Scenari paralleli organizzare la complessità a cura di Niccolò
Querci
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“La complessità estetica” © 2007 by James Hillman. Pubblicato in accordo con Agenzia Letteraria Roberto Santachiara.
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Sommario
sezione I SGUARDI La complessitĂ estetica Tra confusione ed efficienza di James Hillman. ............................................................................................................ 15 IL PROGRESSO NON HA FUTURO Antidoti filosofici alla semplificazione di Remo Bodei................................................................................................................... 23 I media dopo i media Sugli schermi del nuovo ambiente mediale di Francesco Casetti...................................................................................................... 33 sezione II SocietĂ di fronte alla crisi Percezioni, relazioni, strategie di Nando Pagnoncelli.................................................................................................... 51 SCACCHIERI MONDIALI Le trasformazioni del sistema politico internazionale di Vittorio Emanuele Parsi.......................................................................................... 61
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G-ZERO La perdurante influenza dell’America di Christian Rocca......................................................................................................... 79 Agri-business Il valore strategico dell’agricoltura in Italia di Federico Vecchioni.................................................................................................... 87 sezione III Impresa LEADER ANTICHI E MODERNI Le figure del capo nella storia di Valerio Massimo Manfredi................................................................................... 101 DAL COMANDO AL GOVERNO Comportamenti, contesti e modelli organizzativi di Roberto Vaccani....................................................................................................... 109 L’IMPRESA FA CULTURA Oltre il mecenatismo di Severino Salvemini................................................................................................... 119 Progettare il futuro L’ importanza della creatività in azienda di Domenico De Masi................................................................................................... 127
POSTFAZIONE di Nicola Porro. ............................................................................................................ 137 note biografiche........................................................................................................... 141
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La complessità estetica tra confusione ed efficienza James Hillman illustrazione di Arianna Vairo
vorrei esplorare qui una componente psicologica della complessità. La complessità è di moda. È un termine che domina le teorie dell’organizzazione sociale, dei sistemi aziendali, della mappatura del cervello, della fisica teorica e della matematica. Questa parola suggerisce modalità sfumate, sottili e sofisticate di comprensione e la formulazione di teorie di livello superiore. È il nemico riconosciuto della semplicità. Nonostante l’entusiasmo, le complicazioni provocano un diffuso senso di rammarico: la complessità delle norme e della burocrazia; la complicazione delle procedure giuridiche, le complicazioni della sperimentazione farmaceutica, i requisiti e le esigenze della ricerca e i loro effetti collaterali. L’analisi multi-fattoriale e i velocissimi calcoli statistici resi possibili dalla tecnologia del computer cercano di far fronte alla complessità, tuttavia sembra non facciano altro che aggiungervi una maggiore incertezza. Allora, nel prendere le distanze dalle complicazioni, c’è una tendenza psicologica a tornare alla semplicità per amore dell’efficienza, per ottenere dei risultati, nell’azione vera e propria, nel processo decisionale, nell’organizzazione o nella vita quotidiana. Così gli ideali della “vita semplice”, il modello del monaco eremita, dell’ashram indù o del giardino zen, le pratiche di meditazione, i viaggi nella natura selvaggia
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– mirano tutti alla complessità al fine della semplificazione, dell’economia, dell’efficienza. A questo punto il nostro problema diventa il seguente: una persona può realizzare sia l’efficienza sia la complessità? Come possiamo immaginare una complessità che sia insieme efficiente? Cominciamo considerando attentamente entrambe le idee: l’efficienza e la complicatio, mentre complessità era un termine formulato nel Rinascimento, che ha origine nel Quindicesimo secolo con Nicola Cusano. Bisogna inserire il termine complicatio in un contesto più familiare, variamente denominato da filosofi e psicologi (Bergson, Croce, Kant, Jung, Koffka, Gibson) “istinto”, “intuito”, “capacità di comprensione sintetica”, “Gestalt forma/figura” e “percezione diretta”. Gli esempi tratti dal mondo dell’arte e dalla natura possono illustrarlo molto bene. Per esempio, una rosa è colta nella sua totale complessità immediatamente e completamente, e non sezionandola in petali, colore, profumo; un dipinto si assimila non analizzandone le proprietà – formali, strutturali, tematiche, di luce/ombra – ma nella sua unità complessa. Il potere della più semplice melodia di poche note, che si impossessa dei nostri sentimenti e pervade la nostra memoria, non si spiega riducendola alla semplicità di quelle poche note. Tuttavia, dobbiamo anzitutto considerare più da vicino l’idea di efficienza, perché sembra essere l’ideale di ogni opera intenzionale, di gestione o di direzione, di azione in se stessa. Vogliamo portare a termine il lavoro, arrivare alla decisione con il minor sforzo possibile. Pertanto l’efficienza evita l’incertezza, l’indecisione, e forse, la peggior cosa tra tutte, secondo noi: la confusione. Come recita l’antico principio della fisica: l’efficienza si misura con la formula “il rendimento è uguale alla potenza applicata meno l’attrito”. Le complicazioni aumentano l’attrito – e l’inefficienza. Nel mio libro Il potere, al racconto di Franz Stangl, l’uomo responsabile del campo di lavoro e di sterminio di Treblinka, che espone le idee e i comportamenti dell’efficienza più pura, segue una discussione filosofica sull’efficienza in rapporto alle quattro aitìa di Aristotele (o quattro cause, come sono state denominate in latino) che fanno parte di qualsiasi fenomeno o evento, e che rispondono alla domanda: perché? La causa efficiens, o causa efficiente, non è altro che una delle quattro. Il semplice, unico obiettivo, l’efficienza, può essere imbrigliato e sfruttato complicandolo con i tre principi ugualmente importanti indicati da Aristotele. Ovviamente Stangl avrebbe comunque potuto giustificare le sue azioni sanguinarie con il patriottismo, come causa formale, con la purificazione della genetica della razza ariana eliminando gli inferiori (gli ebrei, gli zingari, gli slavi, i ritardati mentali e i cri-
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minali), spiegando la causa finale – come del resto fece Stangl – ossia il denaro. Non è che le complicazioni di per se stesse offrano delle inibizioni morali; semplicemente forzano la consapevolezza dell’esigenza di dar conto fino in fondo delle proprie azioni, in modo che l’azione in sé sia la sua stessa giustificazione non spiegata, ossia l’efficienza fine a se stessa. La causa efficiente fa in modo che le cose accadano. Quando è estrapolata come la sola causa, allora non importa quello che accade, a che cosa o a chi accade e a quale scopo. La grande colpa di Stangl – dal punto di vista filosofico – sta in una dedizione univoca alla causa efficiente senza vedere, o senza percepire, le altre tre. Quando la causa efficiente è privata dei suoi corrispettivi compagni, può arrivare a perdere qualsiasi contatto con la vita reale. Il fatto che i materiali su cui si opera siano esseri umani, quello che l’essenza vera dell’azione sia l’omicidio e quello che l’obiettivo finale sia la morte sono tutti subordinati dal punto di vista del valore, o non portati a consapevolezza tutti quanti, a causa dell’intensa concentrazione sulle procedure di efficienza. Nel linguaggio psicologico contemporaneo con efficienza si intende un modo primario di negazione. Stangl lo chiarisce nelle sue spiegazioni. La sua dedizione a senso unico al fare un lavoro efficiente gli ha chiuso gli occhi su ciò che stava effettivamente facendo. La sua efficienza lo ha protetto dalla sua stessa sensibilità. Il lavoro si giustificava da solo: efficienza fine a se stessa. Non si poteva fermare “perché funzionava”. E la rigida semplificazione impediva la confusione. Passiamo ora all’argomento principale: complicazioni, complessità, complicatio. Forse si può già afferrare quella che potrebbe sembrare la direzione che ho seguito, in senso generale: la complessità ha un effetto inibitore sull’azione – a quanto sembra, quindi, è come se mettesse un freno all’efficienza. Non intendo creare illusioni su questa nozione. Voglio abbandonare il terreno del pensiero oppositivo: o efficienza o complessità; o un’azione morale con ogni mezzo o la riflessione morale sulle conseguenze e sulle conclusioni. Se restiamo intrappolati in questo dilemma sceglieremo l’efficienza, forse lievemente mitigata dal senso di colpa e dalla riparazione – perché in fondo tutti noi viviamo nel mondo moderno delle pressioni economiche della concorrenza. L’ombra di Franz Stangl ossessiona tutti noi. Il modello di Aristotele propone limitazioni all’idea di complessità. Piuttosto che immaginare complicazioni sotto forma di un nodo di innumerevoli fili, fattori, influenze, variabili, che si ripercuotono su qualsiasi decisione, il modello di Aristotele ne indica soltanto quattro. Il suo testo recita: “Ora i modi della causalità sono molti, ma nella sostanza anch’essi possono essere ridotti di numero” (Physica II, 7, 195a).
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IL PROGRESSO NON HA FUTURO antidoti filosofici alla semplificazione Remo Bodei illustrazione di Arianna Vairo
che cos’è la complessità? partiamo dall’etimologia: complesso, complexus, vuol dire “tessuto insieme”, così come concreto deriva da concrescere, dal “crescere insieme”. Tanto la complessità quanto la concretezza sono un antidoto alla semplificazione, all’astrazione, all’isolamento di una parte dal tutto. Pensare in maniera complessa implica un rapporto tra gli elementi e l’insieme, tra un aspetto e un contesto. Per esempio: un sorriso è indubbiamente una contrazione di muscoli, ma se ci limitiamo a questo aspetto perdiamo i suoi caratteri di natura affettiva, sociale e comunicativa. D’altra parte, non può esistere, come in Alice nel paese delle meraviglie, il sorriso del Cheshire Cat senza il corpo del gatto. Se riflettiamo su questo, vediamo che il rapporto tra l’espressione e il corpo ci induce a continue ramificazioni del pensiero che vanno verso il mettere insieme, verso la complessità, per esempio sui rapporti tra anima e corpo, tra cervello e corpo. Nel mio libro Geometria delle passioni si indaga un aspetto spesso trascurato: noi siamo fatti di passioni e di ragioni e del loro intreccio, una geometria o topografia delle passioni rende possibile individuare non solo cosa sono, ma come si modificano. La complessità è stata studiata sotto vari aspetti, per esempio in rapporto ai sistemi di auto-organizzazione che caratterizzano le comunità di api e formiche, regolate attraverso segnali chimici (certe secrezioni
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delle api regine) e comportamentali (i viottoli che le formiche tracciano per arrivare al cibo). Altre applicazioni sono legate al rapporto tra caso e caos: per esempio nella struttura delle molecole o nell’organizzazione del management. Si tratta di un modo di pensare non lineare, che si oppone all’idea che ci siano cause unidirezionali per spiegare i fenomeni. Questo approccio mette in luce aspetti macroscopici e microscopici: la stessa idea di uni-verso, inteso come ciò che ha un solo verso, una sola direzione, è sostituita oggi dall’idea di multi-verso, dove i problemi si analizzano in un quadro più vasto, senza separare il fenomeno dal contesto.
