeremy Blake, Philippe Blanchard, Dearraindrop, Jim Drain, E*Rock, Wynne Greenwood, Forcefield, Hooliganship, Ben Jones, The Jonkers, Lo-Vid, Frankie Martin, Shana Moulton, Takeshi Murata, Notendo, Paper Rad, Ara Peterson, PFFR, Jimmy Joe Roche, Jon Satrom, Paul Slocum, Yoshi Sodeoka, Bec Stupak, Ryan Trecartin e Andrew Jeffrey Wrigh. DALÍ ON ACID nonostante il carattere dissacratorio e controculturale di questi video, possiamo rintracciarne le origini nel tradizionale cinema d’animazione disneyano. Il loro tono surreale e la dimensione sinestetica, infatti, ricordano Fantasia (1940), con il contributo di Oskar Fischinger, e Destino (1945), misconosciuta perla di Salvador Dalí dove il pittore anima forme cangianti e vorticose per sei minuti visionari. Così pure bisognerà chiamare in causa la tradizione psichedelica anni Sessanta delle proiezioni in occasioni di happening e concerti, come il Joshua Light Show di Joshua White (riproposto di recente da Bec Stupak) e l’Exploding Plastic Inevitable di Andy Warhol per i Velvet Underground, oltre ai deliri di Stan VanDerBeek, John Whitney e Kenneth Anger, informati dal culto per LSD, destinati ad allargare la coscienza dello spettatore e ad alterarne lo spazio circostante. 49

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1. A.E. Moore, Unmarketable. Brandalism, Copyfighting, Mocketing, and the Erosion of Integrity, The New Press, New York 2007.


LINK I MONO Indie, nuovo mainstream Electroluminescenza 2. S. Whelan, How the Geek’s Secret Art of Datamoshing Seduced the Mainstream , in Dazed&Confused, vol. II, n. 74, giugno 2009.

Le tecniche impiegate per raggiungere un effetto straniante sono quelle del cut-up di origine beat aggiornate a nuove regole di giustapposizione elettronica come il mash-up e il datamoshing, di cui fa uso massiccio Takeshi Murata 2. Tra gli altri riferimenti, non mancano poi quelli ai cartoon politicamente scorretti, da Tex Avery e Robert Crumb fino a I Simpson e South Park. Ci capita di vedere, infatti, nei video di Dearraindrop, The Jonkers e Hooliganship, innocui beniamini alle prese con una sessualità repressa e animali di pezza in preda ad allucinazioni da ecstasy. Tra i soggetti ricorrenti: Gumby, Garfield, Mio Mini Pony e un bestiario variopinto di docili creaturine aliene. DAI GEEK AI FAN

3. H. Jenkins, Fan, blogger e videogamers, Franco Angeli, Milano 2008.

alla base di queste operazioni audiovisive vige uno spirito hippy, improntato alla condivisione, fuori e dentro lo schermo. Non solo questi artisti lavorano in gruppo e condividono spazi e interessi, ma anche i loro video ruotano attorno al valore dell’amicizia e alla comunità sopra ogni cosa. Il geek americano, più dell’otaku giapponese, utilizza le nuove tecnologie per formare community e non è un utente passivo ma, infiammato di passione, personalizza il suo oggetto del desiderio. Il geek, infatti, è innanzitutto un fan, alle prese con versioni alternative di film blockbuster, videoclip fai-da-te e mod, videogame dove magari, anziché sparare ai nazisti, possiamo divertirci a sparare ai puffi come succede in Castle Smurfenstein, parodia di un famoso sparatutto del 1983 opera di un manipolo di allora tredicenni. Anche Super Mario Movie (2004) di Cory Arcangel & Paper Rad è un mod, la versione “cinematografica” del noto videogame ottenuta modificando la cartuccia di una vecchia console Nintendo. Quella che vediamo scorrere sullo schermo è una biografia del simpatico idraulico alle prese con la sua ultima avventura, tra mostri fluorescenti, dispositivi lacaniani e schermate asimmetriche che lo conducono dritto alla morte. Diverse analogie intercorrono tra la cultura dei fan e quella no-global che utilizza strategie di dissenso come il culture jamming per sovvertire segni e simboli del potere delle multinazionali: pubblicità, loghi, mascotte. Tuttavia, come nota Henry Jenkins: “la cultura del fan è dialogica piuttosto che distruttiva, affettiva invece che ideologica, collaborativa anziché oppositiva. I jammer vogliono distruggere il potere dei media, mentre i bracconieri ne vogliono una fetta”3. REMIX per delineare un contesto ai fenomeni artistici electro-luminescenti, non possiamo prescindere dalle problematiche relative al copyright nei nuovi media e internet, tra le più dibattute negli anni Zero proprio perché sintomatica di una realtà dove gli spettatori si trasformano in utenti e autori. Questa evoluzione traspare chiaramente dai saggi di Lawrence Lessig, teorico di riferimento della cultura open source. In Remix, Lessig distingue tra cultura RO (read only) e cultura RW (read and write). La cultura RO nasce con Gutenberg, dice, ed è fondata sul testo mentre “i media RW […] remixano, o citano, un’ampia gamma di “testi” allo scopo di produrre qualcosa 50


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sezione 2



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Televisione evento John Ellis La tv nell’età dell’abbondanza

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Traduzione di Luca Barra

Una delle parole chiave del decennio, lo sappiamo, è “abbondanza”: tanti volti, tanti titoli, tante puntate. Meno immediato è che un’altra parola chiave è “evento”: la tendenza a rendere ogni trasmissione un momento irrinunciabile, da non perdere, meglio se su scala globale. In fondo, chi l’avrebbe mai detto che per trovare la strada nel caos dell’offerta tv la bussola più sicura sarebbe stata la cara vecchia visione collettiva sul divano di casa? 67

insegna Media Arts alla Royal Holloway University di Londra. Ha scritto, fra l’altro, Vedere la fiction (Nuova Eri, Torino 1988), Seeing Things (I.B. Tauris, London 2000) e TV FAQ (I.B. Tauris, London 2007).


