Selvatico 12 foresta

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Istituzioni ed Enti patrocinanti Regione Emilia-Romagna IBC Istituto Beni Culturali Sistema Museale della provincia di Ravenna Unione dei Comuni della Bassa Romagna Comuni di Bagnacavallo, Cotignola, Fusignano, Faenza e Rimini

www.gilda.gallery

Luoghi Museo Civico Luigi Varoli Cotignola 30.9 -26.11.2017 Palazzo Sforza – Casa Varoli Corso Sforza 21 e 24 Cotignola RA Palazzo Pezzi Corso Sforza 47 www.museovaroli.it Museo civico San Rocco - Targhe devozionali 7.9 - 26. 11.2017 Via Vincenzo Monti 5 Fusignano RA Comune di Fusignano Corso Renato Emaldi, 115 Fusignano RA Convento di San Francesco Bagnacavallo 14.10 - 26.11.2017 Via Luigi Cadorna 14 Bagnacavallo RA MIC Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza 13.10 - 12.11.2017 Viale Baccarini 19 Faenza RA www.micfaenza.org Museo della Città 4.11 – 16.12.2017 Via L.Tonini 1, Rimini Galleria Marcolini Forlì 6.9 - 8.10.2017 Via Francesco Marcolini 25/A Forlì www.galleriamarcolini.it

Comune di Cotignola Sindaco Luca Piovaccari Vicesindaco Pier Luca Baldini Assessore Cultura Federico Settembrini Responsabile Area Cultura e Comunicazione Giovanni Barberini Museo Civico Luigi Varoli e Scuola Arti e Mestieri Massimiliano Fabbri Area Cultura e Comunicazione Michela Fanelli Ufficio Lavori Pubblici e Patrimonio Fulvio Pironi e Rodolfo Gaudenzi Urp Melissa Stinziani Allestimenti Domenico Pirazzini Antonio Cattani, Filippo Campagnoni Associazione Selvatica Pamela Casadio, Cecilia Pirazzini, Alice Iaquinta, Marianna Bacchini, Luca Salmistraro, Salima Erabib Comune di Fusignano Sindaco Nicola Pasi Assessore Cultura Lorenza Pirazzoli Responsabile Settore Cultura Tiziana Giangrandi Urp Rita Baracca Apertura e sorveglianza sedi espositive Auser Comune di Bagnacavallo Sindaco Eleonora Proni Assessore alla Cultura Enrico Sama Responsabile Area Cultura, Comunicazione e Partecipazione Raffaella Costa Museo Civico delle Cappuccine Diego Galizzi Area Cultura, Comunicazione e Partecipazione Elisabetta Antognoni, Francesca Benini, Remo Emiliani, Paola Papi, Antonio Tarroni Associazione Asma Enrico Minguzzi, Alex Montanaro, Ambrogio Sarni Comune di Rimini Sindaco Andrea Gnassi Assessore alle Arti Massimo Pulini Servizi amministrativi Direzione Cultura e Turismo Silvia Moni Ufficio mostre dei Musei Comunali Annamaria Bernucci, Piero Delucca Allestimenti Musei Comunali Stefano Caminiti, Maurizio Succi, Massimiliano Abita MIC, Museo internazionale delle Ceramiche in Faenza Presidente, Eugenio Maria Emiliani Direttore, Claudia Casali Conservatore: Valentina Mazzotti Segretario Generale, Giorgio Assirelli Segreteria organizzativa e Prestiti, Emanuela Bandini, Monica Gori, Elena dal Prato Ufficio tecnico e Allestimenti: Gian Luigi Trerè Servizi informatici, Elisabetta Alpi Archivio Fotografico: Elena Giacometti Sostenitore principale Villa Maria Research Altri sostenitori Hera, Grafiche Morandi, Conad COFRA, Lugo Immobiliare, Mauro Lucca Elettrodomestici, Coerbus In collaborazione con le associazioni culturali Primola e Selvatica In rete con MAGMA, WAM!Festival e Radici


indice

Testi di Massimiliano Fabbri Massimo Pulini Irene Biolchini Lorenzo Di Lucido Grazie a Luisa Liverzani Assessora al bilancio del Comune di Cotignola che ha rinunciato al suo compenso annuale di amministratrice devolvendolo a sostegno del progetto e delle mostre di Selvatico Grazie a Veronica Caciolli per la disponibilità e collaborazione che ci ha permesso di portare dentro a Selvatico il lavoro di Paola Angelini fatto all’interno del progetto Pretorio Studio Ufficio stampa Unione dei Comuni della Bassa Romagna Trasporti Ivan Mazzoni Grafica catalogo e comunicazione Marilena Benini Stampato nel settembre 2017 da Grafiche Morandi Fusignano Selvatico è fatto da Comune di Cotignola e Museo Civico Luigi Varoli www.museovaroli.it luigi varoli museovaroli

Pittura Natura Animale Una foresta in giardino Massimiliano Fabbri........................................... 8

> Rimini Ala nuova del Museo della Città ......24 La pittura scandaglia la superficie Massimo Pulini................................................. 25 Giovanni Frangi ............................................... 26

> Bagnacavallo Convento di San Francesco .............36 Mirko Baricchi .................................................. 38 Luca Coser ....................................................... 48 Lorenzo Di Lucido ........................................... 50 Paola Angelini .................................................. 56 Lorenza Boisi ................................................... 60 Enrico Minguzzi ............................................... 64 Luca Caccionii ................................................. 70 Elena Hamerski ................................................ 76 Massimiliano Fabbri ........................................ 82 Veronica Azzinarii ............................................ 88

> Cotignola Museo civico Luigi Varoli ..................92 Rudy Cremonini ............................................... 96 Alessandro Saturno ....................................... 102 Massimo Pulini .............................................. 108 Vittorio D’Augusta ......................................... 112 Alberto Zamboni ............................................ 118 Silvia Chiarini ................................................. 122 Marco Samorè ............................................... 126 Giovanni Lanzoni ........................................... 130 Giulio Zanet ................................................... 134 Vera Portatadino ............................................ 138 Matteo Nuti .................................................... 142 Antonio Bardino ............................................. 147 Marco Salvetti ................................................ 151

Jacopo Casadei ............................................. 155 Giovanni Blanco ............................................ 159 Domenico Grenci ........................................... 164 Marco Andrighetto ........................................ 169 Debora Romei ................................................ 173 Denis Riva ...................................................... 177

> Fusignano Museo civico San Rocco.................184 Cesare Baracca ............................................. 186 Luca De Angelis ............................................. 192 Lucia Baldini .................................................. 198 Giulia Dall’Olio ............................................... 204 Federica Giulianini ......................................... 210 Martina Roberts ............................................. 214 Marina Girardi ................................................ 218

> Faenza MIC Museo Internazionale delle Ceramiche................................222 In fondo al giardino un Volto Verde Irene Biolchini ................................................ 224 Lorenza Boisi ................................................. 225

> Forlì Galleria Marcolini .............................232

Introduzione Lorenzo Di Lucido ..................... 234 Annalisa Fulvi ................................................. 235 Alessandro Finocchiaro ................................ 236 Giulio Catelli ................................................... 237 Lorenzo di Lucido .......................................... 238 Autori .............................................................. 239

Schede autori ...................................240



> Forlì, Galleria Marcolini Lorenzo di Lucido | Alessandro Finocchiaro | Giulio Catelli | Annalisa Fulvi > Fusignano, Museo civico San Rocco Comune di Fusignano Cesare Baracca | Lucia Baldini | Federica Giulianini Museo civico San Rocco Luca De Angelis | Giulia Dall’Olio | Cesare Baracca | Lucia Baldini Raccolta targhe devozionali Marina Girardi | Federica Giulianini | Martina Roberts > Cotignola, Museo civico Luigi Varoli Palazzo Pezzi Marco Samorè | Silvia Chiarini | Giovanni Lanzoni | Giulio Zanet Marco Salvetti | Jacopo Casadei | Antonio Bardino | Matteo Nuti | Vera Portatadino Giovanni Blanco | Domenico Grenci | Debora Romei | Marco Andrighetto | Denis Riva Palazzo Sforza Rudy Cremonini | Alberto Zamboni Casa Varoli Alessandro Saturno | Massimo Pulini | Vittorio D’Augusta > Faenza MIC Museo Internazionale delle Ceramiche Lorenza Boisi > Bagnacavallo Convento di San Francesco Salette garzoniane Mirko Baricchi Manica lunga Luca Coser | Lorenzo di Lucido Primo piano Paola Angelini | Enrico Minguzzi | Elena Hamerski | Massimiliano Fabbri | Lorenza Boisi | Luca Caccioni Sala delle capriate Veronica Azzinari > Rimini Ala nuova del Museo della Città Giovanni Frangi


