Olive & bulloni ando gilardi Lavoro contadino e operaio nell’Italia del dopoguerra 1950-1962
Catalogo a cura di Fabrizio Urettini testi di Ando Gilardi, Domenico Luciani, Patrizia ed Elena Piccini, Sergio Polano Progetto grafico Pomo Collaborazione all’editing Patrizia Boschiero Edizioni Fototeca Storica Nazionale Stampato su carta Arcoset EW dalla Tipografia Negri Bologna
Con il patrocinio di Fondazione Benetton Studi Ricerche Catalogo supportato da Social Design Zine XY Z
in copertina COPPIA DI CONTADINI al ritorno dai campi cavalcano il loro mulo seguiti da tre capre che hanno portato al pascolo. Lucania, 1957.
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Olive & bulloni Ando Gilardi
nella pagina accanto NATALE Dall’interno di una bancarella della fiera natalizia di piazza Navona si vedono pendere giocattoli e altri oggettini in controluce. Oltre gli oggetti, si intravede un dettaglio evanescente della fontana del Bernini. Roma 1955 – 1960
Ho avuto la fortuna immensa per un fotografo scalzo, mezzo secolo fa si diceva così, di essere stato il fotografo se non ufficiale ufficioso della cgil negli anni cinquanta, e di aver raccolto per il suo settimanale a rotocalco Lavoro, oggi più interessante per l’antropologia che per altro, gli ultimi documenti fotografici sulla fine, diciamo pure sull’estinzione, delle tre grandi classi del proletariato italiano, quelle degli operai, dei salariati della terra e dei contadini poveri, i senza niente cosiddetti cafoni del Sud. Uso il termine proletario secondo la definizione di Karl Marx, per indicare chi lavora senza possedere il mezzo di produzione che usa allo scopo: Marx precisava, che su dodici ore di lavoro, tre ore lavorava per sé e nove per il padrone del mezzo. Le cifre sommarie che parlano di queste tre classi nel secolo scorso sono interessanti: negli anni venti si aveva in Italia un operaio ogni sei contadini e braccianti senza niente; alla vigilia della seconda guerra mondiale il rapporto era già mutato da uno a tre. L’economia di guerra aveva moltiplicato le fabbriche e nel dopoguerra il rapporto era già diventato quasi alla pari; ma tuttavia il numero dei lavoratori, e dei disoccupati, dei campi rimase ancora più numeroso di quello delle officine fino ai primi anni cinquanta quando, come dicevo, ebbe inizio la veloce estinzione delle tre classi. Io ho fotografato le lotte e proteste per impedirlo senza riuscirvi e in questa mostra ci sono documenti di una sconfitta epocale. Per farla breve e non stancare il lettore possiamo sommare-riassumere in sei/ sette milioni di lavoratori quelli delle grandi classi scomparse. È prevedibile l’obiezione che sarà fatta a questo che dico, cioè che oggi ancora si contano in Italia, secondo le cifre dell’istat, 5 milioni di cittadini operai. È vero, è una fortuna che altrimenti sarebbe
davvero un disastro da molti punti di vista. Ma precisando quello che prima affermavo, e che ovviamente si può controllare, ribadisco che la cifra dei sei/ sette milioni si riferisce ai licenziati dalle fabbriche e dalle miniere e a coloro che hanno dovuto abbandonare il lavoro dei campi perché, e faccio solo un esempio, un trattore con i dovuti accessori ha sostituito almeno cinquanta salariati agricoli. Un caso diverso è quello del Sud dove gli zappaterra trovavano impiego saltuario nel latifondo o nelle raccolte stagionali come quelle delle olive e delle noci, meno di tre mesi all’anno di media. Ma questo discorso, se pur interessante, ci porta lontano dalle fotografie. Parliamo un momento di loro. Vorrei far riflettere chi visita questa mostra fotografica su una sconfitta umana epocale, sperando di divertirlo o commuoverlo e non farlo pentire di esserci entrato, attirare la sua attenzione su alcuni dettagli: in molte istantanee si vedono asini e muli, ebbene nel tempo in cui sono state riprese, il numero di questi mezzi di trasporto era nel Mezzogiorno superiore di dieci volte a quello delle automobili. In molti paesi e faccio il caso di Albano di Lucania allora con circa 3.000 abitanti, quando il sindaco che abitava a Potenza veniva a far visita ai suoi amministrati, i cittadini correvano in piazza per vedere la macchina che camminava da sola. Il sindaco che era un simpatico ragazzo e quasi un amico, mi raccontava, e se non mi credete pazienza, di aver vinto le elezioni facile facile, per aver mostrato alla gente durante un comizio, un foglio di carta moneta da mille lire. Per ciascuna di queste istantanee e delle altre mille che come fotografo scalzo ho preso in quegli anni fatali nel Nord e nel Sud, potrei raccontare più di una storia così, ripeto che forse pare incredibile però vi assicuro che è vera. 5
Volti di chi non ha mai visto la televisione Fabrizio Urettini
Ando Gilardi afferma sovente di essere più ancora di un fotografo e più ancora che storico della fotografia un cercatore e collezionista dei grandi capolavori del mezzo. In queste pagine alcuni esempi dalla sua raccolta oggi custodita negli archivi della Fototeca Storica Nazionale. nella pagina accanto MESTIERI Gruppo di lavoro nel laboratorio di falegnameria artigiana. Da notare i ferri del mestiere e la posa che ciascuno assume per mostrarne la funzione. Numerosi i giovani apprendisti e i “microapprendisti”: bambini al lavoro. Italia, fine XIX secolo 6