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he cosa sappiamo ora sull’evoluzione della tv, rispetto a quando nel 2000 abbiamo festeggiato il cambio di millennio con fuochi d’artificio e tanto ottimismo? Sappiamo che hanno fatto irruzione molti nuovi canali; che sono state prodotte enormi quantità di ore di trasmissione; che gli spettatori, almeno in Gran Bretagna, guardano la tv per lo stesso numero di ore a cui erano abituati. Sappiamo che la tv su internet sta per arrivare… proprio come stava per arrivare nel 2000. E che la maggior parte dei broadcaster sta cercando il modo di far soldi da tutte queste attività, dato che nel sistema ci sono ancora quantità di denaro consistenti, se solo si trova il modo di riuscire ad accedervi. sSappiamo anche che molti, nell’industria televisiva, hanno l’abitudine di predire il suo declino imminente. La cosa non ci sorprende, dal momento che sono gli stessi che non riescono ad avere accesso ai profitti che si possono ancora fare con la televisione. Spesso sono i dirigenti di quei sistemi di broadcasting commerciale che hanno fallito ad adattarsi a una nuova realtà composta da fonti di ricavo multiple. E formano una strana alleanza con gli apostoli delle nuove tecnologie. I paladini della visione su cellulare, del broadcasting su internet e di cose del genere provano una perversa delizia a buttare giù i vecchi media per far posto ai loro nuovi giocattoli, più recenti e luccicanti. Ma a un certo punto questi nuovi giocattoli devono essere venduti nel mercato reale, a consumatori reali. E proprio in quel momento gli apostoli delle nuove tecnologie inizieranno a ostentare la facilità con cui il loro aggeggio permette agli utenti di accedere all’ultimo contenuto televisivo… non all’ultimo video user generated, e nemmeno al peer-to-peer! La televisione mantiene la sua centralità culturale come medium: conta ancora molto, a livello sociale ed economico. La tv si è decisamente evoluta nell’ultimo decennio, ma non alla velocità che ci aspettavamo nel 2000. Allora, avevo previsto che stavamo entrando in un’era di abbondanza, in cui gli spettatori avrebbero avuto accesso alla tv che volevano quando volevano. Questo è ora possibile: almeno se YouTube rientra nella vostra idea di televisione… o se volete, come fanno tutti i miei studenti, infrangere la legge. Altrimenti, il palinsesto domina ancora, anche se in un modo più user-friendly. La maggior parte dei contenuti sono prima trasmessi broadcast e poi messi a disposizione su vari servizi di catch-up: con limiti di tempo, legali o illegali, a pagamento o gratuiti. Le fiction più importanti e un considerevole nucleo di intrattenimento finisce inoltre su dvd, nei servizi web a pagamento, sugli aerei e in molti altri luoghi ancora. La televisione è disponibile come mai prima. Tuttavia, l’enorme eredità della tv del passato rimane chiusa negli archivi e, nonostante gli sforzi di progetti pubblici come EUScreen e Videoactive, o di archivi pionieristici come l’INA in Francia, non è pienamente accessibile. Molto deve essere ancora digitalizzato, e ci sono grandi quantità di materiale, di intrattenimento e di factual, che possono essere ri-utilizzate. Del resto, possiamo considerare “televisione contemporanea” anche tutta quella tv che possiamo vedere attraverso i nuovi mezzi che abbiamo a disposizione. LA TV DEL PRESENTE la vera sorpresa, in realtà, è che i programmi televisivi dipendono ancora molto dal presente, dal qui e ora: solo così hanno un valore culturale. 68


La novità è ancora importante; e questo discorso vale anche per i format. Questa è stata la maggiore sorpresa per chi, nel 2000, prevedeva che la tv sarebbe cambiata completamente entro il 2010: quelli che, mentre si intravedeva l’abbondanza, immaginavano che la tv sarebbe diventata un vasto database ricercabile, dove gli utenti potevano trovare programmi legati alle loro preoccupazioni di quel momento, o al loro umore. Quelli interessati a una vacanza a Tenerife sarebbero stati in grado di trovare informazioni sulla località, sulla sua cultura, sulle sue attività, così come informazioni commerciali sul trasporto e sugli hotel. Chi voleva una commedia romantica poteva trovare una commedia romantica. Secondo questa concezione dell’abbondanza, la televisione si sarebbe dissolta all’interno di internet. Ma questo è accaduto solo fino a un certo punto. Invece, la tv continua a trafficare con la novità. Vogliamo vedere l’ultimo show, il nuovo format, l’ultimo episodio, la nuova star. E vogliamo vedere queste cose nelle forme a noi familiari della tv. La televisione produce ancora programmi di 30 minuti o di un’ora, disposti in serie che vanno da quattro episodi a centinaia (nel caso dei drama americani di successo, delle soap opera e delle telenovela, dei reality, dei quiz e dei giochi a premio, dei talk show). La vera sorpresa, nell’età dell’abbondanza, non è tanto quanto la televisione è cambiata. Ma quanto poco lo ha fatto. La tv rimane un medium che funziona nel momento corrente: vive nel presente e per il singolo attimo. È ancora un mezzo che lavora a breve scadenza. L’industria guarda ancora alla maggior parte delle sue produzioni come effimere, con un breve ciclo di vita economico. La pressione del presente sembra essersi persino intensificata nell’ultimo decennio. La maggior parte degli show ha successo se sono completamente contemporanei, se sviluppano un’audience che segue ogni loro mossa, giorno dopo giorno e settimana dopo settimana. Programmi come Grande fratello creano buzz sulle attività degli abitanti della casa, e queste attività diventano notizie e foraggiano con facilità editoriali dei quotidiani, commenti dei moralisti e persino serie ricerche accademiche. Alcuni partecipanti diventano celebrità durature. E il format è stato sperimentato praticamente in ogni cultura: soltanto in Libano Big Brother è stato sospeso dopo una settimana. I guadagni di una televisione fatta di eventi possono essere enormi. In Gran Bretagna, Channel 4 ha usato il format ogni anno nelle sue ore di punta, programmando lo show a striscia per periodi da 8 a 10 settimane, nella pregiata stagione estiva. I ricavi pubblicitari di questi slot, meno dell’1% delle ore di trasmissione totali, costituiscono più del 10% degli utili annuali di Channel 4. Ora che il format sta per esaurirsi, Channel 4 cerca disperatamente un altro evento con cui rimpiazzarlo. Anche la crescita mostruosa della tv a pagamento è stata guidata dagli eventi: dallo sport e dagli ultimi blockbuster cinematografici. Nel mercato pay più maturo, gli Stati Uniti, a questi eventi si è aggiunta la serialità must-see di reti come HBO e AMC. In ogni caso, può darsi che sia successo a causa dell’assoluta difficoltà di vedere i telefilm sui network commerciali, dove un’ora contiene appena 39 minuti di vera programmazione e 21 minuti di break (erano 18 all’inizio del decennio). La televisione degli eventi, la tv di cui parlare, è così diventata l’elemento chiave della persistente vitalità del medium. La tv degli eventi ci porta indietro ai vecchi tempi della televisione, a quell’età della scarsità in cui ogni nazione aveva al massimo due o tre canali, con programmi che non coprivano nemmeno le 24 ore del giorno. Allora, 69

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super classifica show

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DI michele boroni

Negli anni Zero, il marketing dei principali broadcaster ha influito, spesso in modo determinante, sulla creazione dei palinsesti e sulla nascita di molti programmi. Quindi l’associazione tra brand e tv show non è poi così peregrina. Ricordiamoci però che il brand è qualcosa che nasce e si sviluppa nella mente delle persone e, in questo caso, dei telespettatori. Un brand si può definir tale se possiede caratteristiche (più percepite che effettivamente reali e conclamate) di unicità, originalità e riconoscibilità, indipendentemente dalla presenza di loghi o di una forte immagine coordinata. Non sempre, poi, i brand relativi agli show televisivi sono i programmi con l’audience più alta. È certo però che anche lo share aiuta. Pure il coinvolgimento attivo dello spettatore televisivo rappresenta un’altra importante prerogativa che caratterizza i brand tv degli anni Zero. Ogni programma inserito in questa personalissima classifica sarà accompagnato da un testo in cui si cerca di identificare ciò che lo ha trasformato in brand. 105