INCERTEZZA E PRUDENZA Uno degli aspetti che caratterizzano la complessità è la presenza ineliminabile dell’incertezza: ogni fenomeno rinvia a qualcos’altro di cui non abbiamo completa padronanza. Rispetto a un organismo chiuso in sé e autosufficiente, vi è l’idea di un processo aperto, di analisi che rinviano sempre oltre se stesse. Ciò non vuol dire cadere nel relativismo, ma ammettere che i sistemi hanno trovato un punto di equilibrio temporaneo che potrebbe in seguito modificarsi. Secondo la logica della scoperta scientifica: abbiamo dapprima una teoria che ci soddisfa, nella quale individuiamo in seguito delle anomalie, qualcosa che non torna, che ci porta a iniziare un nuovo viaggio di scoperta durante il quale andiamo a tentoni, finché la soluzione di tali anomalie non ci porta a un nuovo costrutto teorico. Per esempio, la teoria newtoniana era solida e spiegava il mondo fisico con leggi semplicissime come quella della gravitazione universale. Ma non era in grado di risolvere certi problemi messi in luce dalle geometrie non-euclidee, quelle che violano il quinto postulato di Euclide, o dalle equazioni di Maxwell come dalle trasformazioni di Lorentz. Fu Einstein, con la teoria della Relatività ristretta (1905) e generale (1915), a dare risposta a queste anomalie del sistema newtoniano. Questo non significa che la stessa teoria di Einstein non riveli altri problemi: oggi il grande dibattito è sulla relatività generale (la velocità della luce è davvero il limite? Un fenomeno che si verifica sulla terra si verifica in copia in altre galassie?). Come è facile vedere il terreno della complessità copre un ampio spettro di fenomeni. L’idea di complessità si può declinare rispetto alle previsioni e alle congetture sul futuro. L’età moderna, se guardiamo i segni premonitori, è quella che ha scoperto la complessità stessa. Keplero ci mise dieci anni ad accettare che le orbite dei pianeti non sono circolari, cioè perfette, come si pensava da Copernico in poi, ma ellittiche, e che la terra
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si muove a velocità differente a seconda che sia vicina al punto più lontano (afelio) o più vicino (perielio) al Sole. A sua volta, l’architettura barocca di Borromini e Bernini e dei loro successori usa le nuove curve ottenute a partire dalle geometrie di Bonaventura Cavalieri e, più tardi, da quelle calcolabili attraverso gli assi cartesiani. Anche in campo letterario un elogio della complessità viene formulato da un gesuita spagnolo, Balthasar Gracián, che nel 1647 scrive Oráculo manual y arte de prudencia. Secondo Gracián viviamo in un periodo così complesso e imprevedibile che non si possono fare delle congetture razionali. Bisogna quindi affidarsi a una specie di oracolo: ogni decisione è rischiosa, presenta vasti margini di incertezza. E qual è l’antidoto, a livello sociale, politico o scientifico? Vivendo in un mondo pericoloso, bisogna avere occhi di lince per individuare i progetti e i disegni altrui, ed essere come seppie che secernono inchiostro per nascondere i propri progetti. Oppure occorre torear la voluntad degli altri, giocare in modo che tra la propria volontà e quella degli altri ci sia uno scontro, anche sanguinoso, in cui però si finisce per dare la stoccata al toro. La prudenza è una virtù, che confondiamo spesso con la cautela. Aristotele la chiamava phronesis e i latini la chiamavano prudentia: è il tipo di saggezza o di conoscenza che riguarda la prassi, “ciò che può essere diversamente da quello che è”. Tutta la nostra vita è in rapporto alla conoscenza pratica. Si pensi al poker: le regole sono fisse, ma alcuni vincono e altri perdono, grazie al calcolo o conoscendo la psicologia degli avversari. Tutta la nostra vita è fatta di queste incertezze. Non bisogna affidarsi al destino, a “quel che capita, capita”, ma bisogna poter intervenire sulla base di determinate conoscenze. La giurisprudenza è il fatto che la saggezza (la prudentia latina) del giudice consiste nel tener conto di una serie di fattori – attenuanti, aggravanti, circostanziali, indiziari – e di emettere la sentenza non come si farebbe con una slot machine, ma tenendo conto di tutti gli aspetti. Già nel modello giurisprudenziale, ma anche nel modello barocco seicentesco, c’è quindi l’idea della necessità di interpretare fenomeni complessi senza affidarsi a schemi semplici, tipici del ragionamento scientifico e fisico-matematico.
MODERNITÀ E FUTURO Perché la modernità ha scoperto e messo in luce la complessità, che in fondo nell’esistenza umana è sempre esistita? Perché i mutamenti geografici, la scoperta dell’America, l’arte della stampa, l’invenzione
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I media dopo i media sugli schermi del nuovo ambiente mediale Francesco Casetti illustrazione di Arianna Vairo
per gran parte del novecento il sistema dei media è stato caratterizzato da una crescente complessità. Per quanto non mancassero gli scambi reciproci, i mezzi di comunicazione operavano ciascuno su un proprio terreno, sviluppando funzioni, modalità d’uso e tecnologie molto caratterizzate. Ciò valeva sia per i mezzi tradizionali, come il giornale, il cinema o il telefono; sia per i nuovi mezzi che man mano si aggiungevano ai precedenti, come la radio, la tv, il ciclostile o il fax; sia infine per alcune espansioni molto limitate, come il Vhs o la videoconsole. Ogni medium era un regno a sé: nessuno di essi si integrava davvero con gli altri. È solo negli anni Ottanta, con la rivoluzione digitale, che emerge la possibilità di una profonda omogeneizzazione del sistema. Grazie alla progressiva adozione di un segnale numerico valido per tutti, i media escono dal loro relativo isolamento, e cominciano a diventare realmente interoperativi. Sovrappongono i loro modi di trasmissione (la musica registrata non si ascolta più solo sul giradischi). Avvicinano i propri contenuti (un film si prolunga in un videogioco o in una serie tv). Si radunano su piattaforme multimediali (di cui il computer è il prototipo, con la sua capacità di farsi macchina da scrivere, televisione, radio, telefono eccetera). L’affermarsi della rete, a metà degli anni Novanta, completa questa interoperabilità. Il decennio successivo vede una fase
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1. “Ciò che vale a coprire, a riparare qualcosa o qualcuno da agenti esterni, intemperie, fattori nocivi, a nasconderlo alla vista”. Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1994 (XVII vol.). 2. “A contrivance for warding off the heat of a fire or a draught of air”. Oxford English Dictionary. 3. “A piece of furniture consisting usually of an upright board or a frame hung with leather, canvas, cloth, tapestry, or paper, or of two or mere such boards or frames hinged together”. Oxford English Dictionary. 4. “A frame covered with paper or cloth, or a disk or plate of thin wood, cardboard, etc. (often decorated with painting or embroidery), with a handle by which a person may hold it between his face and the fire; a hand screen. Also applied to a merely ornamental article of similar form and material”. Oxford English Dictionary.
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ulteriormente espansiva. Si affermano nuovi device, come il tablet, frutto di un incrocio tra computer e libro; nuove applicazioni, come quelle legate al Gps, volte a rendere più efficienti i nostri ambienti e le nostre vite; nuovi territori d’azione, come i social network, che rimodellano su un territorio virtuale i nostri rapporti sociali. Ma nonostante le accelerazioni, il sistema mediale sembra mantenere la sua compattezza. C’è tuttavia un problema. Qual è il prezzo che i media pagano al processo di convergenza? Quale al fatto di operare in rete? Se è vero che il sistema mediale acquista omogeneità, è anche vero che questo passaggio ha degli effetti di ritorno. Nelle prossime pagine proverò a dimostrare che i media, diventati interoperabili, in realtà hanno cambiato natura. Più che strumenti volti a mettere in contatto persone diverse, o ad aiutarci nella nostra esplorazione del mondo – e cioè più che strumenti di mediazione tra noi e gli altri e tra noi e la realtà – essi diventano sempre più strumenti volti a “intercettare” l’informazione che circola nello spazio sociale e virtuale. Se si vuole, sono ormai come dei “parafulmini” su cui si scarica l’elettricità nell’aria. Questa loro nuova funzione apre scenari inediti – e reintroduce, sullo sfondo di una diffusa omogeneità, un’imprevista complessità.
