La scuola digitale tra retorica e realtà, di Maria Ranieri

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Bruschi A., Iannaccone A., Quaglia R. (a cura di), Crescere digitali, Aracne, 2010 La scuola digitale tra retorica e realtà (Maria Ranieri, Università di Firenze) “Credo che l’immagine in movimento sia destinata a rivoluzionare il nostro sistema educativo e che in pochi anni sostituirà ampiamente, se non interamente, l’uso dei libri. […] L’educazione del futuro si baserà sull’uso del medium dell’immagine in movimento, un’educazione visualizzata, in cui sarà possibile ottenere il 100% dell’efficienza” (Edison, 1922)

1. Introduzione Nell’ultimo decennio il dibattito sul rapporto tra scuola e nuove tecnologie è stato fortemente influenzato dalle tesi sui ‘nativi digitali’. Come è stato illustrato nel capitolo precedente, i fautori di questa posizione sostengono che stia nascendo una generazione dotata di nuove capacità cognitive legate all’uso intensivo delle tecnologie e ritengono che questa trasformazione degli stili cognitivi e delle pratiche sociali delle nuove generazioni stia producendo una profonda metamorfosi antropologica: da un lato, ci sarebbero i ‘nativi digitali’, quelli nati e cresciuti nell’era digitale, dall’altro, i cosiddetti ‘immigrati digitali’, che invece si sono formati all’interno dell’universo sociale e culturale della galassia Gutenberg. Si sostiene altresì che a causa dei cambiamenti in atto si stia delineando un sostanziale scollamento tra i giovani e le istituzioni educative: i primi vengono descritti come delusi e insoddisfatti delle proposte educative della scuola e le seconde come non più in grado di recepire e accogliere le sfide del presente. Le istituzioni formative dovrebbero allora

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riconfigurarsi radicalmente per rispondere ai nuovi stili cognitivi e soddisfare le esigenze emergenti. Simili tesi sono state divulgate attraverso decine di volumi, articoli su magazine online, e addirittura video pubblicati su Youtube, dove per esempio ragazzi e ragazze di 13-14 anni denunciano l’inutilità dei saperi attualmente insegnati a scuola e l’arretratezza tecnologica della scuola e dei loro insegnanti. Alcuni autori, per descrivere questo fenomeno, hanno fatto ricorso al concetto di moral panic, una categoria sociologica introdotta da Cohen (1972) per indicare delle ondate emotive in cui un dato fenomeno (o un gruppo di persone) viene additato come una minaccia per la società; i media ne presentano la natura attraverso stereotipo e rappresentazioni semplicistiche, commentatori, politici e altre autorità erigono barricate morali e proclamano diagnosi e rimedi finché il fenomeno scompare o torna ad occupare la posizione precedentemente ricoperta nelle preoccupazioni collettive: nel nostro caso il fenomeno dei nativi digitali viene enfatizzato dai media e anche da parte di vari commentatori, senza reali evidenze scientifiche e con toni spesso drammatici sull’inadeguatezza della scuola e degli insegnanti davanti alla presunta nuova generazione dei “nativi digitali”. Ora, nessuno può mettere in dubbio il fatto che nei paesi industrializzati lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) abbiano subito, negli ultimi vent’anni anni, una sorprendente accelerazione, diventando parte integrante della nostra vita. I dati sulla diffusione e l’uso delle ICT testimoniano una crescita significativa e fotografano uno scenario in cui Internet e i media digitali sono ormai diventati una risorsa familiare per molti giovani utenti. Ciò detto, siamo sicuri che le nuove generazioni vogliano davvero studiare con l’iPOD e i videogame? Ci sono basi empiriche sufficienti per sostenere che i giovani si aspettano, desiderano, invocano una radicale trasformazione in senso tecnologico della scuola oppure ci troviamo di fronte all’ennesima rivoluzione tecnologica incompiuta della scuola, per un verso attesa dai tecno-entusiasti e per un altro temuta dai tecno-fobi? In questo contributo, prenderemo dapprima in esame le tesi emerse nel dibattito sui nativi digitali circa il ruolo e il futuro della scuola e degli insegnanti in rapporto allo sviluppo tecnologico, per poi soffermarci sui limiti e le fragilità di queste posizioni.

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Lo scopo è quello di decostruire certe rappresentazioni semplicistiche dei processi di innovazione tecnologica, attingendo a studi e ricerche di carattere empirico e storico in ambito educativo, e di offrire così un contributo alla riflessione sul tema dell’innovazione scolastica, che richiede analisi approfondite e indagini rigorose piuttosto che discorsi pronunciati sull’‘onda delle emozioni’. 2. L’identikit di un ‘immigrato digitale’ Avviamo la nostra analisi cercando di tratteggiare il profilo dei cosiddetti “immigrati digitali”, formula introdotta da Prensky (2001) per indicare quel segmento della popolazione nato prima degli anni ’80 e che a differenza dei “nativi digitali” non è cresciuto in un mondo digitale, ma ad esso si è dovuto adattare, prendendone in prestito le pratiche. Un “immigrato”, per commentare la metafora di Prensky, a differenza di un “nativo”, non apprende in modo naturale e spontaneo la lingua del paese in cui approda, ma deve studiarla ed acquisirla, spesso con fatica e conservando anche un accento più o meno forte che lo contraddistingue dai “madrelingua”. Ugualmente gli immigrati digitali, pur adattandosi al nuovo ambiente socio-tecnologico, conserverebbero tuttavia il loro accento, restando fermi ad un passato che non c’è più: “L’‘accento degli immigrati digitali’ è facilmente individuabile per esempio nel fatto che essi pensano a Internet come a una seconda scelta nel reperimento delle informazioni e non come alla fonte primaria, o nel fatto che essi leggono i manuali di un software invece che effettuare procedure per prova ed errore e dare per scontato il fatto che sarà l’uso del programma stesso a farci capire come usarlo. Gli adulti hanno avuto un tipo di socializzazione alla tecnologia molto differente dai loro figli, o non l’hanno avuta affatto, e stanno oggi imparando a vivere nel mondo digitale come se apprendessero una nuova lingua. Una lingua imparata non da piccoli ma più avanti nel corso della vita e, come suggeriscono alcuni neurobiologi, utilizzando una parte differente della mente o del cervello.” (Prensky, 2001, p. 2). Secondo Prensky e altri commentatori, ci sono decine di esempi che tradiscono questa diversità d’accento: un immigrato digitale, ad esempio, non legge le e-mail al computer, ma le stampa; non revisiona e corregge un testo o un documento sullo schermo, ma ha bisogno di vederlo su