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1. GRANDE FRATELLO Canale 5 Reality killed the tv star · Per quarant’anni la citazione del Grande fratello rimandava all’onnipotente leader invisibile di 1984, il romanzo di George Orwell; dal 2000, invece, il pensiero corre immediatamente verso il reality prodotto da Endemol. E già l’avere influito così profondamente sull’immaginario e sui riferimenti iconici della cultura pop lo rende di diritto un brand. Oltre a questo, Grande fratello è stato il primo reality show della televisione italiana, il più longevo e popolare. Un brand mass-market, che ha portato la gente comune a essere, per la prima volta, protagonista assoluta di uno show, senza troppe mediazioni. Un brand che è uscito dalla tv e si è presentato su altri media e piattaforme con la stessa forza dirompente. Un brand, infine, che ha profondamente mutato il modo di fare tv e di costruire i palinsesti. Ma questa è un’altra storia. • 2. LOST Fox, Raidue Transmedia storytelling · Gli anni Zero sono stati il decennio delle serie tv. Lost, il prodotto televisivo più riuscito di J.J. Abrams, è il grande racconto che ha superato i confini televisivi e creato narrazioni parallele. Fenomeno di culto e, allo stesso tempo, successo popolare. Incarnazione compiuta del transmedia storytelling. Il culto è stato alimentato da meccanismi in cui lo spettatore è coinvolto in prima persona e chiamato a rintracciare e decifrare segnali e collegamenti, innescando così un corto circuito tra fiction e realtà. Per esempio, tramite alcune cross-promotion che hanno fatto vivere alcuni personaggi e simboli della serie (l’Oceanic Airlines, i numeri misteriosi, la band Driveshaft) al di fuori del set dell’isola, gli autori hanno attivato uno strumento di comunicazione che ha incuriosito, coinvolto e fidelizzato gli appassionati. In Italia il successo popolare va ricondotto più ai buzz generati dai giornali e ai download sulla rete che agli ascolti. • 3. AMICI Italia 1, Canale 5 Rebranding e glocal brand · Inizialmente il talent show, nato nel 2001 e ispirato al format originario inglese Pop Idol (ITV1), andava in onda su Italia 1 con il titolo Saranno Famosi. In seguito, per questioni legali connesse ai diritti d’autore della serie tv omonima, il nome è stato cambiato in Amici di Maria de Filippi (meglio conosciuto come Amici), mantenendo font e lettering dell’originale. Il rebran106


ding ha coinciso con una forte differenziazione rispetto al format originale e globale, aprendosi a una maggiore interdisciplinarità (anche ballo e recitazione, oltre alla musica), a una minore invasività nella vita e una focalizzazione sull’esperienza scolastica dei ragazzi. Oltre all’originale stile di conduzione della De Filippi. Tutto questo ha portato al grande successo popolare dello show che, oltre a lanciare nel music business italiano i vincitori del talent, è diventato un’importante piattaforma per la promozione di molti brand di abbigliamento sportivo. • 4. ZELIG Italia 1, Canale 5 L’industria della risata · Lo Zelig è un locale milanese, nato nella metà degli anni Ottanta, che ha lanciato gran parte dei comici e cabarettisti degli ultimi due decenni. Alla fine degli anni Novanta è diventato anche un varietà televisivo – prima su Italia 1 e poi su Canale 5 – che, anno dopo anno, cambiando varie location (dal locale di viale Monza fino al Teatro degli Arcimboldi) è cresciuto al punto tale da creare extension line televisive (Zelig Circus e Zelig Off ) e “invadere” pacificamente le librerie (gli anni Zero sono stati caratterizzati dal grande successo commerciale dei libri scritti dai comici), i teatri, le sagre e le feste di mezza Italia. Come scrisse Aldo Grasso sul Corriere della sera “In Zelig non è il singolo comico che strappa la risata (succede anche questo), ma è la bottega che fa spettacolo, è il brand”. • 5. HANNAH MONTANA Disney Channel, Italia 1 Teen star · Hannah Montana e le altre teen fiction Disney hanno sostituito negli anni Zero i cartoni animati per il pubblico dei teen e tween: l’obiettivo era quello di dare loro l’opportunità di essere essi stessi i veri protagonisti della storia, per soddisfare il loro bisogno di vivere in contesti reali, indipendenti dal mondo adulto. Hannah Montana con il suo plot – il racconto della doppia vita della quattordicenne Miley Stewart che affronta la quotidianità senza svelare il proprio talento e la sua second life da artista – ne rappresenta l’archetipo perfetto. Un personaggio di fantasia, trattato quasi come una persona reale, una vera pop star che ha poi lanciato la carriera musicale di Miley Cyrus, l’attrice che interpreta la protagonista principale. Intorno alla serie tv sono stati organizzati decine di concorsi per coinvolgere gli spettatori nello show e diventare protagonisti della sigla di apertura. Da non dimenticare poi l’infinito merchandising generato dalla serie, ennesimo segnale che conferma la consacrazione della teen star.

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sezione 3



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In mare aperto Emilio Pucci

Il mercato tv negli anni Dieci

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La caduta degli dei è, soprattutto, il ridimensionamento dell’ importanza quasi esclusiva attribuita ai fattori tecnologici ed economici, da parte di alcuni profeti, per spiegare il cambiamento: questi da soli non bastano più. Per questo bisogna avere chiaro ciò che è successo, e tentare uno sguardo d’ insieme a un sistema (e un mercato) televisivo in profonda evoluzione. Digitale, pagamento, banda larga, alta definizione, on demand, over-the-top: siamo entrati in un nuovo ciclo economico in cui sarà difficile distinguere tra ciò che è tv e ciò che non lo è. 113

è direttore di e-Media Institute, con sede a Londra e Milano. Nel corso degli ultimi anni ha svolto attività di consulenza strategica per importanti imprese del settore della comunicazione a livello nazionale e internazionale. È stato docente presso l’Università IULM di Milano e coordinatore dell’Istituto di economia dei media della Fondazione Rosselli. Ha pubblicato numerosi saggi in tema di economia dei media, con particolare attenzione alle evoluzioni dei sistemi tecnologici.