Pittura Natura Animale Una foresta in giardino Selvatico è una geografia fatta di luoghi e persone, e cose, se per cose si intendono i posti, le case, e i dipinti che fanno la mostra, gli oggetti e le storie, e il futuro anche, che sonnambulo e pulsante è nei musei. Una mappa che congiunge una pluralità di spazi e artisti all’interno di un percorso che si disegna, snoda e ramifica attraverso una costellazione di mostre diffuse nel paesaggio e in alcuni dei luoghi del contemporaneo in Romagna. Selvatico è un arcipelago e le sue mostre isole interconnesse. Paesi e musei, spazi espositivi e gallerie, edifici dormienti recuperati per l’occasione, contenitori e contenuti collegati da un progetto che tiene insieme e intreccia, un po’ ossimoricamente, arti visive e provincia intorno a un quasi tema; o suggestione: più o meno nell’aria, segnale intercettato, basso continuo. Trasmissione. Selvatico stazione ricevente. A governare la mostra e le sue sezioni diffuse e articolate nel territorio, così come a orientare la chiamata agli artisti, è un’immagine, aperta interrogante; un umore o desiderio: rilanciato, ingigantito, esploso e irradiante, tradotto e fatto a pezzetti, disperso e sparso in più direzioni. Divergenze e contrasti. Risonanze e affinità. In questo attrito dubitante l’esattezza e la ricerca di una posizione, per quanto precaria. Selvatico amplifica e asseconda questo disordine apparente e caos iniziale, e cerca al contempo di mettere ordine riconducendo tutto a una forma unica, esemplare, una specie di mosaico in cui le parti si incastrano perfettamente e incontrano trovando e svelando corrispondenze potenti, e sviluppi. Con andamento centripeta che porta dentro, giù, in specie di gorgo o mulinello; e un altro, opposto, che centrifugo allontana e allarga ed estende la visione fino a spingerla un po’ più in là. Con suo andamento e crescita vegetale, bisognoso di tempo, aggiustamenti e assestamenti, scosse e perdite. Coltivazioni. E attese. Lentezza, certo. Un modo di vedere che si definisce e precisa nel tempo e nello spazio dentro a punti di vista molti, e nell’incontro. L’immagine di questa edizione di Selvatico è quella della Foresta, intesa non tanto o non solo come sguardo rivolto a quell’attenzione che da parte di molti artisti si volge ancora e nuovamente alla 8

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natura e sua rappresentazione, e alla re-invenzione del paesaggio tutto per certi versi, ma anche e soprattutto come condizione della pittura stessa, linguaggio dimensione che guida la scelta, presenza e lavoro dei quaranta autori in mostra. Una solitudine rumorosa di foresta, plurale e molteplice, che si declina e infittisce via via addentrandosi e sperdendosi in una moltitudine di sguardi e possibilità, e che è anche metafora e riflesso dello stratificarsi in pelli, velature, notti interne e profondità radiografiche e quasi geologiche della pittura e del dipingere stesso. Pittura come foresta quindi. Pittura che si sostituisce alla natura. Pittura vs natura, a dire di un conflitto o impossibilità. Fratture e ferite che la pratica e disciplina del dipingere cercano di risanare e cucire. Preghiere. Mancanze sparse. Esplorazioni. Distanze. Abbandoni. L’assedio e l’assalto. La pittura come belva. Acquattata. Animale. La pittura più intelligente di noi. Membrana sensibile. E l’idea di foresta che ci riporta infine alla condizione periferica e laterale, di selva appunto, che ha sempre caratterizzato Selvatico a partire dal suo titolo e dalla sua ostinata presenza e posizione ai margini, lontano dai grandi centri. Qualcosa che ha a che fare con una certa idea di confine e sua mobilità e ambiguità. Perimetri permeabili. Bordi. Geografia ripensata attraverso il movimento. Risposta a un vuoto. Reazione. Una rete, per quanto abusata sia questa parola. Una rassegna di campagna alle sue origini, dodici anni e dodici mostre fa, e che ora chiude un cerchio, a partire dal suo stesso titolo e sguardo non addomesticato. La parola foresta con il suo carico e bagaglio di immagini e narrazioni e miti innesca così, incontrandosi e sovrapponendosi con pittura e disegno, una sorta di cortocircuito, un labirinto di senso e sensi capace di perdersi e definirsi nel dettaglio, nel frammento di natura, nel vortice e mantra della decorazione talvolta e, al tempo stesso, capace di interrogarsi sulla pittura stessa, sulle sue infinite modalità e significati e alfabeti, e fallimenti e potenti e ciclici ritorni. Pittura fiume. Riaffiorante. Inattesa. Venatura di foglia. Corrispondenze. Strade possibili. Da una parte la presenza forte ripetuta rassicurante ingannevole


romantica inquietante stucchevole labirintica ricorrente di scorci di vegetazione e verdi molti nelle opere presenti, panorami e paesaggi, foglie, trame arboree, radici, nuvole, pezzi e lembi e porzioni di cielo, orizzonti intravisti infiniti, vento, onde, dall’altra una foresta di segni e immagini che l’artista deve coltivare, far crescere e mettere in ordine, e poi abbandonare per strada anche, districandosi in essa per trovare il sentiero che conduce fuori dal bosco, e alla visione infine; o a quel che ne resta. Perdendosi nel groviglio fitto di ombre, echi e fantasmi che la popolano, abitano e attraversano, e che noi proiettiamo su di essa. Pittura come tentativo di orientamento. E ascolto. Interno, e del mondo. Pittura come mediazione. Sforzo di equilibrio costante. Pericoloso. Pittura come foresta. Una foresta di immagini e segni senza fine: visioni che ci investono, travolgono e poi sedimentano sommerse nella memoria e nel tempo, come sepolte e perdute, e una foresta più concreta che parallelamente volge lo sguardo alla problematica rappresentazione della natura. Un’avventura, lieve forse. Una vacanza rispetto alla drammaticità della rappresentazione del volto, e che ci permette di ricollocare le cose nelle giuste proporzioni, quasi in un improbabile tentativo di dimenticarci dell’uomo e della sua presenza schiacciante e invasiva sempre. 
L’idea di foresta non può che essere, soprattutto, un paesaggio mentale, luogo magico, misterioso e immaginario. Primitivo e ancestrale. Memoria della caduta. Oscurità fertile. Spazio domestico e selvatico al tempo stesso, abitato e attraversato da ombre, fiere che sbarrano il cammino, scenario degli incontri e accadimenti, in cui si muove l’artista cercando conferme e nuove piste. Incontri. Apparizioni. Sperdimenti. E storie forse. Che la nostra esperienza del bosco non è certo così centrale nelle nostre vite eppure, nella fiaba, questo è il luogo drammatico e vitale per eccellenza, dove i fatti accelerano. E la fiaba è lo scenario, l’innesco. Uno spazio comune. La prima e paurosa e indimenticabile avventura. Luogo del ritorno. Incontro formante. Teatro. Costituzione e costruzione della comunità, anche se effimera, grazie al racconto. Se nell’edizione precedente di Selvatico l’immagine del volto o della faccia, e maschera anche, della Testa che guarda, era qualcosa di conturbante che trovava nello sguardo doppio, nel vedere e nell’esser visti contemporaneamente dall’altro, in questo incessante andirivieni, il suo centro e fuoco di violenta bellezza, in questo caso l’immagine ora proposta vive invece di una moltitudine di centri o assenza esplosa e dispersa di questi punti: disordine e casuali-

