Novena

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A cura di Federico Settembrini e Raffaella Zama

Novena Bernardino e Francesco Zaganelli Franco Pozzi - Nicola Samorì

Storie di un Cristo Portacroce acquisito

tra varianti antiche e meditazioni contemporanee Bernardino e Francesco Zaganelli - Franco Pozzi - Nicola Samorì

Novena



Comune di Cotignola / Museo Civico Luigi Varoli

Novena Bernardino e Francesco Zaganelli Franco Pozzi - Nicola Samorì

Storie di un Cristo Portacroce acquisito tra varianti antiche e meditazioni contemporanee A cura di Federico Settembrini e Raffaella Zama


Ringraziamenti L’ambizioso progetto di riportare a Cotignola il Cristo portacroce degli Zaganelli, si è avvalso del contributo corale di tutti quanti, a diverso titolo, lo hanno reso realizzabile. I curatori desiderano esprimere un particolare ringraziamento a Claudia Zamboni, per aver voluto il ritorno dell’opera nella sua terra, agli amici di sempre Alessandro Giovanardi e Massimo Pulini, per il loro prezioso intervento in catalogo e nondimeno al giovane Giorgio Martini per aver ricomposto il quadro storico-critico della vicenda. Con massima gratitudine, ricordiamo l’apporto significativo dato all’evento dagli artisti Franco Pozzi e Nicola Samorì, attraverso i quali l’opera antica rivive una nuova stagione, dal fotografo Daniele Casadio per l’accurata rassegna fotografica e dai prestatori dei dipinti degli Zaganelli, Antonella Imolesi, Gianpaolo Pozzi e G. P., che hanno permesso di ampliare il confronto. Si ringraziano inoltre, Marilena Benini, per il prezioso lavoro di editing, i sostenitori e le associazioni coinvolte, Anna Attiliani, Antonietta Di Carluccio, Michela Fanelli dell’Ufficio Cultura e specialmente Massimiliano Fabbri per il coordinamento e per il testo di chiusura in catalogo, che proietta il progetto verso il futuro.

Referenze fotografiche © BPER Banca, Modena © Comune di Cotignola, Daniele Casadio Fotografo © Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini © Ministero dei beni e delle attività culturali, Museo Nazionale Palazzo Venezia, Roma © Musei Civici di Monza © Museo di Stato, Repubblica di San Marino © Philadelphia Museum of Art, Filadelfia Il Comune di Cotignola rimane a disposizione per gli eventuali diritti sulle immagini pubblicate

© Museo Civico Luigi Varoli museovaroli@comune.cotignola.ra.it www.museovaroli.it ISBN: 978-88-944950-7-2


Comune di Cotignola – Museo Civico Luigi Varoli

Novena

Bernardino e Francesco Zaganelli Franco Pozzi – Nicola Samorì Storie di un Cristo Portacroce acquisito tra varianti antiche e meditazioni contemporanee A cura di Federico Settembrini e Raffaella Zama Inaugurazione sabato 11 dicembre 2021 11.12.2021 – 6.3.2022 Palazzo Sforza, corso Sforza 21 testi in catalogo di Massimiliano Fabbri Alessandro Giovanardi Giorgio Martini Massimo Pulini Raffaella Zama grafica catalogo e comunicazione Marilena Benini ufficio stampa Sara Zolla

sindaco Luca Piovaccari vicesindaco Pier Luca Baldini assessore cultura e istruzione Federico Settembrini assessora al bilancio Laura Monti

trasporti Ivan Mazzoni

assessora alle pari opportunità e politiche sociali Barbara Nannini

stampato nel dicembre 2021 da Modulgrafica Forlì

dirigente settore cultura Antonietta Di Carluccio direttore artistico museo civico e scuola arti e mestieri Massimiliano Fabbri area cultura e comunicazione Anna Attiliani Michela Fanelli urp Stefano Seganti Daniela Foralosso

allestimenti Filippo Campagnoni Antonio Cattani Domenico Pirazzini aperture sedi espositive visite guidate laboratori e didattica Pamela Casadio Alice Iaquinta Gioele Melandri Cecilia Pirazzini Arianna Zama sostenitore del progetto espositivo Hera Spa il dipinto di Bernardino e Francesco Zaganelli è stato acquisito grazie al contributo di Associazione Amici per gli altri, Cotignola Associazione Pro Loco, Cotignola La BCC Ravennate, Forlivese e Imolese Soc. Coop Maria Cecilia Hospital


Presentazione

È con grande emozione che presentiamo al pubblico questa mostra così preziosa e unica per Cotignola. Preziosa perché per la prima volta contiene un’opera realizzata oltre 500 anni fa, che il nostro museo ha recentemente acquisito. Unica perché, come tutte le nostre mostre, si articola attraverso pezzi antichi che dialogo con altri contemporanei realizzati appositamente per l’evento. Abbiamo sempre pensato che i musei non dovessero essere luoghi statici e polverosi, ma bensì spazi vivi e dinamici pronti ad aprirsi all’esterno. Per questo abbiamo concepito anche il nostro Museo Varoli come un laboratorio sempre disponibile ad ospitare contaminazioni con tutte le forme d’arte. Questo ci ha consentito di rinnovare continuamente le nostre proposte, illuminandole di una luce sempre nuova perché frutto del lavoro di artisti contemporanei che sono entrati nel Museo reinterpretando, con la loro sensibilità, spazi e opere già esistenti al suo interno. Con lo stesso spirito abbiamo concepito questa Novena, in cui i dipinti degli Zaganelli si arricchiscono dal confronto con le opere di due grandi artisti contemporanei come Franco Pozzi e Nicola Samorì. Siamo molto soddisfatti del risultato di questo dialogo e non vediamo l’ora di raccogliere i pensieri, le emozioni e le sensazioni che questa mostra saprà suscitare nelle tante persone che verranno a visitarla. Ogni mostra, infatti, non è solo la conclusione di un articolato lavoro preparatorio, ma è anche e soprattutto un’occasione di confronto tra il pubblico e le opere esposte, fondamentale per alimentare e generare nuovi progetti futuri. Luca Piovaccari Sindaco di Cotignola

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Dall’inizio del mio primo mandato politico, parliamo di giugno 2014, al quale ne è seguito un secondo iniziato nel 2019 e tutt’ora in corso, ho subito condiviso con l’amica Raffaella Zama il desiderio e l’obiettivo di riportare a Cotignola un’opera dei nostri più grandi pittori del Rinascimento, Bernardino e Francesco Zaganelli e Girolamo Marchesi. Diversi sono stati i tentativi andati in fumo e in tutta franchezza, negli anni, la mia spinta emotiva si era pian piano affievolita. Il 7 dicembre del 2020, Raffaella mi informava di una collezionista in possesso di un dipinto degli Zaganelli, interessata alla vendita. In un primo momento decisi di non avviare alcuna interlocuzione, poi, dopo due notti di sonni travagliati e apparizioni zaganelliane, chiesi a Raffaella di contattare la collezionista, per ottenere tempo a favore di un ulteriore tentativo. In primis, mi aggiudicai il parere favorevole dal Sindaco e dalla giunta intera. Credo di averlo ottenuto per sfiancamento. Ammetto in questa sede che in precedenza le mie pressioni erano state piuttosto logoranti. In seconda battuta e con molto piacere, appresi che la collezionista, in nome del padre, aveva in qualche modo deciso di mettere da parte gli interessi di famiglia a favore del ritorno in patria del dipinto. Dunque, a un anno di distanza dalla prima interlocuzione, è grazie a Raffaella Zama, alla famiglia Zamboni, ai colleghi di giunta, agli uffici di riferimento e in ultimo, ma non per importanza, a una serie di sponsor quali Maria Cecilia Hospital, La BCC Ravennate, Forlivese e Imolese Soc. Coop, alle associazioni Pro Loco e Amici per gli altri di Cotignola, che dopo 500 anni un’opera di Bernardino e Francesco Zaganelli torna nel paese natale. Una volta acquisito il dipinto, il passo successivo è stato immediato, trovando le sue premesse in “Selvatico”, un’esperienza dedicata alla scena dell’arte contemporanea, e nel seguente progetto “Inventario Varoli”, grazie al quale diversi artisti hanno sviluppato il loro lavoro osservando i molteplici pezzi d’arte, di artigianato o chincaglierie varie raccolte da Luigi Varoli. Ci è parso lineare, infatti, presentare lo Zaganelli coerentemente al percorso che ha caratterizzato l’attività culturale cotignolese di questi ultimi quindici anni. Dunque agli artisti Franco Pozzi e Nicola Samorì il compito di accogliere il nostro Cristo portacroce di Bernardino e Francesco Zaganelli. Novena è il titolo della mostra, Novena è un’attività di devozione cristiana che prevede nove giorni di preghiera in funzione della celebrazione di una solennità, nove sono le versioni di questo soggetto degli Zaganelli finora ritrovate, nove sono le opere in mostra. Ogni opera è una sorta di preghiera. Mentre scrivo ho la pelle d’oca. Per me è di forte impatto pensare al Cristo portacroce degli Zaganelli, come arricchimento del nostro patrimonio culturale, d’ora in avanti. A proposito. Nelle prime righe ho citato Girolamo Marchesi, un gran pittore, al pari degli Zaganelli. Le sue opere sono esposte nei più importanti musei d’arte del mondo. Certo che un bel Marchesi a Cotignola… Federico Settembrini Assessore Cultura e Istruzione 7