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l decennio appena concluso è stato caratterizzato da importanti trasformazioni sul mercato televisivo. Il progressivo abbandono della trasmissione analogica, avviato dalla metà degli anni Novanta, e il conseguente sviluppo delle reti digitali hanno dominato l’evoluzione della televisione, trasformando significativamente sia le offerte gratuite sia quelle a pagamento. Tuttavia, queste pure importanti trasformazioni non hanno alterato la struttura di base del mercato televisivo, e più in generale di quello audiovisivo. In pratica, schematizzando, i cambiamenti introdotti nel decennio dallo sviluppo e dal quasi completamento di quello che potremmo chiamare il primo ciclo di digitalizzazione della tv si sono svolti all’interno di una struttura tutto sommato stabile. Infatti si è trattato di trasformazioni largamente avviate nella seconda metà del decennio precedente, che portate a compimento hanno avuto queste conseguenze: - una “rinascita” della tv gratuita, arricchita dalle potenzialità del Dtt; - un incremento consistente degli utenti dei servizi di pay tv e dunque un’espansione assoluta e proporzionale delle risorse derivanti dal pagamento diretto di contenuti televisivi; - innovazioni significative nelle formule di offerta e consumo (ascesa dei servizi non lineari, maggiori flessibilità nell’acquisizione e selezione di contenuti eccetera) e nei concept di prodotto (canali minigeneralisti, nuovi canali specializzati eccetera). Numerose altre trasformazioni, determinate dallo sviluppo tecnico delle reti e dei terminali di ricezione, hanno permesso una maggiore ricchezza tanto nella qualità della visione (alta definizione), quanto nelle possibilità degli utenti di interagire con le offerte lineari e non lineari. Come si diceva, però, se si guarda complessivamente al decennio audiovisivo in termini “essenziali”, si nota come queste trasformazioni non abbiano, in genere, mosso di molto la struttura del mercato. Il primo ciclo di digitalizzazione della tv considerando il mercato italiano, nel 2000, sul totale risorse del mercato audiovisivo (cinema, home video, tv e consumi per videogiochi) stimabili in circa 7,9 miliardi di euro, la tv pesava circa l’82%, il cinema il 7%, l’home video l’8% e i consumi di titoli videoludici circa il 3%. Alla fine del 2010, la struttura complessiva delle risorse vede trasformazioni importanti soprattutto per il cinema che scende al 6%, l’home video che si riduce drasticamente al 4% a causa della contrazione del noleggio e i videogiochi che salgono al 7%. La televisione rimane attorno all’81%. Con l’eccezione della significativa flessione dell’home video, che ha incrociato l’ascesa della pay tv e della pirateria via internet, sul mercato audiovisivo la trasformazioni si sono manifestate tutte dentro il mercato tv con l’ascesa delle risorse derivanti da pagamento diretto, e dunque con uno sviluppo consistente della pay. Se si considerano, infatti, le risorse del mercato tv, queste nel 2000 erano al 66% afferenti alle inserzioni commerciali e all’11% alla pay tv, mentre nel 2010 si stima possano essere al 37% derivanti dal pagamento diretto e al 46% dall’investimento degli inserzionisti. Fin qui il quadro generale dell’evoluzione quantitativa, segnata essenzialmente da una quasi stagnazione dei ricavi pubblicitari e da una crescita con114


sistente di quelli da pagamento diretto. Il prossimo decennio non comporterà grandi alterazioni quantitative, se non per il fatto che aumenteranno le risorse afferenti ai consumi video via broadband attualmente interstiziali. Tuttavia ciò non intaccherà il peso della tv sul mercato audiovisivo. Il vero problema è che sarà, in un cero senso, difficile distinguere ciò che è tv e ciò che non lo è, a causa di una progressiva integrazione fra l’ambiente video-broadband e quello televisivo. Sarà questa la più importante tendenza nel nuovo decennio. Infatti, il completamento del primo ciclo di digitalizzazione della tv (19962012) si avvia a conclusione, mentre si apre una nuova stagione forse ancora più importante che potrebbe essere considerata come una sorta di “secondo ciclo”. Si tratta della stagione dell’integrazione fra ambiente televisivo e ambiente video-broadband. Da questa si attendono per il mercato tv, e più in generale per quello audiovisivo, trasformazioni rilevanti e profonde. Con l’evoluzione delle reti terrestri dall’analogico al digitale, cominciata fra il 2003 e il 2005, la tv gratuita ha intrapreso, non senza incertezze e difficoltà, la strada di una vera e propria rinascita dopo un quinquennio in cui era apparsa destinata all’obsolescenza, a fronte di una ricchezza di canali e contenuti che appariva appannaggio esclusivo della tv a pagamento. Negli ultimi anni, prima con l’affermazione dell’offerta Freeview in Gran Bretagna e poi con la proposizione dello stesso modello negli altri paesi europei, la tradizionale scarsità dell’offerta gratuita terrestre analogica ha lasciato il posto a offerte che si sono posizionate sempre più vicine a quelle basic della pay tv, avvicinando di fatto gli operatori dei due mercati una volta fortemente distinti e lontani. In Europa la tv gratuita terrestre degli ultimi anni di questo decennio è diventata definitivamente multicanale e ha permesso ai broadcaster di rilanciare il proprio ruolo, moltiplicando le reti con maggiore vocazione alla specializzazione nei target e nei generi. I risultati complessivi delle audience dei gruppi di televisione generalista ne hanno giovato, mostrando una maggiore tenuta e spesso una netta ripresa dopo il calo generato dall’ascesa dei canali specializzati distribuiti su piattaforme proprietarie (satellite, cavo e Iptv). L’ampia disponibilità di banda ha anche permesso un’inattesa declinazione delle offerte di genere, promuovendo i cosiddetti canali mini-generalisti o neo-generalisti (canali generalisti ma più specializzati nei generi e nei target) che sono la vera novità concettuale nell’ambito della tv gratuita. L’evoluzione tecnica della rete digitale terrestre ha fornito alle offerte gratuite una parte rilevante di quella ricchezza prestazionale che prima era solo delle reti satellitari o di quelle fisse: Epg (Electronic Program Guide), sistemi di consumo nonlineare, interattività, alta definizione eccetera. Non da ultimo la tv gratuita ha permesso l’ingresso di nuovi attori e un nuovo potenziale spazio di mercato per i broadcaster non-nazionali. Grazie alla stessa rete digitale terrestre e alla diffusione, se pur a macchia di leopardo nei diversi paesi europei, dell’Iptv, anche il mercato della pay tv si è arricchito di nuovi attori e di nuovi modelli d’offerta. In Europa, nel 2000, c’erano circa “solo” 25 milioni utenti di servizi di pay tv, principalmente abbonati alle offerte via cavo e satellitari. Al 2010 si stima che i 74 milioni di utenti di pay tv si dividano fra le diverse piattaforme d’offerta nel seguente modo: 25 milioni di utenti di pay satellitare (34%), 27 milioni di abbonati a servizi via cavo (36%), 13 milioni di utenti Iptv (17%) e 9 milioni di abbonati a offerte pay su digitale terrestre (13%). 115

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La risposta è nella domanda Carlo Momigliano Il mercato della pubblicità in Italia

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La metafora del dito e della luna è abusata, ma spiega bene un aspetto del mercato pubblicitario italiano. Anche negli anni Zero bloccato, a detta di molti, da una centralità della televisione che non accenna a diminuire. E caratterizzato da pochi investimenti sugli altri mezzi, compreso quel web che – tra una bolla e l’altra – rappresenta la nuova frontiera. A volte, però, è utile cambiare prospettiva: per capire che la tv resta fondamentale grazie ad alcune categorie di prodotti. E che spazi per tutto il resto ci sono, eccome. 137

è ceo di Mindshare dall’aprile 2010. Dopo aver iniziato la sua carriera nel settore pubblicitario, ha lavorato in Publitalia, Fininvest, Mondadori ed ePolis. È stato presidente di Istel e membro del consiglio di amministrazione di Auditel, del comitato tecnico di Audiradio e del consiglio direttivo di Audipress.