Per meglio comprendere l’eccezionalità delle istantanee scattate da Ando Gilardi nel periodo di Lavoro (19501962) è molto utile una riflessione storica sull’unicità della sua esperienza redazionale, svoltasi in un momento fondamentale della modernità: nel corso di una vera e propria rivoluzione che, nell’arco di un periodo relativamente breve (poco più di vent’anni), ha dato avvio a una nuova era, quella dei mezzi d’informazione e di comunicazione di massa contemporanei. Questo periodo non è entrato ancora pienamente nelle dimensioni del passato: molti dei suoi testimoni sono ancora tra noi e Ando Gilardi continua a essere uno dei protagonisti più attenti e vivaci nel dibattito sulle comunicazioni visive – in particolare, sui consumi sociali delle immagini fotografiche. Tra l’inizio degli anni trenta e gli anni cinquanta sono portate a compimento delle innovazioni tecnologiche essenziali per la nascita e la fortuna dei grandi settimanali fotografici. Verso la metà degli anni venti, in Francia si sperimentano nuovi procedimenti fotografici di impressione, con risultati ben superiori a quelli tradizionali, come la héliogravure, che permette la riproduzione delle fotografie in bianco e nero con toni estremamente dolci e vellutati; al contempo, viene perfezionata la stampa offset (la più diffusa tutt’oggi), precisa ma estremamente delicata, che solo nel secondo dopoguerra troverà una efficace messa a punto, rivelandosi ideale ed economica per la stampa in quadricromia. Sin dagli anni trenta, le rotative typo per i quotidiani ed hélio per i settimanali illustrati permettono tirature orarie superiori alle 100.000 copie, distribuite attraverso la filiera di allora: camionette fino alle stazioni e
da qui, attraverso le ferrovie, all’intero territorio nazionale, in tempi neanche immaginabili un decennio prima. Sin dalle prime esperienze, fotografi e reporter si muniscono di apparecchi di formato ridotto, di buona usabilità e maneggevolezza, con tempi di esposizione adatti per riprese in condizioni di scarsa luminosità, senza utilizzo del flash. L’Hermanox (1925) è una piccola fotocamera a lastra utilizzata da Erich Salomon, il padre del photo reportage in Germania, ma sarà la Leica I (1925), prodotta da Leitz, la macchina rivoluzionaria tra le moderne fotocamere. Compatta, estremamente maneggevole e di ridotto ingombro, la Leica I, montando una pellicola perforata con fotogrammi da 24 x 36 mm, è la prima ad adottare il formato di negativo fino ad allora usato solo per il cinema, con sei tempi di posa (da 1/25° a 1/500° di secondo); nel 1932 uscirà la Leica II, con un set di sette obiettivi intercambiabili e telemetro incorporato. La Leica III f (1950) assieme alla Super Ikonta (1952-1957), con velocità di otturazione da 1 a 1/500° di secondo più la B, dal formato di negativo 6 x 6 cm di pellicola non perforata, sono le fotocamere, utilizzate da Ando Gilardi per le fotoinchieste di Lavoro, con le quali ha realizzato le istantanee esposte in mostra. Questi due apparecchi non differiscono soltanto per il formato dei negativi, uno rettangolare e l’altro quadrato, ma richiedono anche approcci molto diversi alla presa fotografica. Con la Leica, la fotocamera viene portata all’occhio, le modalità di impostazione e regolazione dell’immagine sono rapide, guardando direttamente il soggetto, come tramite un cannocchiale. Con la Super Ikonta, l’inquadratura si coglie allo stesso modo ma la regolazione è più lenta, l’obiettivo è posto sul
soffietto che deve avere tempo per aprirsi morbidamente, il faccia-a-faccia con il soggetto è più prolungato, c’è una maggior interazione, il risultato è un atteggiamento meno istintivo della Leica, a scapito dell’immediatezza dello scatto ma con il vantaggio di un negativo più grande e di una migliore qualità dell’immagine. Istantanea con il respiro di una posa. Le innovazioni tecnologiche contribuiscono non poco alla formazione di una nuova generazione di fotografi e alla nascita della Nouvelle Vision, che riceverà un notevole apporto dall’adesione alle ricerche delle avanguardie storiche: il cubismo, il costruttivismo e il surrealismo vedono infatti nel medium fotografico un moderno strumento di produzione
automatica e meccanica di immagini. Con la nascita dei moderni mezzi di informazione di massa si preparerà poi il terreno per l’affermarsi di un vero spirito dell’epoca, di uno zeitgeist in grado di esprimere la modernità e di manifestarla pubblicamente. Nouvelle Vision non indica solamente un atteggiamento nuovo verso la fotografia ma rappresenta soprattutto l’evoluzione di una generazione nata agli inizi del xx secolo: la generazione perduta, senza padri, perché quella che l’ha preceduta è scomparsa o quasi con la Grande Guerra. A Parigi, la città più cosmopolita d’Europa, la concorrenza tra giovani artisti e fotografi stranieri (molti dei quali esuli) accende la competizione, con un’aggressività che rapidamente risulta in una fotografia
completamente diversa dal vecchio mestiere. Gli apporti che confluiscono nel fotogiornalismo delle origini, in un periodo così denso di avvenimenti, sono molteplici; gli indirizzi principali sono il costruttivismo dall’Europa orientale, il dadaismo, il surrealismo, mentre dagli Stati Uniti arriva la fotografia pura. Operando all’interno della stessa realtà urbana, seppur in ambiti diversi, e confrontandosi in un contesto editoriale così vivace e produttivo, questi indirizzi finiscono inevitabilmente per ibridarsi. Malgrado la grande crisi finanziaria del 1929 (responsabile di un forte calo delle tirature), i giornali illustrati in Francia contano nel 1930 ben seicento testate, tra fogli di informazione, femminili, sportivi, professionali, leggeri, di moda, di cinema e per 7
FAMIGLIA interno dei tipici “sassi” abitazione rurale della provincia di Matera: una famiglia numerosa riunita attorno al misero tavolo da pranzo. Fotografia eseguita per la domanda dell’incentivo offerto dall’ufficio propaganda di regime. Matera, 1935 ARTIGIANO DEL FERRO gruppo di fabbri, in mezzo a loro l’incudine, al centro alzano il martello in segno di saluto e altri alzano il bicchiere e il fiasco in un brindisi. Davanti a tutti si sono seduti i due giovanissimi garzoni. Italia primi anni del XX secolo AZIENDA ABBIGLIAMENTO dipendenti di una piccola sartoria posano per una fotografia ricordo in atteggiamento di lavoro. Alle macchine da cucire le sarte, le piccinine eseguono il lavoro a mano. In piedi, dietro al gruppo l’anziana proprietaria con in braccio la nipotina. Località ignota in Lombardia, 1900 circa LABORATORIO FAMILIARE la posa fotografica della famiglia del fabbro che resta immobile per almeno dieci secondi ha un secolo. Al centro fila alla rocca quella che si propone come la regina della casa, il personaggio principale. Questa scelta di cent’anni fa trasforma questa fotografia in un documento fra i più rivoluzionari della storia dell’umanità. Immagine utilizzata in copertina per le prime due edizioni di Storia sociale della fotografia di Ando Gilardi. 8