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Raffaella Zama

Autobiografia di un ritorno

Era il 1996, due anni dopo la pubblicazione del catalogo “Gli Zaganelli. Bernardino e Francesco pittori”, quando una domenica pomeriggio di primavera ricevevo da parte di Michele Bassi – figura a me cara come guida per gli studi locali – l’invito a raggiungerlo per un incontro. Nel suo studio mi presentava un forestiero appena conosciuto: il pittore bolognese Giorgio Zamboni. Era giunto a Cotignola per rendere noto di essere in possesso di un dipinto di Francesco Zaganelli, per il quale mostrava una debole fotografia. Osservando l’immagine, non ero in grado di capire bene se l’avevo già inserito in catalogo, ma si trattava di un modello a me noto attraverso tre versioni, quasi identiche. Accetto l’invito ad andare a Bologna, per vederlo di persona e non tardo a compiere il viaggio, perché la curiosità avanza: si tratta di una delle tre, o è una quarta versione? Mi addentro nell’appartamento dell’artista, in via Murri. Alle pareti sue grandi tele, qualche pezzo antico, una ceramica ottocentesca, una tela con l’Addolorata evidente copia da Tiziano e finalmente, il dipinto. Dentro un’anconetta architettonica con colonnine e trabeazione, incrocio lo sguardo con una figura a mezzobusto di Cristo che porta la croce e rimango colpita nel profondo. Gli occhi, piuttosto arrossati, sono potentemente comunicativi di una condizione dolorosa, il volto è intensamente drammatico e infonde un forte senso di pathos. Quegli occhi arrossati mi rimangono impressi e non li scordo mai più. Per il resto prendo appunti: “Manto rosso, veste bianca con bordo oro, sangue cola sulla fronte, riccioli che scendono sulle spalle, particolari minuziosi e curiosi, pelo al lato sinistro della bocca”. Un pelo. È come fosse la prima volta che vedo quel dipinto. Ne annoto i colori e mi soffermo sui dettagli, perché le tre versioni inserite in catalogo mi sono note solo tramite vecchie fotografie in bianco e nero, sono foto di foto, di scarsa qualità o di forte contrasto. Il pezzo storicamente più conosciuto, già in collezione Sterbini, come ben delinea in questo volume Giorgio Martini, è sfuggito al mio tentativo di conoscenza diretta nei depositi di Palazzo Venezia e da foto mi è apparso inquietante e quasi spettrale. Il dipinto Zamboni è uguale agli altri, ma una sottile e impercettibile diversità suggerisce trattarsi del quarto della serie. Soffermo ancora lo sguardo, lo osservo con attenzione e mi sale l’impressione di aver espresso, per gli altri tre, un giudizio forse inadeguato o comunque riduttivo. Giorgio Zamboni mi pone una domanda, quella solita del collezionista: “quanto vale?” Io non vendo quadri, li studio, posso solo comunicargli i prezzi di mercato recepiti nel tempo, fino al prezzo più alto raggiunto dal dipinto in copertina al mio volume. Comprendo che ha un legame fortissimo e indissolubile con quel Cristo portacroce, appartiene al suo vissuto e vi è un rapporto di affetti che va oltre la spiritualità dell’immagine e l’aspetto devozionale, per allacciarsi al dipinto in quanto oggetto evocatore di ricordi. Il ricordo di suo padre Epifanio, amministratore del mercante e restauratore Publio Podio, dal quale 9


Testi critici

l’aveva acquisito negli anni ’20-’30 del secolo scorso. Eppure, mi informa d’aver già cercato di vendere il dipinto nel 1985, in un’asta morta sul nascere. Il giorno di apertura, il 17 ottobre, era caduto il governo Craxi e la casa d’aste internazionale non aveva aperto i battenti nella sede romana di Piazza Navona. Il pezzo, registrato con un valore base d’asta di 18-20 milioni di lire ed esposto a partire dai tre giorni precedenti, era quindi ritornato nella sua abituale dimora. Capisco, tuttavia, della necessità del suo possessore di realizzare e della sua alta, altissima aspettativa. Si convince che deve ricavarne una cifra che si aggira fra i 150 e i 200 milioni di lire. Non mi lascia nemmeno spiegare il motivo per cui quella cifra è fuori misura. Certo, il dipinto in sovracoperta alla mia monografia aveva superato di gran lunga quel prezzo, ma si trattava del soggetto principe sul mercato e del capolavoro nel formato destinato a devozione privata, di Francesco Zaganelli. Provo a sussurrare che non lo venderà mai, ma nemmeno mi ascolta. Forse meglio così, penso. Me ne torno a casa con una fotografia a colori, ma i colori non rendono onore all’opera. Sono violenti, non si vedono le sottigliezze esecutive e l’intensità del dipinto viene a meno, ma è meglio di niente. Rarissimo trovare riprodotti i pittori di Cotignola a colori, in quegli anni. Al più presto, preparo una fotocopia a colori e la invio al mio mentore, Federico Zeri. L’immagine, oggi conservata a Bologna nella sua Fototeca mostrava, naturalmente, il peggio del peggio1. Sapevo bene che il professore odiava le fotografie a colori: “anche se può sembrare un paradosso, non riesco a leggere correttamente le fotografie a colori dove ogni dato è affogato in una sorta di minestrone; le riproduzioni a colori impediscono di isolare le forme, di analizzare lo stato di conservazione della superficie”2.

E sapevo altrettanto bene quanto, per quel dipinto, avesse un interesse specifico. Dopo un po’ di giorni, il 16 aprile, mi arrivava la sua risposta. Mantenendo la gentilezza di sempre, il noto conoscitore scriveva: “Il ‘Cristo portacroce’ parrebbe un’antica copia dall’esemplare già Sterbini, oggi nel Museo di Palazzo Venezia a Roma, quadro che io riprodussi nel mio articolo sul Cremonini del Museo di Monza. Questa versione di cui Lei mi invia la foto mi pare molto debole e caricata nel volto e nelle mani, anche se ha tutta l’aria di essere d’epoca”.

L’immagine di Cristo, affogata in quella sorta di minestrone indigesto, impediva a Zeri di esprimere il giudizio perentorio a cui era solito. Le riserve, mantenute con quel suo “mi pare” e “ha tutta l’aria di”, parlano da sole. Nella lettera, tuttavia, Zeri rimarcava di essersi già occupato del caso. Il caso del tutto inconsueto, in cui quel Cristo portacroce riviveva una sua seconda stagione, entro l’immagine di un pittore moderno attivo a Bologna, il Cremonini, come spiega Giorgio Martini. Un’operazione avvenuta a fine Cinquecento, come una sorta di revival, collage e rielaborazione iconica di un prototipo molto noto ed evidentemente piuttosto venerato, che dava conto di come la fama

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1

Unibo, Fondazione Federico Zeri, Fototeca n. 59593.

2

F. Zeri, Confesso che ho sbagliato. Ricordi autobiografici, Milano, Longanesi, 1995, pp. 127-128.


Raffaella Zama

delle ‘antiche’ repliche zaganelliane si fosse mantenuta viva per quasi un secolo. Non solo, la carica pietistica espressa dagli Zaganelli, il misticismo di stampo riformista dell’immagine, dimostravano a distanza di tempo di sposare perfettamente gli ideali della Controriforma a cui il Cremonini era particolarmente tenuto, gravitando sulla città del cardinal Paleotti, figura centrale della riforma tridentina e normativa per le immagini sacre. Dopo tre anni di tentativi, nel 1999, Zamboni non era ancora riuscito a piazzare il suo dipinto e mi chiamava per un expertise. Il motivo della sua richiesta era forse dovuto al fatto che la mia perizia avrebbe costituito un’autentica, affinché qualcuno non intendesse trattarsi di una copia tratta dalle altre versioni, ma se pensava in tal modo di motivare la cifra che andava chiedendo, si sbagliava di grosso. Ancora molti anni dopo, infatti, il Portacroce era appeso allo stesso chiodo. Nel dicembre 2010, mi giungeva notizia del dipinto attraverso un antiquario, conosciuto nel frattempo grazie ad uno Zaganelli che mi aveva portato fino a casa. Così mi scriveva: “la cifra di richiesta non trattabile è di Euro 100.000,00 (centomila) mi sembra un po’ eccessivo”. Ormai ero certa che Zamboni, in realtà non volesse proprio vendere, o perlomeno non a chicchessia, fin quando nel febbraio 2012 ebbi la notizia del suo decesso. La figlia Claudia mi chiamò per segnalare anche la scomparsa del dipinto. Avrei dovuto informarla qualora lo avessi visto sul mercato antiquario. Mi riapparve ad una vendita all’asta a Bologna nel 2018. Claudia aveva ritrovato lo Zaganelli ed era stata lei a metterlo presso Gregory’s, ma il dipinto, presentato con una base d’asta di 25-45 mila euro, rimase invenduto. Claudia mi richiamò chiedendo aiuto. È sempre difficile far capire che chi studia quadri, in genere non ha pratiche né interessi di mercato, ma compresi la sua forte necessità di vendere. Davanti all’immagine - mi raccontava -, suo padre, cefalalgico grave, si apriva a un dialogo di reciproca sofferenza. E pregava. Lei, invece, era cresciuta con il nonno Epifanio, francescano laico, recitando il rosario davanti al dipinto, conservato nel suo studio. Lo sguardo di bambina, aveva certamente indagato le pennellate finissime come filamenti sul viso di Cristo e mosso il suo animo verso il mestiere che avrebbe fatto da grande. Un mestiere basato sull’arte di raffinati dettagli, quello di cesellatrice orafo argentiere. Vuole realizzare. Claudia ha avuto in eredità un pezzo impregnato di affettuosi ricordi, ma anche di sofferenze familiari di più ampio respiro. Esprime, tuttavia, il desiderio di mantenere un filo con il suo Cristo portacroce, un filo che la lega al passato e tanto avrebbe voluto far scorrere verso il futuro, suo figlio. Claudia riavvolge e ancora riavvolge il filo e rivede suo padre. Suo padre la porta laddove era andato, dove questo racconto è iniziato.

Un pelo venuto dal Nord Come già osservato, le peculiarità dei vari Cristo portacroce non trasparivano dalle fotografie e solo lo sguardo diretto sulla quarta versione aveva messo in luce una qualità ben più alta. O perlomeno, mantenendo le dovute riserve sulle versioni mai osservate de visu, il dipinto Zamboni evidenzia pienamente la cifra stilistica degli Zaganelli. Una cifra basata su una tecnica pittorica raffinata, fatta di sottili morbidezze e incisivi linearismi, attraverso i quali individuare una partitura tra Bernardino e Francesco risulta impresa ardua. 11


Testi critici

Fig. 1: Bernardino e Francesco Zaganelli, Cristo portacroce (particolare), Cotignola, Museo Civico Luigi Varoli

Fig. 2: Cristo portacroce (particolare), xilografia, in Thomas a Kempis, De imitatione Christi (Ein wäre nachvolgung Cristi), Augsburg, Johann Schobser, 9 Dezember 1493

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Fig. 3: Bernardino e Francesco Zaganelli, Cristo portacroce, Svizzera, Collezione privata


Raffaella Zama

Anche quando i due fratelli lavorano separatamente, tra le delicatezze esecutive e le atmosfere pacate di Bernardino, si innestano le tensioni espressive e i tratti incisori di nordica memoria tipici di Francesco, così come fino all’ultimo respiro di Francesco sopravviverà pur sempre la lezione di Bernardino. Il caso dei Portacroce, tuttavia, si gioca tutto entro il momento di convivenza artistica, quando è ancora un contratto societario di cosiddetta fraternitas a disciplinare il loro rapporto. La società, nella quale Francesco risulta primo intestatario, si scioglierà per cause non note verso il 1516 e i due avanzeranno su strade separate, mantenendo parallelismi e fraterni rapporti. L’Uomo dei dolori tornato nella loro terra natale, riporta sulla sua pelle la superficie dipinta più autentica, come attesta, fra i riccioli cesellati della barba, il pelo fuoriuscito dalla commessura labiale sinistra verso la guancia. Scandito da un lieve e magistrale guizzo di colore, è il dettaglio rivelatore della koinè zaganelliana, il rifiorire di un microcosmo fiammingo nella più aspra Romagna (fig. 1).