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I

n questo contributo, vorrei proporre una lettura dei fondamentali del mercato pubblicitario in Italia basata sugli elementi distintivi della domanda del nostro Paese, e concludere con una “congettura” sull’evoluzione attesa. Propongo un percorso che parte dalla prevalenza nella letteratura tecnica di interpretazioni del mercato pubblicitario dal lato dell’offerta, con il caso emblematico dell’indagine conoscitiva dell’Autorità Antitrust IC23 del 2004 sul mercato pubblicitario televisivo; passerò poi a illustrare perché sono più significative le letture sul lato della domanda; spiegherò quindi alcune caratteristiche persistenti sul lato della domanda a 10 anni dal boom della telefonia e del boom atteso dei servizi (a partire da quelli finanziari), per concludere con un’ipotesi sullo sviluppo del mercato basata sulla combinazione di domanda e offerta. Tesi: i limiti delle letture sul lato dell’offerta in letteratura tecnica una vasta maggioranza di autori si è esercitata a descrivere le peculiarità del mercato pubblicitario italiano, concentrando la loro analisi sulle caratteristiche distintive della “distribuzione” degli investimenti pubblicitari tra i diversi mezzi (tavola I) e sulle caratteristiche dell’offerta (esposizione ai mezzi). In particolare, un’indagine conoscitiva dell’Agcom, la IC23 del novembre 2004 (oggi in fase di aggiornamento/revisione a seguito dell’apertura di una tav. I · Investimenti pubblicitari in Europa

2009 52%

7%

27%

7%

8%

Italia

1% 23%

4%

51%

5%

17%

Germania 26%

3%

33%

6%

31%

Regno Unito

2% 32%

7%

1% 11%

38%

11%

Francia 42%

10%

29%

7%

12%

Spagna 2010 53%

7%

25%

7%

8%

Italia

1% Fonte: elaborazioni GroupM.

23%

4%

50%

4%

18%

Germania tv

28%

3%

30%

radio stampa

6%

32%

Regno Unito

2% 32%

7%

1% 12%

36%

11%

Francia

cinema outdoor

41%

9%

28%

7%

13%

Spagna

internet

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nuova indagine conoscitiva sul mercato audiovisivo, la IC41, come da provvedimento n. 20788 del febbraio 2010), ha assunto in passato un carattere “emblematico” di tale approccio interpretativo, e ha anche avuto notevole fortuna perché avrebbe “dimostrato” che la struttura concentrata del mercato pubblicitario televisivo e i laschi limiti agli affollamenti sarebbero responsabili della asfissia del mercato pubblicitario totale, e di quello della carta stampata in particolare, una vecchia tesi sostenuta dalla Fieg. Ora, con tutto il rispetto dovuto a una importante e, per altri versi, meritevole iniziativa dell’Agcom, proprio alcune gravi inconsistenze di un’indagine come quella di sei anni fa mostrano il rischio di interpretazioni costruite esclusivamente sull’analisi dell’offerta del mercato (e giustificano l’auspicio che la nuova indagine dell’Autorità Antitrust abbia un altro respiro). Il teorema interpretativo della realtà del mercato del nostro Paese, proposto dall’Agcom nel documento finale dell’Indagine Conoscitiva 23, si sviluppava lungo sei passaggi logici, formati da quattro osservazioni e due deduzioni: - osservazione 1: il mercato pubblicitario italiano è sottosviluppato (bassa incidenza degli investimenti pubblicitari sul PIL); - osservazione 2: il mercato è squilibrato verso la televisione (la più elevata quota televisiva sul totale investimenti tra i big 5 dell’Unione Europea); - osservazione 3: l’origine di queste anomalie non trova spiegazione sul lato della domanda di comunicazione commerciale, sostanzialmente simile a quella degli altri Paesi avanzati; - osservazione 4: l’Italia presenterebbe, invece, un mercato pubblicitario tv più concentrato rispetto agli altri Paesi (il duopolio imperfetto Rai-Mediaset in posizione congiunta dominante); - deduzione 1: la posizione congiunta dominante, garantendo ai duopolisti risorse superiori ed extra-profitti, distorcerebbe la concorrenza non solo a sfavore dei follower o dei potenziali nuovi entranti nel mercato televisivo, ma anche a sfavore degli altri mezzi, in particolare a sfavore della stampa, che invece presenterebbe un contesto competitivo che ridurrebbe gli extraprofitti; questo spiegherebbe l’anomalia italiana dal lato della “ripartizione delle risorse” tra tv e stampa; - deduzione 2: dacché le posizioni dominanti generano inefficienza, è la posizione dominante congiunta di Rai e Mediaset (e in particolare di Mediaset nel mercato pubblicitario televisivo) a comprimere lo sviluppo del mercato; questo spiegherebbe la bassa incidenza investimenti pubblicitari/PIL. Ho già esaminato in altra sede le debolezze di questo teorema pur suggestivo, in particolare denunciandone tre incoerenze interne. Qui mi limiterò a farne un breve cenno. Mi concentrerò invece sulla terza osservazione, perché costituisce una presunzione così sorprendentemente difforme dalla realtà da richiedere un commento più approfondito. Le tre incoerenze cui facevo cenno sono così riassumibili: - se davvero fosse la concentrazione del mercato tv la ragione ultima del basso rapporto tra investimenti pubblicitari e PIL, come si spiega che questo rapporto sia cresciuto a partire dal 1984 (anno in cui la concentrazione si è formata)? E che sia cresciuto più velocemente di quello degli altri big four, consentendo all’Italia di raggiungere e superare la Francia? - se la bassa quota degli investimenti in stampa fosse davvero dovuta alla “concorrenza” insostenibile della “ricca televisione”, come si spiega che la quota della stampa periodica consumer in Italia sia stata per tutti gli anni 139

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tecnologie scopiche

DI antonio dini

Il decennio delle tecnologie che ritornano. La top ten di quello che è stato fatto nei centri di ricerca negli anni Zero è piena di rientri. Diceva Alan Kay che niente più si inventa nel mondo dell’ informatica, anche se tutto si può potenziare e riutilizzare per nuovi scopi. Come negli esempi che seguono. 181