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carta o ancora ha necessità di incontrare le persone vis-à-vis anche per svolgere attività che potrebbero essere svolte tranquillamente a distanza. L’elenco degli esempi non si ferma qui: con una certa non troppo velata ironia, Prensky cita anche il caso dell’immigrato digitale che telefona al collega per sapere se ha ricevuto l’e-mail. Questi esempi denoterebbero un rapporto con la tecnologia completamente diverso da quello dei nativi. Questi ultimi sono abituati a ricevere informazioni molto velocemente; sono in grado di elaborare una molteplicità di stimoli e informazioni simultaneamente (multitasking), preferiscono l’accesso randomico alle fonti informative, amano condividere conoscenze e risorse, sono portati per la collaborazione e il networking, privilegiano un approccio ludico all’apprendimento e al lavoro. In breve, gli immigrati digitali parlano una lingua completamente diversa da quella dei nativi; pensano in modo diverso da loro; sono scarsamente dotati sul piano delle abilità tecnologiche; hanno un rapporto con le tecnologie basato sulla diffidenza, la paura e la rassegnazione di “non potercela fare”; nutrono un fondamentale senso del rifiuto verso un artefatto che genera in loro ansia e senso di inadeguatezza. Il vero problema, però, secondo questi commentatori, sarebbe che una parte consistente degli insegnanti appartiene alla generazione degli immigrati digitali e, pertanto, insegna utilizzando un linguaggio che per i nativi digitali suona estraneo, alieno e lontano. Questi insegnanti si sono formati all’interno di un universo socio-culturale pre-digitale, caratterizzato dalla produzione seriale e dall’utilizzo di strumenti di comunicazione di massa, con modalità relazionali e comunicative basate sulla passività e la standardizzazione. Il loro stile di fruizione e consumo dei contenuti culturali, di approccio all’apprendimento o alle attività del tempo libero sarebbe quindi sostanzialmente passivo. Ciò spiegherebbe la ragione per cui non comprendono o non riescono ad accettare il fatto che i loro studenti, i cosiddetti New Millenium Learner (NML, ossia gli studenti del nuovo millennio), per riprendere una formula usata da Pedrò (2006), sono radicalmente cambiati. Ad esempio, gli insegnanti non capiscono che i loro studenti sono abili nel multitasking, non credono cioè che i loro studenti siano in grado di studiare una lezione di storia mentre guardano un programma televisivo o chattano con un amico. Oppure non capiscono che cosa significa “imparare divertendosi”: per

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gli studenti della vecchia generazione, studiare e apprendere non erano attività dai risvolti anche ludici, ma solo un impegno spesso anche noioso. Infine non capiscono che i giovani si annoiano davanti a lezioni tradizionali, test e spiegazioni step-by-step: gli insegnanti “immigrati digitali” muovono dall’assunto che gli studenti siano sempre gli stessi e che i metodi che hanno sempre funzionato continueranno a funzionare anche ora. 3. “Old pre-digital education” vs “New digital education” Queste rappresentazioni delle generazioni adulte, ed in particolare degli insegnanti, non sono prive di conseguenze, specie se considerate alla luce della costante tensione che si ritrova nella letteratura sui nativi digitali tra le nuove generazioni e gli adulti “web illetterati”. E infatti a partire dalla tesi dell’arretratezza degli insegnanti e della loro incapacità di comprendere le trasformazioni degli studenti, si conclude la totale inadeguatezza degli attuali sistemi educativi e l’urgente necessità di un radicale cambiamento della scuola e delle tradizionali agenzie educative. Queste ultime vengono dipinte come ormai obsolete e incapaci di soddisfare le richieste e le aspettative dei più giovani: i New Millennium Learners sono annoiati, delusi e sempre più disaffezionati (Oblinger, 2003; Prensky, 2005). Senza un cambiamento drastico di forme e contenuti, la scuola è destinata ad un inesorabile fallimento. A simili conclusioni si affiancano discorsi e analisi che profilano una sorta di frontale contrapposizione tra vecchio e nuovo in educazione. Vediamo più specificamente. Formale vs Informale Secondo diversi commentatori, nell’educazione degli studenti del XXI secolo si sta delineando una incolmabile divaricazione tra i contesti formali e informali della formazione. Da una parte, ci sarebbe l’istruzione formale, ossia la scuola, che sta diventando un’istituzione sempre più insignificante, la cui unica funzione per molti studenti sarebbe quella di rilasciare i diplomi o le certificazioni che i genitori reputano ancora importanti. Dall’altra parte, ci sarebbero invece tutte quelle esperienze educative informali, assai più coinvolgenti e