l’infanzia. In questo enorme serbatoio si riconoscono alcune esperienze editoriali che riconducono all’Ando Gilardi reporter ed editorialista di Lavoro, quali le testate parigine Vue e Regards, legate alla tradizione della stampa di gauche francese. In particolare, nella seconda metà degli anni trenta Regards darà vita a una vera e propria scuola fotografica, con protagonisti d’eccezione, tra cui Capa, Papillon, Namuth, Reisner e Taro. A fronte dell’immagine (stereotipata e costruita) di lavoratori intenti alla produzione con le loro macchine – cara alla tradizione della fotografia di propaganda –, Regards promuove una fotografia del lavoro reale, al di là del mestiere, con reportage che documentano la vita degli operai, la loro quotidianità, i bambini, le riunioni sindacali, i pranzi in famiglia, il tempo libero, gli sport all’aria aperta, a cui si affiancano gli straordinari servizi sull’ondata di scioperi e occupazioni del 1936. Sotto l’influenza di Regards si inaugura una nuova visione dell’operaio e del contadino, che escono dall’anonimato
di massa per divenire attori sociali, con piena dignità di individui. Questa visione si esprime nelle forme del realismo poetico, in contrasto con l’immagine estetizzante del lavoratore, quale si ritrova – ad esempio – nell’imponente opera La France Travaille (1931-1934) di Kollar, con lo stereotipo dell’eroico operaio, costruttore di una nuova società. Altra e non trascurabile analogia con Lavoro sono le rubriche dedicate alla fotografia, come le immagini di apo (Amateurs Photographes Ouvriers), servizi realizzati dagli operai all’interno delle fabbriche. Anche Gilardi promuoverà concorsi fotografici per i lettori del Lavoro: queste istantanee verranno pubblicate in un’apposita rubrica, con risultati alle volte sorprendenti, in una visione sociale della fotografia, volta alla democratizzazione del medium e alla condivisione tra lettori e redazione. Pur non avendo certezza che Gilardi abbia sfogliato Regards, resta il fatto che alcuni dei reporter più famosi della rivista francese collaboravano allora con altre testate, tra cui Life (1936) che Gilardi
ha sempre indicato quale riferimento estetico ed editoriale della redazione di Lavoro. In ogni caso, restano le tracce di quel nuovo spirito che ha l’ultimo suo sussulto nella corrente realista ma, con l’inizio del secondo conflitto mondiale, è destinato a un arresto repentino, in un generale ritorno all’ordine. Durante la guerra, Gilardi partecipa alla resistenza con le prime formazioni garibaldine del Monferrato; subito dopo, comincia a occuparsi di fotografia ricercando, restaurando e riproducendo immagini belliche, in particolare dei crimini nazifascisti, per conto di una Commissione interalleata incaricata della raccolta di documentazione per i processi contro tali crimini. La fotografia spontanea della Shoah, di cui Gilardi è un grande conoscitore, ha avuto nella sua formazione un ruolo fondamentale: è stato il primo a pubblicarla in Italia, proprio su Lavoro, all’interno di un contenitore a schede in allegato, provocando una specie di terremoto culturale, per cui venne accusato di “oscenità” dato che molti cadaveri nelle fosse comuni sono nudi, e lo scandalo fu tale che venne discusso in Parlamento. Le istantanee dei fotoservizi di Gilardi per Lavoro le ho viste tutte, una a una, contenute in pacchetti, all’interno di scatole di legno; ho passato in rassegna migliaia di contatti, incollati a schedine stilate a mano, con elegante grafia; le ho osservate attraverso un lentino, che mi ha obbligato a una lettura muta delle immagini, come da bambino attraverso uno stereoscopio-giocattolo, di quelli con le favole. Nel contesto di un’esposizione sulla sua produzione di questo periodo curata da Angelo Schwarz, Gilardi ha voluto mettere in guardia il rimirante e l’aspirante fotografo dal pericolo di umiliare la Fotografia, mettendola al servizio delle
utopie sociali. Non ho avuto questa sensazione, esaminando le istantanee di Lavoro; piuttosto, in alcuni momenti ho avuto l’impressione di violare qualcosa di intimo, come se stessi sfogliando un album di famiglia altrui. La contenuta ma significativa selezione di fotografie in esposizione mostra il piacere di Gilardi per la sperimentazione e anche per quel carattere ibrido dell’immagine, rilevato a proposito della Nouvelle Vision. Alcune fotografie hanno un’impostazione pubblicitaria, come quella della Dorina che sventola il Lavoro davanti all’entrata della Fiat; altre riportano alle atmosfere dei photographes de rue francesi, mentre le immagini dei braccianti ferraresi che sventolano le falci sorridenti fanno pensare alla fotografia costruttivista russa e quella dei cavallini appesi di un mercatino di Natale in piazza Navona suggeriscono le atmosfere oniriche della fotografia surrealista; lo scatto con i braccianti lucani in attesa dell’ingaggio, che non sembra neanche un’istantanea, ha la composizione e le tonalità di un quadro del realismo italiano.
I ritratti, soprattutto dei bambini e delle donne del sud, esprimono l’amara consapevolezza di essere gli ultimi testimoni di una civiltà destinata a scomparire ben presto. Sono i volti di chi non ha mai visto la televisione (come li definisce Gilardi): volti antichi, di un’intensità e di una forza tali che la miseria attorno sembra una condizione naturale, affini alla sospensione esistenziale di alcuni ritratti anonimi di vita comune nel ghetto di Varsavia.