LINK I MONO La caduta degli dei Tecnologie scopiche

1. H.264 La codifica perfetta · Definito l’Mp3 del video, l’algoritmo di codifica del video creato dagli scienziati del comitato nato dalla fusione dell’Itu Video Coding Experts Group e dell’Iso/Iec Moving Picture Experts Group è noto anche come Mpeg-4. Ed è rivoluzionario, perché consente di ottimizzare la qualità dell’immagine rispetto alle dimensioni del flusso di bit che la compongono. Viene utilizzato in maniera trasversale su tutte le grandi piattaforme del video: dal Blu-ray all’iTunes store di Apple, dal digitale terrestre e cable tv ai servizi di videoconferenza e a YouTube. L’H.264 permette anche di abilitare una nuova generazione di apparecchi personali per la registrazione, l’archiviazione e la riproduzione del video, come i Pvr (Personal Video Recorder) e le videocamere digitali amatoriali o professionali presenti sul mercato. La grande onda di contenuti generati dagli utenti in rete è codificata con l’H.264. L’unica isola che resiste alla sirena del nuovo standard è quella dei pirati del video digitale, che continuano a preferire formati come Avi-Divx e Matrioska. • 2. Blu-ray Il supporto definitivo · È stata una guerra dura e senza esclusione di colpi. Alla fine, ha vinto il consorzio capitanato da Sony, contro la grande alleanza guidata da Toshiba. Il supporto del futuro si chiama Blu-ray e ha mandato prematuramente in pensione il concorrente Hd-Dvd. Il nuovo disco ottico capace di archiviare contenuti in alta definizione e 3D, con aggiornamenti che ne aumentano costantemente la qualità e le capacità, è un supporto definitivo. Definitivo nel senso che potrebbe essere l’ultimo grande contenitore fisico, l’ultima grande confezione per impacchettare i contenuti destinati al grande pubblico, prima che prenda piede in maniera sistematica l’era del download legale. Quest’ultimo, tanto quanto il Blu-ray, deve essere collegato a una nuova generazione di apparecchi sempre connessi alla rete e capaci di gestire nuovi, moderni schemi di protezione dei diritti digitali (Digital Right Management, Drm) dei contenuti. Il Blu-ray intanto sta permettendo di riconvertire le videoteche degli appassionati a un formato all’altezza dei televisori Lcd ad alta definizione. • 3. 3D La riscoperta degli occhialini bicolore · Nati negli anni Trenta e Quaranta, esplosi negli anni Sessanta, i film in tre dimensioni trovano finalmente mercato solo nel primo decennio del nuovo millennio. Il loro simbolo è Avatar di James Cameron, ma in realtà il momento di svolta è un altro. Il mondiale di calcio 2010 del Sudafrica è il primo 182


grande evento sportivo ripreso in tre dimensioni. Due troupe di Sony, che ha avuto l’esclusiva per le riprese 3D durante tutti i mondiali e le avrà anche per quelli di Rio de Janeiro del 2014, hanno registrato 16 partite in 5 campi diversi, utilizzando otto videocamere 3D (rispetto alle 36 Hd utilizzate per le riprese in alta definizione garantite per tutte le partite dei mondiali ai 96 broadcaster internazionali accreditati). Nei furgoni per la produzione video, alle postazioni di regia, audio-video ed engineering, si è aggiunta una quarta squadra di sei persone incaricate di gestire il video 3D, ottimizzando le riprese, dando supporto agli operatori a bordo campo e offrendo il primo esempio di trasmissione televisiva tridimensionale di successo per un grande evento. Anche perché finora è stata l’unica. • 4. Tablet Arriva l’era delle app · Se un viaggiatore aereo di classe economica all’improvviso si lamentasse che il volo è durato troppo poco, di chi potrebbe essere il merito? Probabilmente del suo fidato compagno di viaggio: un iPad di Apple, la prima incarnazione moderna degli apparecchi post-pc, e il primo modello di tablet realmente funzionante. A definire la categoria fu Microsoft nel 2001: Bill Gates era convinto che la tavoletta identica a quella usata dall’equipaggio del primo Star Trek negli anni Sessanta sarebbe stato il futuro del computer personale. Aveva ragione, ma la storia aveva deciso che a inaugurare l’era delle tavolette e delle app doveva essere Steve Jobs, quasi un decennio dopo. I tablet sono facili da usare, non richiedono altro che la punta delle dita, sono sempre connessi, hanno batterie che durano da dieci ore in su e possono far acquistare e mostrare sul loro grande schermo luminoso film e telefilm. Oppure, si possono connettere a YouTube, Hulu, alle applicazioni sviluppate dai grandi broadcaster di tutto il mondo come Abc e BBC. Attenzione, sui tablet infatti vincono le app e non le pagine web: una distinzione da tenere a mente quando si progettano sia le strategie commerciali che le infrastrutture tecnologiche dedicate. • 5. UGC Viaggiare controcorrente: da YouTube a Hulu · I contenuti generati dagli utenti non sono propriamente una tecnologia, quanto piuttosto una pratica sociale. Eppure sono anche un fenomeno economico, un elemento strategico per la creazione di nuove forme di broadcasting, uno strumento di marketing virale e molto altro. In pratica, sono la parte emergente della rifunzionalizzazione di vecchi media grazie all’utilizzo di nuove tecnologie. Apparecchi prosumer e consumer per la registrazione, il montaggio e la produzione di video; piattaforme in rete per la distribuzione; una pluralità di nuovi apparecchi sempre connessi per il consumo e la condi183

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visione. In questo settore il mondo viaggia al contrario: è arrivato solo in un secondo momento il modello Hulu della trasmissione via internet dei contenuti prodotti dai grandi broadcaster, rispetto a quello volontaristico delle clip di YouTube. La prima tecnologia che ha abilitato lo streaming è stata la possibilità di utilizzare un semplice player realizzato con Flash, tecnologia di Adobe oggi considerata morente. La seconda è stata il cloud computing, con l’abbondanza di spazio a basso costo in rete utilizzabile nell’ottica gratuita del web 2.0. • 6. Cloud computing La nuvola diventa il cervello · Dietro il cloud computing, la capacità di calcolo che proviene dalla rete anziché dal personal computer che stiamo utilizzando, non c’è niente di nuovo. Di software come servizio e di archiviazione in remoto si parla dal secondo dopoguerra, agli albori dell’informatica. Quel che cambia, grazie all’odierna incarnazione di queste tecnologie, è l’aspetto economico e sociale. Il cloud computing offre ad aziende e privati potenza e archivi di capacità infinita senza dover investire in dotazioni tecnologiche locali. Richiede meno spese, è più sicuro (perché altri si occupano di antivirus e backup di sicurezza) e soprattutto abilita pratiche nel settore video prima impossibili. Colossi come Amazon, Google e Akamai hanno capitalizzato la potenza della rete e consentono di servire decine di milioni di streaming video in contemporanea: da YouTube e Vimeo ai mille siti di broadcaster grandi e piccoli. Il vantaggio per chi trasmette è che i costi sono molto ridotti. Il vantaggio per i nativi digitali della nostra epoca è che l’abitudine è diventata quella di considerarsi sempre connessi, davanti alla più grande videoteca della storia (solo parzialmente legale) e capaci di raggiungere qualsiasi contenuto, in qualsiasi momento e in qualsiasi posto, per poterlo consumare e condividere con qualsiasi amico. Tutto grazie alla nuvola. • 7. Ssd L’archivio entra in tasca · Capacità e velocità: il video pretende dall’hardware queste due qualità. E se non le ottiene, degrada di qualità. Il primo decennio del nuovo millennio ha visto l’inizio della fine dei sistemi di archiviazione del video su nastro o su disco rigido, e la proliferazione dei nuovi supporti basati su banchi di memoria allo stato solido, senza parti in movimento. Questo vuol dire migliori tempi di trasferimento dei dati, che si traduce in flussi di bit più veloci per il video, ma anche minori consumi, archiviazione più sicura (non ci sono parti meccaniche in movimento). Le tecnologie dei Solid State Drive (Ssd) e dei sistemi basati su memorie riscrivibili allo stato solido, come le penne Usb comunemente usate per spostare documenti digitali da un computer a un altro, stan184




sezione 4



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Notizie che spaccano Stefano Pistolini La banalizzazione delle breaking news