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stimolanti, che si svolgono dopo la scuola: tutto ciò che accade fuori dalla scuola offrirebbe il contesto in cui gli studenti imparano davvero qualcosa sul mondo, preparandosi a vivere nel XXI secolo. Le nuove generazioni sognano laboratori informatici aperti fino a tarda serata e giocano con software e programmi educativi progettati per essere usati fuori piuttosto che dentro la scuola. Insieme alla scuola anche altre tradizionali istituzioni socio-educative come le biblioteche, i musei e le università, stanno attraversando una “crisi di legittimità” agli occhi delle nuove generazioni. Le forme di regolazione e controllo che le caratterizzano sarebbero addirittura incompatibili con il modo di essere dei nativi digitali: le tecnologie digitali vengono rappresentate come lo strumento per evitare furbescamente le strutture tradizionali e per trovare online qualcosa che le istituzioni non offrono ai giovani nella vita reale. Web 2.0 e social networking Un ruolo importante viene attribuito alle tecnologie del web 2.0 e al loro potere intrinseco di trasformare l’educazione. Blog, wiki, social bookmark ecc., vengono presentati come l’ennesima nuova opportunità per trasformare radicalmente i sistemi educativi: essi consentirebbero di vivere esperienze d’apprendimento completamente diverse in luoghi differenti e distanti da quelli attuali, che invece si connotano per il carattere del tutto speciale dei tempi e dei luoghi dell’apprendimento (le mura della scuola) e per il fatto che i giovani vengono istruiti su certi argomenti piuttosto che su altri senza comprenderne le ragioni (Leadbetter, 2008). Al contrario, le tecnologie di recente generazione vengono rappresentate come capaci di trasformare l’educazione secondo configurazioni “più morbide” e flessibili, offrendo l’opportunità di imparare in una varietà di luoghi e per ragioni diverse. In questo senso si sostiene che le nuove generazioni sono nelle condizioni di poter “cambiare il futuro del sistema educativo” (Tapscott e Williams, 2007), facendo leva su innovazioni strettamente legate ai nuovi sistemi di produzione e condivisione delle risorse d’apprendimento e sull’opportunità di imparare indipendentemente dal proprio status e dall’autorità.

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Vecchia vs Nuova Pedagogia Alla base di tutto, come rilevano vari commentatori, il problema sarebbe che gli insegnanti guardano all’educazione come a qualcosa che prepara al passato più che al futuro. Gli ‘immigrati digitali’ continuano ad insegnare gli stessi contenuti, avvalendosi degli stessi metodi didattici. Non sono disposti a mettere in discussione il curriculum né si impegnano ad adottare nuovi approcci pedagogici. Non si interrogano sulle competenze di base necessarie per vivere nel nuovo millennio, ma continuano a far leva sul saper “leggere, scrivere e far di conto”, senza capire o prendere atto del fatto che il mondo è cambiato e che le esperienze formative cui i giovani possono accedere sono profondamente diverse da quelle del passato. Inoltre, non ci si rende conto del fatto che l’istinto di protezione nei riguardi degli allievi, pur motivato da buone intenzioni, produce effetti opposti: proteggere i bambini dai media impedisce di fatto che loro possano imparare ciò di cui hanno bisogno per aver successo nel XXI secolo. Le tecnologie digitali offrono oggi agli studenti tutta una serie di nuovi ed efficaci strumenti per imparare autonomamente, da Internet che offre un bacino immenso di risorse informative, agli strumenti di ricerca per trovare ciò che è vero e ciò che è falso, agli strumenti di analisi, a quelli di creazione per presentare le proprie scoperte in una varietà di formati mediali, agli strumenti sociali per fare rete e collaborare con le persone nel mondo. Sintetizzando, gli studenti del XXI secolo si aspettano una innovazione globale del sistema educativo relativamente a contenuti, metodi e servizi. Pedrò (2006) schematizza in sette punti ciò che i New Millenium Learners si attendono dalla scuola del futuro: miglioramento (per numero e qualità) degli strumenti e dei servizi digitali disponibili a scuola; aumento delle opportunità di farne uso, allargando l’accesso e aumentando la frequenza; ampliamento dello spettro di attività consentite; maggiori occasioni di lavoro collaborativo e networking; maggiore attenzione alle competenze comunicative con rivisitazione del linguaggio scritto; aumento del grado di personalizzazione dell’apprendimento; miglioramento degli standard di qualità digitale, in termini di interattività e uso di risorse multimediali.