Da otto a nove La fortuna del prototipo, probabilmente, deve a sua volta ad un modello xilografico, portatore di alcuni arcaismi pittorici, evidenti nell’incisiva curvatura del collo e nei suoi tre segni orizzontali paralleli. Un’immagine non ritrovata, forse di origine germanica, per la quale può essere puramente evocativa, fra le altre, una stampa xilografica tratta da un incunabolo diffusissimo attraverso varie edizioni (fig. 2). La versione zaganelliana conservata in collezione privata svizzera, reca la testa raggiata, come nella stampa (fig. 3). In ogni caso, la forza espressiva del modello primario - non sappiamo quale sia - racchiude in sé il mistero della sua fama e quello del suo straordinario moltiplicarsi su tavole o tele, oggi disseminate nel mondo. L’ultima versione - e sulla questione rimando nuovamente al testo di Martini - mi raggiunse dalla Catalogna nel 2015. Era l’ottava di un caso sempre più inestricabile e apparentemente senza fine. E infatti, è l’anno corrente e siamo nel pieno del Tempo liturgico della Passione di Cristo, quando il dipinto acquisito è appena arrivato da Bologna. Dall’Austria mi giunge un contatto sconosciuto. Reca con sé un allegato, quasi commovente. Non vi era Tempo migliore per il numero nove. Cotignola, novembre 2021 Raffaella Zama

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L’opera acquisita

Bernardino e Francesco di Bosio Zaganelli Cristo portacroce tela, 1510 circa Cotignola, Museo Civico Luigi Varoli

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Giorgio Martini

La serie dei Cristo portacroce degli Zaganelli. Un’analisi storico-critica tra modelli e interpretazioni

La felice opportunità che ha permesso al Comune di Cotignola il ritrovamento e successivo acquisto di un Cristo portacroce opera dei pittori cotignolesi Bernardino e Francesco Zaganelli è alla base di questo intervento, in cui si vuole fare il punto sulla complessa vicenda che ha portato alla riscoperta di una serie singolare di dipinti, senza dubbio di notevole successo, all’interno del contesto artistico romagnolo.

Genesi e diffusione del tema nella pittura del Cinquecento in Romagna: alcuni casi illustri

Fig. 1: Pittore romagnolo, Cristo portacroce, inizi del XVI secolo, tempera su tavola, cm. 38x27, Modena, Collezione BPER Banca

Il soggetto del Cristo portacroce obbedisce a una soluzione devozionale di origine nordica, diffusasi in particolare in area veneta e lombarda. Ne è un esempio la xilografia, la cui matrice in passato si riconosceva in un legno conservato nel fondo Soliani presso la Galleria Estense di Modena, nota attraverso due esemplari rintracciati a Berlino e Boston. La fortuna iconografica di quest’immagine, data la sua funzione popolare e devozionale, fu tale da ritenersi necessaria una sua traduzione in pittura1. Ben presto il tema incontra grande fortuna in area emiliano-romagnola, come dimostra la bella tavola conservata a Modena (Fig. 1), in cui l’anonimo artista rivela ancora un’aderenza qualitativa tipica del finire del XV secolo, “come testimoniano il ricorso a una pittura cromatica basata sulla contrapposizione di colori interi, la nitida incidenza delle ombre e la stesura smaltata e compatta”2. Interessante, sebbene con un minor temperamento espressivo, è il coevo impiego del tema da parte di Marco Palmezzano (Fig. 2), tale da

1 Per un approfondimento sulla diffusione del Cristo portacroce nell’Italia centro-settentrionale si rimanda a: L. Aldovini, La stampa con il Cristo portacroce e la trasmissione dei modelli nell’arte lombarda tra fine XV e inizio XVI secolo, in V. Gheroldi, L’Andata al Calvario di Marco Palmezzano: restauri, ricerche, interpretazioni: atti della Giornata di studi (Lovere, Accademia Tadini, 29 settembre 2012), Lovere, Accademia di Belle Arti Tadini, 2014, pp. 87-91. 2 Per la scheda del dipinto si veda: Banca Popolare dell’Emilia-Romagna. La Collezione dei dipinti antichi, a cura di D. Benati e L. Peruzzi, Milano 2006.

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Testi critici

Fig. 2: Marco Palmezzano, Cristo portacroce, 1520, olio su tavola, cm. 61x67, già Firenze, Pandolfini, asta 8 giugno 2021, lotto n. 25

Fig. 3: Girolamo Marchesi, Cristo portacroce (particolare), primo decennio del XVI secolo, tavola, cm. 20,9x42,3, già Vienna, Dorotheum, asta 13 ottobre 2010, lotto n. 303

renderlo uno dei suoi soggetti più famosi e richiesti, che rielaborò3 a partire dai primi decenni del Cinquecento, proponendolo in composizioni variate principalmente nel numero dei personaggi presenti e nello sfondo, contraddistinto da una stesura uniforme o dall’aggiunta del paesaggio4. Infine, Girolamo Marchesi invece eredita il modello dalla bottega degli Zaganelli, di cui è allievo, rielaborando in risultati di sicuro successo. Interessante è a questo proposito un esemplare emerso nel mercato antiquario, giustamente ricondotto a un momento giovanile del Marchesi, prossimo allo stile nordicizzante di Francesco (Fig. 3). Allo stesso modo, le due versioni conservate a Roma e Avignone rivelano la conoscenza di “schemi veneti, ferraresi e palmezzaneschi di altre numerose repliche uscite dalla loro bottega”5, sebbene sia evidente un rifacimento a 3 Sulla produzione seriale dei Cristo Portacroce di Marco Palmezzano si rimanda a: A. Mazza, La Galleria dei dipinti antichi della Cassa di Risparmio di Cesena, Milano, 2001; Marco Palmezzano. Il Rinascimento nelle Romagne, catalogo a cura di A. Paolucci, L. Prati, S. Tumidei, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2005; V. Gheroldi, Ibidem. Circa venti esemplari, prodotti anche con il supporto di una ben organizzata bottega, sono stati catalogati da Angelo Mazza nel 2001, in relazione alla versione conservata presso la Galleria dei dipinti antichi della Fondazione e della Cassa di Risparmio di Cesena, dopo che già nel 1954 Carlo Grigioni ne aveva classificato un buon numero, distinguendone il soggetto, Cristo portacroce o Andata al Calvario, in base all’eventuale presenza di altri personaggi in aggiunta al Cristo dolente. Il più antico esemplare noto sembra essere il Cristo di Berlino già in collezione Giustiniani, datato 1503, e ripetuto pur con lievi differenze fisionomiche fino al 1539, anno della morte. 4 Tra le più note composizioni a tre figure in aggiunta al Cristo (identificate come Nicodemo e Giovanni d’Arimatea, oltre al “manigoldo” che lo trascina legato a una corda) si ricorda la versione nella Pinacoteca Civica di Forlì, datata 1535, caratterizzata dalla presenza del paesaggio sullo sfondo. Più frequente invece il fondo scuro, talvolta marmorizzato ma più spesso uniforme, un evidente richiamo a modelli veneziani mutuati da Giovanni Bellini, che Palmezzano ebbe modo di conoscere in occasione del soggiorno nella città lagunare nel 1495. 5 Nello specifico Rezio Buscaroli ritiene, per le due tavole del Marchesi, di poter fare riferimento al modello speculare conservato al Museo di Palazzo Venezia a Roma, già in collezione Sterbini. Massimo Ferretti al contrario sostiene una maggior caratterizzazione derivata dal Palmezzano piuttosto che dai due Zaganelli. Su un approfondimento critico delle tre tavole: R. Zama, Girolamo Marchesi, Rimini, Luisè Editore, 2007; A.

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partire da un modello uscito dalla scuola cotignolese, nonostante il parere di parte della critica che rileva una maggiore banalizzazione delle forme, ben distinte dalle più “acerbe stilizzazioni dei suoi due maestri”6.

Fortuna critica dei Cristo portacroce della bottega degli Zaganelli La scuola di Cotignola era particolarmente apprezzata per la diffusione di questo genere, destinato a committenti ecclesiali e privati, per via del formato medio-piccolo delle tavole, che ne favoriva una più ampia circolazione. Nella produzione seriale di queste immagini valeva per gli Zaganelli la stessa regola in vigore nelle botteghe veneziane, dove il prototipo del maestro veniva riprodotFig. 4: Bernardino e Francesco to dagli allievi, naturalmente sotto la sua supervisione e Zaganelli, Cristo portacroce, primo possibile collaborazione, soprattutto nelle fasi di finitura decennio del XVI secolo, tavola, cm. 50x42, Roma, Museo Nazionale di dell’opera. Palazzo Venezia La loro fama non conosce interruzioni durante la prima (Per gentile concessione dell’Istituto metà del Cinquecento, se infatti ancora Vasari, docuautonomo Vittoriano mentato a Ravenna nel 1548, si ricorda, nella seconda e Palazzo Venezia, Museo Nazionale edizione delle Vite, in conclusione della vita di Francesco del Palazzo di Venezia) da Cotignola, di una tavola con un “Gesù Cristo quando e’ porta la croce”, dipinta per gli Osservanti di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, lasciata incompiuta nel 15327. Le ricerche finora condotte non consentono di risalire a quale delle molte variazioni sul tema appartenesse l’opera citata dallo storiografo aretino, ma è indicativa della fortuna di un genere, che gli Zaganelli hanno saputo elaborare in numerose varianti. Dopo secoli di oblio critico-storiografico, nel ventesimo secolo si riaccende lo stimolo ad indagare su queste produzioni, e dobbiamo ad Adolfo Venturi il merito di aver riscoperto il primo di questa serie fortunata di Portacroce. Egli, infatti, redigendo il catalogo della Galleria Sterbini di Roma, analizza un bell’esemplare, oggi conservato nel Museo Nazionale di Palazzo Venezia (Fig. 4). Lo studioso vi riscontrava un derivato della scuola veneziana, ma in cui Francesco aveva aggiunto “la rudezza dell’anima sua romagnola”, rendendo il Cristo più espressivo, decisamente lontano dalle serafiche rappresentazioni prodotte in terra lagunare8. La paternità dell’opera a Francesco è confermata in seguito da Federico Zeri, all’interno di un interessante saggio pubblicato su Paragone9, nel quale lo studioso proponeva il confronto tra Donati, Girolamo Marchesi da Cotignola, San Marino, 2007. 6

R. Zama, Ibidem, p. 121.

7 G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, 1568, ed. a cura di G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 1880, pp. 255-256. 8

A. Venturi, La Galleria Sterbini di Roma, Roma, Casa Editrice de l’Arte, 1906, pp. 191-195.

9 F. Zeri, ‘Antico e moderno’ nel tardo Cinquecento: una tela nella Pinacoteca di Monza, in Paragone, Firenze, Mandragora, n. 244, 1984, pp. 10-14.