DI

Notizia: secondo i manuali, è “ l’uomo che morde il cane” (e non viceversa). Un fatto che non capita poi così spesso, che differisce dalla norma e solo di rado è sconvolgente, breaking news. Un bel problema, se la volontà di essere sempre informati, e aggiornati, si unisce all’ inedita abbondanza di fonti, tra online e all news. Qualcosa è cambiato, soprattutto dopo l’11 settembre. L’uomo (e il cane) si ritrovano circondati da punti esclamativi e pandemie: dall’ incredibile ma vero all’ incredibile e basta. 191

è giornalista e autore radiotelevisivo. Il suo principale settore di interesse è l’America, su cui ha scritto libri e ha realizzato inchieste e documentari. Scrive per Il Foglio (dove tiene anche una rubrica di musica settimanale) e Rolling Stone . In tv recentemente ha firmato, con P. Giaccio, il ritorno di Mister Fantasy su Rai Extra. Sta ultimando una videostoria del rap romano.


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L

a breaking news è una sottocultura dell’informazione, che vitaminizza e centralizza il fattore temporale (venire a conoscenza della notizia praticamente in sincronia con il suo svolgersi) e quello agonistico (essere i primi a dare quella notizia e, in modo complementare, essere i primi a venirne a conoscenza) a parziale discapito della confezione (intesa in termini classici, semmai un parametro di “classicità” abiti da queste parti) e della degna riflessione sulla notizia stessa. Per convenzione la “notizia che spacca” viene servita così com’è, spogliata di pensiero, nonché di precisazioni e approfondimento. È materia primordiale, bollente e preziosa. Con la sigla breaking news originariamente s’è giustificato il sommo “diritto a procedere” televisivo, ovvero l’irruzione nella programmazione regolare del palinsesto di una rete, sulla spinta della nuova notizia da diffondere. Urgenza, condivisione e titillamento delle idee di “bacino condiviso” e di “immediatezza del contatto” sono alla base di un procedimento che, nella sua ansia di comunicare – in linea di massima sciagure più o meno grosse – vuole al tempo stesso evocare presso gli utenti la fortuna di cui sono intestatari, in quanto membri connessi della comunità contemporanea. Tutto ciò per convenzione consolidata. Ma oggi sui numerosi canali all news americani la dizione breaking news ha un significato diverso. È una vitaminizzazione obbligata e abituale del consueto nastro informativo. C’è sempre qualcosa in più, un dato inatteso, o anche un esito atteso, a cui attribuire la qualifica di “supernotizia da consumo istantaneo” e, in mancanza d’altro, può succedere che una vicenda goda della qualifica di breaking news lungo tutta una giornata intera, più che altro perché nel frattempo non emergono novità degne di quel nome. Ai tempi in cui Ted Turner lanciò Cnn e la sua concezione di tv nella quale “la notizia è la star”, la breaking viene qualificata come valore aggiunto, da razionare con parsimoniosa strategia, per preservarne la valenza d’impatto. La scritta arrivava in oro, non in rosso (“preziosità” prima di “pericolo”), e nella maggior parte dei casi, per annunci improvvisi ma non particolarmente destabilizzanti, ci si limitava a utilizzare la dizione just in, ovvero “appena giunta in redazione”, riservando la breaking solo ai casi eccezionali, salvaguardandone il richiamo. Quando il rating di una tv ha cominciato a valutare le risultanze minuto per minuto si è pensato che, in buona sostanza, ogni minuto dovesse essere preso come fosse l’ultimo, perché sulla base di quei numeri finivano a repentaglio i posti di lavoro dei responsabili, costretti a vivere una giornata qualsiasi come, potenzialmente, l’ultima della loro esperienza, nel caso di clamorosi errori di valutazione. Inevitabile il salto di qualità: meglio esagerare. Meglio presentarsi sempre in prima linea, agguerritissimi sul fronte delle nuove notizie: e non a caso oggi un canale all news vive in regime di breaking news continuata, il che naturalmente, finisce per annullare il grande effetto speciale. È una breaking news il pianto dirotto di Lindsey Lohan di fronte al giudice che finalmente la spedisce in galera a riflettere sulle sue irritanti marachelle, ma lo sarebbe parimenti l’avvicinamento del fatale asteroide al pianeta Terra: graficamente c’è poco da inventare, perché la fame di visibilità ha pressato i pixel al limite di sfruttamento del loro richiamo. E breaking news diviene anche sinonimo di supplica: restate sintonizzati, vi promettiamo che da un momento all’altro ne avremo una nuova per voi. A costo di inventarla o di sporgersi troppo verso il baratro della simulazione (“Milioni di morti probabili per l’imminente pandemia, assicurano gli esperti”). Talmente isterica è 192


la ricerca del potenziale scoop, che il territorio di caccia s’è esteso oltre la frontiera dell’hard news, sconfinando nelle soft news che sbocciano nei dintorni dello show business: un divorzio vero o presunto, una lite finita a schiaffoni, lo spassoso epilogo della turbolenta vita sessuale di Tiger Woods, il campione di golf inseguito dalla consorte inferocita sul vialetto di casa mentre scappava a bordo del Suv. Intercettato, colpito, affondato. E subito al centro di un festival del kitsch, servito a base di breaking news lanciate dagli inviati posizionati sul praticello dei vicini – una raffica micidiale, durata tre giorni e abbattutasi sul campione decaduto, a base di sms piccanti, rivelazioni di amanti vere e presunte, smentite, controaccuse e l’attivazione della ben nota gogna mediatica che segna la fine dell’utilizzo del richiamo breaking, per consegnare la notizia, debitamente spremuta, al tritacarne dei talk show. Il regime permanente delle breaking news oggi la breaking news s’è banalizzata fino a essere sinonimo di news, ossia l’ultima notizia all’orizzonte che, grazie alla propria tempistica, più che alla sua portata, riceve un trattamento tanto rilevante. Può godere di aggiornamenti o essere abbandonata alla deriva, nel momento in cui un’altra notizia più golosa arrivi a scalzarne il posizionamento. La vendita di un famoso calciatore, per esempio, oggi costituisce un’accettabilissima breaking news. Anzi: perfino il suo arrivo presso la sede della nuova squadra autorizza l’utilizzo della definizione, sebbene non sia altro che un trascurabile episodio nel normale svolgimento del mercato sportivo. Il trucco funziona: “Ibrahimovic sbarca a Milano”, recita una breaking di Sky News. Viene da chiedersi cosa ci sia di strano nel fatto che il calciatore arrivi a Milano, dal momento che è stato appena acquistato da una squadra del capoluogo lombardo. Le cose stanno seguendo il loro corso e la notizia dell’acquisto del campione, consumata e di pubblico dominio, è già patrimonio degli editorialisti. Ma la procedura di spolpamento delle notizie ha modificato anche il loro riuso: promuovendo a breaking news lo scendere dall’aereo del calciatore tanto atteso, si propone allo spettatore di trasformarsi in testimone, perfino testimone oculare, se si conta sul conforto delle immagini. Ciò che si concede, ovvero si vende, è l’illusoria patente di “prescelto” tra gli informati, colui che lo sa per primo, perché mantiene il filo diretto con le breaking news. Che altro non diventano se non la celebrazione del restare connessi a una emozione. Dunque, un ragionamento sul concetto di breaking news implica la conclusione che oggi l’informazione obbedisca più alle regole dell’attrazione che a quelle dell’obiettività e dell’equilibrio. Una vera breaking news, per esempio, raramente richiederebbe repliche o ampliamenti, prima di passare a essere “notizia”, della cui portata disporre all’interno del menu quotidiano: la Mercedes di Lady D impiega un istante a finire contro il pilone nel sottopassaggio di Parigi. La notizia dell’incidente merita d’essere degnamente aggiornata tutt’al più con la precisazione del decesso dei passeggeri. Per resistere giorni interi in condizione di breaking, ovvero in status di allarme, la stessa notizia può solo pascersi di se stessa, alimentare la propria eccezionalità attraverso la risonanza psichica del primo deflagrare e la riproposizione ad anello delle immagini forti, giustificate dall’emersione di modesti nuovi particolari. 193