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Come fare per soddisfare queste attese? Quali sarebbero le ricette per innovare la scuola secondo le aspettative dei NML? Secondo Pedrò, le soluzioni andrebbero trovate lungo quattro assi di intervento: - Infrastrutturale: su questo versante andrebbe potenziato il setting scolastico attraverso l’aumento del numero di strumenti tecnologici, risorse e servizi disponibili (dalle comunicazioni wireless alle lezioni in formato podcast); - Contestuale: creazione di risorse funzionali (tempo e spazio) più flessibili per lasciare spazio a proposte alternative alle tradizionali attività di apprendimento e insegnamento; - Curriculare: miglioramento del curriculum o superamento dei suoi limiti attraverso l’introduzione di nuovi strumenti o di contenuti culturali tipicamente correlati agli interessi dei NML; - Focus sul processo: maggiore adattamento dei processi e delle attività di insegnamento e apprendimento ai cambiamenti delle pratiche cognitive e comunicative degli studenti del XXI secolo. In attesa di interventi robusti sui quattro versanti sopra richiamati, andrebbero promosse una serie di politiche orientate a: a) colmare il gap tra scuola ed extra-scuola: andrebbe garantita una certa continuità tecnologica tra le esperienze di comunicazione interpersonale e gestione della conoscenza che gli studenti vivono dentro e fuori dalla scuola, valorizzando al contempo le loro abilità tecnologiche attraverso proposte educative adeguate e arricchendo le aule scolastiche di strumentazioni adeguate; b) prendere in considerazione la voce dei NML sul futuro dell’educazione: i cambiamenti andrebbero pianificati e attuati tenendo conto delle visioni degli studenti sul futuro dell’educazione, presentando particolare attenzione a ciò che essi si aspettano circa l’uso a scuola di strumentazioni che loro utilizzano quotidianamente; c) incentivare la produzione di software educativo, tipo videogiochi: dare incentivi alle case di produzione di software e agli editori affinché sviluppino software educativi e contenuti digitali utilizzabili su una vasta gamma di strumenti (dal PC ai cellulari), ispirandosi ai principi che regolano il funzionamento dei videogame rendendoli accattivanti, motivanti e attraenti allo sguardo dei nativi digitali; d) formare e aggiornare gli insegnanti: tutte le istituzioni che si occupano di formazione (iniziale o in servizio) degli insegnanti devono

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essere coinvolte nell’aggiornamento delle loro competenze professionali sul versante dell’uso dei media digitali, in modo tale da recuperare il gap tra loro e i loro allievi. 4. Le aspettative degli “studenti digitali”: qualche nota critica Ammesso e non concesso che il drastico cambiamento dei sistemi educativi che in molti invocano possa avere una sua ragion d’essere, quel che suscita qualche perplessità è che il cambiamento desiderato debba andare nella direzione delle presunte aspettative dei New Millenium Learner. Abbiamo detto “presunte”, dato che, fin qui, sono soprattutto coloro che si fanno interpreti di tali aspettative a pretendere di dettare l’agenda dell’innovazione tecnologica della scuola, piuttosto che i nativi digitali in persona o i loro insegnanti. Le domande su cui ci soffermeremo in questo paragrafo sono dunque le seguenti: siamo davvero certi che i giovani siano delusi e frustrati per la scarsa digitalizzazione dell’ambiente scolastico? Siamo sicuri che le nuove generazioni siano così interessate ad utilizzare videogame, telefonini e social network nella loro educazione? Su quali evidenze si basano le tesi secondo cui la scuola sarebbe obsoleta agli occhi dei più giovani? Ci sono evidenze per affermare che le nuove generazioni aspirino a forme di didattica innovativa basate su metodologie fondate sulla partecipazione e il networking? In realtà, sta crescendo il numero degli studi, condotti per lo più su base sperimentale, che dimostrano come per la verità dal mondo giovanile non emerga un reale bisogno di cambiamento in senso tecnologico della scuola, né tantomeno che i giovani siano delusi e disaffezionati a causa di questo ritardo tecnologico (Bennet et al., 2008; Selwyn, 2009). Un’indagine di Downes (2002) sui bambini della scuola primaria dimostra che l’uso domestico del computer comprende un insieme di attività estremamente più vario degli usi consentiti a scuola, concedendo ai bambini maggiori opportunità di imparare facendo. Si tratta, però, di usi diversificati che non rinviano necessariamente ad un desiderio di uso omologato tra contesti differenti. Ci sono diverse ricerche, infatti, che mostrano come solo raramente le nuove generazioni si aspettano di utilizzare le tecnologie a scuola alla stessa maniera di come le utilizzano a casa. Anzi, anche negli usi domestici o tipici della vita quotidiana gli

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adolescenti si rivelano molto più selettivi di quanto si pensi e manifestano attraverso i loro comportamenti forme di autoregolazione nella fruizione delle tecnologie: vi sono ad esempio studi su gruppi di adolescenti che non partecipano ai social network o perché rispettano un divieto parentale oppure per protesta (ad esempio, gli obiettori di Murdoch). Anche laddove emerga una sorta di frustrazione per le limitazioni imposte a scuola, sembra prevalere un atteggiamento pragmatico di accettazione consapevole legata al ruolo della scuola (Selwyn, 2006): per un verso, infatti, è vero che i giovani si sentono limitati per le pratiche consentite in contesto scolastico, per un altro, risulta altrettanto vero che riconoscono alla scuola il ruolo di proteggerli da materiali inappropriati, come farebbero i loro stessi genitori. In altri termini, i giovani sono ben consapevoli dell’esistenza di una “discontinuità digitale” tra scuola ed extra-scuola, ma dimostrano al tempo stesso di accettare questa differenziazione piuttosto che di sentirsi completamente delusi rispetto alla scuola con conseguente profondo e diffuso disimpegno nelle attività di apprendimento scolastico. Oltre a ciò, bisogna osservare che non è sufficiente trasportare una tecnologia da un contesto ad un altro per essere certi che gli studenti ne faranno uso. Se può, ad esempio, risultare naturale usare un lettore MP3 per ascoltare musica mentre si va in metrò o in autobus, non è detto che lo sia altrettanto per ascoltare una lezione. In una recente indagine sull’adozione delle tecnologie mobile in contesto universitario con particolare riferimento all’uso dell’iPOD, Caron e Caronia (2009) dimostrano che l’uso dell’iPod non fa necessariamente parte del modello culturale di formazione universitaria posseduto dagli studenti. A partire dalla constatazione che l’uso dell’iPOD fa parte dell’universo culturale e sociale dei ragazzi, questi due autori si sono chiesti: che cosa succede quando l’iPOD viene introdotto in un corso universitario non tradizionale? Muovendo da questo interrogativo, hanno esplorato gli usi accademici del podcast (ascoltare lezioni in condizioni di mobilità) e confrontato gli atteggiamenti degli studenti verso l’uso del podcast in contesto accademico ed extra-accademico. Dalla comparazione è emerso che il consumo “mobile” dei podcast accademici non viene considerato molto positivamente dagli studenti. Le possibilità di multitasking offerte dall’iPOD vengono apprezzate in contesti d’uso sociali e nel tempo