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Testi critici

Fig. 5: Giovanni Battista Cremonini, Andata al Calvario, anni Novanta del XVI secolo, olio su tela, cm. 66x83, Monza, Raccolte Civiche di Villa Reale

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Giorgio Martini

questo e un altro dipinto della serie, proveniente dalla collezione della Contessa Mobili di San Giovanni, reso noto precedentemente da Wilhelm Suida10, con un’Andata al Calvario dei Musei Civici di Monza (Fig. 5). Inizialmente attribuita a Bartolomeo Maineri, l’Andata al Calvario è poi riferita ad un anonimo autore emiliano del primo quarto del XVI secolo, ma è l’occhio acuto e imperscrutabile del conoscitore a riconoscere correttamente la mano del centese Giovanni Battista Cremonini11, ad una datazione quindi più prossima allo scadere del Cinquecento. La curiosità del dipinto, come Zeri rimarcava, consiste nella stretta dipendenza da un modello zaganelliano12, che si colloca tra «il revival, il collage simbolico e la rielaborazione iconica di un venerato prototipo». Lo studioso, infatti, considerava come l’immagine presa a modello per Fig. 6: Bernardino e Francesco il Portacroce (scelto tra i due esemplari a lui noti ascritti Zaganelli, Cristo portacroce, primo agli Zaganelli) avesse costituito in passato il centro di un decennio del XVI secolo, tela, cm. santuario o di un altare, che ne avrebbe permesso una 46x37, già Firenze, Pandolfini, asta più rapida diffusione. Sulla base delle versioni finora rin15 maggio 2018, lotto n. 5, già collezione Emilio Visconti Venosta, tracciate, pare sia plausibile collegare all’esemplare già già collezione Sangiorgi Mobili di San Giovanni, ora in collezione privata13. Una decina d’anni dopo l’intervento di Zeri è Raffaella Zama, con la sua fondamentale opera monografica sui due fratelli di Cotignola, seguita dal successivo volume sull’allievo Girolamo Marchesi, a realizzare una prima ricostruzione del catalogo delle loro opere, rendendo noto tra le altre anche due nuove versioni, riemerse dal mercato antiquariale, e di cui il secondo è l’opera che possiamo ammirare dentro le collezioni artistiche di Cotignola14. Segue un articolo di Antonella Imolesi Pozzi, in cui include due opere fino ad allora inedite, una già in collezione Visconti Venosta (Fig. 6), messa all’asta da Pandolfini nel 2007 e di nuo10 W. Suida, Francesco Zaganelli von Cotignola un die deutsche Kunst, in Zeitschrift für bildende Kunst, LXIV (1930-1931), pp. 248-251. 11 Sulla vicenda critica del dipinto: L. Caramel, Musei di Monza. Museo Civico dell’Arengario. Pinacoteca Civica alla Villa Reale, Milano, Electa Editrice, 1981, p. 30, n. cat. 163; F. Zeri, Ibidem, pp.10-14. 12 Credo sia inedito il memorandum, pubblicato online dalla Fondazione Zeri, scritto da Federico Zeri in una data imprecisata, ma sicuramente anteriore alla pubblicazione dell’articolo su Paragone (1984), in cui egli aveva riconosciuto nel dipinto di Monza un’interpretazione dell’esemplare di Francesco del Museo di Palazzo Venezia, già in collezione Sterbini, e attribuito in passato a Bartolomeo Maineri. 13 Non a caso la vicinanza dell’Andata al Calvario di Monza e l’esemplare già Mobili di San Giovanni era stata presa in considerazione nel catalogo della Pinacoteca di Monza (L. Caramel, Ibidem), in cui le due opere venivano assegnate alla stessa bottega, nel primo caso a Bartolomeo Maineri, nel secondo a Jacopino. Sovrapponibile, infatti, risulta l’allineamento degli occhi, e così il modo in cui il pittore lascia ricadere la manica della veste sul braccio destro del Cristo. 14 Il primo esemplare compare per la prima volta in asta da Finarte a Milano nel 1986, con la corretta attribuzione a Francesco Zaganelli, mentre il secondo, già nelle collezioni bolognesi Podio e Zamboni, è stato messo all’asta una prima volta nel 1985 da Christie’s, e nuovamente da Gregory’s nel 2018. Per un focus sui quattro esemplari si veda: R. Zama, Gli Zaganelli, Rimini, Luisè, 1994, pp. 162-164, e R. Zama, Girolamo Marchesi, Rimini, Luisè, p. 88, nota 2.

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Testi critici

Fig. 7: Bernardino e Francesco Zaganelli, Cristo portacroce, primo decennio del XVI secolo, tela, cm. 54x40, Figueres (Catalogna), Casa Museo Tapiola

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Giorgio Martini

vo nel 2018, e un’altra in collezione privata, arrivando a un totale di ben sei versioni, che da questo momento in poi vengono contrassegnate con una lettera, per classificarli secondo la cronologia di pubblicazione e favorirne la distinzione15. Successivamente, Andrei Bliznukov e Raffaella Zama rintracciano due ulteriori testimonianze, provenienti da privati16, incrementando il catalogo zaganelliano e l’interesse verso questa serie di esemplari (Fig. 7). In particolare, persuasiva è la proposta della Zama di collegare la serie di dipinti ad una probabile committenza francescana, confortata dal ricorso ad un’iconografia carica di pathos e forte realismo, mutuata dalle edizioni a stampa delle Meditationes Vitae Christi dello Pseudo-Bonaventura17. Non è facile stabilire, pur disponendo di un numero considerevole di repliche, se una di esse possa fungere da prototipo per le altre. Le differenze tra i vari Cristo portacroce effettivamente sono minime, e si risolvono principalmente in particolari fisionomici, come la resa degli occhi, raffigurati a volte aperti a volte socchiusi, o l’apertura della bocca, fino ad arrivare alla disposizione delle mani sulla croce. Tuttavia, l’episodio centrale è sempre preservato, e lo si può percepire dalla precisione lenticolare con cui sono dipinte le goccioline di sangue che scorrono dal capo coronato di spine di Cristo, evidente richiamo a una tradizione nordica e germanica, congeniale allo spirito pittorico di Francesco. Le opere si presentano in parte su tavola e in parte su tela, lasciando suggerire che il modello di partenza fosse replicato attraverso un cartone, mediante la tecnica dello spolvero. Ciò è determinato dal fatto che le opere presentano dimensioni pressoché simili, mentre oggi differiscono o per degli adattamenti esecutivi originali o per successivi interventi conservativi. Le dimensioni lasciano inoltre suggerire una iniziale destinazione di queste opere ad una devozione individuale, forse legata alla recita dei Misteri Dolorosi del rosario. L’esistenza di una serie sembra in effetti compatibile con la necessità di un qualche monastero, probabilmente francescano data l’aderenza del soggetto alla Passio Christi, di dotare le celle dei monaci di immagini caratterizzate da una forte carica devozionale ed intimistica18. Lo studio sempre più aggiornato sugli Zaganelli, “il fiore più fragrante della cultura figurativa cresciuta in Romagna”19, unito alla disponibilità del mercato antiquariale di far emergere inedite prove di questa prolifica scuola, ha permesso finora di recuperare otto versioni del Cristo portacroce. Ad essi si è aggiunta recentemente una tavola sconosciuta agli studi, come informa Raffaella Zama. Giorgio Martini 15 A. Imolesi Pozzi, La fortuna di un’immagine del Cristo Portacroce della bottega degli Zaganelli, in Romagna Arte e Storia, anno XXXII, n. 94 (gennaio-aprile 2011), pp. 31-40. 16 A. Bliznukov, Madonna and Child Enthroned with Saint Mary Magdalen and Saint Catherine of Alexandria, in The Alana Collection. Italian Paintings from the 14th to 16th century, vol. III, Firenze, Mandragora, 2014, pp. 43-48; R. Zama, Sull’arcivescovo Rinaldo Graziani OFM e l’iconografia dell’Immacolata Concezione in Romagna. Un mecenate per gli Zaganelli fra dispute e riforme del suo tempo, in Romagna Arte e Storia, anno XXXV, n. 103 (gennaio-aprile 2015), pp. 69-74. 17 R. Zama, Ibidem, p. 69. 18 R. Zama, Ibidem, pp. 70-74. 19 R. Longhi, Officina Ferrarese seguita dagli «Ampliamenti» e dai «Nuovi Ampliamenti», 1975, ed. 2019, Milano, Abscondita, p. 261.

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Le nove versioni della serie di Cristo portacroce di Bernardino e Francesco Zaganelli A: Roma, Museo Nazionale Palazzo Venezia, già collezione Sterbini, tavola, cm 50 x 42, (Per gentile concessione dell’Istituto autonomo Vittoriano e Palazzo Venezia, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia)

B: già Milano, Collezione Contessa Mobili di San Giovanni, tavola, cm 60 x 40; Milano, Galleria d’Arte Geri, vendita Mobili di San Giovanni 30 aprile-2 maggio 1929, n. 127, come “Jacopino Maineri”; già Torino, Collezione Claudio Gallo; Milano, Galleria Scopinich, vendita Gallo, 21-22 novembre 1932, n. 139

C: Milano, Finarte, asta 4 novembre 1986, n. 103, tavola, cm 53 x 43, come “Francesco di Bosio Zaganelli”

D: Cotignola, Museo Civico Luigi Varoli; già Bologna, Collezione Giorgio Zamboni, tela, cm 48,5 x 39

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E: già Milano, Collezione Emilio Visconti Venosta; già Roma, Galleria Sangiorgi; Firenze, Pandolfini, asta 10 ottobre 2007, n. 361, tela, cm 46 x 37, come “Cerchia di Francesco Zaganelli”; Firenze, Pandolfini, asta 15 maggio 2018, n. 5, come “Bottega di Francesco e Bernardino Zaganelli”