Lo schermo cinematografico Proverò a dimostrare questa tesi seguendo in particolare il destino a cui va oggi incontro lo schermo – all’inizio del Novecento elemento peculiare di quello che era il neonato cinema; oggi invece componente essenziale di quasi ogni device. La nozione di schermo ha una storia interessante. Nel XIV secolo il termine italiano indica qualcosa che ripara da agenti esterni, e che quindi impedisce di vedere direttamente1. In questa linea, la parola indica anche qualcuno che serve a mascherare il proprio interesse verso qualcun altro, come nella dizione dantesca “donna schermo”. Passando al termine inglese, anch’esso nel XVI e XVII secolo rimanda a una superficie che protegge in particolare dal fuoco o dall’aria 2. Si tratta sostanzialmente di un riparo appoggiato a terra, fatto di materiale sottile e spesso traslucido inserito in una cornice3. Ma la parola screen o skren indica anche dispositivi più piccoli, con cui ci si nasconde dagli sguardi altrui, come i ventagli; oppure paraventi con una funzione soprattutto ornamentale4. All’inizio del XIX secolo, il termine comincia a coinvolgere l’universo dell’intrattenimento: nella Fantasmagoria, schermo, o screen, o écran, è quella superficie trasparente su cui vengono proiettate dal retro una serie di immagini, e che dunque ci apre
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la vista su qualcosa di nascosto. L’associazione con i dispositivi dello spettacolo si rafforza con il Teatro delle ombre (che l’Occidente aveva importato dall’Oriente già nel 1600) e soprattutto con la Lanterna magica, in cui la proiezione è invece dal davanti anziché dal retro. Contemporaneamente però la parola, almeno in inglese, assume anche un altro significato: in epoca vittoriana essa rimanda a quelle superfici su cui si incollano figure e ritagli, a costituire sia una collezione privata di immagini, sia una piccola esposizione pubblica5. È sulla base di questo ricco retroterra che il termine nelle diverse lingue arriva a designare dalla fine dell’800 in poi il telone bianco su cui si proiettano le immagini filmiche, trovando nella connessione con il cinema il suo significato ufficiale. Il percorso compiuto dalla parola è istruttivo6. Esso ci mostra uno slittamento di significato: da una superficie che protegge e copre, si passa a una superficie che invece fa intravedere delle immagini provenienti da dietro, poi che accoglie rappresentazioni di nuovi mondi, e infine che può contenere figure che riflettono la nostra personalità. Ebbene, le grandi metafore usate per lo schermo cinematografico ripercorrono tutte questa storia. La prima metafora è quella della finestra: lo schermo è un’apertura nella barriera che ci tiene separati dalla realtà; grazie a essa, riacquistiamo un contatto con il mondo. L’ostacolo verso l’esterno è rappresentato innanzitutto dai muri della sala cinematografica; ma per estensione si riferisce anche alle abitudini che ci impediscono di vedere per davvero ciò che ci circonda7. Lo schermo va dunque inteso come uno squarcio che ci consente sia di rivedere la realtà, sia di vederla con una freschezza inedita. Aggiungo che questa metafora è stata ampiamente evocata dalle teorie realistiche del cinema8 : esse infatti si caratterizzano tutte per la voglia di riattivare uno sguardo diretto sulle cose, ma anche per la consapevolezza che per farlo si debbano vincere delle resistenze, abbattere degli ostacoli, eliminare degli impedimenti9. Il cinema offre al mondo la possibilità, letteralmente, di un riscatto10. La seconda grande metafora è quella del quadro: lo schermo è una superficie su cui prendono posto delle figure capaci di ritrarre “il”, o almeno “un”, mondo. Qui non abbiamo più a che fare con uno sguardo diretto sulle cose, ma con una loro rappresentazione. Ciò porta a far emergere nuovi aspetti. Per esempio, i bordi dell’immagine, da soglie che mettono in contatto un interno e un esterno, diventano dei confini: essi, al pari delle cornici di un dipinto, isolano una raffigurazione rispetto allo spazio circostante. O ancora, il contenuto dell’immagine, da semplice dato, diventa un costrutto: alla sua base c’è un lavoro di messa in scena. Tuttavia una rappresentazione non smette di parlarci
5. “A contrivance … for affording an upright surface for the display of objects for exhibition”. Oxford English Dictionary. 6. Sulla storia della parola screen, si veda anche E. Huhtamo, Elements of Screenology, 2001, accessibile online. 7. È Béla Balázs che insiste su questo aspetto: cfr. Der sichtbare Mensch oder die Kultur des Films, DeutschÖsterreichisches Verlag, Wien und Leipzig 1924 (tr. it. L’uomo visibile, Lindau, Torino 2008). 8. Una delle prime occorrenze della metafora è nella riflessione italiana: “[Al cinema] quel che conta è il sentirsi tranquillamente, come alla finestra, spettatori indifferenti cui non è richiesta né l’intelligenza di giudizio, né fatica di osservazione, né seccatura di indagine”. T. Panteo, “Il cinematografo”, La scena illustrata, 19, 1 ottobre 1908. La metafora troverà uno dei suoi massimi sviluppi in A. Bazin, Qu’est ce que le cinéma? Vol. 1, Cerf, Paris 1958 (tr. it. parz. Che cos’ è il cinema?, Garzanti, Milano 1999), [segue]
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di fronte alla crisi percezioni, relazioni, strategie Nando Pagnoncelli illustrazione di Marino Neri
i cambiamenti dell’italia sono sotto gli occhi di tutti, ma vale la pena fare un breve riassunto di ciò che è successo negli ultimi anni. Il primo tema è fondamentale: quando parliamo dell’Italia non stiamo parlando di un solo Paese, ma di tante realtà diverse. Un Paese davvero articolato, in primo luogo per le tradizioni storico-culturali. L’Italia è fin dalla sua nascita una nazione non centralizzata: le tradizioni delle cento città, dei diversi dialetti (che ancora in molte zone rappresentano la modalità di comunicazione più abitualmente usata), di una lingua nazionale costruita in gran parte grazie alla tv (medium che al contrario di libri e giornali non ha richiesto quasi nessun tipo di alfabetizzazione per essere seguito), dei distretti e delle specializzazioni, delle tradizioni comunali che si mantengono da sempre, del territorio come primo luogo di definizione della propria identità. L’Italia è, tra i paesi europei sviluppati, quello che mostra le più grandi differenze in termini di reddito e di ricchezza interna. In alcune regioni del Nord il PIL è equiparabile a quello di zone quali Londra, la Baviera, l’Île de France. Di contro, nel 2008 le otto regioni del Sud hanno prodotto solo il 24% del PIL nazionale, con il 36% della popolazione. La ricchezza ha una variabilità enorme, dai circa 27.000 euro per abitante di Lombardia ed Emilia, ai meno di 15.000 di Puglia, Sicilia, Calabria e Campania.
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Il secondo tema è invece relativo a uno dei cardini della tenuta del Paese: le famiglie. Rappresentano uno dei principali ammortizzatori sociali, fonte di risparmio (ma sempre meno, come vedremo) e di sostegno ai membri meno protetti. Ma quando parliamo di nuclei familiari, dobbiamo smettere di pensare quasi esclusivamente alla tipologia genitori/figli. In realtà le famiglie di questo tipo, che 20 anni fa erano la maggioranza assoluta, attualmente rappresentano poco più del 40% del totale italiano (dati 2007), mentre crescono le famiglie monocomponenti, che sono oltre 6 milioni e passano da meno del 20% del 1988 al 26% del 2007, e le famiglie composte da un solo genitore con figli che sono l’8% del totale. E, ancora, crescono le coppie non sposate e le famiglie ricostituite dopo una separazione o un divorzio, mentre diminuiscono i matrimoni che passano dai 419.000 del 1972 ai poco meno di 250.000 nel 2008. Crescono i matrimoni civili (sono il 35% dei matrimoni, con un aumento del 15% nel 2007 rispetto al 2005). Infine, crescono le nascite fuori dal matrimonio, che rappresentano il 21% del totale nel 2009 e salgono oltre il 25% nel Centro-Nord. Il terzo tema, inevitabile, è la situazione del lavoro. I dati sono chiari nella loro drammaticità: in tre anni il tasso di disoccupazione sale dal 5,6 del 2007 al 7,6 del terzo trimestre 2010. Come al solito nel Mezzogiorno i valori sono più alti. Tra i giovani la disoccupazione arriva alle punte massime, con una media dei primi tre trimestri del 2010 al 27% che, tra i giovani del Sud, sale al 38%. E insieme cala il tasso di attività, segno di una rinuncia alla ricerca attiva del lavoro.
L’impatto della crisi Gli italiani hanno iniziato a percepire la crisi in tutta la sua gravità solo agli inizi del 2010. Nel corso del 2009 l’Italia era pervasa da un diffuso ottimismo evidenziato da tutti gli indicatori che mostravano fiducia in crescita e buone prospettive di superare la crisi, senza ripercussioni devastanti. L’ottimismo derivava da vari aspetti, tra cui un sistema creditizio diffuso e non concentrato, senza troppi titoli tossici; e un sistema produttivo assai frammentato, ma capace di utilizzare creativamente le nicchie del mercato in funzione di una tradizionale e consolidata capacità creativa e di adattamento. Questa fiducia scende bruscamente a partire dagli inizi del 2010, per diverse ragioni tra le quali il contrarsi degli ammortizzatori sociali e le difficoltà sempre più evidenti delle famiglie. Il trend di fiducia dei consumatori vede un calo consistente a far data dal gennaio 2010, i
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di fronte alla crisi
pessimisti crescono e le prospettive di ripresa sembrano sempre più messe in discussione. Queste difficoltà si ripercuotono fortemente sulle famiglie: quasi il 20% vede un peggioramento del proprio tenore di vita rispetto all’anno precedente, poco meno della metà è riuscita a stento a mantenere lo stile di vita precedente. Grossomodo due terzi delle famiglie sono in difficoltà. In dieci anni crolla di oltre 10 punti (dal 48% del 2001 al 36% del 2010) la percentuale di famiglie che riesce a risparmiare: il 19% delle famiglie (erano il 10% nel 2001) ha intaccato i risparmi accumulati, il 7% ha dovuto ricorrere a prestiti. Complessivamente più di un quarto delle famiglie non riesce a mantenersi utilizzando solo il reddito corrente. Se al dato relativo all’anno trascorso aggiungiamo le previsioni sul futuro, arriviamo a una quota di un terzo delle famiglie che si trovano in difficoltà (famiglie che nell’anno trascorso hanno consumato tutto il reddito e pensano che risparmieranno meno in futuro, e famiglie che hanno intaccato i risparmi o fatto ricorso a prestito e pensano che dovranno farlo anche nell’anno a venire). Si tratta di una difficoltà che coinvolge anche segmenti che pensavamo relativamente protetti, in particolare ceti medi e lavoro autonomo, mentre restano in grave difficoltà i ceti deboli, e soprattutto le casalinghe alle prese con la quadratura del bilancio familiare. Circa il 30% delle famiglie è colpito direttamente o indirettamente (cioè la crisi ha colpito familiari non conviventi) dalla crisi. Non c’è da stupirsi se, tra i 24 paesi sviluppati che Ipsos tiene sotto controllo, l’Italia è tra gli ultimi nella soddisfazione per come le cose stanno andando (16%). Peggio fanno solo fanno Ungheria, Spagna e Messico. e ci si aspetta che le cose non migliorino: il 45% ritiene che il peggio della crisi debba ancora arrivare, solo il 21% pensa che sia già passato. A pagarne le spese sono soprattutto i giovani, per i quali pesa non solo l’elevatissima disoccupazione di cui abbiamo già parlato, ma una situazione pesantemente precaria e la percezione di un futuro incerto. Il rischio è che sia colpita un’intera generazione. Se questo non produce forti conflitti generazionali, ciò è dovuto al fatto che in Italia la famiglia rappresenta ancora, pur nelle sue nuove varianti, una struttura in grado di rispondere alle difficoltà dei giovani: i genitori aiutano i figli ridistribuendo il reddito (ma fino a quanto potranno continuare a farlo?). I giovani, con atteggiamento estremamente realistico e pragmatico, rispondono abbassando le loro attese. Solo pochi anni prima si ambiva a un lavoro “creativo” capace di garantire la “autorealizzazione”, l’autonomia, gli spazi di libertà, la fantasia, la possibilità di fare carriera; nel 2010 le aspettative si contraggono. Ci si accontenta di un lavoro “giusto”, se possibile stabile e sicuro, con una retribuzione “giu-