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libero, ma quando l’attività fondamentale è quella di apprendere (e non di divertirsi), il multitasking diventa un’attività molto più complessa da gestire. Avere a che fare con suoni concomitanti, persone che si muovono attorno a noi e così via si rivela in ultima analisi problematico, quando l’obiettivo è l’apprendimento. Conoscere, comprendere, concentrarsi, organizzare informazioni sono attività che richiedono un contesto stabile in cui la persona non è coinvolta in altro. L’attenzione si deve focalizzare sulla parte visiva del testo, se si tratta di materiale scritto o iconico; se invece si deve ascoltare una lezione audio registrata, un luogo chiuso appare preferibile. Inoltre, sempre nella ricerca di Caron Caronia (2009), gli studenti erano stati invitati a produrre podcast relativi all’argomento delle lezioni e a condividerli in uno spazio digitale. Nonostante questo invito, non hanno sfruttato le opportunità tecnologiche di partecipare alla costruzione condivisa di un corpus collettivo di conoscenze. Accanto a questo, occorre considerare anche un altro aspetto. Un fattore che può influire sulla tipologia di strumenti di cui gli studenti si avvalgono e sul modo in cui se ne avvalgono è costituito dalle aspettative su come apprenderanno in contesto scolastico o accademico. Studi di psicologia suggeriscono che le aspettative soggettive configurano i comportamenti, la motivazione e la percezione delle proprie performance (si veda Bandura, 1977). Per esempio, alcune ricerche sulle aspettative degli studenti circa il modo in cui studieranno all’università mostrano come, a dispetto del notevole aumento dell’uso delle tecnologie da parte degli studenti, le loro attese fotografano una situazione piuttosto statica in cui i nuovi strumenti rimangono abbastanza ai margini. Lavori di questo tipo dimostrano che le aspettative degli studenti nei riguardi della loro formazione universitaria sono influenzate più dalle precedenti esperienze di apprendimento in situazioni formali – ad esempio, la scuola – che dal loro uso della tecnologia al di fuori del setting educativo. Gli studenti rivelano spesso di avere una visione molto tradizionale della pedagogia. E ancora: la maggior parte degli studenti utilizza uno spettro limitato di tecnologie nelle loro attività di apprendimento: gli strumenti più utilizzati sono le piattaforma istituzionali, Google, Wikipedia e il cellulare; molto scarso è invece l’utilizzo di strumenti di costruzione collaborativa della conoscenza come wiki e altre tecnologie simili.

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Il mondo sta cambiando, le tecnologie stanno rapidamente evolvendo, ma questi studi richiamano la necessità di essere più cauti circa le visioni che si ascrivono alle nuove generazioni sulla tecnologia e su ciò che i giovani si aspettano dalla scuola. 5. Scuola e tecnologie, una “storia d’amore” instabile Abbiamo fin qui cercato di delineare le tendenze che hanno dominato il dibattito dell’ultimo decennio su scuola e nuove tecnologie in ambito internazionale. Abbiamo analizzato posizioni come quelle di Prensky, cercando di mettere in guardia i lettori, e coloro che si interessano di media ed educazione, circa la fragilità sul piano teorico ed empirico delle tesi sulle aspettative dei nativi digitali nei riguardi del loro futuro educativo. In questo paragrafo, ritorniamo sui presunti “immigrati digitali”, provando ad osservare il problema dell’innovazione dei sistemi educativi dalla loro prospettiva e lontano dalle ‘edutopie digitali’ di alcuni commentatori. Facciamo un passo indietro, perché qualche lezione può venirci dalla storia. L’idea secondo cui le tecnologie hanno il potere di determinare una trasformazione radicale della scuola e delle istituzioni educative non rappresenta una novità, ma ha radici lontane e si inscrive in una storia di più lunga durata che risale quanto meno all’invenzione del cinema (Buckingham, 2007). Tipicamente, nella storia delle innovazioni tecnologiche, ogni volta che è stata introdotta una nuova tecnologia il dibattito ha visto schierati da un lato gli entusiasti e dall’altro i critici: i primi celebrano le opportunità e potenzialità delle tecnologie, mentre i secondi ne biasimano i rischi e i pericoli. Anche il dibattito sulle tecnologie in educazione è stato caratterizzato nel tempo da simili polarizzazioni. Da una parte, troviamo i tecno-entusiasti che attribuiscono un enorme potere alla tecnologia come se si trattasse di una “medicina” in grado di potenziare e liberare i giovani. Dall’altra, queste pretese vengono sistematicamente messe in discussione da coloro che vedono la tecnologia come potenzialmente pericolosa o quantomeno come un autentico sostituto del “vero” apprendimento. Entrambe le prospettive si basano su una serie di assunzioni tra cui la convinzione secondo la quale la tecnologia possiede il potere intrinseco di modificare i rapporti sociali, le relazioni economiche e ambiti rilevanti della vita