F: Forlì, Collezione Imolesi Pozzi, tavola, cm 50 x 38

G: Svizzera, Collezione privata, tela, cm 56 x 52

H: Figueres (Catalogna), Casa Museo Tapiola, tela, cm 54 x 40

I: Salisburgo, Collezione privata, tavola, cm 49,6 x 37,7

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Opere in mostra

Bernardino e Francesco di Bosio Zaganelli (Cotignola, not. 1495 - Imola 1519; Cotignola, not. 1484 - Ravenna 1532) Cristo Portacroce Tela, cm 48,5 x 39 Cotignola, Museo Civico Luigi Varoli L’opera proviene dalla Collezione Zamboni di Bologna. Fu acquistata da Epifanio Zamboni nel 1920-30 dal restauratore bolognese Publio Podio, di cui era amministratore ed è passata poi in eredità al figlio Giorgio. Ad un attento esame della pellicola pittorica, il dipinto non mostra indizi relativi ad un trasporto da tavola avvenuto in passato, come suggerisce Michele Pagani. La stesura, infatti, appare uniforme e in ottimo stato di conservazione. La tela è inserita in una smagliante e meravigliosa cornice ad anconetta intagliata e dorata, riconducibile al sec. XIX. Restauro 1967, Rastignano (Bologna), Adria Gialdini Santunione: pulito e rintelato (memoria orale di G. Zamboni) 2021, Lugo (Ravenna), Michele Pagani: lieve pulitura e ritocchi pittorici perimetrali Aste Christie’s, Roma, 17 ottobre 1985, n 164, come Francesco Zaganelli Gregory’s, Bologna, 22 marzo 2018, lotto 89, come Francesco Zaganelli Bibliografia Dipinti, disegni e stampe, Roma, Christie’s, 17 ottobre 1985, n. 164 R. Zama, Girolamo Marchesi da Cotignola, Rimini, Luisè, 2007, p. 88 A. Imolesi Pozzi, La fortuna di un’immagine del Cristo Portacroce della bottega degli Zaganelli, in “Romagna Arte e Storia”, 94, 2012, pp. 31-40 R. Zama, Sull’arcivescovo Rinaldo Graziani OFM e l’iconografia dell’Immacolata Concezione in Romagna, in “Romagna Arte e Storia”, 103, 2015, pp. 69-72

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Bernardino e Francesco di Bosio Zaganelli (Cotignola, not. 1495 - Imola 1519; Cotignola, not. 1484 - Ravenna 1532)

Bernardino e Francesco di Bosio Zaganelli (Cotignola, not. 1495 - Imola 1519; Cotignola, not. 1484 - Ravenna 1532)

Cristo Portacroce Tavola, cm 50 x 38

Cristo Portacroce Tavola, cm 49,6 x 37,7

Forlì, Collezione Imolesi Pozzi

Salisburgo, Collezione privata

Questa è la sesta versione del Cristo portacroce, riemersa una decina di anni fa sul mercato antiquario. È stata pubblicata per la prima volta da chi la possiede, in un bel saggio che raccoglie la storia pregressa delle repliche note fino a quel momento. L’autrice evidenziava giustamente come ogni replica uscita dalla bottega degli Zaganelli, fosse caratterizzata da “un’evidente diversità dello ‘spirito’ che anima il volto di Cristo”. La tavola nel suo insieme appare ben conservata e presenta alcuni preziosi dettagli, particolarmente visibili nei riccioli della barba che emergono dall’oscurità, tuttavia un intervento di pulitura potrebbe consentire alla stesura originale di riaffiorare in superficie rivelando nuove finezze esecutive.

Il dipinto è recentemente emerso sul più grande mercato austriaco dell’usato online. Il venditore ha dichiarato che era stato acquistato nel 1961 a Düsseldorf, per circa 1.000 marchi tedeschi. La superficie dipinta è stata riportata al suo miglior stato, grazie ad un intervento di restauro appena portato a termine. Bibliografia Inedito

Bibliografia A. Imolesi Pozzi, La fortuna di un’immagine del Cristo Portacroce della bottega degli Zaganelli, in “Romagna Arte e Storia”, 94, 2012, pp. 31-40 R. Zama, Sull’arcivescovo Rinaldo Graziani OFM e l’iconografia dell’Immacolata Concezione in Romagna, in “Romagna Arte e Storia”, 103, 2015, pp. 69-72

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Alessandro Giovanardi

Il Gòlgota cotignolese Note sul Portacroce degli Zaganelli

C’è stato un tempo in cui dipingere significava celebrare misteri, ritornare continuamente a un versetto del testo sacro, all’episodio della vita di un profeta o di un santo, a un nodo essenziale della divina dottrina o dell’esperienza mistica esprimibile solo in figura e in simboli. Ma i pittori non si limitavano, come spesso si dice, a dare forma a un passo delle Scritture, alle agiografie miracolose e leggendarie, ai trattati di Padri e Dottori. Gli artifices (non ancora “artisti”) a creare “didascalie” d’immagini alle parole della fede e della sapienza. I maestri interpretavano, si facevano, coi loro committenti “teologi” e ancor più, s’immedesimavano nel soggetto da rappresentare, tentando di esserne all’altezza, fino a un confronto vertiginoso con l’aspetto tragico dell’evento religioso. Ne fa fede, ancora tra le estreme raffinatezze del Grand Siècle, una lettera di Nicolas Poussin: «Non ho più gioia e salute sufficienti per impegnarmi in soggetti tristi. La Crocifissione mi ha fatto ammalare, ne ho preso molta pena, ma il Portacroce potrebbe uccidermi. Non potrei resistere ai pensieri di cupa afflizione di cui bisogna riempirsi lo spirito e il cuore per riuscire in questi soggetti di per se stessi così tristi e lugubri. Dispensatemene per favore»1. Sembra quasi paradossale che l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, epoca di grandi individualità e di libere invenzioni artistiche, sia stata caratterizzata dalla replica incessante di molti soggetti sacri, come si faceva, e ancora si fa, per le icone della Chiesa orientale. Si tratta certo di “ripetizioni differenti”, simili alle variazioni su un tema musicale, sempre reinterpretato e rinnovato, anche quando si ricorra al medesimo bozzetto in disegno o allo stesso cartone preparatorio. E, tuttavia, non si parla solo dei prodotti di giovani artisti che copiano i manufatti dei grandi maestri, per imitarli e studiarne i segreti, ma di repliche d’autore che i più rinomati pittori dovevano eseguire per rispondere alle richieste, a volte pressanti, di una clientela esigente e dai gusti raffinati. Appartiene a questa categoria il commovente Portacroce uscito dalla bottega di Bernardino e Francesco di Bosio Zaganelli (XV-XVI sec.), recentemente acquisito dal Comune di Cotignola, per ricondurlo nella città natale dei due Maestri. Di quest’invenzione si conoscono ben nove repliche diffuse in collezioni pubbliche e private, tutte di grande valore e interesse critico, attribuite prudenzialmente al lavoro comune, ma in cui traspare l’assimilazione dei modi di Francesco; diverse altre variazioni sul tema infittiscono il catalogo dei due fratelli e della loro bottega2. C’è da chiedersi piuttosto dove nasca questa iconografia che trova tra i suoi maggiori interpreti Giovanni Bellini e molti dei suoi epigoni, Giorgione, Marco Palmezzano, Benedetto Coda e Girolamo Marchesi, il cotignolese discepolo degli Zaganelli (ma la lista sarebbe ben più lunga). L’immagine si spiega con l’altro titolo che correttamente le attribuisce la tradizione: La salita al 1 N. Poussin, Lettere sull’arte, a cura di D. Carrier, tr. it. di P. Tomaselli e R. Profumo, Hestia, Como 1995, p. 83. 2 Vd. R. Zama, Gli Zaganelli, prefazione di F. Zeri, Luisè, Rimini 1994, pp. 143, 154-156, 162-164, 171-172 (e tav. X).

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Testi critici

Fig. 1: Giovanni Baronzio (Rimini, not. 1342-1345), Salita al Calvario, particolare delle Storie di Cristo, parte sinistra del Dossale Corvisieri, 1330-1335, tempera e oro su tavola, Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito al Museo della Città “Luigi Tonini”, Foto Paritani, Archivio Fotografico della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini.

Fig. 2: Giovanni Baronzio (Rimini, not. 1342-1345), Salita al Calvario, 1335 ca., tempera e oro su tavola, collezione privata.

Calvario. Occorre, difatti, guardare un po’ indietro, almeno verso le narrazioni due-trecentesche del doloroso cammino, il Giotto degli Scrovegni e le conseguenti tavole riminesi del XIV secolo, specie quelle dell’ambito di Giovanni Baronzio (figg. 1-2) che raccontano, episodio per episodio, la Passione di Cristo, anticipando, con il loro simbolismo arcano, la forma tradizionale della Via Crucis3. Nella Salita si coglie il soggetto in tutta la sua ampiezza drammaturgica: Gesù, a figura intera, s’arrampica verso il monte del suo sacrificio, circondato dagli aguzzini così come dai discepoli. La scena si sviluppa reinterpretando, come spesso accade, temi svolti nell’arte sacra orientale, dove spesso è il Cireneo a portare la Croce per il Redentore, secondo il racconto dei Vangeli sinottici4, e, diventa uno dei temi più frequentati e apprezzati in Occidente, benché nella forma voluta dal quarto Vangelo che racconta come Cristo portando egli stesso la croce, si avviasse, «verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Gòlgota»5. Tuttavia se in Giotto e in Baronzio lo sguardo del Redentore, con profetica sprezzatura, si rivolge ai discepoli e in particolar modo alle donne in lacrime, le variazioni sul tema del Rinascimento intendono co3 Vd. D. Benati, Giovanni Baronzio nella pittura riminese del Trecento, in Giovanni Baronzio e la pittura a Rimini nel Trecento, catalogo della mostra di Roma, a cura di D. Ferrara, Silvana, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, pp. 17-33; A. Giovanardi, I simboli perenni nel «Dossale Corvisieri» di Giovanni Baronzio, «L’Arco», IV, 3 (2006), Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, pp. 34-47; Id., Giovanni Baronzio pittore e “teologo” della Passione di Cristo, «Parola e Tempo», VI (2007), Verucchio (Rimini), Pazzini, pp. 130-160; Id., Il Mistero Pasquale in Giovanni Baronzio. La pittura riminese del Trecento tra Giotto e Bisanzio, «La Nuova Europa», XVI, 3 (2007), Milano, La Casa di Matriona, pp. 33-49.

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Matteo, 27, 32; Marco, 15, 21-22; Luca, 23, 26.

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Giovanni, 19, 17.