tà apparenti, mancanza di vertici e approdi, superficie che permette una visione che si avvicina in qualche modo alla contemplazione e sospensione del tempo; condizione della pittura, immagine ferma in cui divagare e andare alla deriva, dove non sai. Plurale e collettivo lo sguardo che innerva Selvatico, che costruisce mostre numerose che hanno al tempo stesso la presunzione di disegnare un andamento decisamente diverso e differente da quello di una semplice mostra collettiva, o fatta da sguardo di curatore, costruendo piuttosto una mappa, un arcipelago o costellazione di personali collegate e connesse tra loro e ai luoghi che le ospitano e accolgono. Con errori e sorprese dentro. Mostre che coinvolgono un nutrito numero di artisti di varia provenienza, geografica e anagrafica, in un confronto e dialogo fertile con una serie di spazi espositivi e luoghi del contemporaneo nella bassa Romagna da cui Selvatico nasce e si allarga; e un dialogo e incontro tra gli artisti stessi, un sistema di relazioni. Una mostra diffusa in più sedi che guarda principalmente, se non esclusivamente, alla pittura, con rare e preziose ramificazioni nel disegno e collage; soprattutto a una pittura che prova ancora a misurarsi con la reinvenzione del paesaggio e, parallelamente, con la presenza centrale del segno, a creare un quasi ossimoro di una pittura disegnata. Tra panorami di luce e notturni. Cascate e vortici di foglie e alberi eroici. E rami segni e rami gesti, pezzi e frammenti del mondo, quasi reliquie da niente, ricordo magico salvato in collezione bambinesca; rami ossa con curve perfette di spina dorsale e clavicole; arma; stelo, scapola e petalo, fiore e vertebra. La foresta radice labirinto, il mondo che si capovolge, il sottosopra e il doppio, l’ombra di un’ombra, il labirinto delle idee e pensieri e immagini e pennellate attraverso cui deve districarsi e muoversi l’artista, e in cui lo spettatore sarà chiamato a sua volta a entrare tracciando altre geografie, traiettorie, narrazioni e mappe. Orientandosi nella foresta di segni e visioni. Congiungendo punti, cose viste e memorie. Affacciandosi su inaspettate finestre e aperture rappresentate sia dai dipinti inseriti nel percorso espositivo, sia dai luoghi recuperati per l’occasione e restituiti temporaneamente che, insieme ai musei presenti sul territorio e coinvolti dalle mostre, creano una rete che permette anche di scoprire, non solo gli autori e l’andamento vegetale e sviluppo della mostra, ma anche il territorio, le sue caratteristiche, vocazioni e connessioni. Un invito al viaggio. Piccolo. Tremante. Una giungla da bambini. Dipinta. Minuta e gigante.

foresta. Pittura Natura Animale 9


Dipingere il tempo La pittura è una delle pratiche e linguaggi a nostra disposizione che maggiormente hanno a che fare con il tempo. La pittura si forma nel tempo attraverso stratificazioni di segni e pelli e velature che ne fanno una sorta di ossimoro imprendibile, una superficie profonda, una specie di geologia della visione, una foresta su cui si sommano, intrecciano e sovrappongono immagini, intuizioni, crescite e ripensamenti. La pittura trattiene in sé questa memoria del tempo, memoria che ha contribuito a formarla nel sovrapporsi e negarsi senza sosta di visioni e possibilità, di strade e sentieri percorsi e altri abbandonati e perduti durante il cammino. Un affioramento: palpabile, tattile. Qualcosa che avviene esclusivamente nella materia e che passa anche da amnesie e occultamenti, da parti che rimangono sepolte e che, in qualche modo, pur se non del tutto visibili, influiscono e concorrono al formasi della cosa veduta, come se la pittura respirasse e permettesse sempre anche questo viaggio a ritroso, questa discesa nel regno delle ombre attraverso i suoi strati molti. La pittura è la carne e dentro a questa sua irrinunciabile dimensione fisica, in questa tensione ed errore fondativo che la contrae ed espande, nel suo farsi nella e con la materia, risiede il suo mistero e la sua forza invincibile. E il suo fallimento anche. Dipingere è un tentativo di contrastare la perdita. Una leggenda vuole che la pittura sia nata dall’ombra di un uomo, da un profilo dell’ombra ricalcato sulla parete dalla mano della sua amante, in un tentativo di colmare la distanza che di lì a poco li avrebbe separati: l’uomo infatti deve partire per la guerra e la donna, compiendo un gesto semplice, potente e magico, trattiene così una sorta di impronta o memoria del corpo amato, un ricordo concreto, una presenza tangibile e accarezzabile. Pista d’atterraggio per il ricordo. Fantasma. Meccanismo o chiave per dischiudere mondi a venire. E storie. Se le cose stanno davvero così la pittura è allora, sempre, una proiezione. Bifronte. Regressione al futuro, progresso all’origine. Circolarità. Sguardo che si volge al passato e prepara il futuro. Orfeo. Perdita. Discesa. Ritorno. Tentativo che innesca possibilità, mondi e modi di vedere. Ma, soprattutto, la pittura è la storia di una mancanza. E di un desiderio quindi. Imprendibile proprio in quanto desiderio. La distanza dalla cosa, la ricerca della giusta distanza da essa che permetta di non perdersi e smarrirsi nel dettaglio e, al tempo stesso, di non spingere l’immagine verso l’orizzonte, più in là, troppo in fondo, 10

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fino all’inevitabile, definitiva e drammatica sua sparizione (tutta la ricerca di Alberto Giacometti si colloca su questo instabile e franoso e frustrante equilibrio). La pittura è una mappa, un tentativo di orientamento. Sempre l’artista prova a fare questo: uscire dal labirinto, mettere in ordine e a posto le cose. Nominarle e chiamarle a sé. La pittura come processo di definizione prima ancora che di visione. Quindi pittura come qualcosa che, nonostante tutto, non può aggirare il problema della rappresentazione, tanto meno ignorarla: la rappresentazione è il suo senso ultimo e anche, contemporaneamente, il suo limite o condanna, condizione inaggirabile. Sua ferita. Pulsante. Vitale. Ciò che la dota di senso in fin dei conti, che la trattiene e scuote. Non tanto in termini di somiglianza, quanto per la capacità evocativa che si gioca sulla superficie. Una sfida. Un versus tra segno e pensiero, occhio e mano, una tensione sempre presente tra l’io e il mondo. Per questo, anche nei momenti in cui la pittura sembra poter dichiarare con forza, più o meno spavalda, sua massima autonomia di forma e gesto, come avviene per l’assalto o flusso automatico e informale, o di pensiero o visione, quadrati neri su fondi bianchi e altri capogiri spirituali e mistici della mente, o estreme sintesi, con il mondo finalmente non più ridondante e ridotto infine all’ordine matematico, astratto e geometrico, al puro equilibrio e ritmo, o a linguaggio che riflette concettualmente e tautologicamente specchiando se stesso, resta forse sempre, qualcosa di imprendibile e insidioso che rimanda ad altri mondi, un’ambiguità di fondo; una contraddizione interna e aperta questa, che di mondi altri la pittura ne crea a sua volta, rimpallandoli a quelli già esistenti in nuovi e sconosciuti cortocircuiti dello sguardo. Slittamenti. Fratture. Specchi più o meno deformanti. Strappi attraversabili. Se poi sia necessario un atto di fede per poter accedere a questo mondo non so dire. Pittura concreta. Spazio in cui muoversi. Così, in quest’ottica, l’idea della pittura come linguaggio autonomo e del tutto a se stante, è probabilmente un’invenzione, un racconto non bastante, se non all’interno di un trattato teorico; non può reggere, non per malafede o inganno, ma per colpa di un’eccessiva semplificazione, o di traduzione e tradimento delle sue potenzialità; cercando di descriverla o fornirle un impianto con un altro linguaggio (la scrittura a esempio), non si può fare altro che impoverirla, sterilizzarla e anestetizzarla. Quasi una storia della pittura addomesticata.


E se di linguaggio si tratta, come appurato certo, allora il linguaggio serve a descrivere mondi, sempre, qualsiasi essi siano, manifestarsi di presenze e immagini, siano questi la finestra rinascimentale e sfondamento aereo che sta alle spalle del ritratto, o mondi già racchiusi in una fotografia a cui la pittura contemporanea, da Gerard Richter in poi, sembra non poter fare a meno (fotografia come archivio e memoria del mondo, a sostituire la realtà; fotografia che adesso sembra mostrare il fianco). O ancora l’invenzione del mondo interiore, chimica, molecolare o psicologica prima (psicologia tra le parole bandite ora), e sua creazione e apparizione sulla tela, che questi mondi non si possono pensare perché non si tratta di semplici quadri della mente o trasposizioni di visioni compiute e già formate altrove. Qualcosa sfugge insomma e si manifesta nell’atto stesso del dipingere, avvenendo nella materia e non altrove, nel suo sciogliersi e coagularsi e stratificarsi. Questo il fascino, questo lo scandalo. E così, anche tutti i percorsi e progetti e visioni che in qualche modo anticipano o preparano l’atto del dipingere - in questo caso il dipinto rappresenta comunque un processo registrante, come una sorta di diario o sismografo - funzionano come presenza inquietante, o ambigua. Doppia e rimandante. A rischio di apparire ingenuamente romantici la pittura è probabilmente definibile come la scienza delle emozioni, il racconto diretto imperfetto invincibile che ci parla di un singolo individuo, irripetibile, capace di ricevere in sé il mondo, e di arginarlo al contempo, di disegnare ancora mappe che sono il frutto di una preziosissima e incessante, e più o meno faticosa, mediazione tra l’io debordante ipertrofico e la valanga schiacciante di immagini che ci travolge. Una selezione e ricerca che passa spesso da un fare artigianale, meccanismo e procedimento e tecnica che sono parti fondanti e limiti e strumenti irrinunciabili di scoperta e sperimentazione appartenenti e intrecciati in maniera indissolubile all’immagine stessa. Che l’immagine dipinta innesca una relazione con tutti i dipinti precedenti e quelli ancora a venire, come se la pelle della pittura respirasse, inspirazione espirazione, caricandosi di immagini e rilasciandole e abbandonandole preparando quel che verrà poi. Scambio vegetale. Appropriazione e restituzione. Così, scorre un cinema infinito e muto che racconta di sguardi e pensieri, conquiste e fallimenti, invenzioni e debiti, circolarità e stratificazioni, accelerazioni e ritorni, ramificazioni ed esplosioni: straordinari animali che corrono da migliaia di anni sulle pareti della grotta di Chauvet, musi, zoccoli, polvere, corna, schiene e criniere, velocità travolgente di anatomie perfette fatte con segno bello di