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le trasformazioni del sistema politico internazionale Vittorio Emanuele Parsi illustrazione di Marino Neri
nel dibattito scientifico sulle relazioni internazionali, la questione di come il sistema politico internazionale si vada riarticolando occupa uno spazio centrale. In termini molto generici, è espressa dalla contrapposizione tra chi vede il sostanziale perdurare del cosiddetto “momento unipolare” (caratterizzato dalla massima concentrazione di potere nelle mani degli Stati Uniti) e chi considera invece ormai il mondo indirizzato verso un nuovo assetto multipolare: certo non inedito nella storia della politica internazionale, ma inedito in quanto ad alcuni degli attori che ne sarebbero protagonisti (Cina, India, Brasile, Sudafrica). Non può sfuggire anche ai profani che una simile polemica implica, di necessità, delle preferenze che spesso finiscono con l’offuscare l’accuratezza dell’analisi, quando non con l’indirizzare la previsione. Nelle sue forme più rozze, questa si manifesta nel privilegiare gli elementi che consentono al proprio Paese, o a quello nei cui valori maggiormente ci si riconosce, un peso specifico tale da prefigurare un assetto d’ordine (unipolare o multipolare) premiante. Nelle sue forme più sottili, il bias opera in maniera tale da far ritenere più probabile quel tipo di equilibrio che soddisfa meglio le nostre preferenze ideologiche. In tal senso, e in maniera assai semplificata, molti di coloro che ritengono preferibile nella conduzione della politica mondiale uno stile orientato al
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multilateralismo (cioè alla adozione condivisa delle principali decisioni), e sono persuasi della rilevanza di perseguire una global governance, tendono a privilegiare la visione di un mondo già orientato verso una distribuzione multipolare della potenza. Com’è facilmente intuibile, questa confusione tra distribuzione delle capacità e metodo di lavoro diventa più distruttiva a mano a mano che gli attori principali del sistema dovessero essere orientati da principi incompatibili, o anche solo diversi, o persino da principi uguali o simili ma diversi nella loro interpretazione e applicazione. D’altronde, la stessa distribuzione unipolare della potenza (cioè la massima concentrazione delle capacità in un solo attore) non preclude affatto la scelta di un metodo di lavoro multilaterale, anche se la rende meno “obbligata”. Anzi, come gran parte delle critiche di matrice liberal alla concezione e attuazione della Grand Strategy americana promossa dalla prima amministrazione di George W. Bush ha messo in evidenza, è proprio il ricorso al multilateralismo, ogni qualvolta sia possibile beninteso, a rendere meno problematica la gestione di un assetto unipolare. Persino nei termini di probabilità maggiori o minori di ricorrenza della guerra, del resto, un assetto multipolare può essere ben più bellogeno di un assetto unipolare. La seconda doverosa considerazione preliminare che occorre tenere ben presente è che la potenza di cui parliamo non è meramente riconducibile alle capacità militari e alla solidità delle istituzioni politiche. Per quanto le relazioni internazionali privilegino come chiave della lettura del mondo quella politica, della potenza, che assegna agli Stati una posizione privilegiata, nella contemporanea definizione delle capacità che determinano il livello di potere rientrano ormai, accanto a quelli tipicamente politico-militari, molti altri fattori, che comprendono le capacità economiche, quelle tecnologiche e culturali, la qualità della società e la tenuta del patto sociale, l’adeguatezza rispetto alle sfide e l’universalità e l’apertura rispetto agli altri dei principi e dei valori di riferimento di questo o quell’attore. In particolare, qui si assume che la gerarchia tra le diverse arene, concetto tipico della tradizione di studio delle relazioni internazionali, sia oggi meno definita e, fatto ancora più innovativo, possa mutare di volta in volta in base agli attori osservati e alle regioni prese in considerazione. Questo fatto, senza segnare in alcun modo un superamento della rilevanza dello Stato nell’arena politica internazionale, cruciale quantomeno nella comunque decisiva arena della sicurezza, apre in maniera assai significativa spazi di intervento ad attori di natura diversa. Il punto da cui vorrei partire è però un altro. La tesi, sulla quale converge una parte importante della riflessione più recente della disciplina politologica delle relazioni internazionali, è che oggi siamo di
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scacchieri mondiali
fronte a una perdurante unificazione del mondo quasi esclusivamente in termini economici e finanziari (nonostante la lunga crisi che stiamo attraversando e a prescindere dalle vivaci spinte protezionistiche), mentre stiamo progressivamente regredendo in termini di coesione del sistema politico internazionale, di convergenza verso forme di governo liberali e democratiche, di effettiva condivisione politica non solo delle soluzioni ma persino della percezione dei problemi, di crescente comunicabilità ed empatia dei mali che affliggono questa o quella porzione di mondo, nonostante la rete di comunicazione in cui tutti siamo impigliati, magari nostro malgrado, e in parte a causa di questa rete globale di comunicazione, più attenta, o forse meglio in grado di evidenziare e amplificare differenze e fratture che non le pur esistenti e rilevanti similitudini e convergenze. Si può tranquillamente argomentare che la sensazione di una perdita di unitarietà del sistema, di una minor connessione immediata tra le sue diverse regioni e del venir meno di uno stesso set di regole universalmente accettate è dovuto alla fuoriuscita dalla “lunga guerra fredda”, che aveva davvero unito il mondo per la prima volta su scala universale. Mai come durante la guerra fredda il mondo è stato davvero uno: mai prima di sicuro e, a quanto sembra profilarsi all’orizzonte, mai o molto difficilmente neppure dopo. Per oltre quarant’anni, il mondo è stato unito dalla grande frattura ideologica tra Est e Ovest. Quel confronto onnicomprensivo – politico, strategico, ideologico, economico – tra due superpotenze sostanzialmente senza pari nella loro capacità distruttiva impediva che persino la più sperduta regione del mondo, il più periferico conflitto, potessero essere sconnessi dalla logica globale. Il confronto planetario aveva una capacità plastica sull’intero sistema che rasentava la totale capillarità, in grado di piegare alla propria logica anche fenomeni e movimenti che nascevano contestandola o tentando di autonomizzarsi (si pensi alla decolonizzazione e alla misera fine del cosiddetto “non allineamento”, alla sua irrilevanza politica sostanziale). Non sarebbe stata neppure immaginabile, ai tempi della guerra fredda, una crisi, come quella che oggi stiamo vivendo, della nuclearizzazione nordcoreana. Perché un’alterazione dell’equilibrio strategico in quella lontana latitudine avrebbe costituito, proprio in virtù del carattere globale e omnipervasivo del confronto sovietico-americano, una minaccia diretta alla sicurezza di tutto il campo occidentale e un disequilibrio strutturale dell’intero sistema internazionale. Oggi, la nuclearizzazione del regime comunista di Pyongyang è una questione che non costituisce una minaccia immediata al di fuori della sua regione, se non per l’unico attore effettivamente globale: gli Stati Uniti. Per più di un aspetto, Washington è infatti il solo attore capace
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G-ZERO
la perdurante influenza dell’america Christian Rocca illustrazione di Marino Neri
il g-7 non c’è più da tempo. il g-8, allargato alla nuova russia, non rappresenta più il mondo che cambia. Al suo posto è stato ideato il G-20, il club che avrebbe dovuto coinvolgere le economie emergenti, dal Brasile all’India. Ma l’allargamento non è mai davvero partito, complice la crisi finanziaria internazionale e l’impossibilità di trovare una soluzione condivisa della governance mondiale. Stessa sorte per il G-2 tra America e Cina. Dal vertice sulla Terra di Copenaghen in poi, i due giganti mondiali non sono stati capaci di guidare di comune accordo l’agenda politica, anche perché Pechino non ha mai voluto accettare le responsabilità che nascono dall’esercizio della leadership (“da un grande potere derivano grandi responsabilità”, non è solo il motto di Spiderman). Sul campo non c’è neanche l’alternativa del G-3 – America, Europa e Giappone – perché agli Stati Uniti mancano le risorse, l’Unione Europea è impegnata nel salvataggio della sua moneta e il Giappone ha molti problemi interni. In un saggio pubblicato da Foreign Affairs, gli economisti Nouriel Roubini e Ian Bremmer hanno spiegato che viviamo, insomma, nel mondo del G-Zero. Qui, spiegano i due studiosi, nessuna nazione, nessun blocco di Paesi, nessun leader internazionale ha la forza, la volontà e il peso specifico per guidare la comunità internazionale. Le grandi potenze mondiali, scrivono i due economisti, hanno messo da parte
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ogni aspirazione globale. Sono troppo impegnate a risolvere questioni interne. Il mondo unipolare è stato archiviato con l’uscita di George W. Bush dalla Casa Bianca. L’impetuosa ascesa degli altri paesi, the rise of the rest, non c’è stata. Il risultato è il ritorno di politiche economiche a tendenza protezionista e populista. Il mondo del G-Zero provocherà conflitti, non cooperazione. Secondo il rapporto Top Risk 2011 dell’Eurasia Group, il rischio di maggiore instabilità globale di quest’anno non è un Paese, non è un fatto specifico, non è un evento. Non è nemmeno il caos politico che precede o segue una tornata elettorale in un paese-chiave per gli equilibri geopolitici internazionali. Non è un colpo di stato, non è un conflitto militare. Per la prima volta da quando il rapporto Top Risk è compilato, il pericolo maggiore è l’assenza di leadership internazionale: il G-Zero, appunto. Lo studio dell’Eurasia Group è precedente alle rivolte anti-autoritarie in Nord Africa e in Medio Oriente, ma l’assenza di una leadership mondiale forte e determinata si sente proprio adesso che dal Maghreb alla Persia il mondo islamico è in fibrillazione. Ma siamo sicuri che non ci sia nessuno alla guida del mondo e che gli Usa abbiano abdicato? Il presidente americano Barack Obama ha cominciato la sua presidenza come un amministratore del declino americano, contribuendo alla creazione del mondo G-Zero. Ma la crisi in Nord Africa e nel Grande Medio Oriente, affiancata alla ripresa economica e alla difesa della sicurezza internazionale, stanno costringendo il presidente americano ad assumere il ruolo di leader riluttante del G-1. L’America, insomma, è obbligata a guidare il mondo.