Alessandro Giovanardi

struire un dialogo intimo con lo spettatore, e solo a quest’ultimo, non ad altri, si rivolge il Redentore. Il lavoro degli Zaganelli, che, sulla scia dei veneziani, isola il volto santo in tutta la sua silente eloquenza, consiste nel trasformare in una moderna icona devozionale un episodio della narrazione e questo accade concentrandosi sul volto di Cristo, come su un primo piano (un close-up) fotografico o su un frame cinematografico: la camera ottica del pittore si sofferma sulla mitezza di quel viso sofferente, sulla fronte segnata dalla corona di spine, sulle gocce di sangue, sugli occhi sgranati pronti a raccogliere l’attenzione dello spettatore che è tutt’uno con il fedele6. Si Fig. 3: Madonnaro adriatico, Cristo portacroce, XVI-XVIII sec., concentra altresì sul minuto dettaglio tempera e oro su tavola, Repubblica di San Marino, Museo di della lingua, che appena appare tra Stato. le labbra, distinguendo le versioni degli Zaganelli da altre variazioni sul tema, quasi a cominciare un discorso, annunciare una richiesta di misericordia e d’attenzione, insistendo sul dialogo diretto tra il Redentore e colui che contempla. In effetti, questo è il tempo dove l’intenditore d’arte, il raffinato conoscitore degli stili e dei maestri e l’uomo di preghiera sono spesso la medesima persona in contemplazione, un solo occhio, insieme umido e in cui la cultura umanistica e il desiderio di Dio, la «bellezza spirituale» di cui parla, per esempio, la Regola monastica di sant’Agostino e quella delle forme sensibili sono indissolubilmente connesse. È indispensabile sottolineare come questo sguardo ravvicinato conquisti la pittura d’icone post-bizantina, probabilmente sollecitata da richieste occidentali, fino ad accogliere l’invenzione italiana nel catalogo dei soggetti possibili: ne fa bell’esempio l’icona greca, probabilmente cretese, custodita nel Museo di Stato della Repubblica di San Marino (fig.3), ma s’immagina realizzata per un committente di rito latino, sull’esempio dello stesso modello che, nel Cinquecento, ispira a Rimini Benedetto Coda (fig. 4)7. L’intenzione iconica è data dal rigore atmosferico: la nuda croce, sfiorata da una luce mi6 Cfr. A. Nova, Icona, racconto e «dramatic close up» nei dipinti devozionali di Giovanni Bellini, in Giovanni Bellini, a cura di M. Lucco e G. C. F. Villa, catalogo della mostra di Roma, Silvana, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, pp. 105-115; F. Sarracino, Cristo a Venezia. Pittura e cristologia nel Rinascimento, Marietti, GenovaMilano 2007, p. 127. 7 Vd. Il Museo di Stato della Repubblica di San Marino, a cura di P. G. Pasini, catalogo generale, Motta, Milano 2000, pp. 98-100 (scheda dello stesso Pasini); A. Giovanardi, «Belliniani in Romagna». Benedetto e Bartolomeo Coda nell’arte sacra del primo Cinquecento, «L’Arco», VI, 1 (2008), Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, pp. 29-31. Cfr. Icone dalle collezioni del Museo Nazionale di Ravenna, a cura di G. Pavan, saggio di P. Angiolina Martinelli, catalogo della mostra di Ravenna, Stabilimento Tipografico dei Comuni, Santa Sofia (Forlì-Cesena) 1979, p. 92 (schede di L. Bettini).

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Testi critici

Fig. 4: Benedetto Coda (not. 1489-1535), Cristo portacroce, 1515 ca., tempera su tavola, Rimini, Museo della Città “Luigi Tonini”, Foto Paritani, Archivio Fotografico della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini.

steriosa, a evocare lo spessore vero del legno, e il fondo che vira verso una tenebra metafisica, negatrice di ogni dettaglio paesaggistico, compiono l’isolamento perfetto del volto e del segno. Il nero come in Bellini o in Antonello, ha la stessa funzione che possedeva l’oro bizantino e gotico, e, che avrà più tardi la caligine neutra dei pittori del Seicento: un canto fermo, simile a una nota d’organo prolungata o al gregoriano da cui si diparte una cesellatura polifonica nordica. E, difatti, l’ossuta finezza delle mani ben modellate, restituiteci in tinte drammatiche, il pallore e gli arrossamenti della pelle di un corpo allo stremo delle forze, si accordano all’aspetto livido e sofferente delle palpebre che trattengono stoicamente le lacrime e, chiedendo pietà, in realtà la distribuiscono con larghezza verso gli sguardi e i cuori di un’umanità incrudelita, di un abbruttimento che il pittore, come pure altri fanno, non mostra 32


Alessandro Giovanardi

su quel viso provato e stanco, ma ancora, in definitiva, pienamente bello. La vera e propria sinfonia di velature cromatiche rappresenta tutta una serie di pensieri e di sentimenti patetici coi quali s’impone di prendere parte, di essere discepoli e fedeli, non assassini della Parola fatta carne. Colui che s’appresta alla morte ha già patito terribili umiliazioni: «I soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: Salve, re dei Giudei! E gli davano schiaffi»8. Il cesello raggiunge i minutissimi particolari della barba, fino ai peli indisciplinati intorno alla bocca e alla punta che si biparte a ricordare la natura duplice, teandrica, divino-umana del Salvatore. Con la stessa finezza attende alla chioma, sino ai boccoli più complicati, disegnati con accuratezza da minatore, mentre le stille di sangue gettate sulla chioma e sul collo con feroce meticolosità, acuiscono il contrasto Fig. 5: Bernardino di Bosio Zaganelli (?) tra dolore e bellezza. Gli interpreti sacri dico(not. 1495-1519), Veronica, olio su tavola, inizi del XVI secolo, no che Cristo abbia parlato attraverso il libro Filadelfia, Philadelphia Museum of Arts. dei Salmi: «Io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente»; e, tuttavia, lo stesso Salterio profeticamente proclama: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia»9. Il dipinto deve legare insieme queste due verità, contraddittorie sul piano della logica e dell’esperienza comune: la bellezza è nella generosità dell’eroe, nella perseveranza ascetica del suo mandato di dolore. L’ultima stilla di gloria di un sole invincibile, spogliato della sua potenza ed esposto all’orrore del patibolo. Bernardino e Francesco si sono esercitati su quei testi figurativi, misteriosi e originari, che sono le immagini «acheropite», non fatte da mani d’uomo: il Mandylion costantinopolitano e la Veronica romana, tessuti in cui Gesù avrebbe lasciato il suo sembiante carnale e che, distinti nelle rispettive leggende, si confondono nell’iconografia, sovrapponendo, al volto ferito della passione, l’immagine quieta, frontale del Logos, che è al Principio10. La leggenda vuole che santa Veronica, l’emorroissa di cui scrivono i sinottici, cogliesse su un panno il viso san8

Giovanni, 19, 2-3.

9 Salmi, 22, 6; 44, 3 10 Vd. H. L Kessler, Il «Mandylion», e G. Wolf, «Or fu sì fatta la sembianza vostra?». Sguardi alla «vera icona» e alle sue copie artistiche, in Il Volto di Cristo, a cura di G. Morello e G. Wolf, catalogo della mostra di Roma, Electa, Milano 2000, rispettivamente pp. 67-76 e pp. 103-114 (a pp. 197-198 le schede di A. De Marchi); R. Zama, Gli Zaganelli, cit., pp. 173-174 (e tavv. XV-XVII); Dal Trecento al Novecento. Opere della Fondazione e della Cassa di Risparmio di Rimini, a cura di P. G. Pasini, prefazione di A. Emiliani, Panozzo, Rimini 2005, pp. 42-45 (scheda di A. Mazza).

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Testi critici

guinante di Cristo, durante la salita al Calvario11 (figg. 5-6). Gli Zaganelli secondo la squisita cultura fiamminga che li ha nutriti, mediata anche dalle preziose sofisticherie dei maestri ferraresi e consonante col fare petroso del Palmezzano, si concentrano sulla ricchezza degli abiti, sui giochi di luci e di ombre date dalle loro pieghe e dalle profonde lumeggiature che scolpiscono il tessuto come una lapide pregiata. Ma le vesti, infine, dischiudono una gamma di valori simbolici: svelano verità, decretano destini. La tunica chiara, bordata di un oro vivo e regale, cangiante di bagliori policromi, è un’allusione all’Agnus Dei, senza macchia, la vittima di origine celeste che rimanda al sacrificio eucaristico, prosecuzione incruenta del patibolo della croce; mentre il mantello porpora che fu posto sulle spalle del Redentore per derisione, ricorda di contro ch’Egli è il vero Re del cielo e della terra, degno di tutta la sapienza figurativa dei fratelli cotignolesi. Eppure quel mantello che rifulge come un’alba, si accorda al pianto trattenuto che ne arrossa lo sguardo. Gli occhi nascondono la pazienza di un Dio, dietro le pupille antiche da animale mansueto condotto al macello, «Agnello sgozzato fin dalla fondazione del mondo»12. E queste cromie potenti che ammantano di teologale bellezza il dramma, sembrano voler esplodere come una fioritura precoce. Verrà l’inverno ultimo del patibolo, scenderà la tetra notte della croce, salirà l’odore cupo della terra percossa fino agli inferi; ma le promesse della pittura non saranno proferite invano. Alessandro Giovanardi

11 R. Ferrari, La Veronica, in Iconografia e arte cristiana, a cura di R. Cassanelli ed E. Guerriero, diretto da L. Castelfranchi e M. A. Crippa, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2004, II, pp. 1393-1395; cfr. Matteo, 9, 20-22; Marco, 5, 25-34; Luca, 8, 40-48. 12

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Apocalisse, 13, 8.


Alessandro Giovanardi

Fig. 6: Francesco di Bosio Zaganelli (not. 1484-1532), Santa Veronica, olio su tavola, 1514 ca., Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito al Museo della Città “Luigi Tonini”, Foto Paritani, Archivio Fotografico della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini.

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Massimo Pulini

Le mani nel legno, il legno nelle mani

Ci sono opere che rimangono fisse nel più impervio bilico e sulla cerniera di due epoche, dipinti che sembrano sospendere ogni incedere proprio quando attorno a loro il mondo imprime un’accelerazione. Talvolta contengono anche nel racconto figurato un rimando a questo bisogno di volgere lo sguardo e finiscono per incarnare la materia che li definisce, che data il loro inesorabile, consapevole, ritardo e cionondimeno ne esalta la forza espressiva. Forse in ogni stagione e in ogni luogo del nostro paese votato alle arti si possono registrare eclatanti uscite dal flusso della storia, ma non è un caso che Francesco Arcangeli avesse visto, nella Romagna e nell’arco che si estende tra il Trecento e il Seicento, un esempio di provincia ostinatamente separata dal dominio delle capitali e costantemente divisa tra arcaismo e veggenza. Difficile tuttavia trovare casi più emblematici di quelli offerti da questa esposizione. Nel Cristo portacroce, uscito dalla bottega di Bernardino e Francesco Zaganelli, forse intorno al 1510, sono almeno cinque i livelli sui quali si manifesta questa condizione cardinale. Nell’icona, nel sentimento, nella materia, nella tecnica e nello stile. L’immagine parla di un incedere di Gesù verso il luogo del martirio sotto il peso dello stesso strumento della propria tortura, ma lo sguardo arrossato dal pianto e ruotato sull’asse giunge allo strabismo senza fermarsi all’incontro dei nostri occhi. In varie opere della medesima iconografia oltre alla croce anche il supporto della pittura è di legno, una materia che stava per essere superata dalla tela, allo stesso modo di come la tecnica a tempera sarebbe stata abbandonata a favore dei colori a base oleosa. Lo stile poi del quadro è ancorato a una tradizione veneta che si rifà a Giovanni Bellini e che in Romagna ebbe ampia diffusione grazie a Marco Palmezzano. Proprio questa versione ritrovata si dimostra la più vicina al pittore forlivese tra le nove finora conosciute della serie zaganelliana. Ligneo è pure il trattamento dell’incarnato e il disegno delle forme, cartacei risultano i panni, con spigolosi tornanti di pieghe, mentre cuciti in punto dorato appaiono le stelle filanti dei capelli e di serpi intrecciate sembra fatta la spinosa corona. Ad accogliere il prezioso dipinto, nel suo ritorno alla fonte romagnola, sono stati scelti due artisti che, più di ogni altro della loro epoca, interpretano questo sguardo bifronte, gianicolo lo si potrebbe definire. Anche Franco e Nicola, seppur in modi molto diversi, cercano nell’icona, nel sentimento, nelle materie, nelle tecniche e nello stile la marcatura di un passo che si sgancia dalla corrente. Ognuno sembra allestire un differente cenotafio, si dispiegano così a Cotignola, per un Natale da terzo millennio, due apparati funebri a celebrazione di due epoche e di due autori. Quello di Samorì è iscritto in una materia molto più antica del legno, una lastra di onice che ha fatto fiorire un geode crostaceo e cristallino, fatto di spine e lacrime prodotte dalla stessa roccia. Attorno a quella stigmate, alla più profonda Veronica del monte Calvario, di milioni d’anni più antica degli stessi fatti narrati, Nicola ha ricostruito il corpo di Cristo, come se fosse la pittura a svolgere il ruolo di tumore sul tavolo operatorio della storia. La sequenza cartacea di Pozzi ha invece una natura quasi orientale, nella sintesi tra tecnica e stile, e trasforma l’icona in una traccia atomica lasciata sul muro dalla bomba del tempo. Resta a noi la sola sinopia dell’opera, i fori pulviscolari di un cartone preparatorio che finiscono per occultare a loro modo i caratteri della Vera icona. Franco chiama Piccole passioni queste opere picchiettate da sciami di segni che sembrano sul punto di svanire, di volare via al solo sentirsi osservati. Massimo Pulini 37