carbone, forte e vitale, con luce tremolante del fuoco a scuotere tutto ancora di più; corpi medievali con loro durezza e spigolosità, e loro stare nello spazio con difficoltà, riempendolo e occupandolo, e adattandosi a esso con incredibili anatomie imperfette di corpi magici e misteriosi e nuove e sensibili proporzioni, corpo giardino, corpo libro, corpo erotico; la pittura e i corpi scarnificati dell’ultimo strepitoso Tiziano, la carne, e forse l’apparizione nella storia della pittura dei primi segni di pennello informali, coscienti e visibili, in cui il pittore oltre ad aggredire e mangiarsi la forma rivela se stesso svelando procedimenti e gesti, mettendoli al centro della scena come materia pulsante e irrorata e mai vista (materia grezza fino a prima sommersa e occultata dalle velature) e che ritornerà amplificata in Velasquez e Goya; il non finito di Michelangelo, capogiro incredibile che attraverso il pentimento e l’abbandono ci porta via, indietro e avanti, violentemente dentro alla forma e al pensiero e alle possibilità infinite della forma stessa; svelamento struggente che ci tiene a sé aprendo a una delle pratiche più avvincenti e potenti e durature dell’arte, quel non finito che sembra esser diventato un modo di vedere (e fare) quasi irrinunciabile, e suo abuso conseguente. Luce in Tintoretto. E Mattia Preti. Scuola dei sentimenti. La pittura come teatro e scena precedente alla narrazione stessa, come semplice e violenta e bellissima apparizione interrogante. Flash. Battito di ciglia. Spalancarsi di immagini mute e scenari. Incendio. Corpi. Né un prima né un dopo. Presente. Qui e ora. Davanti a me, noi. Caravaggio. Un ritratto commovente della sorella fatto da un giovane Mario Sironi, gli autoritratti e i volti dei soldati in trincea, i disegni di Boccioni, i bellissimi e intimi e struggenti ritratti alla madre (alla faccia del futurismo verrebbe da dire). I colori, le passeggiate lievi e felici e svolazzanti del pennello di Matisse e un senso coraggioso e all’apparenza spensierato della decorazione e degli equilibri interni al quadro, cangianti ogni volta; la luce tattile di Bonnard e un mondo che si disfa e sfalda dolcemente, malinconico, in un vortice di pulviscoli e particelle scintillanti mattutine vespertine. Giallo chiaro e azzurro. Rosa pallido. L’assalto al sistema nervoso della pittura di Francis Bacon. E Mattia Moreni. Il corpo come campo di battaglia; sesso e morte. Corpo bellissimo, insidioso, ferito, indifeso, decadente, spastico. Il senso della storia in Anselm Kiefer. Le sue costellazioni e i cieli cosmici e le stelle cadute, i campi arati e quelli di girasoli e di papaveri. Navi da guerra. Aerei accartocciati. Relitti del tempo alla deriva. Libri. E letti decisamente poco ospitali. Catena di montaggio della morte. Cemento. Ferro ritorto. Sgretolamento. Crepe. Terreforesta. Pittura Natura Animale 11


moti. La tragedia e la catastrofe. Il paesaggio segnato e amputato, eroico suo malgrado. Foreste. Combustioni. Grigio. Le impronte della mente e della natura nei disegni e gesti magici di Penone. Il loro sovrapporsi e il combaciare come ordine supremo e regola segreta che governa il mondo e ci guida. Ramificarsi di foglia e sinapsi. Crescita e sviluppo. Respiro. William Kentridge: il disegno ancora. Sempre. Infinito. Nuovo e antico. Potente, primitivo, tecnologico e magico. Capace di mostrare e inglobare il processo nel suo farsi e disfarsi senza sosta. Colori e abiti zuccherini candidi lucenti di Pontormo. Riccioli biondi morbidi. Onde. Muscoli e torsioni. Pelle di ceramica. Precisioni e stupefacenti descrizioni fiamminghe. Foglioline belle e rami in controluce. Bellini e Mantegna. Le nuvole in pittura. Turner. La pittura come tempesta. L’incredibile film composto dalla galleria e sequenza degli autoritratti di Rembrandt, occhio e mano che registrano la mappa del volto in divenire, volto animale, volto paesaggio, volto geografia; precedente alla psicologia. Incanto del mondo fissato eternamente in Veermer.

La cascata della pittura scrittura di Cy Twombly. La pittura come un fiume. O mare. Rothko certo. E Lucien Freud per tornare ancora o infine all’idea di un pittore che non sembra fare nulla per inventare il mondo, lui che semplicemente guarda e registra, cercando attraverso la pittura un controllo assoluto ed esatto sulla visione e sul mezzo; eppure, in questo tradizionalissimo e prevedibile e borghese impianto, l’uomo in tutto il suo scandalo, eccolo: lì, nudo. Violenta presenza. Ingombro che rapisce. Qualcosa in più di pelle, carne, muscoli e ossa. Qualcosa che sfugge e si rivela nell’impercettibile errore anatomico; qui il gorgo attirante, la vita. E le tavolozze dei pittori, la quasi casualità automatica con cui si dispongono e strisciano e amalgamano i colori e i segni del pennello, i vortici, le pause e gli abbandoni, i vuoti e i buchi di questa trama pittorica involontaria, la registrazione automatica dei movimenti e traiettorie. L’impronta del pensiero e del gesto. Ciò che resta dopo la battaglia, o l’amore. Panorama. Paesaggio con segni cicatrici rovine.

L’invenzione del paesaggio e la natura crudele Il paesaggio non esiste; è un’invenzione. Facile a dirsi. Senza la finestra che l’inquadra, ordina e circoscrive, senza l’artificio dell’occhio umano che taglia e seleziona, trovando e costruendo il punto di vista, spesso l’unico concesso tra molti, e lasciando fuori tutto il resto - quel che rimane esterno al perimetro non esiste più - non si ha paesaggio né panorama su cui poter posare e perdere lo sguardo, e muoversi dentro, finalmente senza centri, con balzi e movimenti e congiunzioni e svolazzi e velocità diverse all’interno del campo. Paesaggio e geografia come tentativi di orientamento; luoghi mentali scivolanti l’uno nell’altro. Entrambi, nella contraddizione, sembrano precisarsi e prendere forma: uno sguardo esplorativo, curioso e affamato, disposto a spingersi sempre un po’ più in là, e uno che, più o meno involontariamente, cerca di imbrigliare queste forze e mondi instabili riconducendoli a disegno, a una forma di controllo e quiete. Prima delle nuvole e verdi e tempeste giorgionesche, il paesaggio è ancora quadro nel quadro, finestra e sfondamento, punto di fuga prospettico; eco e rimando più o meno malinconico e velato a 12