La Cina è vicina La Cina è la potenza emergente, ma anche il XXI sarà un secolo americano come il precedente. Non credete a chi professa l’irreversibile declino americano. A questo giro spetterebbe alla Cina chiudere definitivamente l’Era dell’impero americano. Vent’anni fa spettava al Giappone, o forse alla Germania. Per cinquant’anni è stata l’Unione Sovietica sul punto di ribaltare le gerarchie mondiali e cancellare gli Usa. Anche gli arabi produttori di petrolio sono stati, negli anni Settanta, a un passo dal ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti. In un modo o in un altro, però, l’America ha sempre superato sfide, minacce e decenni per ritrovarsi ogni volta più forte e dominante di prima. Dopo la fine della Guerra fredda, il mondo è diventato unipolare e l’America, come diceva il ministro degli Esteri francese Hubert Védrine, addirittura una “iperpotenza”. È stato necessario coniare un neologismo per de-
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scrivere, con orrore, la superiorità economica, militare e tecnologica degli Stati Uniti. Il tema del declino è una costante della cultura e della politica innanzitutto americana. È iniziata negli anni Cinquanta, se non addirittura da prima della fondazione stessa degli Stati Uniti. Una volta è stato il lancio nello spazio dello Sputnik sovietico a segnalare la fine certa del dominio americano successivo alla seconda guerra mondiale. Poi la débacle in Vietnam. Anche lo shock petrolifero degli anni Settanta ha fatto scrivere molti necrologi. Ultimamente è stato l’11 settembre. Infine le guerre di Bush, poi la nuova grande recessione del 2008 e adesso la rivolta antiautoritaria in Nord Africa e in Medio Oriente. L’America, insomma, si trova sempre in uno stato di perenne quasideclino, come dice la columnist economica dell’Atlantic Megan McArdle. La storia si ripete. Gli avversari sono sempre più forti, organizzati, determinati. Sul fronte interno, i problemi non si contano: bilanci in rosso, deficit commerciale, cattiva istruzione primaria e secondaria, arroganza imperiale. Il sistema capitalistico ha fallito, si dice ogni volta. Il modello competitivo impedisce la programmazione di lungo termine. I consumatori americani sono spendaccioni. Wall Street è il regno dell’avidità. I soliti presagi dell’imminente catastrofe americana. I declinisti tendono però a ignorare i punti di forza del sistema americano. I fondamentali sono ben saldi: il dinamismo, la capacità di rischiare, l’immensa flessibilità a cambiare, inventare e crescere. Il declino è una scelta, ha scritto l’editorialista del Washington Post Charles Krauthammer. Non esiste una traiettoria predeterminata. Non c’è niente di inevitabile, il declino non è una condizione, ma una scelta precisa. L’America è ancora in grado di decidere se abdicare al ruolo di superpotenza del mondo unipolare o se mantenere la sua posizione di dominio. Krauthammer sostiene che Obama abbia iniziato a scegliere la strada del declino perché è un uomo politico cresciuto con l’idea che “l’America sia così intrinsecamente corrotta e colpevole che non le si può lasciare la supremazia mondiale”. Il dominio americano ovviamente non potrà durare per sempre, su questo Obama ha ragione. Nel libro The Return of History, Robert Kagan ha spiegato però che il momento non è arrivato. Semmai, più semplicemente, oggi il mondo è tornato a essere di nuovo normale, dopo l’illusione che la caduta del Muro di Berlino avesse chiuso non soltanto il conflitto ideologico e strategico con il comunismo, ma anche tutti i conflitti ideologici e strategici (La fine della Storia, Francis Fukuyama). Gli Stati Uniti restano l’unica superpotenza, dice Kagan. Una superpotenza sobria, come scrive il professor Michael Mandelbaum in The Frugal Superpower.
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Agri-business
il valore strategico dell’agricoltura in italia Federico Vecchioni illustrazione di Marino Neri
l’agricoltura e la produzione di materie prime alimentari sta diventando un tema sempre più attuale e strategico. Se questa non è una novità, dispiace constatare che ci siano voluti i rincari dei prezzi, e i conseguenti squilibri sociali e geopolitici, per far prestare la dovuta attenzione a un settore che è vitale per il destino dell’uomo. Parlare di produzioni agroalimentari negli ultimi anni è stato considerato démodé, quasi un interessarsi di temi e attività economiche di cui si poteva fare a meno. Come se campi e allevamenti fossero definitivamente stati sconfitti sull’altare del progresso: niente di più sbagliato. L’occasione per parlare di agricoltura, dimenticato il suo ruolo essenziale e strategico, si è ridotta negli ultimi tempi al dibattito su problematiche a essa connesse. Da quelle ambientali sino all’accusa generica di “intensivizzazione” dei processi produttivi e, più recentemente, a temi come il transgenico o al dibattito del food for fuel. Tematiche spesso inconsistenti, travisati luoghi comuni, se non veri e propri errori scientifici e tecnici, che hanno fatto solo del male al settore, mettendolo in cattiva luce e travisandone la portata e l’importanza per l’economia e per tutta la società. Dobbiamo quindi ricondurre al centro del dibattito economico un settore importante in termini di crescita e occupazione, non solo per le economie in fase di sviluppo ma anche per quelle avanzate come la nostra.
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L’agricoltura è l’ambiente
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Partiamo in primo luogo dalla questione relativa al rapporto tra l’agricoltura e il pianeta. È l’attualissimo aspetto della gestione sostenibile delle risorse naturali in termini di capacità a trasmettere inalterate tali risorse a chi verrà dopo di noi. L’agricoltura è l’ambiente. La produzione agricola – in particolare quella europea e italiana – è già orientata da anni alla sostenibilità, cioè a pratiche che salvaguardano le risorse e le lasciano intatte alle generazioni future. Rigettiamo quindi in toto le accuse di chi vede nell’attività agricola, così intimamente per sua natura legata al territorio, fonte di danni alle risorse ambientali, di insicurezza alimentare, di minaccia alla biodiversità e alla salute degli animali. Oltre il 40% del territorio dell’Unione Europea è costituito da superficie agricola coltivata. In Italia, la superficie delle aziende agricole rappresenta oltre la metà del territorio complessivo (17,8 milioni di ettari su 30 milioni). Si può parlare di “sfruttamento” di questa ampia parte del territorio? Obiettivamente no, e non dobbiamo eccedere in facili catastrofismi. È la presenza stessa sul territorio di imprese che praticano un’agricoltura responsabile come la nostra che non solo evita lo sfruttamento delle risorse ma garantisce che siano preservate. Tutte le risorse, anche quelle immateriali come il paesaggio e il territorio, a beneficio di tutti. Abbiamo già tantissimi ettari gestiti con pratiche di natura agro ambientale; così come ci saranno centinaia di ettari destinati a forestazione che assorbiranno CO2 in modo permanente. L’agricoltura è infatti l’unica attività produttiva che, nel bilancio delle emissioni di gas serra può vantare un contributo positivo di assorbimento di CO2. Nessun altro può farlo. Infine, l’agricoltura italiana utilizza sempre meno prodotti fitosanitari (calati di oltre il 7% negli ultimi dieci anni; gli insetticidi sono diminuiti di quasi il 30%) e tendenzialmente anche meno concimi (meno 1,2%, sempre nell’ultimo decennio). Tutti aspetti che hanno un vantaggio in termini di contenimento delle emissioni.
Import/export C’è poi il tema dell’agricoltura “globalizzata” con materie prime protagoniste degli scambi mondiali. Magari in contrapposizione a un’agricoltura “locale”. Intanto sfatiamo un dato che sembra acquisito e – come tante altre cose – è ormai invece entrato in maniera del tutto ingiustificata nell’immaginario collettivo. Che, cioè, buona parte di
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agri-business
tutto ciò che arriva nei nostri piatti proviene dai Paesi Terzi. Non è così: lo afferma anche il direttore generale del Wto Lamy, quando ricorda che il commercio agroalimentare conta per meno del 10% del commercio mondiale. E che, mentre circa la metà dei prodotti manifatturieri è oggetto di import-export, non più del 25% della produzione agroalimentare mondiale è soggetta a scambi internazionali. In Italia si spendono 205 miliardi l’anno in alimentazione tra consumi domestici ed extra domestici. L’import agroalimentare è di poco superiore ai 30 miliardi (meno del 15%). A tavola si consuma già “locale” molto di più di quanto si consumi per altre voci di spesa. Tutto questo non significa che la concorrenza mondiale negli scambi agroalimentari non ci sia o non sia agguerrita. Il mercato europeo è il primo mercato di sbocco dell’agroalimentare mondiale, specie di nuovi player, economie agricole competitive e molto aggressive sul fronte dell’export (come il Brasile). Ecco perché non siamo d’accordo su chi disegna ancora l’Europa come una fortezza protezionistica chiusa alle importazioni. Oggi l’Europa importa, lo dicono le statistiche del Wto, più prodotti agroalimentari di tutti i Paesi del mondo: 149 miliardi di dollari. Seguono, ma a debita distanza, gli Usa con 109 miliardi. Ma soprattutto: l’Europa con la sua apertura ha accumulato un deficit della bilancia commerciale agroalimentare che ha ormai superato i 40 miliardi di dollari. Non solo. Le importazioni agroalimentari dell’Europa sono prevalentemente originarie dei Paesi in via di sviluppo: 53 miliardi di dollari, più delle prime cinque economie sviluppate del pianeta messe assieme (Usa, Giappone, Australia, Canada e Nuova Zelanda, con 46 miliardi di euro). Per non parlare del deficit agroalimentare nazionale, che ormai ha assunto un assetto strutturale. Ci siamo già aperti; altri non l’hanno fatto. E mentre accadeva tutto ciò, non dimentichiamolo, la Pac si trasformava per non influire sugli scambi e si ridimensionava passando dal 70-80% sul bilancio dell’Ue all’attuale 40%. Mentre la Commissione europea vuole andare anche oltre, riducendo a un terzo le risorse in bilancio UE destinate all’agricoltura dei 27 Paesi. Gli agricoltori italiani ed europei di passi in avanti ne hanno fatti tanti in questi quindici anni e hanno contribuito a cambiare il volto delle politica commerciale e della Pac. Abbiamo tenuto in termini competitivi, ma si può fare di più in termini offensivi, dove le nostre produzioni non sviluppano appieno il loro potenziale. Abbiamo bisogno di servizi reali alle imprese per internazionalizzarsi. E poi di una politica di competitività che armonizzi le regole a livello globale. I nostri prodotti agricoli sono gravati da un differenziale di competitività che è dato dalla conformità a regole europee più rigide dello standard internazionale (si pensi alle attenzio-
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LEADER ANTICHI E MODERNI le figure del capo nella storia Valerio Massimo Manfredi illustrazione di Francesco Cattani
la parola leader viene dal verbo to lead, condurre. una traduzione letterale, improponibile, sarebbe “condottiero”; è più corretto definirlo come la persona che conduce, il personaggio guida. La società moderna, che si basa sui principi della democrazia, ha cercato di depurare l’esercizio dell’autorità, del potere o del dovere decisionale da tutti gli aspetti difficilmente tollerabili, ma il leader mantiene un vissuto fatto anche di elementi violenti. Così com’è violenta un’altra manifestazione che consideriamo terribile, la guerra. Ma nulla è più naturale della guerra. La vita su questo pianeta si basa sulla lotta continua per la sopravvivenza. La visione meravigliosa che abbiamo della natura è soltanto un aspetto esteriore, sotto la sua illusoria superficie si consumano continue tragedie. Tutti i mammiferi superiori hanno una struttura verticistica, ogni singolo gruppo è guidato da un individuo, appartenente alla specie, che ha la funzione di capo, di leader. Come i leoni, le zebre, le giraffe, i cavalli, così accade anche ai primati superiori e all’uomo. Questa caratteristica animale, parte integrante del nostro modo di essere, ci ha sempre fatto paura. Già nell’antichità l’uomo ha cercato di “negare” la sua animalità dando vita a terribili mostri (le chimere, i centauri, le idre, i ciclopi, i giganti) affrontati da eroi che avevano il compito di eliminarli uccidendo con essi la parte animale che è in noi. Il mito,
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da questo punto di vista, è una costruzione fantastica a cui l’uomo è ricorso per dare un senso alla propria natura ferina. Le civiltà hanno sempre cercato il giusto equilibrio tra l’istinto naturale (che è di dominio, espansivo e spesso aggressivo) e il sostrato culturale, la sovrastruttura che lo regola e che lo educa, che lo guida e in parte lo depura delle sue caratteristiche troppo violente. Il giusto mezzo non sta nello spegnere questa formidabile energia, ma nell’incanalarla perché possa diventare un valido strumento al servizio del gruppo e della società.