EMIGRAZIONE lavoratori italiani in Brasile brindano al 1891. La fotografia verrà spedita per ricordo ai familiari rimasti nel paese di origine. Ai piedi della fotografia è scritto «fatta il 1891 in Brasile». 9
rullini ripieni Elena e Patrizia Piccini
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Elena e Patrizia: lavoriamo da quasi trent’anni nell’archivio fondato da Gilardi, nostro Maestro, ma è la prima volta che riusciamo a “contrabbandare” le sue istantanee. Fuori dalle vecchie cassette di schede. Fuori dai benedetti “rotolini”. No, a dire il vero che escono è la seconda, ma quando quasi una ventina di anni fa furono prese in mano da Angelo Schwarz (quella volta non avevamo alcun ruolo se non quello di “manovali”) Gilardi lo aveva coordinato partecipando all’impostazione della mostra e decidendo lui il titolo: Memorie di un fotografo pentito. Il nostro, con un atteggiamento che malgrado le ampie motivazioni apportate non siamo mai riuscite a interpretare meglio che con una specie di pudore, si era sentito in dovere di precisare che comunque si era “pentito” di essere stato fotografo… È in quell’occasione che, venti anni fa, abbiamo cominciato a liberare quei negativi dai cilindretti di latta che con il loro stretto abbraccio rugginoso li soffocavano. Inspiralati in rotolini così stretti che davvero sembrava dovessero essere fatti per diventare il ripieno di qualche oliva (a proposito di…). Cilindretti… rotolini… stretti, chiusi, sembrava che custodissero un segreto. Adesso sappiamo quale e siamo felici, che anche grazie a Fabrizio Urettini, tutti possano ammirarlo. Provando a distenderle, quelle disperate strisce di pellicola tentavano sempre di ritornare su se stesse… e quando le abbiamo distese bene bene in confortevoli buste di pergamino sei strisce allineate in ogni foglio, sembravano fatate: potevi metterci sopra tutti i pesi che volevi, ma… niente, appena toglievi il carico… zac! Si richiudevano a ricciolo e quei fotogrammi ribelli con gli angoli bucavano il pergamino: volevano uscire. Non ne volevano sapere! Solo adesso,
dopo qualche anno di distensione, le strisce si stanno rassegnando a star sdraiate. Ma ci sono altri cilindretti (possiamo chiamarli “bozzoli”?!) che contengono ancora molte strisce e a pensarlo ci vien male... (ma se le strisce son nei “bozzoli” allora possiamo dire che i fotogrammi sono “crisalidi” e le stampe che ne derivano leggiadre “farfalle”?) Ci siamo chieste perché Gilardi avesse maltrattato così questo suo lavoro. Una specie di tortura. Strano perché l’abbiamo sentito parlare tante volte con entusiasmo della sua amatissima Leica iii f, della qualità dei suoi fotogrammi. Magari era solo indifferenza all’oggetto prettamente materiale, alle fotografie: forse è la risposta. In quel tempo i suoi valori primari erano altri… e poi è successo che invece diventassero cosa da dimenticare… come sempre guardare avanti: come è lui, come è adesso, avanti. Ciascuno di quei rotolini era avvolto in una striscia di carta sottile, fermata da un elastico altrettanto sottile; sulla carta qualche parola scritta a mano da lui stesso… caratteri minuscoli, scritti con una penna stilografica a punta sottile. Poco più di un nodo al fazzoletto: il nome che lui dà alle istantanee. Il primo vero tentativo di archiviazione (forse suo malgrado, ci piace immaginare così…) è stato fatto dalla moglie Luciana che amorevolmente vicino alle parole ha scritto dei numeri. Numeri riportati accanto alle voci in un piccolo schedario “a parte” dove la descrizione poteva essere un pochino più ampia delle due parole scritte sulla cartina. “Schedario a parte”: anche lei aveva tenuto gelosamente separati dal marasma dell’archivio, dal corpo della Fototeca, questi preziosi istanti di pellicola. Da dimenticare o da ricordare? Lei è stata la prima a essere convinta che fossero –
comunque – da ricordare. Proprio accomunati da questo schedario, abbiamo scoperto i negativi 6 x 6 e 6 x 9: in minore quantità. Conservati meglio… dimenticati meglio. Anche questi tenuti “a parte” dalla Fototeca, anzi nella prima mostra del fotografo pentito nemmeno considerati. Due bauletti di legno, di quelli da pittore, che contengono i grandi fotogrammi piani raccolti in semplici buste di carta da lettera… rilassati, niente a che vedere con la verve dei rotolini riccioluti. Pure il contenuto è più tranquillo: pose, sorrisi, risate addirittura: le persone (si capisce) soprattutto i bambini, cercavano l’obiettivo, gli si mettevano davanti, e del resto: «Non ho mai
“rubato” una foto a chi già aveva poco» è quello che afferma Ando. La sostanza del suo essere fotografo, solo a quella condizione, senza pentimenti.
SCATOLE CILINDRICHE che contenevano originariamente l’archivio dei negativi di reportage di Ando Gilardi degli anni 1950-1962. 11
mitici anni cinquanta Sergio Polano
in questa pagina ...e se mamma e papà non andranno a votare noi faremo pipì a letto! manifesto elettorale della DC per le prime elezioni politiche e amministrative 1948/1950. nella pagina accanto È lui che aspettate? Le prime politiche del dopoguerra. manifesto elettorale anticomunista, 18 aprile 1948. 12
Quegli anni. Gli anni della pubblicazione di Lavoro, dal 1948 al 1962 e – in particolare – il periodo dal 1952 al 1958, sono l’arco storico dell’iconografia in mostra. Ma non basta saperlo: mentre le parole assumono significato preciso nel concerto del testo cui appartengono, le immagini – in generale – non hanno invece questa facoltà, perché sono in sé prive di contesto. Non parlano, checché si pensi; siamo noi a farle parlare, didascalizzandole. È nello sfondo assente da queste figure in mostra che va infatti costruito e ricercato il loro significato, quello in cui si cela l’impronta di quegli anni. Negli anni cinquanta, il mondo era diviso in due; da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Senza mezze misure. I migliori: gli americani; oppure i russi – a seconda delle idee politiche. Il paradiso in terra stava oltre l’Oceano o aldilà della Cortina di ferro. C’era gran paura della Bomba e di una nuova guerra mondiale. Le tensioni tra Est
e Ovest erano tangibili e più volte si era arrivati vicini al punto di non ritorno. Il susseguirsi di drammatici conflitti internazionali e di sanguinose repressioni di moti insurrezionali scandivano la cronaca del decennio. La seconda guerra mondiale era finita da poco e si era instaurato un nuovo ordine planetario, fondato sull’equilibrio del terrore atomico. Lentamente si sarebbe passati dalla guerra fredda al disgelo e alla distensione, senza mutare lo scenario della contrapposizione frontale tra le due sfere di influenza. Il decennio era iniziato con la guerra di Corea (1950-1953), in cui si era sfiorato il conflitto atomico; nel 1954, con la perdita dell’Indocina e la rivolta dell’Algeria, la Francia affrontava per prima la decolonizzazione; morto Stalin nel 1953, il suo successore Nikita Kruscev ne denunciava nel 1956 i crimini, provocando la rivolta della Polonia e dell’Ungheria, repressa con i carri armati; ancora nel 1956, l’Egitto nazionalizzava il canale di Suez, contrastato dall’intervento