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pubblica e privata. Sono discorsi che ciclicamente ritornano nel dibattito pubblico come pure nei contesti accademici e che più o meno suonano così: piaccia o non piaccia, nel bene o nel male, la tecnologia trasforma la società. Lo storico dell’educazione americano Larry Cuban (1986) ha scritto un interessantissimo resoconto di ciò che egli definisce l’“instabile storia d’amore” tra educazione e tecnologia. In questo percorso, dapprima è stata la volta del cinema: Edison (1922), ad esempio, intorno agli anni Venti del secolo scorso affermava “Credo che l’immagine in movimento sia destinata a rivoluzionare il nostro sistema educativo e che in pochi anni sostituirà ampiamente, se non interamente, l’uso dei libri. […] L’educazione del futuro si baserà sull’uso del medium dell’immagine in movimento, un’educazione visualizzata, in cui sarà possibile ottenere il 100% dell’efficienza” (citato in Cuban, 1986). Successivamente analoghe pretese sono state avanzate nei riguardi della radio e del potenziale rivoluzionario di questo medium. A partire dagli anni Cinquanta, una simile retorica ha dominato i discorsi intorno alla televisione per arrivare infine negli anni ’60-’70 alle “magnifiche sorti e progressive” promesse dal computer. Questa storia andrebbe ripresa e aggiornata fino ai nostri giorni, ma questo è un obiettivo che oltrepassa le finalità di questo lavoro. Piuttosto, in questa sede, ci preme comprendere perché Cuban definisca storicamente “instabile” la relazione tra media ed educazione. Lo studioso americano mostra come si possa individuare nella storia delle tecnologie in educazione una sorta di ciclo ricorrente in cui si alternano fasi di illusioni e grandi promesse seguite da momenti di forte disillusione e recriminazioni. La schema sarebbe il seguente. Quando una nuova tecnologia fa il suo ingresso nella storia dell’innovazione, responsabili di fondazioni, amministratori nel settore educativo e venditori cominciano a celebrare a più riprese i vantaggi che simili avanzamenti tecnologici sono in grado di produrre, fornendo soluzioni per i problemi della scuola e rendendo i vecchi media (ad esempio, i libri), e in molti casi anche gli insegnanti, obsoleti e ridondanti. Si sostiene inoltre che le tecnologie accrescono efficienza e produttività e offrono agli studenti l’opportunità di sviluppare competenze utili per il mondo del lavoro. Oppure si fa leva sul potere liberatorio della macchina: la tecnologia in questa prospettiva

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renderebbe gli studenti liberi di approfondire i propri interessi personali secondo modalità di apprendimento personalizzate, e renderebbe liberi anche gli insegnanti dallo svolgimento di compiti routinari, alleggerendo il management e consentendo loro di dedicarsi agli studenti in modo più naturale e autentico. A questi proclami seguono, di solito, per un certo periodo, studi e ricerche accademiche volte prevalentemente a dimostrare la maggiore efficacia delle più recenti innovazioni rispetto a strumenti e tecnologie didattiche più tradizionali. Ad un certo punto, la fiducia comincia ad incrinarsi e le prime criticità vengono a galla: ci si lamenta delle difficoltà d’uso, dei problemi tecnici e delle incompatibilità, della mancanza di tempo e così via. Seguono allora indagini che mostrano come gli insegnanti utilizzino molto raramente i nuovi strumenti tecnologici. Gli amministratori vengono allora additati come i principali responsabili dell’abbandono di simili costose attrezzature nei sottoscala delle scuole, mentre gli insegnanti vengono rimproverati di essere di strette vedute o all’antica o impreparati. Il ciclo si ripete inesorabilmente con ogni nuova tecnologia fino ad arrivare ai nostri giorni e alle pesanti accuse di inadeguatezza oggi rivolte agli insegnanti “immigrati digitali”. Non è affatto nostra intenzione prendere qui le difese della scuola e dei suoi attori per partito preso. Ci interessa, piuttosto, da un lato, mettere in luce come una certa retorica abbia sempre caratterizzato l’ingresso di una nuova tecnologia nella scuola e, dall’altro, spostare l’attenzione al di là della retorica e delle semplificazioni per guardare con uno sguardo critico alla complessa dialettica che governa i processi di innovazione, tenendo conto in particolare della figura professionale degli insegnanti. Proviamo a dare un’occhiata a qualche dato recente sulla diffusione e l’uso dei computer nella scuola. Dalla gran parte delle indagini nazionali e internazionali emerge come la diffusione delle tecnologie sia ampiamente migliorata, mentre continuano a permanere resistenze da parte del corpo docente rispetto all’adozione delle tecnologie telematiche in contesto educativo. Ad esempio, un’indagine dell’OECD del 2004 mostra che l’uso educativo dei computer è molto raro e sporadico nei paesi studiati: solo il 20% degli insegnanti sostiene di utilizzare spesso il computer come risorsa integrativa o per lo studio individuale degli allievi. Le ragioni più comunemente addotte per spiegare questo scarso utilizzo