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luoghi d’affetto o della memoria, scorci che degradano dolcemente in inspessirsi di sostanza atmosferica che fa la prospettiva aerea. Curve di fiume, montagne azzurrogrigie sullo sfondo. Semmai, dettaglio botanico di natura, una parte per il tutto da relegare ai margini del dipinto, silhouette di foglie e rametti in controluce che fanno da quinta e profondità al degradarsi di spazio e scena; o ghirlande e festoni e volute di vegetazioni, verzure e frutti, cornucopie ferraresi, perfezioni cesellate lombarde alla Crivelli. Esattezze e fatiche fiamminghe. Foglie e petali ricamati su tovaglie, abiti e drappeggi; in mano un fiore, fiore mondo. Venature di marmo in tutte le sue varianti di colore e astrazione. Ali variopinte. Lapislazzulo. Blu; cieli profondi, pezzi di cielo azzurro intenso di Guercino. Montagne scavate, disegnate incise attraversate da calanchi e venti e piogge, bellissimi alberi e arbusti giotteschi. Foglie per alberi. Tutt’al più trompe-l’oeil, sfondamenti riposanti, quinte, stanze. Pause e vacanze dalle storie. Orti in cui ricreare un mondo ideale ed enciclopedico. Giardini spesso segreti e interni. Il cielo in una stanza. Nature incantate brulicanti con uccellini e scoiattoli e spighe e specie e varietà esatte chiamate a raccolta. O le decorazioni a grottesche e loro scoperta e riesplosione quasi mai sopita fino a oggi. Incantevoli, inarrivabili e precisissimi ciuffi e foglioline e fili d’er-


ba, che possiamo contare uno per uno, degni della più scrupolosa meticolosità classificatoria di un signor Palomar, in Giovanni Bellini; Antonello da Messina; i sassi, le pietre e rovine di Mantegna, l’invenzione dell’antico. Le sue nuvole anche. Zolla di Durer. Una via nordica alla natura che si amplifica ed esalta nell’accecante luce mediterranea, luce che svela, arde e brucia, e prepara in qualche modo, quasi un capogiro, ai bui e neri caraveggeschi, ai suoi dipinti siciliani dove il vuoto bruno, condizione estrema della contemplazione paesaggistica, si prende la scena e il sopravvento assorbendo lo spazio e le cose tutte inghiottendole nella tenebra, ripiombandole dentro allo scavo primitivo di una grotta, schiacciando le figure sotto, giù, non ancora del tutto alla deriva. Sopra, un peso enorme al posto del cielo. Un vuoto d’interno. Cinema. Notte che si prende sempre più spazio, e scena che concentra e condensa i fatti e i gesti portandoli al punto di massima tensione e forza e pericolo incombente: prima canestri di frutta, sfide della mano e della mente di un giovane spavaldo, bacchini malati e morsi di ramarro. E sensuali e selvatici Giovanni Battista pasoliniani nella natura.

teatrale, quinta e fondale per accadimenti, metamorfosi, storie e apparizioni. E mondi, arcaici e sofisticatissimi. Bosco. Radure che preparano l’accadimento. Pittura come racconto. Il mito. La giungla incantata, dolce feroce bambinesca del Doganiere Rousseau. Paesaggio diorama. Panorama chiuso, ricreato e artificiale, più vero del vero infine, spazio a potenza, inganno reale e tangibile così caro al teatro. Avventura. Paesaggio con figure. Un acquario. Video e ambienti in cui Pippilotti Rist ricrea e inventa eden sensuali rovesciandoceli addosso, travolgenti. Chiamandoci. Canto di sirena. Ninfe. Primavera. Il verde dell’erba. Frutti che si aprono zuccherini, carne e pelle. Noi immersi e languidi.

Una deriva piena offerta poi dalla soggettiva sorprendente e magnifica di Turner, dove solo l’occhio, ultimo baluardo resistente agli assalti, è rimasto a testimoniare, in balia di esplosioni fragorose di cieli mobilissimi, e mari grossi e venti e tempeste; tramonti che incendiano l’orizzonte e la tavolozza: bruno, rossoarancio, giallo di Napoli. Solo materia. A tratti sorella di quella a cui Tiziano era giunto da vecchio mettendola al mondo urlante, scarnificando e slabbrando carni, corpi e pennellate. Bruno verde di foresta. Corpi quasi di muschio. Un affaccio sull’orlo dell’abisso e uno squillare vibrante e drammatico che ritroveremo in Rothko, pasta pittorica che diventa natura essa stessa, puro spazio fisico e mentale al contempo. Panorama fatto da pelle quasi trasparente sfrangiata ai suoi margini ed estremi. Sotto. Oltre. Il paesaggio della pittura. Sprofondare nel quadro, dietro, dentro, attraverso; allargarsi, estendersi ed espandersi del quadro stesso, intorno, a modificare percezioni ritmi pensieri battiti respiri. Un altrove ci circonda e passa nei pori della pelle, quasi tattile, così come noi attraversiamo le molti pelli della pittura e i suoi tempi immobili richiamati qui tutti al presente. Puro paesaggio, quasi un sonno in veglia. Rumore del mare. Schiuma, andirivieni delle onde e maree. L’abbandono infine.

Paesaggio nello scavo e affioramento, scoperchiante mondi di fiaba. Stratificazioni che portano al fantastico, al bestiario e all’incontro, al giardino incantato perduto. Intrusioni. Metamorfosi.
Disegni di Kiki Smith: corpi, peli, capelli, stelle, uccelli, rami, uova, serpenti; sangue. Strati della terra e animali selvatici di fiaba. Pizzi, latte, lacrime. Pieghe della pelle e della carta.

Prima, o parallelo chissà, di questo baratro in cui si infuocano e dilagano i sensi, c’è un altro tipo di paesaggio, quello narrativo e fantastico alla Dosso Dossi, un paesaggio che diventa scenario

La costruzione scenica e il vuoto con figura in Romeo Castellucci. Fantascienza di visione al microscopio. Un velo, o un vetro, ci separano. Zoo. Noi più o meno sperduti, ma sempre tirati in ballo: senza di noi, nessun paesaggio e narrazione; a noi il compito di cucire i frammenti, le immagini e i pezzi sparsi cercando geografie nuove o riscoprendone di antichissime e affioranti. Il teatro delle scimmie.

E quell’assoluta invenzione del paesaggio rappresentata dal Grand Tour, pratica aristocratica che porta a lunghi viaggi continentali, viaggi preparati meticolosamente come una sorta di iniziazione, non solo intellettuale, nel cuore dell’Europa, per scendere giù; in Italia, l’approdo, verso quell’esotico denso di visioni, memorie e bellezze, stratificazioni del tempo e dell’uomo a disegnare i profili dei luoghi e a modificarli empaticamente. Il disegno come strumento di comprensione e di caccia. L’appunto, l’immersione e l’ascolto, la scoperta: le rovine di Roma. Pompei e il Vesuvio. L’approdo in Sicilia. Vulcani. Un paesaggio a tratti decadente dove l’ulivo si abbraccia alla vite, dove manca quella solitudine estrema di natura a favore di un luogo e panorama che rappresentano un museo diffuso e a cielo aperto, denso e ricchissimo, costellato e punteggiato di borghi abbarbicati alla roccia, scavati dentro, sopra; e strade e acquedotti e teatri e ponti e templi e necropoli e spiagge, e monasteri e campanili e chiese con sorprese di incredibili pale d’altare nel più sperduforesta. Pittura Natura Animale 13


to dei paesini. Colline e campi coltivati. Boschi. L’appennino spina dorsale da attraversare. Natura addomesticata pazientemente nella forma paesaggio, e natura che ciclicamente potrebbe riprendersi tutto. Equilibrio duraturo e fragile. Eruzioni. Terremoti. Incendi. Alluvioni. Una grandiosità schiacciante del passato non ancora del tutto scoperta, in parte abbandonata, estrema e vera, che inglesi e tedeschi in qualche modo c’insegnano. Archeologia del souvenir. Il sole. La febbre talvolta. Banditi e pericoli lungo il cammino. Amori che rallentano e sospendono il viaggio. Paludi. Bianco d’ossa. Aridità. La luce, dato così imprendibile, protagonista assoluta di diari, taccuini e resoconti. Fossili. Luce che si farà così concreta e palpabile nei dipinti di Nicolas de Staël, nelle sue perfette e struggenti contrapposizioni di cielo, lingue e strisce di terra, e mare: il nero controluce del tramonto a solcare e segnare nettamente lo spazio, le cose e i profili, equilibrio tra mondi e regni, grazia immensa. Bianco accecante. Nero. La scoperta del blu, squillante profondo. Il cielo, quello che permette di volare via dal mondo, fallimento dell’uomo, sua capacità di guardarlo, meraviglia assoluta e condanna. Icaro che precipita nel mare. O l’acqua e le rocce dipinte, la loro consistenza materica in Gustave Courbet. Gli alberi di Constable. E l’invenzione di un altro paesaggio, quello sconfinato della frontiera, dello spettacolo gigante della natura, l’epicità dei grandi fotografi americani, il Gran Canyon, le Cascate del Niagara, il deserto, enormi sequoie e boschi e ghiacciai. Il Messico. Che forse il concetto e la possibilità del paesaggio stesso cominciano nel momento esatto in cui la tela si ribalta di novanta gradi, una rotazione che produce allargamento dello sguardo e della mente, aperture e spazi nuovi che si offrono e dispiegano all’occhio, un universo nuovo che si affaccia nell’istante esatto in cui i dipinti da verticali passano a essere orizzontali: dalle storie al panorama, dalle vicende al paesaggio, dall’uomo che guarda un altro uomo, all’uomo che guarda la natura, dimenticandosi di sé. Sguardo che forse, latente e potenzialmente, è già consapevole della compromissione futura, della perdita immanente di questa nuova visione e spazio raggiunto. Eppure sembra che il tragico non possa risiedere completamente nel paesaggio; il paesaggio è una vacanza, sempre, per quanto nostalgica. Uscire dagli studi. Colore. Poco disegno a un certo punto. L’invidia per i pittori talvolta. Ecco, nel mentre in cui si apre e allarga la visione, l’uomo diventa parte del paesaggio, ne è sospinto ai margini, o inghiottito, o ma14