armato di Israele, Inghilterra e Francia; nel 1957, il Ghana era il primo paese dell’Africa a ottenere l’indipendenza; nel 1958 veniva eletto papa Giovanni xxiii, il Papa Buono; nel 1959, Fidel Castro rovesciava il regime di Batista e instaurava una repubblica socialista a Cuba, mentre lo storico incontro a Camp David fra il presidente statunitense Eisenhower e il premier sovietico Nikita Kruscev, primo incontro dall’inizio della guerra fredda dei leader delle due superpotenze, segnava l’inizio della distensione. Cominciava intanto la corsa allo spazio: nel 1957 l’urss lanciava il primo satellite artificiale, lo Sputnik 1, seguito a breve dallo Sputnik 2, con a bordo la cagnetta Laika… L’Italia lacerata e misera, divisa e sconfitta nell’ultimo conflitto mondiale si era trasformata da regno in repubblica per un pugno di voti nel 1946, dandosi una costituzione (fondata sul primato del lavoro) lungamente discussa e malamente applicata, sottoscrivendo pesanti accordi di pace e optando per un’ampia amnistia nei confronti dei coinvolti con il fascismo, voluta da Palmiro Togliatti a fini di pacificazione nazionale. Il sogno di comunisti e socialisti, riuniti elettoralmente nel Fronte democratico popolare, di conquistare la maggioranza parlamentare si era infranto il 18 aprile 1948, inaugurando una pluridecennale egemonia governativa della dc (guidata allora da Alcide De Gasperi), che al principio degli anni sessanta approderà al centro-sinistra, dopo una lunga stagione di governi monocolore e comunque centristi, attraverso la bufera della legge-truffa alle elezioni del 1953. Dopo la scissione socialista del 1947, il pci (con la leadership di Palmiro Togliatti) si era consolidato intanto come secondo partito politico italiano;
da allora, per circa trent’anni, il pci, pur sempre all’opposizione, ottenne una crescita elettorale costante, che si interruppe solo verso la fine degli anni settanta. Nel periglioso scacchiere internazionale degli anni cinquanta, l’Italia era dunque in equilibrio instabile e, per rafforzare la scelta atlantica e la fedeltà agli alleati occidentali, la pregiudiziale anticomunista delle forze al governo e della prevalente opinione
pubblica finì per essere uno dei tratti distintivi del periodo, accompagnata da feroci contrapposizioni e sanguinosi quanto dimenticati scontri di piazza. Con la drammatica crisi d’Ungheria del 1956, il pci di Togliatti, pur aderendo di fatto alla repressione sovietica, tentò la “via italiana al socialismo”, dopo l’abbandono del partito da parte di personalità di spicco; tra i molti in posizione di dissenso, pur senza 13
in questa pagina Difendetemi! Manifesto elettorale della DC. È l’Italia che parla e protegge dietro lo scudo crociato patria-famiglia-libertà, contro cui una mano rossa scaglia falce e un martello, Italia 1948. Per l’onestà contro la corruzione vota comunista Manifesto elettorale del P.C.I. Tre personaggi del Governo in carica (ai lati De Gasperi e Scelba) marciano con grandi posate e tovagliolo democristiano al collo, preparandosi a “mangiare”. Italia, 1953. nella pagina accanto Madre salva i tuoi figli dal Bolscevismo, vota Democrazia Cristiana manifesto di propaganda anticomunista diffuso dalla DC, 1948. 14
abbandonare il pci, va ricordato il leader della cgil, Giuseppe Di Vittorio, che aveva voluto fortemente Lavoro, il periodico sindacale a cui collaborava Ando Gilardi. In questa polarizzata temperie politica, l’Italia (ancora un paese agricolo) stava completando la ricostruzione post-bellica e avviando con una industrializzazione crescente quello che sarà il miracolo economico, il boom degli anni sessanta, che avrebbe portato un inaspettato benessere, miglioramenti salariali diffusi, elettrodomestici e motorizzazione di massa. Gli italiani erano poveri, modestamente vestiti, in buona parte analfabeti; il telefono un lusso (per fare un’interurbana, bisognava chiamare la centralinista), l’automobile un sogno, le autostrade un progetto: per andare dalla Toscana al Friuli, ad esempio, passando per la Futa o la Porretta, ci si metteva un giorno. Si andava in bicicletta ma chi poteva si motorizzava con la Lambretta (di sinistra) o con la Vespa (di destra). Si viaggiava molto in treno, carrozze di prima con poggiatesta bianco su velluto
raso rosso, scompartimenti di seconda per otto affollati e scomodi, per non parlare delle terze, che avevano visto la Grande Guerra ma alla fin fine erano pure meglio; sui binari delle stazioni c’erano i portabagagli e per entrare/ uscire bisognava esibire il biglietto, un rettangolino di cartone. Si ascoltavano le trasmissioni a onde medie delle radio a valvole, in cucina o in salotto; i pochi fortunati possessori della tv (avviata a metà del decennio dalla rai), un mobilone in legno piazzato su un piedistallo, vedevano riempirsi i loro salotti di parenti e vicini, per assistere alle poche ore di trasmissione in bianconero dell’unico canale nazionale, tra sceneggiati e quiz di Lascia o raddoppia e de Il Musichiere, telegiornali filogovernativi e altre pudiche amenità, Carosello in testa. Per divertirsi, si ballava nelle balere e in casa con i lenti dei cantanti melodici nostrani, interpreti osannati del festival di Sanremo, se non con ritmi afro-cubani; ma sul finire del decennio la gioventù bruciata si scatenava nel sensuoso rock n’ roll (con figure atletiche, ben
parruccona. Ma si fumava anche ovunque, al cinema e nei ristoranti, sui treni e negli altri mezzi di trasporto, sigarette che si potevano comprare anche sciolte; non stava bene, però, che le signore fumassero per strada. Le case di tolleranza (ipocrite sin nel nome), per iniziativa della senatrice Lina Merlin del psi, vennero abolite solo nel settembre 1958, contrari monarchici e missini. Il servizio di leva militare, con tutte le sue consuetudini e biechi costumi, era obbligatorio: la naja portava decine di migliaia di giovani nelle caserme delle zone più delicate per la difesa, in primis Friuli e Veneto, ove aveva creato uno speciale indotto, se non per mare o per aria. Si leggeva poco ma i giornali erano molti di più e molto più diffusi di oggi; soprattutto avevano successo i fotoromanzi e i rotocalchi, impegnati a seguire le vicende mondane di reali e aristocratici. La scuola era severa e al liceo i maschi andavano in giacca e cravatta. I giovani erano una categoria socialmente irrilevante; la morale pubblica bacchettona. Gli anni cinquanta sono mitici solo per chi non li ha vissuti o non ne conosce la storia; d’altronde, il mito inizia proprio laddove la storia finisce.