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sono: la difficoltà di integrare le tecnologie didattiche in classe; mancanza di tempo; mancanza di abilità informatiche. Oppure, per quanto riguarda il nostro paese, da una ricerca realizzata nel 20032004 dal centro ricerche AIE (Associazione italiana editori), in collaborazione con l’Istituto IARD, emerge ad esempio che all’inizio del 2003, gli insegnanti italiani erano in gran parte capaci di usare il computer (84%) e internet (73%), ma non impiegavano spesso questi strumenti nella prassi didattica. Questi dati trovano una sostanziale conferma nelle ricerche accademiche. Sempre Cuban (2001) ha condotto uno studio in alcune scuole molto ben attrezzate in California. Ha scoperto che insegnanti e studenti godevano di un elevato accesso ai computer sia a casa che a scuola, e che non erano diffusi tra gli insegnanti atteggiamenti tecnofobici o di avversione alle tecnologie in sé; eppure, solo una piccola porzione (meno del 10%) di insegnanti utilizzava il computer in classe più di una volta alla settimana, mentre più della metà non lo utilizzava affatto. Risultati analoghi emergono anche da altre indagini: docenti ben disposti verso le tecnologie, di fatto non ne fanno uso in classe. In breve, l’avvento delle tecnologie non è sufficiente per trasformare il modo di insegnare (e apprendere). Solitamente, i fautori dell’innovazione tecnologica a tutti i costi tendono a dare la colpa agli insegnanti, sostenendo semplicemente che sono troppo all’antica oppure troppo pigri per adattarsi oppure che si sentono minacciati nella loro autorità. Tuttavia, come abbiamo appena visto, anche insegnanti ben disposti, che utilizzano comunemente il computer a casa e in altre sfere della loro vita professionale, tendono invece a resistere se si tratta di utilizzare i computer in classe. Non è quindi questione di ritardo generazionale: molti insegnanti non sono affatto tecnofobi, utilizzano le tecnologie quotidianamente, ma non a scuola. Pertanto, piuttosto che liquidare la questione con accuse di pigrizia o di ritardo non si dovrebbe forse riflettere in profondità sul perché di queste resistenze? Ovviamente gli insegnanti non sono tutti uguali: ci sono differenze negli atteggiamenti, nelle attitudini e nei valori che incidono sulla loro disponibilità ad utilizzare o meno le tecnologie; tuttavia ci sono anche preoccupazioni diffuse e difficoltà professionali che molto probabilmente gli insegnanti condividono. Quali sono allora queste

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preoccupazioni o condizioni al contorno che non rendono affatto semplice la vita tecnologico-scolastica degli insegnanti? Torna di nuovo utile qui il lavoro di Cuban (1986), il quale prova a spiegare le resistenze degli insegnanti nei riguardi delle nuove strumentazioni, prima la TV, poi il PC, oggi – diremmo noi - la LIM (lavagna interattiva multimediale) o il web 2.0 e così via. Cuban sostiene che in una certa misura incidono i problemi di ordine logistico: le tecnologie si rivelano spesso più difficile da usare di quanto pretendano i loro promotori e non si riesce a garantire un accesso adeguato ad esse per via dei limiti dei locali scolastici e degli orari. Un altro problema è dato dalla rapida obsolescenza delle tecnologie e della difficoltà di “far girare” programmi nuovi su macchine vecchie: diversi studi mostrano come il malfunzionamento tecnico delle macchine costituisce uno dei principali fattori che incide sulla scarsa fiducia da parte degli insegnanti nei riguardi del PC. Altre criticità si collocano sul versante dei software educativi o dei contenuti didattici da utilizzare con la classe: anche quando l’hardware è disponibile e facilmente accessibile, scarsa è l’offerta di programmi e contenuti adeguati e di buona qualità da poter utilizzare in classe con gli allievi. Il mercato dei software educational è dominato da prodotti che vengono ciclicamente criticati, basati su batterie di esercizi con domande a risposta chiusa e “drag and drop”. La povertà culturale, poi, che spesso contraddistingue i ‘presunti’ prodotti mediali educativi o i contenuti didattici multimediali spingono gli insegnanti, e a ragion veduta, a rifiutarne l’uso. C’è poi il problema della formazione. Spesso gli insegnanti non sono sufficientemente formati sia all’uso delle strumentazioni che a quello delle risorse. L’attività di aggiornamento si focalizza di solito sugli aspetti tecnici più che sulle applicazioni didattiche. Gli insegnanti, poi, sono stufi di stare al passo con sempre nuove tecnologie che promettono novità e poi nel giro di pochi anni sono già superate. Tecnologie più semplici sembrano rimanere più funzionali e produttive. La classe è una realtà complessa in cui si verificano decine di eventi imprevisti di natura diversa. Tecnologie più antiche, come i libri e la tradizionale lavagna, possono risultare allora più adatte per il loro grado di semplicità e flessibilità. Cuban, inoltre, mette in evidenza il fatto che gli insegnanti sono costretti ad operare delle scelte sulla base di vincoli e di limiti