LE ORIGINI DEL LEADER Ogni gruppo umano, anche il più piccolo, ha avuto bisogno di un leader. Non sapremo mai chi erano questi personaggi e cos’hanno fatto, ma sappiamo che i leader erano grandi cacciatori, i più bravi a riconoscere una pista, coloro che sapevano ritornare a un accampamento dopo essersi allontanati. Ma la vera leadership si realizza solo con la stanzialità. Ancora non sappiamo quando l’uomo abbia scelto di fermarsi definitivamente, di abbandonare il nomadismo per creare degli insediamenti. Sta di fatto che da quel momento, ha imparato a costruire abitazioni durevoli e a difenderle dagli attacchi degli altri gruppi che volevano impadronirsi delle risorse accumulate. In quel momento nasce la codificazione del leader: è il re, ma anche l’eroe, perché le due figure coincidono. Quando l’uomo diventa stanziale, si dà un capo, codificato e rappresentato come un guerriero. In un mondo che non conosceva istituzioni né mediazioni tra una comunità e l’altra, dominato dalla competizione totale, i giovani maschi dovevano essere educati e addestrati prima di tutto al combattimento e poi a un codice d’onore che anteponeva il servizio alla comunità a qualsiasi altra cosa. Secondo la Bibbia, a un certo punto i capi del popolo andarono dal profeta Samuele e gli dissero: “Dacci un re. Tutti i popoli confinanti hanno un Re e anche noi lo vogliamo”. Ma Samuele li mise in guardia, rispondendo: “Un re imporrà delle tasse, prenderà i vostri figli per mandarli in guerra, dove molti moriranno”. In parole semplici ma efficaci è delineato l’identikit di un leader dell’età del bronzo, di un sovrano che fatalmente è un guerriero e un capo militare. Ma la leadership viene codificandosi anche in maniera diversa e, soprattutto in Oriente, subisce un processo di divinizzazione. Il leader è Dio, la sua ascendenza è divina, il suo corpo deve essere conservato per l’eternità, e così si sviluppa una propaganda finalizzata a far credere al popolo di essere governato da una divinità. Il leader è despota assoluto,
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padrone di tutto, anche degli esseri umani: senza dialogo, senza attribuzione e possibilità di riscontri. L’impero persiano è un altro impero orientale dove il sovrano, pur non essendo un dio, ha poteri assoluti da tutti i punti di vista. Aristotele diceva: “Noi siamo tutti uomini liberi, mentre nell’impero dei barbari un uomo solo è libero, l’imperatore”. Lo sviluppo della leadership nella società occidentale è ben diverso da quanto accade in Oriente. Il laboratorio è una piccola città di 30.000 abitanti che si chiama Atene. Per una serie di situazioni, la città affida tutta la gestione del potere alla sua popolazione. Il popolo si riunisce in assemblea (ecclesìa) e lì i leader parlano e ogni giorno devono convincere l’assemblea. Ogni giorno. Lo stato ateniese non aveva un governo, né una polizia, né una magistratura, né imposte dirette: si trattava di una democrazia assolutamente radicale. La comunità, pur piccola, era numerosa e doveva essere convinta ogni giorno. Se il leader non era in grado di farlo, cadeva. Addirittura se il leader sembrava essere pericoloso per la libertà della comunità era espulso in via preventiva, con un processo ideologico per noi inaccettabile. Si chiamava ostracismo: si prendevano dei cocci di vaso sui quali ognuno scriveva il nome della persona che voleva allontanare dalla città e se veniva raggiunto un certo quorum il leader doveva partire e stare lontano per dieci anni, salvo essere richiamato in situazioni di estrema emergenza. Quando entrava in gioco la stessa sopravvivenza della comunità, un leader ritenuto pericoloso per la libertà individuale poteva essere richiamato al potere. E in quel momento tornava all’ancestrale funzione dell’eroe, del guerriero, del difensore. Punto fondamentale dell’educazione del leader era quindi la retorica, nell’accezione di comunicazione efficace. Re, in greco, significa “dire”, e il retore è colui che parla, che si rivolge al popolo. Chiunque voleva intraprendere la carriera politica doveva impadronirsi dell’arte della persuasione, dimostrando la bontà delle proprie scelte e delle proprie proposte, anche quando causavano conseguenze negative. Nell’antichità la figura del leader subì anche un’involuzione: il leader democratico poteva sempre convertirsi in demagogo quando il contenuto della sua proposta scadeva a vantaggio della capacità di convincimento. Certi leader si rendono conto che è relativamente facile mantenere il potere suscitando la reazione emotiva e irrazionale del popolo nell’assemblea, facendo appello alla parte emotiva e primitiva dell’essere umano, e non a quella più elevata dell’elaborazione razionale. Negli Acarnesi di Aristofane, per esempio, c’è una satira feroce del demagogo, che infiamma gli animi con facili slogan ma poi non ha il coraggio di sopportare le conseguenze delle proprie azioni.
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DAL COMANDO AL GOVERNO
comportamenti, contesti e modelli organizzativi Roberto Vaccani illustrazione di Francesco Cattani
le discipline che si occupano di comportamento organizzativo si interessano dei processi di relazione e comunicazione che si attivano nei contesti aziendali, pubblici o privati che siano. Semplificando, si può affermare che il perimetro logico in cui si muove il comportamento organizzativo (si tratti di condotte individuali o sociali), è il medesimo della psicologia del lavoro e vede in campo due fattori onnipresenti: il contesto organizzativo e gli individui. Si tratta di indagare l’esistenza di paradigmi che caratterizzano la dialettica di reciproco influenzamento tra individuo e organizzazione. Tali paradigmi possono orientare la comprensione e suggerire la gestione operativa di configurazioni e fenomeni organizzativi. Un primo assioma, frutto di constatazione e buon senso, ci dice che il peso ponderale d’influenzamento degli individui verso i contesti organizzativi aumenta o diminuisce con l’aumentare o il diminuire del livello gerarchico ricoperto. Imprenditori, amministratori delegati, direttori generali, direttori di divisione, nei limiti dei vincoli imposti dal mercato, godono di un potenziale d’influenzamento nei confronti dell’organizzazione tale da personalizzarne molti aspetti, a loro immagine e somiglianza. Tanto da plasmare il costrutto aziendale come se fosse una loro creatura. Gli individui che ricoprono funzioni e livelli intermedi nelle organizzazioni (responsabili di funzione o dirigenti
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dal comando al governo
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d’area, ufficio, reparto), godono di un protagonismo influenzante limitato agli ambiti di governo dei loro sottosistemi organizzativi e, nel contempo, ricevono influenzamento dal resto del contesto organizzativo e dai settori e livelli organizzativi che non sono di loro pertinenza. Gli attori organizzativi che ricoprono livelli bassi in organigramma e sono impegnati in compiti operativi hanno spazi di recita minimi e prescritti dalla commedia organizzativa. Si può così affermare che i comportamenti degli attori organizzativi di vertice sono altamente inducenti le sorti aziendali (in termini di vizi e virtù), mentre quelli degli attori di basso livello, per una sorta d’inversione di rapporto causa/effetto, sono prevalentemente indotti dal contesto organizzativo. Una tale constatazione pone l’accento sulla criticità di scelta dei leader aziendali e contemporaneamente sposta la lettura sulle caratteristiche dei contesti organizzativi per capire le cause prime dei processi sociali più diffusi. I contesti organizzativi rappresentano una sorta di interlocutori muti, ma altamente influenzanti le prassi e le culture, attraverso il linguaggio non verbale delle loro architetture e delle regole che li governano. Ogni specifico contesto aziendale rappresenta una pedagogia implicita che entra omeopaticamente con la sua presenza quotidiana nei pori della cultura aziendale. Come decodificare i contesti di lavoro? Come dare forma e visibilità, almeno logica, a quei costrutti che si chiamano ambienti organizzativi? Proverò a proporre un modello in grado di dare corpo alla personalità delle organizzazioni.
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Una lettura sistemica deLL’ORGANIZZAZIONE 1. P.R. Lawrence e J.W. Lorsch, Organization and Environment. Managing Differentiation and Integration, Harvard University Press, Boston 1967; tr. it. Diagnosi dello sviluppo delle organizzazioni, Etas, Milano 1973. Si veda inoltre R. Vaccani, Professionalità, attitudini e carriera, Etas, Milano 2001.