diverse dalle mossette isteriche attuali), jeans col risvolto tirato su e maglietta a righe per lui con i capelli a spazzola, gonnona e capelli a coda di cavallo per lei, mettendo sul padellone del giradischi a manovella i 78 giri. Sempre per divertirsi, si andava soprattutto al cinema, a vedere film perlopiù in bianco
e nero (era il decennio del neorealismo, populista e spesso mielosamente buonista, iniziato negli anni quaranta): ce n’erano ovunque, di prima, seconda, terza visione, oltre ai parrocchiali, con liste di film (ma anche di fumetti come l’Intrepido o Il Monello proscritti ai buoni cristiani e abbondante censura 15
memorie di un futuro migliore
Questa mostra di fotografie sul lavoro contadino e operaio dell’Italia del sesto decennio del Novecento è utile e importante per almeno tre ordini di motivi. Il primo attiene alle immagini stesse, Domenico Luciani a ciò che rappresentano con nettezza documentaria: la rapida e radicale trasformazione della struttura sociale e territoriale del nostro paese nel secondo dopoguerra. In quel solo decennio cambiano gli elementi costitutivi del paese: i rapporti città-campagna e agricoltura-industria, l’organizzazione familiare, la geografia demografica e insediativa, i modi e i tempi della mobilità. È un mutamento pervasivo. Nessuna parte del paese ne è al riparo. Nemmeno, ovviamente, il nostro glorioso Nordest (tutto attaccato) che proprio in quegli anni cinquanta, mentre stenta una ricostruzione appena avviata, viene sottoposto a un autentico terremoto antropologico. Vi partecipano l’ennesima ondata migratoria oltre Oceano, oltr’Alpe e oltre Mincio, la forza gravitazionale del polo di Marghera, la diffusione capillare dell’industria, e perfino eventi straordinari di particolare entità, dall’alluvione del 1951 al Vajont del 1963, aggravati come sappiamo dalla endemica inettitudine tutta nostrana al governo dell’assetto idrogeologico. Le immagini di Ando Gilardi non riguardano particolarmente il Veneto, ma la visita alla mostra farà bene al nostro “popolodellapartitaiva”, soprattutto farà bene ai giovani e alle scolaresche che speriamo saranno in buon numero. Il secondo ordine di ragioni è dato dalla questione politica che questi documenti convocano. Nasceva lì, in quegli anni, il nostro “modello di sviluppo”. Anche nel movimento operaio, e più in generale (salvo
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importanti eccezioni) nella cultura italiana, veniva teorizzata l’inevitabilità dei costi sociali e territoriali, allora si diceva urbanistici, oggi diremmo ambientali e paesistici. Tutto veniva giustificato in funzione di una scalata a livelli più elevati di reddito e di consumo. L’imperativo era: non restare tagliati fuori dalla “grande occasione della Modernità”. Il viaggio dal villaggio lucano dei muli, degli asini e delle capre, fino al Nord dei cancelli della fabbrica veniva considerato emancipativo. Emancipativo per la conquista di un pur esiguo salario. Emancipativo per il raggiungimento di uno status di cittadino finalmente entrato nella mitica classe operaia, finalmente protagonista dello scontro cruciale di civiltà tra salario e profitto, tra lavoro e capitale. Queste vaste campagne fotografiche non solo ci mostrano, come l’autore dichiara, l’estinzione delle tre grandi classi del proletariato italiano (operai, braccianti, contadini poveri del Sud), ma collocano con evidenza le tre classi sullo stesso terreno, dentro una “condizione umana” che rende irrinunciabili l’organizzazione collettiva, il sindacato, le lotte. Di fronte a queste immagini capiamo un po’ meglio come le tante diverse facce dell’Italia di quegli anni compongano un unico quadro in movimento. Di più, capiamo come proprio le differenze costituiscano in sé il più prezioso e storico patrimonio culturale. E poiché l’essenziale di quel quadro non è poi molto cambiato nei tempi successivi, possiamo ricavarne anche idee per ragionare sopra le complicatissime prospettive attuali. Il terzo ordine di ragioni attiene al valore intrinseco dei materiali conservati in questo archivio di persona. Si tratta di un ricercatore che ha 88
anni e che da 64 anni lavora con la fotografia come mezzo per costruire conoscenza sociale e antropologica, di comunità e di luoghi. Quei cilindretti, quegli irriducibili rotolini di cui ci parlano Elena e Patrizia Piccini, quegli schedari e quegli appunti sui quali studia Fabrizio Urettini, costituiscono un fondo documentario che entra a far parte a pieno titolo dell’universo degli archivi storici. In quanto tale è bene culturale tutelato dalla Repubblica ai sensi dell’articolo 9 della Costituzione. O almeno dovrebbe esserlo.
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Pagina precedente CASTELMEZZANO lavoratori in attesa di ingaggio, sullo sfondo il paese. Castelmezzano, Potenza 1957. 20
ISTANTANEE narrative della processione religiosa dei penitenti. Albano di Lucania, (Potenza) 1957.