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imposti dalla situazione in cui operano: sono disposti a modificare il comportamento e l’organizzazione della classe introducendo le tecnologie qualora intravvedano in esse uno strumento che li aiuta a risolvere problemi che percepiscono come rilevanti; sono invece riluttanti verso i cambiamenti che percepiscono come irrilevanti, onerosi o che minacciano la loro autorità nella classe. Facciamo ora uno sforzo di fantasia. Immaginiamo, ad esempio, una lavagna interattiva multimediale appena installata in un’aula scolastica; un insegnante entra nell’aula e per la prima volta vede questo nuovo strumento. Molte saranno le domande che affolleranno legittimamente la sua mente: “Come si usa questo dispositivo? Mi faranno un corso di formazione? E se si rompe mentre faccio lezione? E se un bambino si appende al proiettore? Sarà un dispositivo sicuro? Avrò tempo di cercare risorse digitali da utilizzare con questo strumento? Ma saranno risorse valide o come sempre solo batterie di esercizi a risposta chiusa?”. Domande come queste rimangono spesso senza risposta; in una situazione del genere, non sorprende che gli insegnanti si siano a volte o spesso rivelati poco disposti verso le tecnologie. Forse però il problema più significativo, sottolinea ancora Cuban, è che l’uso della tecnologia è spesso imposto dall’alto, in virtù di decisioni che provengono dall’esterno. Spesso i riformatori pensano che l’innovazione scolastica sia solo una questione tecnica e non comprendono che il cambiamento avviene in modo lento e progressivo. Esiste invece una ‘grammatica’ della scuola in quanto istituzione che tende a resistere alle trasformazioni radicali, in particolar modo quando provengono dall’esterno. Questa grammatica è data, ad esempio, dalla rigida struttura degli orari scolastici e dall’organizzazione inflessibile degli spazi della scuola. Questa rigidità viene spesso criticata dai ‘riformatori’, ma sembrerebbe per certi versi inevitabile, data la missione della scuola di formare un gran numero di persone. Si pensi ad esempio alle discussioni che tutte le volte si riaccendono, quando si tratta di decidere dove collocare le attrezzature nello spazio scolastico: gli educatori progressisti si lamentano del fatto che i PC vengano confinati nei laboratori con orari da rispettare per specifiche lezioni, limitando gli usi e le possibili integrazioni nel curriculum; l’alternativa sarebbe quella di fornire un portatile per ogni studente in classe, ma questo potrebbe sollevare grossi problemi di gestione per gli insegnanti che potrebbero ritrovarsi costretti

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a dover dedicare gran parte del loro tempo a risolvere problemi tecnici di uso dei computer. Infine, la ricerca mostra come anche le visioni di fondo degli insegnanti abbiano un loro ruolo importante: in alcuni casi, l’uso delle tecnologie può entrare in conflitto con credenze profonde degli insegnanti quali ad esempio quelle relative all’insostituibilità del rapporto umano diretto; spesso coloro che integrano le tecnologie nelle loro pratiche didattiche lo fanno in virtù delle loro credenze filosofiche sull’insegnamento o sulla natura di ciò che insegnano. Conclusioni E’ indubbio che la nostra società contemporanea stia attraversando un processo di profonda e rapida trasformazione, influenzato in larga misura dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. L’avvento del computer dagli anni ’80, seguito poi da Internet negli anni ’90, ha dato un forte impulso alla digitalizzazione di gran parte delle nostre attività, suscitando anche molte aspettative sul potenziale trasformativo dei nuovi media digitali. In questo contesto, negli ultimi dieci anni, un numero consistente di commentatori ha sostenuto la necessità di un radicale e drastico cambiamento della scuola sul versante tecnologico, pena la sua stessa esistenza e credibilità: in queste prospettive, la “scuola digitale” è un bene inevitabile, giustificato sulla base delle aspettative dei nuovi studenti, i cosiddetti “nativi digitali” o “New Millenium Learners”, sempre più delusi dai loro insegnanti, che non capiscono i loro linguaggi né le loro pratiche cognitive e sociali. In realtà, si tratta di tesi in parte semplicistiche e, comunque, non in linea con i risultati emergenti da un corpus consistente di ricerche. Sintetizzando. Sul versante degli studenti, le indagini rivelano che essi utilizzano un numero molto limitato di strumentazioni tecnologiche per attività di apprendimento formale o informale; inoltre, i New Millennium Learners sembrano del tutto consapevoli delle differenze tra scuola ed extra-scuola negli usi delle tecnologie, ma accettano pragmaticamente queste discontinuità. Sul versante degli insegnanti, pur nella diversità degli approcci che caratterizzano e differenziano i loro atteggiamenti, un dato emergente

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dalla ricerca è che la mancata adozione delle nuove strumentazioni nella prassi didattica non è tanto imputabile alla pigrizia o alla tecnofobia, quanto a motivate ragioni professionali. Le tesi di Prensky (e altri commentatori) sulla scuola digitale non tengono conto dei risultati sopra richiamati e rischiano, da un lato, di demonizzare e delegittimare il mondo adulto ed, in particolare, gli insegnanti, e dall’altro, di banalizzare il problema dell’innovazione tecnologica della scuola. Crediamo che la scuola abbia bisogno di rinnovarsi, la strada dell’innovazione rimane, però, una sfida seria da affrontare con cautela e prudenza, ma soprattutto sulla base di rigorosi riscontri ed evidenze che la ricerca educativa ha il dovere di offrire. Bibliografia BANDURA A., Social learning Theories, Englewood Cliffs, Prentice Hall, New Jersey, 1977. BENNETT S., MATON K., KERVIN L., The ‘digital natives’ debate. A critical review of the evidence, in British Journal of Educational Technology, 39, 6, 2008, pp. 775-786. BUCKINGHAM D., Beyond Technology. Children’s learning in the age of digital culture, Polity Pres, Malden, MA, 2007. CALVANI A., FINI A., RANIERI M. (2010), La competenza digitale nella scuola. Modelli per valutarla e svilupparla, Erickson, Trento, 2010. CARON A. H., CARONIA L., The cultural dimensions f the adoption of the “iPods” in Higher Education, IADIS International Journal on WWW/Internet, 6, 2, pp. 73-89. COHEN S., Folk Devils and Moral Panics, London, MacGibbon and Kee, 1972. CUBAN L., Teachers and Machines. The Classroom Use of Technology Since 1920, Teachers College Press, Columbia University, New York and London, 1986. CUBAN L., Oversold and Underused: Computers in the Classroom, Teachers College Press, Columbia University, New York and London, 2001.

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