Per suggerire un modello di approccio alla lettura degli impianti organizzativi userò la tassonomia proposta dagli studiosi di sistemi organizzativi Lawrence e Lorsch1. L’organizzazione è un sistema di variabili aperto al contesto esterno, e tale contesto è influenzato da essa mediante la produzione di beni o servizi in uscita; contemporaneamente dal medesimo contesto essa riceve influenze a opera dei fattori in ingresso (materie prime, conoscenze, tecnologia, fattori socioculturali, domande, bisogni eccetera). Non è quindi pensabile una progettazione organizzativa che non tenga in considerevole rilievo sia la qualità e la quantità dei prodotti e servizi in uscita dal sistema organizzativo (output), sia la qualità e la quantità dei fattori in ingresso nel sistema organizzativo (input). Il processo di elaborazione e/o di trasformazione dei fattori in ingresso che avviene nel sistema organizzativo finalizzato ai prodotti e/o ser-
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dal comando al governo
vizi in uscita, è sostenuto da un costrutto organizzato che è analizzabile mediante tre categorie base di riferimento: - la struttura di base, rappresentata dall’impianto portante dell’organizzazione (simile alla struttura ossea dell’essere umano) che più specificatamente contempla: la divisione gerarchica o di potere (organigramma); la divisione delle funzioni, delle mansioni e dei compiti (funzionigramma, mansionario); la dotazione delle risorse economico/ finanziarie; la dotazione dell’organico; la dotazione della risorsa tempo; l’allocazione e composizione degli spazi fisici e ambientali; l’allocazione delle risorse tecnologiche. La struttura di base garantisce stabilità al sistema organizzativo. Troppa struttura potrebbe irrigidire il sistema, poca struttura induce precarietà (destrutturazione) aziendale; - i meccanismi o processi operativi, rappresentati dalle norme o procedure formali (l’insieme di regole di convivenza organizzativa) che danno ordine e visibilità ad alcuni fenomeni, quali: i modelli informativi; i modelli di presa delle decisioni; i sistemi di controllo qualità; i sistemi di controllo e valutazione di compiti e/o persone; i meccanismi di premio/sanzione; le procedure di selezione; le procedure di formazione; le procedure di lavoro gestite direttamente dagli individui o incorporate nella tecnologia. I meccanismi operativi garantiscono volumi, velocità e ripetitività standard dei processi di lavoro; - i processi sociali, rappresentati dai comportamenti individuali e sociali messi concretamente in atto dagli individui posti ai vari livelli organizzativi. I processi sociali garantiscono la flessibilità del sistema organizzativo. Costituiscono un complemento, in opposizione dialettica, alla struttura di base (che garantisce stabilità/rigidità) e ai meccanismi operativi (che presidiano la standardizzazione del sistema aziendale). I processi sociali possono a loro volta essere codificati in diverse categorie e stratificazioni organizzative. Si può per esempio parlare di processi di rifiuto, di accettazione e di compensazione organizzativa. Si possono suddividere genericamente i processi di vertice organizzativo dai processi della fascia intermedia e da quelli della fascia bassa organizzativa. Si parla ancora di processi, quando si parla di stili di gestione di comando, di climi e di culture organizzative. Gli elementi della struttura di base, dei meccanismi operativi e dei processi sociali si influenzano vicendevolmente, pertanto va riservata più attenzione ai legami tra queste tre dimensioni piuttosto che a ogni dimensione presa separatamente. Ecco alcuni esempi: - una dotazione strutturale inadeguata delle risorse produce processi sociali conflittuali, a detrimento delle prestazioni lavorative mentre un buon dimensionamento di risorse strutturali induce motivazione diffusa nei processi sociali;
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L’IMPRESA FA CULTURA
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oltre il mecenatismo Severino Salvemini
illustrazione di Francesco Cattani
l’economia della cultura sta vivendo un periodo di grande interesse scientifico e operativo. Passato il lungo tempo in cui pochi economisti si sono interessati all’arte o alla cultura, poiché in esse vedevano attività che non contribuivano alla ricchezza del Paese, ambito naturale del lavoro non produttivo1, oggi c’è una crescita nella ricerca e nella didattica che declina la cultura sia in chiave macroeconomica sia in prospettiva aziendalistica. I diversi comparti del settore culturale (teatri, musei, archivi, festival, cinema, musica, editoria, e così via) hanno acquisito un vero e proprio “diritto di cittadinanza” nella disciplina, che ha permesso di costruire un paradigma scientifico e professionale per tutti coloro che operano in questo ambiente. Tra le diverse cause di questa rinnovata attenzione, possiamo citare: - l’aggravarsi dei vincoli del bilancio pubblico e il conseguente sforzo di contenimento del deficit dello Stato e degli enti pubblici territoriali, che hanno costretto le istituzioni culturali a una prospettiva di economicità e cioè di ricerca di mantenere il proprio bilancio in equilibrio, ricorrendo il meno possibile a economie esterne (finanziamento statale o sussidi da parte di finanza non legata alla gestione caratteristica), mettendo in atto nuove strategie di efficienza produttiva o di fund raising da parte di donatori privati; - la domanda di qualità della vita e del tempo libero nei Paesi avanzati
1. Alfred Marshall scriveva nel 1891 nei Principi di economia: “È impossibile dare un valore a oggetti come i quadri dei grandi maestri, o le monete rare, poiché essi sono unici nel loro genere, non avendo nessun equivalente, né concorrente […] Il prezzo di equilibrio della vendita comprende molto la causalità; tuttavia uno spirito curioso potrebbe ottenere non poca soddisfazione da uno studio minuzioso del fenomeno”.
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2. W. Santagata (a cura di), Libro bianco sulla creatività. Per un modello italiano di sviluppo, Egea, Milano 2009. 3. P.L. Sacco, “Prendere la cultura sul serio?”, in Cultura e competitività. Per un nuovo agire imprenditoriale, Osservatorio Impresa e Cultura, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.
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da parte di un numero sempre maggiore di persone, che ha spinto le istituzioni culturali a presentarsi sul mercato con offerte particolarmente attraenti e sofisticate (nelle logiche di segmentazione del mercato, della comunicazione dei prodotti e servizi, della promozione e del marketing, del pricing dei processi, dell’arricchimento di “esperienza” rispetto al servizio basilare, e così via), facendo quindi avvicinare i loro comportamenti a quelli più canonici delle imprese produttive manifatturiere e terziarie; - la presenza nelle istituzioni culturali di molti lavoratori professionali e creativi e la necessità di riqualificazione del personale già impegnato nel settore, che hanno reso indispensabile un cambiamento (in tema di struttura organizzativa e di gestione delle risorse umane) verso uno stile di direzione più moderno e metodi di sviluppo del personale più formalizzati. Inoltre, l’espansione prospettica del numero degli addetti nei prossimi decenni ha aumentato la credibilità che questo comparto possa essere uno degli ambiti lavorativi più promettenti del secolo attuale; - in ultimo, il ruolo che la cultura (intesa come serie di eventi/festival o come insieme di istituzioni che caratterizzano un sistema locale o come strumento per ringiovanire un patrimonio cognitivo di un distretto geografico) può giocare come elemento trainante per attrarre in contesti cittadini i talenti creativi più innovativi e per offrire dunque al territorio un nuovo flusso di ricchezza sia sotto il profilo economico che sotto il profilo sociale (si pensi all’impatto economico delle “città d’arte”, ai contributi diretti e indiretti di manifestazioni sportive e culturali come le Olimpiadi o gli Expo, all’installazione di progetti museali globali come il Guggenheim di Bilbao eccetera); non è un caso, a questo proposito, che recentemente si sia intensificata la relazione concettuale tra cultura e creatività, con molti che sostengono che la creatività (elemento cruciale e punto di forza dei nostri prodotti nella competizione internazionale) vada ricercata prevalentemente nella nostra cultura e nel nostro territorio e che produrre cultura sia diventato un obiettivo irrinunciabile per le politiche non solo culturali ma anche produttive e industriali2.
La “culturalizzazione” dell’economia Gli effetti benefici dell’arte e della cultura possono essere estesi non solo allo sviluppo dei mercati culturali, ma produrre invece significativi effetti spillover nell’economia in generale3. Pensiamo ad Adriano Olivetti e alla sua economia sociale, convinto com’era che il progresso civile di un territorio e la crescita economica non potessero essere di-
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sgiunti. E l’azienda di Ivrea ha per molti anni rappresentato nel mondo uno dei più stimolanti laboratori, riuscendo a incardinare elementi di nuova estetica e di nuovo design nei prodotti stessi e nella loro promozione esterna. Negli anni successivi al boom economico e ancora oggi, la cultura è servita alle imprese soprattutto per esprimere programmi di sponsorizzazioni e di mecenatismo, abbastanza laterali rispetto alle logiche di funzionamento aziendale. L’arte è stata considerata un’opportunità da sfruttare, seppure con un raggio circoscritto di efficacia, anche per il difficile calcolo del ritorno economico in chiave di reputazione e di immagine. Ma tali investimenti, recentemente, nonostante il ciclo economico sia stato dominato da grande incertezza e da una forte recessione, sono cresciuti e le imprese che hanno investito si sono date traguardi ancora più ambiziosi del passato. Ciò la dice lunga anche sul fatto che i modelli di consumo tradizionale cominciano a mostrare i loro limiti, e sulla progressiva attenzione da parte dei consumatori che chiedono conto di cosa e di come le imprese producono. I consumatori acquistano sempre più secondo un modello identitario complessivo e la sponsorizzazione o il mecenatismo culturale dimostra la volontà delle imprese di mostrare come la propria attività sia vicino alle aspirazioni e ai desideri del proprio pubblico. Ma ciò che oggi va sottolineato è il progressivo superamento della concezione comunicazionale della cultura per le imprese. La cultura infatti recupera nel processo produttivo dell’impresa il ruolo di materia prima e ne dà senso economico, facendola diventare input strategico di sopravvivenza economica. Non si investe dunque in cultura per deboli e indiretti interessi di generazione di prestigio sociale (tipici dei progetti di comunicazione o di sponsorizzazione), ma posizionando l’investimento stesso più a monte nella catena del valore. Ciò vuol dire sostenere il rilievo che la cultura assume nell’economia immateriale contemporanea e la sua capacità di produrre valori mediante significati. Essa orienta il mercato, condiziona le organizzazioni, influisce sul contesto in cui si opera. Il tutto in un’economia simbolica dove conta sempre meno il valore d’uso dei prodotti (il prodotto per quello che è) e sempre di più la valenza simbolica ed evocativa che i beni e le esperienze di servizio esprimono e raccontano. È la sostituzione del capitalismo industriale con quello culturale, che la teoria aziendalistica comincia a distinguere tra le nebbie e le foschie prodotte dal fordismo e dal postfordismo4. Alcune delle imprese più evolute hanno imparato ad abitare in questo ambiente di postmodernità, dove non si producono o vendono semplicemente oggetti, definiti dalla loro prestazione utile, come faceva la prima modernità. Quelle
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4. E. Rullani e L. Romano (a cura di), Il postfordismo. Idee per il capitalismo prossimo venturo, Etas, Milano 1998.