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RAGAZZA A UN PELLEGRINAGGIO VERSO IL SANTUARIO sulla testa porta immagini votive alla Madonna decorate con fiori di carta e candele. La processione durava giorno e notte. Istantanea presa nel corso dell’inchiesta etnografica guidata da Ernesto De Martino, pubblicata nel saggio Sud e magia. Lucania, 1957. 22
MACIARA CON I SUOI GATTI all’attaccapanni sono appesi gli scialli colorati che servono per i vari riti curativi: per i vermi infantili, le storte, il mal di testa e altri piccoli disturbi. San Costantino degli Albanesi (Potenza), 1957. 23
RACCOGLITRICE DI OLIVE giovanissima, pur continuando il suo lavoro di raccolta chinata a terra, alza lo sguardo verso il fotografo. Gioia Tauro (Reggio Calabria), 1955. 24
DONNA SI RIVOLGE AL FOTOGRAFO funerali dell’eccidio di San Donaci; nel corso di una manifestazione di viticultori, la reazione di un gruppo di giovani all’arresto di una donna provoca la spropositata reazione della polizia che apre il fuoco, uccidendo Luciano Valentini, Mario Celò e Antonio Carignano. 1957. 25
BRACCIANTI DEL FERRARESE salutano felici con la falce. Festeggiano cosĂŹ la vittoria degli scioperi. Provincia di Ferrara, anni cinquanta. 26
INTERNO di una tipica abitazione del mezzogiorno degli anni cinquanta. La stalla era inserita nella camera da letto. I motivi erano diversi, il calore degli animali non veniva disperso ma scaldava la camera e gli animali venivano nutriti e accuditi pi첫 comodamente. Una giovane donna e il suo asinello, vicino al letto. Albano di Lucania (Potenza), 1957. 27
MONDINE DELLE NOCI giovanissime, al lavoro sulla pulitura dal mallo. In primo piano una biondina guarda in macchina con un lieve sorriso. Qualiano (Napoli), 1955 circa. 28
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DUE GIOVANI RACCOGLITRICI DI ZUCCHE ne portano via una ciascuno trasportandola sulla testa. Qualiano (Napoli), 1955 circa. 30
LAVORATRICI AGRICOLE BRACCIANTI avviandosi verso il lavoro, raccontano al fotografo i fatti che produssero gli scontri che coinvolsero gravemente Maria Margotti, sindacalista agraria. Nicastro, Lamezia Terme (Catanzaro), 1955-1958. 31
GIOVANE MADRE ritorna dai campi con il figlio, entrambi in groppa allo stesso asinello, avvolti insieme in un mantello nero. Lucania, 1957. 32
RACCOGLITRICI DI OLIVE in Calabria in posa per il fotografo nell’oliveto. Gioia Tauro (Reggio Calabria), 1955 circa. 33
EMIGRANTE alla stazione in attesa di partire. Roma, 1950. 34
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FAMIGLIA abitanti di una baraccopoli provvisoria costruita dagli operai del nuovo stabilimento della Montecatini sul terreno destinato dall’azienda; ciascuno prendeva possesso in questo modo della porzione assegnata e poi trasformava successivamente la costruzione in legno in una casa in muratura. Il villaggio operaio era detto “quartiere Shanghai�. Crotone, 1956. 36
BAMBINO CALABRESE riempie un’anfora alla fontana con un tubo di gomma. Il recipiente è legato al bagagliaio della bicicletta per il trasporto. Un amico lo guarda divertito. La scena si svolge al villaggio operaio Montecatini. Crotone, 1956. 37
BAMBINA Borghetto Nomentano. Roma, 1950-1955. 38
FAMIGLIA SORRIDENTE SUL PRIMO SCOOTER i genitori e una bambina di pochi anni. A Caldasio, piccolissimo paese in provincia di Alessandria, con popolazione di agricoltori, anni della ricostruzione, 1952. 39
BAMBINA CON LE TRECCE in posa per il fotografo. Melissa (Crotone), 1950 circa. 40
PICCOLO ACQUAIOLO trasporta botticelle d’acqua cavalcando un asino. Nella stagione estiva a Melissa mancava sempre l’acqua e bisognava rifornirsi in valle e portarla in paese con botticelle, orci o altri recipienti. Chi non aveva mezzi propri la comprava dagli acquaioli. Melissa (Crotone), 1950 circa. 41
BAMBINA di circa sei anni volge sorridente lo sguardo all’obiettivo mentre riempie d’acqua un’anfora da una fontanella pubblica. La carenza d’acqua era da molti anni un problema per una buona parte dell’Italia, specialmente nelle zone meridionali. Crotone, 1956. 42
GIOVANE PADRE E FIGLIO di otto anni circa, osservano il contenuto di una latta di metallo, il bambino mescola con una listarella di legno. Si trovano sui binari e la latta contiene probabilmente qualcosa che hanno raccolto sul posto. Lo sfondo sono i tetti della periferia. Palermo, 1957. 43
BAMBINA LAVA I PANNI in un mastello davanti alla porta di casa: in posa guarda il fotografo appoggiata all’asse; accanto a lei c’è un’altra bambina e due mastelli di panni da lavare. La scena si svolge al villaggio operaio Montecatini, detto “quartiere Shanghai”. Crotone, 1956. 44
DONNE E RAGAZZINI ALLA FONTANA si riforniscono d’acqua per lavare, alcune donne sciacquano i panni sul posto. Al “quartiere Shanghai”, così com’era soprannominato il villaggio Montecatini, le case non avevano l’acqua corrente. Crotone, 1956. 45
BAMBINA in posa accanto al letto matrimoniale dei genitori, nell’abitazione operaia di una famiglia del villaggio Montecatini. Nello scorcio di camera è ripresa sullo sfondo l’apertura su uno stanzino dove si nota una rete da letto, probabilmente giaciglio notturno per i bambini, che di giorno veniva tolto per recuperare spazio. Crotone, 1957. 46
TERRAZZA PER STENDERE IL BUCATO condivisa da alcune famiglie abitanti nel “Quartiere Shanghai�, il villaggio Montecatini. Tre operai e una donna in posa a beneficio del fotografo. Crotone, 1956. 47
BOOM ECONOMICO nuove case in costruzione alla periferia della cittĂ , in estremo contrasto accanto al quartiere povero di casette fatiscenti. Palermo, 1957. 48
CAMERA DA LETTO matrimoniale nell’abitazione operaia di una famiglia del villaggio Montecatini detto “quartiere Shanghai”. La padrona di casa, una donna non più giovane, sta in posa seduta accanto al letto. Le pareti sono coperte da manifesti e cartoni che servono a chiudere le fessure delle pareti, fatte di tavole di legno. Crotone, 1956. 49
BAMBINI che salutano con il pugno chiuso. In seguito alla decisione comune presa in una riunione della locale sezione PCI, i braccianti raccomandavano ai figli di salutare con questo gesto tutti gli operatori fotografici e cinematografici. Melissa (Crotone), 1950. 50
DOPOSCUOLA A CORTILE SCALILLA scolari attenti alla lezione, tenuta in questo caso sottoforma di piccolo spettacolo di pupazzi, dai coniugi Michela e Goffredo Fofi. Palermo, 1957. 51
BAMBINI INTORNO AL BARACCONE DEI MUTOSCOPI DI CASLER visori con i quali si ricostruiva il movimento scomposto fotograficamente. In questo modo si potevano visionare piccoli spettacoli tratti da pellicole cinematografiche di film muti. Diffusi in USA dal 1890, in Italia circolavano nelle fiere delle localitĂ balneari fino a oltre il 1960. Genova, 1952. 52