Franco Pozzi Piccola Passione Post tenebras lucem spero 2021 matita su carta cm. 7,5 x 6 38


Opere in mostra

Cautus uti velet caput 2021 matita su carta cm. 7,5 x 6

In venturum tempus prospectus 2021 matita su carta cm. 7,5 x 6

Lathe biosas 2021 matita su carta cm. 7,5 x 6

Est aliquid ante nos 2021 matita su carta cm. 7,5 x 6

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Opere in mostra

Nicola Samorì Le spine 2021 olio su onice 50 x 40 cm

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Massimiliano Fabbri

AMULETO Storie di un Cristo portacroce di Bernardino e Francesco Zaganelli, del suo ritorno e degli specchi

amulèto s. m. [dal lat. amuletum, voce di origine incerta]. – 1. Oggetto, per lo più di piccole dimensioni, al quale si attribuisce la virtù magica di prevenire o allontanare il male. 2. estens. fam. Qualunque oggetto (o anche persona o animale) al quale viene attribuita la capacità di allontanare influssi nefasti e negativi; portafortuna.

Nel 2021 il Comune di Cotignola ha comprato un quadro. Non si tratta di un quadro qualunque, ma del primo dipinto antico entrato a far parte delle nostre raccolte d’arte. La trattativa per l’acquisto è iniziata nel dicembre del 2020, ultimo mese di un anno bisestile che ricorderemo soprattutto per l’esplodere e il diffondersi della pandemia da Covid 19. Il dipinto è un Cristo portacroce di Bernardino e Francesco Zaganelli, e non rappresenta solo il cuore di questa mostra, ma diventa testimone, auspicio e centro irradiante di un nuovo mondo. Così come centro e cuore è questo suo volto, volto commovente e patetico su cui stringe l’inquadratura; un volto dolce e sofferente che detta tutti i movimenti, circolari e concentrici, come un astro che guida e orienta le traiettorie, quelle presenti e quelle future. Come un sasso lanciato nell’acqua che produce cerchi sempre più ampi. E che questa acquisizione e mostra abbiano in qualche modo preso forma e si siano concretizzate in questi due tragici anni non lascia del tutto indifferenti. Parliamo di una tela (e pure della sua acquisizione) davvero unica per molte e differenti ragioni: per la sua intensità e qualità pittorica, per il suo eccellente stato di conservazione e, infine, per il suo valore fortemente simbolico che ora si precisa e consolida stringendosi in un abbraccio a un luogo niente affatto casuale: la città di Cotignola. Forse modificandola per sempre. Perché questa è anche e soprattutto la storia di un ritorno, quello dei due fratelli pittori al loro paese di origine. E, come tutti i ritorni, è cosa fortemente attesa e sperata. Può un dipinto cambiare con il suo arrivo un pezzo di mondo? Ha questo potere, per quanto piccola e marginale sia questa porzione di mondo e paesaggio? La tela fa parte di un’iconografia, molto in voga nei primi anni del Cinquecento, che raffigura la salita di Cristo al monte Calvario avvicinando decisamente il punto d’osservazione sul suo volto, ed eliminando contemporaneamente molte informazioni per concentrasi quasi esclusivamente sugli aspetti patetici del soggetto, sull’espressività e sui moti d’animo, sui sentimenti e i pensieri che affiorano e si precisano sulla mappa del viso. Viso mondo e viso specchio. Viso maschera come estrema verità. Intensità e forza. Viso che interroga e chiama. Nel caso degli Zaganelli poi, questa immagine diventa quasi seriale: si conoscono infatti ben nove versioni, differenti tra loro per varianti minime, di questo tema con tutta probabilità destinato a una forma di devozione privata, viste anche le ridotte dimensioni di queste immagini, tele o tavole che siano; quasi identici i formati, stessa l’inquadratura e il fondo bruno da cui emerge la figura, il volto che ruota verso di noi e lo sguardo che sfugge di lato. Le mani. È quasi un’icona a cavallo tra due stagioni, un ponte tra due epoche di diverso se non opposto respiro.

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Testi critici

Eppure, l’esemplare entrato a far parte delle nostre raccolte, presenta alcuni sorprendenti dettagli di grande qualità, virtuosismo e precisione pittorica, che lo fanno decisamente emergere come esecuzione capace di superare le ragioni di bottega e di replica per acquisire un’autonomia piena e densa, che in mostra si rafforza anche grazie alla presenza di due generosi e preziosi prestiti che permettono, per la prima volta, di affiancare tre versioni dello stesso Cristo portacroce a firma di Bernardino e Francesco. E questa unicità della tela, la persistenza e durata di questa immagine nella retina mi verrebbe da dire, e che, pur rientrando in un questa quasi serie, fatta di varianti e versioni che si discostano tra loro talvolta di pochissimo, apre a molte ramificazioni e possibilità che sono anche le molte piste di questa mostra e progetto corale che porterà alla realizzazione, prima pietra e fondazione, di una nuova sezione del Museo Civico Luigi Varoli dedicata agli Sforza e ai tre pittori cotignolesi del Rinascimento: Bernardino e Francesco Zaganelli e il loro allievo Girolamo Marchesi. Vorrei allora una parola magica e misteriosa come questo dipinto tremante, qualcosa che scuote e fa sentire a casa al tempo stesso stesso. E mentre ci penso e dovrei scrivere, e stiamo cercando insieme un titolo, arriva un suono-parola che prende sempre più spazio e per alcuni giorni, il suono parola amuleto riverbera e poi non se ne va più via. Perché sto leggendo Amuleto di Bolano (ascoltando in verità… santa RadioTre!) e le cose e le storie pur se all’apparenza lontane, come talvolta accade, si incontrano attraverso strade imprevedibili, fino a sovrapporsi e generare, quando va bene, esplosioni interstellari e galassie. Il finale di Amuleto è davvero uno dei più belli di tutti i tempi. Il pianto e il tragico, la grazia e la bellezza. Il mondo tutto concentrato in poche meravigliose righe di un’intensità pazzesca. E anche se il canto che ascoltavo parlava della guerra, delle imprese eroiche di un’intera generazione di giovani latinoamericani sacrificati, io capii che al di là di tutto parlava del coraggio e degli specchi, del desiderio e del piacere. E quel canto è il nostro amuleto. Roberto Bolano

E il Cristo portacroce o la salita al Calvario possiamo dire a tutti gli effetti che sia una raffigurazione magica, tiene lontana la sventura per opera di un uomo (la sua immagine replicata infinite volte) che si sacrifica e si fa carico del male del mondo. Come nella Veronica su cui resta magicamente impresso il volto di Gesù, o nel Crocefisso (che si appende al muro nelle stanze o sopra il letto, e si porta al collo) questa raffigurazione è un talismano, potentissimo. Non è solo un monito, ma un’esperienza contemplativa e mistica. È l’uomo che regge il peso del mondo e si carica sulle spalle e sulla schiena il suo stesso strumento di tortura e di morte. Ecco l’Uomo: siamo noi e al tempo stesso Lui è anche l’Altro. L’altrove. Sconfitto e vittorioso. Esempio inarrivabile. Forte e debole. L’estraneo. Lo specchio in cui guardarci. Che ci guarda. Così lontano e così vicino. Familiare e sconosciuto. E che questo volto sia replicato molte volte, ne fa poi, oltre alla ragione commerciale, un talismano vero e proprio anche per gli artisti stessi, che al suo successo si affidano, ripetendolo in varianti seriali in cui le mani dei fratelli si spartiscono compiti e chiamano, si confondo, bisticciano e battagliano, si allontanano, separano e sovrappongono. Copiano e inventano. E questo dipinto è infine un amuleto anche per la città di Cotignola, per il suo Museo e per la comunità tutta che lo accoglie, perché, oltre alla sua bellezza sconcertante, si carica appunto di un valore quasi magico e simbolico che innesca nuove storie e movimenti. E progetti. La parola qui è Ritorni.