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gari è ancora romanticamente al centro di quest’universo, di fronte a scogliere e flutti e lune e crepuscoli e vie lattee e futuri incerti e malinconie che si confondono con il passato, passato che monta e travolge. Distanze da colmare. Esplosioni siderali. Anelli di Saturno. Desideri e mancanze sparse. Quadro che si spalanca, apre e dischiude diventando cinema, orizzonte degli eventi. Buco nero. Dopo, più nulla. Nessun ritorno a casa. Van Gogh nel campo di grano. I misteriosi uomini in canoa di Peter Doig, un incubo dal passato. Sortilegi. Immagini resistenti e ostinate. Revenants. Utopie anche. Onde di segni tremanti a riempire e ritmare la superficie del foglio in Louise Bourgeois, linee che attraversano nervosamente lo spazio scuotendolo. Così, eccoci al racconto orientale che si dispiega e svolge contemporaneamente, e finalmente, nello spazio e nel tempo. Che porta ad attraversare con l’occhio più paesaggi o momenti, o a ricomporli all’infinito sempre diversi come in certi giochi di carte in cui spostare e ricombinare gli orizzonti di sempre nuovi ed estesi panorami e profili del mondo. Fiumi e montagne, carovane e viaggi. Simultaneità. Canne mosse dal vento. Un uccellino perfetto, la curva morbida sinuosa elegante del pesce. L’attimo perfetto catturato e scomposto, e restituito in tutte le sue parti e incanto: le goccioline e spume nell’onda cristallizzata fragorosa sospesa di Hokusai, le nuvolette che cingono la cresta del vulcano e si addensano all’orizzonte per un tuffo nel tutto bianco. Neuroni specchio. L’arte che cerca di imporre e trovare un nuovo ordine nel caos, affinando e portando al limite estremo le percezioni, facendole risuonare a ricreare, trattenere e amplificare l’istante perfetto, meccanismo ed equilibrio svelato del mondo dall’allinearsi di occhio, cuore e mano. Risonanze. Regola che governa. Lo scomporsi e sfaldarsi della montagna Saint Victoire nella sintesi vibrante delle forme in Cezanne, con giustapposizione di toni e tasselli quasi ortogonali di colore; i paesaggi sensibili e permeabili all’atmosfera e umori fatti dalle incerte bottiglie sul tavolo nello studio di Morandi. Una foresta sul tavolo, diversa ogni volta. Come gli alberi, anche queste bottiglie comunicano tra loro mandandosi segnali in codice. Le onde e i vortici che scuotono cieli e campi e alberi e fiori e volti e notti stellate in Van Gogh, l’energia pura e violenta che investe e fa tutto tremante, irripetibile e scosso, come visto per la prima volta, o l’ultima in realtà; i suoi disegni. Lo stagno delle ninfee che Monet si era fatto costruire in giardino e che dipinge in fascinose varianti molte, blu verde viola. Chiudersi al mondo per aprirsi a esso. La calma inquieta e triste delle marine di Munch. Il fuoco di Nolde.


Rosso. Nero verde bianco giallo viola arancio. L’incendio amoroso. Gli addii. Kokoschka e Alma nel vento. I punti di vista molti, esplosi e mobili nei grandi dipinti con natura e alberi e strade e cespugli di David Hocney. Inno alla pittura felice. Paesaggio come rifugio: qui voglio stare. La pittura come un ritorno a casa. Costruzioni leggerissime e venature architettura del mondo in Christiane Löhr. Effimere e fragili e invincibili strutture e disegni a competere coraggiosamente con la natura e i suoi equilibri arditi. E poi la frattura. Ora, già ieri, l’ultimo paesaggio possibile. Quando il paesaggio è diventato e si è trasformato in un discorso imprendibile, ormai impraticabile e definitivamente compromesso, luogo e spazio logoro, già violato irrimediabilmente, e da tempo, dalla mano dell’uomo? E rischiamo certo di apparire ingenui, pericolosamente e clamorosamente in ritardo, nell’affidarci ancora a questa parola, o universo, sia pure per abitudine o sfida. Quali ora i paesaggi, i mari e le foreste? Quand’è che, per colpevole mano nostra, si è esaurito e inaridito infine il concetto di paesaggio, il suo mistero e incanto, con terrore di natura anche. Tuono. Pioggia. Fuoco. E la definizione stessa di natura, in parallelo, è destinata a subire per osmosi la stessa sorte, pur essendoci natura anche senza uomo? Cosa è rimasto a conti fatti di questa invenzione, ora che nulla è più da scoprire e tutto è già visto e sperimentato, eco di una eco? Esploso e alla deriva nella rete, rete che nega lo spazio e il tempo. Come ricaricare ancora di senso e sensi, come addirittura dipingere un’altra volta un paesaggio e affidarsi all’immagine, non solo figurativa, ma alla finestra a potenza rappresentata dal concetto di paesaggio stesso? Come pensare di arginare o contrastare, o anche solo reagire attraverso questi mezzi fragili e da niente, primitivi, all’apparenza superati e statici, al cospetto di un momento storico in cui i luoghi sono fatti saltare e i secoli e i millenni e le genti e i popoli annullati annichiliti? Si può ancora pensare di dipingere un paesaggio e avere la stupida presunzione di aggiungere ancora qualcosa? La risposta non c’è, e se c’è è fragile e precaria. Imperfetta. Ma non per questo meno necessaria e potente: guardare ancora, cercare di vedere meglio. Questo possono fare l’artista, un dipinto o un disegno. Continuare a raccontare il mondo e, automaticamente, noi che siamo dentro. Non sappiamo a cosa serva di preciso tutto questo, eppure qui risiede l’urgenza della pittura. Una forza del passato che ci fa vedere mondi e, forse, futuri possibili. Ancora,

sempre. Non solo spettatori del naufragio. E poi meriterebbero una riflessione più ampia tutti quei luoghi preservati senza tener in minimo conto della contemporaneità, assaliti da orde di turisti e destinati anch’essi all’invisibilità muta assordante. Sepolti. E, come accade, annullare, nell’immobilità colpevole, questa stratificazione necessaria, per sola viltà e codardia, sperando di lasciare intatto il mondo. Città invivibili, luna-park per quasi ricchi. Si è quindi conclusa, clamorosamente e silenziosamente, per sgretolamento lento ed erosione, la stagione felice? E adesso è solo un’ombra quella che ci tocca e resta della nostra sfida, quella proiettata miseramente ai nostri piedi, dialogo sordo e già perso in partenza con la natura? Natura schiacciante e crudele, per alcuni, altro che guerre... E come questa natura violata, in quali forme e modi si riprenderà e muterà, evolvendo ancora e sbarazzandosi infine, senza troppa fatica, probabilmente, della nostra ottusa specie senza memoria? Quale clima, quale paesaggio ancora ci attende e supera? Proprio ora che la parola paesaggio e la natura in genere, da qualche decennio ormai, sono tornati giustamente al centro del dibattito e delle attenzioni, anche da parte degli artisti stessi che sembrano rivolgersi alla sua tutela e cura come non mai, e d’indagarla questa natura culturale, a inglobarla e comprenderla nelle loro ricerche e studi, nei modi di vedere che significano ascolto, ricerca di nuove e altre domande, interrogativi sempre. Discorso sulla natura che si ramifica e coinvolge molteplici campi e punti di vista. I poeti. Battaglie piccole e attenzione e resistenze quotidiane di cui non possiamo fare a meno. Diverso in realtà dal gigantismo della land art, con artista eroe che si carica del bagaglio ecologista, della denuncia o salvazione e salvaguardia del patrimonio paesaggistico e naturalistico. Qualcosa di decisamente meno spettacolare. Piccoli segni. La natura ancora come spinta e propulsione alla metamorfosi e cambiamento. Blu. Certa street art. E musica e suoni che talvolta diventano quasi una colonna sonora di questo sguardo: Björk e Sigur Ros. E noi, quand’è che abbiamo barattato in Italia il nostro paesaggio, perfettamente e lentamente e faticosamente costruito dall’uomo in dialogo con i luoghi, uomo in ascolto della natura e dei suoi ritmi, moti affiancati intrecciati indissolubili, uomo vivente in essa, sapienza contadina di secoli tramandata e affinata, rotazioni e transumanze, capace di un dialogo, certo drammatico e faticoso, faforesta. Pittura Natura Animale 15