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le ILLUSTRAZIONI

BEN JONES DI

nato a pittsburgh nel 1977, ben jones cresce tra le pareti del fort Thunder, leggendaria comune underground di Providence, dove insieme a Jacob e Jessica Ciocci fonda i Paper Rad nei primi anni Zero. Il collettivo è artefice di un universo psichedelico popolato da creature aliene antropomorfe prelevate da cartoon e vecchi videogame. L’estetica lo-fi dei Paper Rad conquista New York con fanzine, deliranti installazioni multimediali e produzioni discografiche noise. Raggiunto l’apice nel 2005 con B.J. And Da Dogs, edito da Picturebox, e la collaborazione con Cory Arcangel da Deitch Projects per Super Mario Movie, realizzano videoclip per Beck, The Gossip e M.I.A. Ma le produzioni comunitarie diminuiscono a favore di progetti individuali. Jones, dei tre, raccoglie i maggiori consensi, muovendosi tra arte, indie comics e animazione, in bilico tra spirito folk e cultura digitale, con mostre personali e collettive in tutto il mondo. Le sue visionarie strisce a fumetti appaiono su Kramers Ergot, The Ganzfeld, McSweeney’s e The Best American Comics. In attesa del debutto di una serie animata per un importante network, il Modern Art Museum di Fort Worth lo ha recentemente premiato come migliore artista emergente. www.benjaminqjones.org

Per altre informazioni su Ben Jones e il collettivo Paper Rad, potete leggere l’articolo Electro-luminescenza di Francesco Spampinato a pagina 47.

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Link idee per la televisione

MONO Abbiamo la scimmia della tv. E si chiama Ampersand.

Ripartire da zero Televisioni e culture del decennio Proprietà letteraria riservata · ©RTI ISBN 9788895596105 ISSN 1827-3963 direttore editoriale

Marco Paolini

direttore

Fabio Guarnaccia

coordinamento redazionale

Luca Barra in redazione

Alessia Assasselli si ringrazia per la collaborazione: Gabriella Mainardi, Francesco Spampinato, Sophia Lorem Ipsum e-mail link2link@mediaset.it sito www.link.mediaset.it blog www.linkmagazine.blogspot.com link · rti Viale Europa, 48 20093 Cologno Monzese (MI)

art director

Marco Cendron

progetto grafico Pomo illustrazioni Ben Jones impaginazione

Alessandro I. Cavallini

L’editore si dichiara disponibile a colmare eventuali omissioni relative a testi e illustrazioni degli aventi diritto che non sia stato possibile contattare. finito di stampare da tipografia negri · bologna · nel mese di ottobre 2010

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Link mono

Ripartire da Zero

televisioni e culture del decennio

A volte una cover story non basta. Anche questo Link Mono, secondo numero speciale della rivista, ferma il flusso delle continue novità e lascia spazio all’approfondimento. Prendendosi tutto il tempo per raccontare il passato prossimo: dieci anni di cambiamenti vorticosi avvenuti sotto una coltre di apparente immobilità. E facendo esercizi divinatori sugli anni Dieci. Tanto le cose poi vanno come vanno. Illustrazioni di Ben Jones, in perfetto mood anni Zero. Indie, nuovo mainstream...................................................................................................... 13 di

H. Jenkins, V. Bellocchio, F. Pacifico, T. Tessarolo, F. Cleto, F. Spampinato

Dal cinema indipendente americano alla narrativa postmoderna, dalla musica alternativa ai movimenti dal basso: fenomeni prima indie e sottotraccia, ai margini della cultura ufficiale, giunti negli anni Zero a occupare il centro della scena e il suo medium incontrastato, la tv. La retroguardia non subisce più le incursioni dell’avanguardia: la affianca con garbata ironia, e la spiazza. ***

Il tubo dell’abbondanza....................................................................................................... 65 di

J. Ellis, A. Grasso, C. Freccero, M. Vecchia, M. Scaglioni

Nella tv degli anni Zero, il flusso continuo di programmi nelle ventiquattr’ore non basta. Le offerte si moltiplicano, i prodotti trovano infinite repliche/espansioni, i canali sono centinaia. Anziché morire la tv (o quel che è diventata) si moltiplica e arriva dovunque: non si sfugge più. Link prova a tracciare i confini e a disegnare la mappa dell’abbondanza. Senza perdere la bussola, indicando alcune strade. top ten: i brand tv del decennio

***

La caduta degli dei.............................................................................................................. 111

di M. Ferraris, A. Dini, M. Bittanti, M. Boroni, E. Pucci, C. Momigliano, D. Turi, M. Temporelli

Gli dei del passato non bastano più. I fattori economici e tecnologici non sono più sufficienti. Le variabili da considerare degenerano nel sociale e non si sa ancora come misurarle. Un mondo va in frantumi, mentre un altro si profila all’orizzonte, avvolto dalle nebbie della creazione. Come in Mad Men, tutto crolla senza speranza. Link butta giù dal piedistallo le tecnologie. Per vedere che c’ è sotto. top ten: le tecnologie del decennio

***

Le metastasi del prima....................................................................................................... 189

€ 15,00

di S. Pistolini, A. Zaccuri, F. Pasquali, A. Sfardini, M. Farci, N. Morabito, M. Lenardon

ISBN 88-95-59610-5

Corruzione e disfacimento. Ma anche contaminazione e ricreazione. La tv e i media sembrano popolati sempre dalle stesse forme e dagli stessi generi. Mentre siamo girati da un’altra parte, però, sono in corso mutazioni e rivolgimenti. I grandi classici – informazione, intrattenimento, fiction – sono concetti ormai vuoti: a forza di scavi e aggregazioni, siamo finiti altrove.


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