ILLUSIONISTA giovane donna, artista girovaga, si faceva legare, incatenare e infiggere di spade da un assistente per strada, per poi slegarsi alla maniera del celebre mago Houdini. Crotone, 1956. 53
FIERA NATALIZIA artigiano ambulante al luna park romano di piazza Navona, incide il vetro di un bicchiere con il nome. Roma, 1955-1960. 54
LUNA PARK tiro a segno in piazza Navona, allestito durante le feste di Natale. Roma, 1955-1960. 55
LAVORATRICI DEL COTONIFICIO VALLE TICINO intervistate da una giornalista inviata della testata Noi Donne, durante l’occupazione della fabbrica contro la smobilitazione e i licenziamenti. Lombardia, 1955 circa. 56
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GRUPPO DI CINQUE MINATORI azionano leve nella antichissima miniera di lignite a Luni, detta Lunara (La Spezia) da cui si estraeva giĂ al tempo degli Etruschi. Gli operai occuparono questa miniera per impedirne la chiusura, che poi invece avvenne con conseguente licenziamento degli operai. Fotografia eccezionalmente eseguita con illuminazione di bulbi al magnesio, come racconta Gilardi nelle sue memorie citando proprio questa istantanea. Luni (La Spezia), 1952-1953. 58
GRUPPO DI SEI MINATORI nella miniera di lignite a Luni (La Spezia), 1952 - 1953. 59
LAVORATRICI TESSILI a domicilio. Prato, 1950. 60
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LAVORATRICI ADDETTE ALLA MENSA dello stabilimento, con diverse mansioni di cucina e di servizio, fotografate nel cortile accanto alle cucine. Il lavoro continua nella fabbrica occupata dalle maestranze per ottanta giorni, da luglio a settembre. Lotta alla Pignone, Firenze, 1953. 62
LAVORO diffusione del rotocalco sindacale davanti alla Fiat: una bella operaia sorridente fa strillonaggio sventolando una copia del settimanale. La ripresa enfatizza il ruolo dei sindacalisti, diffusori della stampa operaia nella grande industria. Torino, 1952. 63
PICCHETTO DI GIOVANI OPERAIE in sciopero, nel gruppo tre di loro reggono un cartello con scritto «Vogliamo gli aumenti». Milano, 1954. 64
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MANIFESTAZIONE PACIFICA IN BICICLETTA un momento di pausa della marcia. «I portuali genovesi lottano per le libertà democratiche» dimostrazione organizzata per la difesa delle “compagnie” e detta provocatoriamente anche “la marcia su Roma” perché partita in bicicletta da Genova per arrivare a Roma. Le compagnie erano una sorta di sindacato con cassa malattia e pensionistica a parte dal servizio nazionale: il governo era in procinto di metterle fuori legge. L’ultima tappa alle porte di Roma, 1953. 66
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LAVORATRICI DELLA TALLERO con cartelli di protesta: «Le donne chiedono: per uguale lavoro, uguale salario» e «Lottiamo unite contro lo sfruttamento padronale» una rivendicazione femminista alla manifestazione in appoggio allo sciopero per gli aumenti salariali. Milano, 1954. 68
LAVORATORI DELLA TALLERO in sciopero per gli aumenti salariali. Sui cartelli di protesta si legge: «Il costo della vita aumenta le paghe no!!!» e «I lavoratori della Tallero salveranno la loro fabbrica». Milano, 1954. 69
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nelle pagine precedenti IV Congresso CGIL cinquantenario della fondazione, Roma EUR, 1956. 72
GIUSEPPE DI VITTORIO sul palco discorre con il figlio del bracciante Paolo Vitale, ucciso dalla polizia. IV Congresso CGIL, cinquantenario della fondazione. Roma EUR, 1956.
REPRESSIONE in una strada di Barletta. Giovane legge ad alta voce sul giornale la notizia dei fatti del 14 marzo 1956: le forze di polizia aprirono il fuoco contro circa 4.000 persone che manifestavano davanti alla sede della Pontificia Opera di Assistenza contro le discriminazioni nell’assegnazione di pacchi di viveri e indumenti. Giuseppe Di Corato, Giuseppe Spadaro e Giuseppe Lojodice rimasero uccisi, mentre sei furono i feriti gravi. Barletta (Bari), 1956. 73
BAMBINI AL BALCONE guardano la commemorazione per il 60째 anniversario della fondazione della Camera del Lavoro di Pavia, il discorso di Giuseppe Di Vittorio in piazza. Pavia, 1953. 74
GIUSEPPE DI VITTORIO 30 giugno 1953, cerimonia per il 60° anniversario della fondazione della Camera del Lavoro di Pavia. Discorso davanti alla sede della CdL, dietro al palco il tabellone «1893-1953: 60 anni di vita e di lotte della Camera Confederale del Lavoro di Pavia per il benessere dei lavoratori, lo sviluppo della nostra economia, la libertà, la pace». Pavia, 1953. 75
GIUSEPPE DI VITTORIO discorso in piazza, 30 giugno, commemorazione per il 60째 anniversario della fondazione della Camera del Lavoro di Pavia, 1953. 76
FUNERALI IMPONENTI A BARLETTA per Giuseppe Di Corato, Giuseppe Spadaro e Giuseppe Lojodice uccisi il 14 marzo 1956: le forze di polizia aprirono il fuoco contro circa 4.000 persone che manifestavano davanti alla sede della Pontificia Opera di Assistenza contro le discriminazioni nell’assegnazione di pacchi di viveri e indumenti. Tra le vittime ci furono anche sei feriti gravi. Barletta (Bari), 1956. 77
In una appassionante videointervista, Ando Gilardi racconta la sua esperienza nel dopoguerra come fotografo del giornale Il Lavoro, “inviato speciale” fra gli operai delle fabbriche del nord e i braccianti del Mezzogiorno più povero. Dalla sua voce veniamo a conoscenza di realtà dimenticate, episodi inediti e situazioni sorprendenti da lui vissute in quegli anni: una testimonianza unica.
PIEDI SCALZI MANI NERE
BRACCIANTI E OPERAI DEGLI ANNI ’50 NEI REPORTAGE DI ANDO GILARDI di Giuliano Grasso
CAPITOLI · Il rotocalco dei diseredati · Antica povertà · Operaie pettinate · Le classi scomparse · Vite del sud · Dentro la miniera · Inviato sindacale · Una sola croce · Campagne etnografiche · Bambini per strada · La prova di un evento · Mani nere nella fossa · Vestito come loro · Scalzi al funerale · Un archivio mancante CONTENUTI EXTRA · Mostra OLIVE & BULLONI · Lo specchio della memoria · Non fotografare · Biografia PAL 4:3 Durata 50 minuti GIULIANO GRASSO Ricercatore e musicista. Da oltre venticinque anni si occupa di cultura popolare raccogliendo e divulgando testimonianze orali. È autore e curatore di numerosi libri e dischi sull’argomento. Sulla vita di Ando Gilardi ha già realizzato il video La guerra di Ando, inerente la sua esperienza partigiana.
© 2009 Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi via Degli Imbriani, 31 20158 Milano www.fototeca-gilardi.com +39.02.393.126.52 78