cente i conti con grandi povertà, ma per molti versi perfetto, estetico prima di tutto, essenzialità delle cose funzionanti e semplicità che un po’ significa anche etica, misura del proprio posto nel mondo. Sapienza. Quando abbiamo dato il via e sdoganato le costruzioni orribili, la svendita delle coste e crinali per due soldi, facendo invadere e segnare e ferire le campagne da orrendi capannoni e poi le periferie di paesi e città assediate da centri commerciali, astronavi che hanno trasformato larghe parti del Veneto ed Emilia-Romagna in un unico e continuo paesaggio inguardabile, con i paesi incastrati dentro, e che nessuna invocata natura cambogiana potrà forse mai riprendersi. L’abusivismo condizione e malattia dell’anima. Tumore. Cosa stiamo lasciando a nostra testimonianza, quando tutto questo potrà tornare archeologia bellissima? Quanti anni secoli serviranno? Quando abbiamo fatto definitivamente della campagna contadina un’industria? O questa è solo un’immagine romantica e non è mai esistita questa visione idilliaca, si dirà? Di certo, la possibilità di arricchirsi molto, dagli anni ‘60 in poi, ha fatto chiudere più d’un occhio, e digerire più d’uno scrupolo. Il cemento sempre, unica azione e risposta, zoppa visione di nessun futuro. E però anche il costellarsi e crescere di piccoli festival e progetti e centri e presidi che nascono e fioriscono in Italia proprio a partire da una visione periferica, laterale e marginale: salvare un luogo e le storie affidandosi ancora alla cultura, cultura come pratica resistente e di invenzione costante, incerta e mutevole, sperimentale, nemica delle identità scolpite a baluardo e gerarchie immutabili nella mente di alcuni; pratiche concrete di riappropriazione e riscoperta del territorio, e di emancipazione, pratiche inclusive che suggeriscono e preparano il terreno a stili di vita possibili e alternativi, comunità precarie ed effimere che favoriscono l’incontro e relazione tra le persone, suggerendo ritorni e movimenti che sono un vero e proprio coltivare gli sguardi; e dagli sguardi ad altri mondi. Sguardi e azioni che rappresentano alternative tangibili e concrete al mercato più sordo e ottuso, economico e anche culturale purtroppo. Ho visto giovani che lottano; felici. Il museo stesso allora può tornare felicemente e faticosamente a una delle sue missioni primarie, ossia di entità che deve e può essere una delle prime e principali custodi del paesaggio, e delle persone che in esso vivono e vivranno, innesto e organismo fertile

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sul territorio, presidio, luogo mobile e di ricerca, mai dato una volta per tutte. Luogo di produzione d’idee e modi di fare e vedere. Una certa idea del mondo. Certo la fabbrica dell’evento può essere talvolta pratica vuota e bulimica, da turismo mordi e fuggi, ma in molti dei casi luminosi a cui pensiamo c’è invece un progetto, uno sforzo collettivo, un prezioso e insostituibile sistema di relazioni tra le persone, relazione attiva e sensibile che comporta sempre riappropriazione, salvaguardia, tutela e invenzione necessarie: dei luoghi e delle persone, ovvero del paesaggio. Il paesaggio è un equilibrio, un ecosistema complesso. Una geografia. Fatta di un dialogo tra sguardi interni e da fuori. Sempre. Giuseppe Penone è forse l’artista che con maggior grazia, poesia e forza ha saputo cogliere lo struggente e delicato, il contraddittorio equilibrio e dolorosa frattura tra uomo e natura: la sua ricerca ha a che fare con l’idea e pratica concreta e amorosa di paesaggio; e cura. Con l’interrogarsi e interrogare ciò che ci circonda. Il suo lavoro sul tempo, sul complicato rapporto tra natura e cultura è uno scavo magico che riporta alla luce, e alla vita, che sospende il tempo portandolo indietro e avanti. Oscillazione; il soffio che muove le foglie, l’impronta e il peso dei corpi e delle mani, le copie e sfide e dialoghi solitari con la natura nella replica scolpita di un perfetto sasso di fiume. Una preghiera, un tentativo di restituzione che mette al centro l’arte e il pensiero, di nuovo e ancora, come tentativo di comprensione e pratica di guarigione ed emancipazione. Partendo da una perdita o quasi impossibile ritorno. Congiunzioni. Emozioni simili, sentimenti così ampi e universali e struggenti, riesce a restituirli il cinema, quello di Terrence Malick, esempio di pura visione antinarrativa, le sue aperture e squarci sulla natura bellissima e violenta; il senso religioso degli spazi e della vita che ancora incanta e sperde nelle immensità, antidoto al proliferare autistico e ipertrofico del nostro io. Costellazioni e prati. L’acqua di un torrente. Visioni al microscopio ed esplosioni e scontri antichissimi primordiali, pieghe del tempo e dello spazio, voragini che si spalancano maestose e ci gettano avanti e indietro nel tempo. Contemplativi e romantici ancora, per alcuni secondi sembra possibile l’esplodere e dilatarsi infinito del tempo. L’istante e l’immenso. Un quadro ancora.


Fare a pezzi il mondo A me piace la mia terra perché non ci sono boschi, ma alberi isolati. Franco Arminio Non si vede – diceva il re al suo vecchio scudiero Amalberto – non si vede ancora... E lo scudiero: – In vista abbiamo soltanto tronchi, rami contorti, fronde, cespugli e roveti. Maestà, come possiamo sperare di vedere la città attraverso un bosco così fitto? – Non ricordavo che la foresta fosse così estesa e intricata – brontolava il re. Si sarebbe detto che mentre egli era lontano, la vegetazione fosse cresciuta a dismisura, aggrovigliandosi e invadendo i sentieri. Italo Calvino L’albero cerca di crescere intercettando più energia possibile: lotta per la luce solare. Nel bosco ci sono gli alberi sovrani. Li vedi subito: sono maestosi, altissimi, grandi, occupano tutto lo spazio. Intorno non cresce nient’altro, se non fili d’erba, o al massimo bassi cespugli, e solo se riescono a trovare energia per poterlo fare. I rami dei re del bosco si estendono in tutte le direzioni. Sotto il loro cappello però crescono altri alberi, più piccoli. Un grande albero possiede almeno 200.000 foglie, che occupano, secondo i botanici, una superficie di circa 1000 metri quadrati. Gli alberi piccoli cercano di trovare il loro posto. Non sempre ce la fanno. Il re li esclude dal bagno di luce. Se si osserva con attenzione il bosco, si vedono tanti piccoli alberi intorno al sovrano, piccoli dignitari della sua corte. Alcuni anche piegati nell’inchino al signore e padrone della radura. Se potessimo misurare l’età di questi alberelli, scopriremmo che è ragguardevole. Alcuni hanno anche 100 anni, come capita in certi boschi del Nord Europa, ma anche nei boschi meridionali, al Sud dell’Italia, nel Meridione e in Grecia. Lì ci sarà meno sottobosco, per via del calore e della siccità, ma gli alberi attorno hanno età diverse: da 100 fino a qualche decina. Molti alberi nati sotto il gigante muoiono in breve tempo e si trasformano in humus per alimentare il re della radura. Solo se l’albero maggiore si ammala e muore, si trova lo spazio per crescere. Marco Belpoliti Gli alberi sono la più importante tra le manifestazioni della forza della vita che siamo in grado di vedere. Come noi, non ci sono due alberi identici: noi tutti siamo diversi dentro e sembriamo diversi nell’aspetto. Lo si nota più in inverno che in estate. Non è facile disegnare gli alberi, soprattutto quando hanno le foglie. Se non si è sul posto al momento giusto, è difficile vederne le forme e il volume. A mezzogiorno è impossibile. David Hockney C’era una giovane foresta che cresceva sotto la finestra, e sommacchi selvaggi e cespugli di mirtillo che penetravano in cucina; e abeti vigorosi, pieni di resina, che cigolavano contro le tavole per mancanza di spazio, e le cui radici arrivavano fin sotto la casa. Henry D. Thoreau Io guardo spesso il cielo. Lo guardo di mattino nelle ore di luce e tutto il cielo s’attacca agli occhi e viene a bere, e io a lui m’attacco, come un vegetale che si mangia la luce. Mariangela Gualtieri Gli occhi abbassati sull’acqua dove il sole mattutino disegnava ruote di luce, diademi a coda di pavone che intrappolavano ogni fuscello, ogni granello di sedimento, lunghe schegge e lame di luce nell’acqua torbida, slittanti come effetti strobo in cui filtravano e vorticavano particelle. Cormac McCarthy Per esempio: la storia trionfa sull’oblio; la musica fornisce un centro; il disegno contrasta la sparizione. John Berger I dipinti hanno un’influenza sui dipinti, ma ci permettono anche di vedere cose che altrimenti non saremmo in grado di vedere. David Hockney foresta. Pittura Natura Animale 17