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Massimiliano Fabbri

Diventa una forza che arriva dal passato e modifica il futuro infondendo protezione. E fiducia. È quindi, a tutti gli effetti, un’idea concreta e tangibile di futuro. Una cosa che abbiamo davanti agli occhi. Con una materia, una superficie e pelle, una cornice bella. Mette in salvo. Ha un’aura, per quanto questa affermazione possa sembrare sciocca o fuori luogo parlando di un oggetto. Un dipinto antico è anche un oggetto magico, un messaggio nella bottiglia, una testimonianza sorprendente anche solo per il semplice fatto di essere giunto fino a noi, intatto. In questo caso dopo cinquecento anni. E che ci supererà. Ed ecco le storie e i percorsi spesso imprevedibili dei dipinti. E ora, la possibilità di vederli dentro alla mostra, insieme, comparati, a paragone, in un dialogo visivo e temporale più unico che raro. Poi, chiamerei qui Specchi la seconda sezione della mostra e di questo libro. Almeno in questo mio scritto. Perché l’innesco e il dialogo non si esauriscono qui, ma la mostra prevede anche una seconda sezione in cui due artisti contemporanei, Franco Pozzi e Nicola Samorì, specchiano questo dipinto in un confronto a distanza, che accoglie e rilancia il suo ritorno a casa e i fantasmi dei pittori cotignolesi del rinascimento. Cinque i disegni di Franco Pozzi, quasi a salvare ancora e a cantare l’amore per il dettaglio; e fare eco alla precisione nordica dei due fratelli. All’ombra lunga del tedesco. Panneggi e ciuffi d’erba. Firme e cartigli. Sortilegi. La polvere. Perdersi nei particolari, nel piccolo. Amplificarlo. Entrare dentro e svelare mondi, rallentare e dilatare le immagini e il tempo, è qualcosa di assimilabile alla dimensione della preghiera, una disciplina di attenzione e ripetizione calma, che ritorna quasi tautologicamente nel silenzio e mantra della pratica del disegno. A matita. Nel vortice lento del disegnare. Che è una scrittura. Sempre. Un flusso meditativo, una membrana sensibile tra noi e il mondo. Trattenere e restituire. Avanti e indietro. E un dipinto di Nicola Samorì, dove sono ancora il tempo e i fantasmi, e una pittura che contesta e contrasta l’oblio, salvando pezzi di mondo, a ricaricare di senso le immagini. Proprio nell’aggressione. Che solo sfida e aggressione non è mai, ma contemporaneamente cura e ascolto. Qui la differenza e lo scarto. A frugarle e scorticarle queste immagini fino a riaprire la ferita e a farla tornare pulsante. Viva. Ombre e figure del passato corrose a svelare inciampi e seppellimenti. Muffe, fioriture e strappi. Regressioni e possibilità future. Ricominciando ancora, sempre, dall’errore e dalla perdita. Dalla sconfitta. Immergendosi dentro la superficie e la carne fino a far riaffiorare senso e sensi. Contro la dispersione. Specchi significa qualcosa di forse imprendibile, ma di certo più risolto e misterioso e autonomo rispetto a un omaggio; un dialogo o confronto a distanza, un riflesso o risonanza. Ed è parola che rimanda pure a una pratica antica della pittura tra spolveri (come probabilmente è il caso di questi nove esemplari), proiezioni, camere oscure, e specchi ovviamente, e al suo essere sempre, sua contraddizione insuperabile e interna, sua frattura e spezzatura insanabile, sua superiorità, organismo autonomo e al tempo stesso doppio: superficie e carne; finzione e natura, o meglio, finzione e realtà. Illusione concreta e tangibile. Pelle e stratificazione materica e profonda. Geologia. E Amuleto è anche, non troppo sottotraccia, una descrizione del rapporto magico e ossessivo, del dialogo continuo che sia Nicola che Franco tengono con i fantasmi del passato, con i dettagli e i pezzi sopravvissuti alla catastrofe del tempo e delle vicende. Le immagini resistenti. I campi di battaglia. Tentativi di tenere insieme il mondo. Contro la sua dispersione e l’oblio. Mettere in salvo. La pittura e il disegno come pratiche sciamanesche.

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Testi critici

La prima idea di museo nasce dalle raccolte di reliquie delle chiese che conservano, investono e caricano di magia, sacralità e poteri taumaturgici gli oggetti (e così in parte anche i dipinti che nascono sì con una funzione e committenza precisi, ma che rappresentano pur sempre Dio e il Sacro e con questi è il loro vero dialogo). Il catalogo e repertorio di questi oggetti sineddoche, di oggetti magici in cui una parte sta per il tutto è quasi infinito: il frammento di legno della croce, i chiodi, il sangue, brandelli di vesti e immagini impresse e misteriose, ciocche di capelli, crani e ossa, oro e pietre preziose. E questo dipinto che presentiamo qui è davvero fatto da un’orchestrazione magistrale di dettagli sorprendenti: gli occhi iniettati di rosso, le ciocche e i ricci dei capelli e i piccoli pentimenti che si intuiscono, la veste, i peli inspiegabili e la lingua quasi parlante, le gocce di sangue e la corona ritorta. Le mani nodose e la passamaneria. Un vortice ipnotico e immobile. E questa nostra operazione è anche un ricaricare di senso, doppiamente, un dipinto e un luogo al tempo stesso. E facendolo ci affidiamo perciò a una specie di amuleto. Lei mi diceva sempre che l’arte antica parlava con Dio, parlava di Dio, e che aveva sempre un sentimento del sacro, una sacralità. Credo che per lei significasse soprattutto coraggio e potenza e anche avere, in un certo senso, un ruolo e un significato che forse le arti visive contemporanee hanno perduto, almeno in parte, o spesso. Prima, c’era un timore, che infondeva forza e profondità. Alla fine Amuleto, Ritorni e Specchi rimangono come riferimenti in questo testo, non sono perduti: il titolo scelto è Novena, suggerito da Franco Pozzi, che oltre ad alludere ad una pratica di preghiera e di meditazione, gioca sulla ricorsività del numero nove, presente anche nel percorso espositivo: nove le versioni conosciute del Cristo portacroce e nove le opere in mostra, tre le versioni del Cristo degli Zaganelli, cinque i disegni di Pozzi, uno il dipinto di Samorì. La mostra sarà poi accompagnata da una serie di appuntamenti che scandiscono e arricchiscono i circa tre mesi di apertura al pubblico, tra visite guidate, laboratori, incontri, proiezioni e convegni dedicati ai due fratelli pittori cotignolesi e alla presenza di loro opere a Cotignola (in mostra, ma non solo) e in altri musei della Romagna. L’evento (qui la parola spesso abusata invece ci sta tutta) rappresenta quindi la preziosa occasione di approfondire gli studi, ampliare il campo delle ricerche e dei confronti tra storici ed esperti di pittura in Romagna tra tre, quattro e cinquecento, ma anche la possibilità di scoprire la mappa e geografia artistica del territorio, fra storie, presenze e raccolte di arte antica, tra pale d’altare, affreschi e dipinti dei due Zaganelli. Infine il museo si diceva: luogo identitario e per questo imperfetto, mobile e in trasformazione, luogo di studio, ricerca e produzione. Soglia. Luogo di scambi e incontri. Di innamoramenti. E di trasformazioni felici ce ne sono molte in cantiere, alcune ormai prossime e molto vicine. A partire dall’ampliamento e ristrutturazione della Casa-Studio di Luigi Varoli (ora, mentre scrivo, posso vedere il cantiere dalla finestra della Scuola Arti e Mestieri) che, oltre al ritorno e al riallestimento dei molti oggetti appartenuti alla camera delle meraviglie del Maestro cotignolese del primo Novecento (sculture, cartapeste, maschere, disegni, libri, gessi, fotografie, giocattoli, strumenti musicali e arredi) permetterà di accogliere e ampliare la sezione riguardante la storia e la memoria della Seconda Guerra Mondiale e delle due principali vicende che vedono Cotignola resistere, coinvolta attivamente o protagonista suo malgrado: da una parte quella straordinaria rete della solidarietà che fu in grado, grazie a Vittorio Zanzi e a un’intera comunità, di accogliere, ospitare e proteggere quarantuno ebrei in fuga dalle persecuzioni razziali; dall’altra il racconto di quei centoquarantacinque giorni, dal novembre ‘44 al

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Massimiliano Fabbri

10 aprile ‘45 in cui la permanenza del fronte lungo le rive del Senio schiacciò il paese tra due eserciti in un assedio quasi medievale, riducendolo a un cumulo di macerie. Tutto questo nel luogo in cui fu nascosto Guido Ottolenghi, in casa di Luigi Varoli, uno dei quattro Giusti tra le Nazioni. Ritorni ancora. E lo spostamento di questa sezione a Casa Varoli, ora è collocata in forma ridotta al secondo piano di Palazzo Sforza, è vero e proprio innesco, effetto domino che permetterà di passare alla seconda fase del progetto che prevede un complessivo ripensamento, trasformazione e ordinamento del percorso espositivo e dell’accessibilità di Palazzo Sforza: un ascensore esterno alla facciata cieca che guarda via Cairoli (con vista sulla Chiesa del Pio Suffragio, La Torre D’Acuto e l’argine del fiume Senio), ci condurrà al secondo piano del Palazzo dentro a una sezione completamente nuova che racconterà del dominio sforzesco, dalle origini cotignolesi della famiglia, a partire dal suo capostipite Muzio Attendolo, fino alle grandi fortune e vicende della casata, Milano su tutte, ma non solo; un percorso tra mele cotogne e leoni rampanti, da il mestiere delle armi alle mappe e configurazioni rinascimentali della città di Cotignola e altre visioni, forse leonardesche chissà, di città ideali e proporzioni auree. Anche qui un ritorno quindi, gli Sforza nell’antica casa degli Attendoli. A fianco, una sezione dedicata ai tre pittori cotignolesi del Rinascimento, in cui il nostro protagonista, il Cristo portacroce, sarà collocato in maniera permanente. E il parallelo riallestimento, sempre al secondo piano, della sezione archeologica. Sopra l’antico quindi, in una stratificazione quasi capovolta. Scendendo al primo si ritrova poi Luigi Varoli e la sua Pinacoteca in cui fanno bella mostra di sé, tra le molte cose, tre recentissime novità che arricchiscono ulteriormente il Museo: l’acquisizione di un infuocato e vibrante olio su tavola raffigurante Olga Settembrini, intitolato Canto di araba, e la donazione di due potenti teste in terracotta provenienti dalla famiglia Bartolotti, tutte a firma di Luigi Varoli ovviamente. Un piano intero dedicato a quel formidabile provinciale del primo Novecento e alle innumerevoli strade che da lui partono e si ramificano, da Fortunato Depero a Mattia Moreni. E che tuttora percorriamo, inesauribili e sempre nuove. E al piano terra lo spazio per i progetti temporanei, con le arti visive contemporanee su cui ci siamo sicuramente distinti per attenzione, durata e qualità delle proposte a partire dai primi anni del nuovo millennio: su tutti il progetto Inventario Varoli. Della copia e dell’ombra in cui cinquantanove artisti visivi tra disegno, pittura e fotografia, provenienti da tutta Italia, si sono misurati con il tema della copia e con il nostro patrimonio, e con la figura incredibile di Luigi Varoli. Portando via qualcosa, di certo imparando molto, ma anche restituendoci molti sguardi e punti di vista altri, che ci hanno fatto crescere e capire meglio, o di più. E in cantiere c’è altro, la riqualificazione e progressiva sistemazione del giardino e del portico di Casa Varoli e della Biblioteca (un’estensione della sezione archeologica in una parte di museo, all’aperto, che rappresenta una continuità e congiunzione tra interno ed esterno), ma non vorremmo passare per esagerati adesso. E mi fermo qui. Evviva. Massimiliano Fabbri

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Testi critici

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Raffaella Zama

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€ 20,00


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