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i nostri bisnonni vivevano in media 300.000 ore e passavano almeno la metà della loro vita lavorando. Oggi, invece, un giovane di vent’anni ha davanti a sé la prospettiva di 530.000 ore di vita, ma dedicherà al lavoro non più di 80.000 ore. La società post-industriale, in cui siamo scivolati quasi senza accorgercene, è basata soprattutto sul lavoro intellettuale e sulla produzione di servizi, informazioni, simboli, valori ed estetica. Il mercato internazionale del lavoro si è polarizzato su tre tipologie: un primo mondo, ricco e istruito, che produce soprattutto idee sotto forma di brevetti, media, arte, scienza, intrattenimento; un secondo mondo che produce soprattutto beni materiali; un terzo mondo che produce braccia e materie prime a basso costo. Nel primo mondo, le masse lavoratrici si sono via via spostate dall’agricoltura all’industria, poi dall’industria ai servizi, ora dai servizi all’interconnessione tra i settori e alla produzione di benessere. Lo aveva previsto bene il presidente statunitense John Adams, che alla fine del Settecento profetizzava: “Devo studiare la politica e la guerra in modo che i miei figli abbiano la possibilità di studiare la matematica, la filosofia, la navigazione, il commercio e l’agricoltura, per poter fornire ai loro figli la possibilità di studiare la pittura, la poesia, la musica e… le maioliche”.
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Questi passaggi, man mano che si sono consumati, hanno lasciato sul lastrico i lavoratori che non sono risusciti a riciclarsi e hanno spinto la disoccupazione e il precariato a livelli prima inimmaginabili.
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Ma il problema dei disoccupati rischia di mettere in secondo piano i problemi degli occupati. La vita di un disoccupato è orribile, perché nella nostra società tutto dipende dal lavoro: stipendio, benessere, contatti professionali, prestigio. Dunque, se manca il lavoro, manca tutto. Molto spesso, però, la vita del lavoratore occupato è ridotta a un inferno perché l’organizzazione delle aziende si preoccupa di moltiplicare la quantità dei prodotti più che la felicità dei produttori. Contro questa organizzazione, tuttora ancorata ai princìpi del management scientifico di cento anni fa, si possono sollevare una decina di capi d’accusa. 1. In nome della competitività, essa attizza una stupida guerra di tutti contro tutti, che esalta l’istinto della violenza, devasta lo spirito solidale e la cortesia dei rapporti umani. 2. In nome della praticità, essa fa scempio del senso estetico costringendo milioni di operai in reparti infernali e milioni di impiegati in ambienti anonimi, periferici, alienanti. 3. In nome dell’efficienza, essa antepone la velocità alla riflessione, estorce tempo ed equilibrio mentale ai propri dipendenti, costringendoli a inutili ore di straordinario e di stress per fare cose spesso futili, a scapito della vita familiare e di quella sociale. 4. In nome della disciplina, essa costringe a collaborare con superiori ottusi o sadici, colleghi masochisti o repellenti, riti e procedure aziendali che immolano la creatività al grande idolo della gerarchia. 5. In nome della sincronizzazione e del coordinamento, essa impone obbedienza acritica e assoggetta i bioritmi dei singoli lavoratori ai ritmi delle macchine e delle procedure, fino a ridurre tutta l’azienda, la città e la società a un’unica, onnivora catena di montaggio. 6. In nome dell’esternalizzazione, essa espelle dalle aziende le funzioni più creative e trattiene quelle più esecutive, pianificabili, controllabili, trasformando via via le imprese in altrettante sclerotiche burocrazie. 7. In nome della modernizzazione tecnologica, essa condanna le competenze professionali a una rapida obsolescenza e getta nel panico o sul lastrico milioni di lavoratori ridotti al rango di esuberi. 8. In nome della globalizzazione, essa riduce gli organici, distrugge le industrie nazionali, impone culture estranee, mina l’autorità dei singoli stati, distrugge le identità, omologa usi e costumi.
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9. In nome della flessibilità, essa vanifica i diritti acquisiti dai lavoratori, li getta nell’insicurezza, restituisce al datore di lavoro il potere assoluto sulla loro sorte. 10. In nome del libero mercato, essa distrugge la sicurezza sociale del welfare, privatizza e trasforma in affari anche le funzioni vitali dello Stato, dalla sanità all’istruzione, dai trasporti alla difesa. 11. In nome della razionalità, essa standardizza, accentra, specializza, spersonalizza, maschilizza il mondo del lavoro deprivandolo di tutto ciò che è emotivo, estetico, soggettivo, femminile.
Il cervello lavoratore Tuttavia, grazie all’azione congiunta del progresso tecnologico, dello sviluppo organizzativo, della globalizzazione, della scolarizzazione, non solo la nostra vita si è allungata fino a raddoppiare rispetto a quella dei nostri bisnonni, non solo il lavoro occupa un’aliquota sempre minore della nostra longeva esistenza, ma esso si intellettualizza sempre di più: crescono infatti le attività psichiche compiute con il cervello e diminuiscono quelle fisiche compiute con le mani e con i muscoli. Il lavoro intellettualizzato e non ripetitivo è costituzionalmente diverso da quello manuale: non tollera vincoli di spazio e di tempo, è sempre più affidato alle donne, è soggetto alla motivazione piuttosto che al controllo, può confondersi con il tempo libero, con lo studio, con il gioco. Esige, dunque, modalità organizzative affatto diverse da quelle usate nella fabbrica manifatturiera. Il lavoro e la vita postindustriale richiedono motivazione, flessibilità, creatività, fantasia. La nostra mente, per produrre idee, ha bisogno di luoghi capaci di cullarla nella serenità, di ispirarla con la varietà, di fornirle nutrimento attraverso incontri gradevoli, paesaggi suggestivi, circostanze sorprendenti. Dopo secoli di lavoro fisico, ripetitivo, faticoso, nettamente separato dallo studio e dal gioco, occorre dunque recuperare la capacità che fu propria della cultura classica e rinascimentale: occorre, cioè, imparare nuovamente a svolgere un’attività unitaria in cui lavoro, gioco e studio sappiano convivere sapientemente in modo da produrre – allo stesso tempo – dosi crescenti di ricchezza, di sapere e di benessere psicofisico. Per compensare lo stress della produzione di massa, la società industriale aveva prodotto lo stress del tempo libero di massa. I viaggi frettolosi e minuziosamente organizzati, i turisti intruppati in villaggi simili a caserme, i “parchi” specializzati come fabbriche hanno contraddistinto il tempo libero del recente passato. Oggi occorre sperimentare forme nuove di tempo libero, più soggettive, più umane, più creative,
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autori Niccolò Querci è direttore centrale Personale e organizzazione del gruppo Mediaset, membro del Consiglio di amministrazione Mediaset e vice presidente di Publitalia ’80. 142
Remo Bodei, filosofo, insegna alla UCLA di Los Angeles e presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra le sue ultime pubblicazioni: Ira. La passione furente (Il Mulino, Bologna 2011) e La vita delle cose (Laterza, Roma-Bari 2009). Francesco Casetti, semiologo e teorico del cinema, insegna presso l’Università di Yale ed è stato professore ordinario presso l’Università Cattolica di Milano. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità (Bompiani, Milano 2005). Domenico De Masi, sociologo, insegna presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. È presidente della Società Italiana del Telelavoro e ha fondato la S3-Studium, Scuola di specializzazione in Scienze organizzative. James Hillman, psicanalista junghiano e filosofo, ha scritto numerosi saggi, tra cui Il linguaggio della vita (Rizzoli, Milano 2005), Gli stili del potere (BUR, Milano 2009) e La ricerca interiore (Moretti e Vitali, Bergamo 2010). Valerio Massimo Manfredi, archeologo, ha scritto romanzi e saggi storici – tra cui Il romanzo di Alessandro (Mondadori, Milano 2005), Idi di marzo (Mondadori, Milano 2008) e La tomba di Alessandro (Mondadori, Milano 2009) – e ha condotto trasmissioni tv di divulgazione scientifica, come Stargate. Linea di confine e Impero (La7). Nando Pagnoncelli è country manager italiano di Ipsos, centro di ricerca internazionale. Insegna in varie università e ha scritto Opinioni in percentuale (Laterza, Roma-Bari 2001). Nicola Porro, giornalista, è vicedirettore de Il Giornale. Ha scritto Sprecopoli (con M. Cervi, Mondadori, Milano 2007). Vittorio Emanuele Parsi, politologo, insegna Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica di Milano. Tra le sue ultime
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pubblicazioni: L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq (Università Bocconi, Milano 2006). Christian Rocca, giornalista, dopo aver lavorato nella redazione de Il Foglio, è caporedattore a Il Sole 24 ore. Tra i suoi libri: Sulle strade di Barney (Bompiani, Milano 2010) e Cambiare regime (Einaudi, Torino 2006). Severino Salvemini, economista, insegna presso l’Università Bocconi di Milano. Tra le sue ultime pubblicazioni: È tutto un altro film (con F. Casetti, Egea, Milano 2007), La città creativa (Egea, Milano 2005) e Il cinema, impresa possibile (Egea, Milano 2002). Roberto Vaccani, economista, insegna presso la School of Management dell’Università Bocconi di Milano. Tra le sue ultime pubblicazioni: Stress, mobbing e dintorni (Etas, Milano 2007) e Professionalità, attitudini e carriera (Etas, Milano 2001). Federico Vecchioni, laureato in scienze agrarie, è presidente di Confagricoltura.
illustratori Nicolò Giacomin ha realizzato il lettering di copertina e dei separatori di sezione. www.nicolo-giacomin.com Arianna Vairo ha realizzato le illustrazioni della sezione Sguardi. ariavairo.blogspot.com Marino Neri ha realizzato le illustrazioni della sezione Società. www.marinoneri.com Francesco Cattani ha realizzato le illustrazioni della sezione Impresa. barcazza.blogspot.com
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colophon
SCENARI PARALLELI Organizzare la complessità a cura di Niccolò Querci
Proprietà letteraria riservata · © 2011 RTI ISBN 9788895596136
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Fabio Guarnaccia coordinamento redazionale
Luca Barra in redazione
Alessia Assasselli si ringrazia per la collaborazione: Giorgio Preda, Valeria Bollati, Gabriella Mainardi, Cristina Amodeo, Tommaso Dell’Anna link · rti Viale Europa, 48 20093 Cologno Monzese (MI)
art director
Marco Cendron progetto grafico
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