C’è stato un tempo in cui il primo significato della parola autore era “colui che aggiunge” Massimo Pulini La pittura offre dunque una presenza fisica costante, fedele, istantanea, palpabile. È la più immediatamente sensuale delle arti. Corpo a corpo. E uno dei corpi è quello dello spettatore. John Berger Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto, corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento. Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: «Aiutami, padre» dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. Ovidio Guardare immagini non avvicina alla realtà. Induce in tentazione. Marlene Dumas Un disegno mette lentamente in dubbio l’apparenza di un evento e così facendo ci ricorda che le apparenze sono sempre una costruzione con una storia. (…) Disegnare è guardare, esaminare la struttura delle apparenze. Il disegno di un albero non mostra un albero, ma un albero che viene osservato. John Berger Per lo scultore, dunque, la memoria è una qualità propria del materiale stesso: la materia è la memoria. Usando il carbone – sia pure sotto forma di una semplice punta di carboncino – Penone si interrogherà sul fatto sconcertante che il carbonio presenta l’elemento che ha la differenza più sottile tra l’ordine animale, quello vegetale e quello minerale. La memoria del carbonio, dunque, incrocerà quella dell’artista perché emerga un’immagine del materiale minerale allo stato nascente – che non è altro se non la decomposizione di corpi animali, o addirittura umani, sotto terra da tempo immemorabile, ammassati fino alla torba e al carbone. Georges Didi-Hubermann Le prime immagini che siano mai state dipinte raffiguravano corpi di animali. Da allora. La maggior parte dei dipinti realizzati nel mondo hanno rappresentato corpi dell’una o dell’altra specie. Non è per sminuire i paesaggi o altro generi più tardi, e neppure per stabilire una gerarchia. Tuttavia, se si rammenta che il primo fondamentale scopo della pittura è evocare la presenza di qualcuno che non è lì, non sorprende che quel che di solito si evoca siano dei corpi. John Berger Quella sera Max si mise il costume da lupo e ne combinò di tutti i colori, e anche peggio. La mamma gli gridò: Mostro selvaggio!” e Max rispose: “E io ti sbrano”. Così fu cacciato a letto senza cena. Nella camera di Max quella sera una foresta crebbe, e crebbe crebbe crebbe. Crebbe fino al soffitto ormai fatto di rami e foglie, e pure le pareti si trasformarono in foresta. E si formò perfino un mare con sopra una barchetta tutta per Max che giorno e notte si mise a navigare. Maurice Sendak É, anzitutto, un luogo per perdersi – una “strada che non porta da nessuna parte”. Un luogo in cui dobbiamo procedere a tentoni, 18

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usando il tatto, perché siamo incapaci di prevederne le molteplici diramazioni. È un rizoma, qualcosa che evoca i reticoli vegetali di un tubero, di una buccia o di una foglia, le gallerie minerali di uno scavo archeologico, i vasi capillari delle mie stesse palpebre, le suture del mio stesso cranio. Scolpire, secondo Penone, è seguire il “sentiero perduto”, è rinunciare alle forme prevedibili, ritrovare un progredire nell’incertezza del materiale informe. “Trovare il sentiero, percorrerlo sondarlo scartandone i rovi è la scultura”. Georges Didi-Hubermann Qualsiasi cosa a cui si possa pensare, l’essere ritardati, le idee stupide, costrutti e speculazioni inutili, le incredibili invenzioni e brillanti sovrapposizioni – ciò che non puoi fare a meno di vedere un milione di volte, un giorno sì e uno no; l’impoverimento di una certificata inettitudine, io dipingo tutto questo, tirandolo fuori da me stesso, dalla mia testa, quando comincio un quadro. Mi libero di tutto questo nei primi stati, che distruggo, strato per strato, finché la ritardataggine non se ne è andata. Non c’è bisogno di dire che non posso prendere scorciatoie: non si può cominciare un lavoro direttamente dalla fine. Gerhard Richter Campagne infinite di gente contenta, io scrivo canzoni che cazzo mi frega, in un campo gigante ci pianto la testa. Motta E chiaro che in un momento di crisi, in un momento in cui le persone hanno difficoltà ad andare avanti, non si può pensare che la soluzione è considerare l’intelligenza di un sasso o di un ramo. D’altra parte l’urgenza delle risposte non deve farci perdere di vista che siamo al mondo senza alcun mandato, sia come specie che come individui, e chi pretende di assegnarcelo ci sta imbrogliando. (...) E allora se la sfida è posta all’altezza che merita, siamo chiamati tutti a combatterla, cominciando dal primato dei luoghi e dell’esperienza invece che dell’astrazione e del globalismo. Franco Arminio La precarietà, l’incertezza, l’instabilità albergano nei materiali, nelle relative tecniche e nella stessa tecnologia. La cancellatura imperfetta non è artificiosa, non è un effetto supplementare. È quanto ci propone il processo creativo, l’attività fisica: disegnare, cancellare, filmare, camminare. Lo studio incontra il mondo a metà strada. Nella misura in cui un disegno è una membrana tra il mondo che ci viene incontro e la proiezione del nostro modo di comprenderlo, una trattativa tra noi e l’esterno, questa cartina diventa un disegno simbolico, che ha come oggetto consapevole l’incontro tra il mondo come ci si presenta e la nostra proiezione ampliata su di esso. L’atmosfera è satura di immagini, il tempo si inspessisce di eventi e delle relative immagini, un magma, una nebbia, come se fosse possibile, prendendo un foglio di carta e agitandolo in aria, catturare le immagini che vanno a schiantarvisi contro. (…) Sul foglio sventolato in alto, gli alberi fuori dalla finestra, la città oltre, il traffico, le notizie di oggi e di ieri, gli scioperi, i disordini, il disagio in tutti gli angoli del mondo. La membrana permeabile. William Kentridge Ancora una cosa lo affascina: il carattere sedimentario, per pelli sovrapposte o strati, del sistema di contatto formato dall’osso del cranio e da tutto ciò che esso racchiude – la massa del cervello, certo, ma anche i tessuti, membrane, umori e muscoli che rivestono, proteggono, servono da elemento di contatto o da isolanti. Si impone allora un’analogia ed è con la cipolla, che Leonardo non esita a disegnare di fronte a una delle sue più famose sezioni anatomiche. (...) La cipolla non è una scatola: il contenitore in essa si identifica esattamente con il contenuto, secondo un paradosso “pellicolare” che fornisce, certo, un’immagine d’elezione allo specialista della geometria, al filosofo e all’artista. Nella cipolla, in effetti, la buccia è il nucleo: ormai più nessuna gerarchia possibile tra centro e periferia. Un’inquietante solidarietà, fondata sul contatto – ma anche su interstizi ultrasottili – lega ciò che avvolge e ciò che è avvolto. L’esterno, qui, non è altro che una muta dell’interno. Georges Didi-Hubermann Disegnare non è solo misurare e annotare, è anche ricevere. John Berger L’autismo corale si sconfigge non con la fuga nel deserto. Basta cercare i margini del nostro mondo, i luoghi sfrangiati, dismessi. Anche foresta. Pittura Natura Animale 19


il pensiero unico ha le sue periferie, i suoi colpi a vuoto, le sue mancanze. Tutto quello che sembra un fallire oggi è la nostra unica speranza. Franco Arminio Nel primo tipo di disegno (a un certo punto questi disegni furono giustamente chiamati “studi”) le linee sul foglio sono tracce lasciate dallo sguardo dell’artista, che incessantemente parte, si mette in viaggio, interroga la singolarità, l’enigma, di ciò che ha davanti agli occhi, per quanto ordinario e quotidiano possa essere. Il totale delle linee sul foglio racconta una sorta di migrazione ottica grazie alla quale l’artista, seguendo il proprio sguardo, sceglie la persona, l’albero, l’animale o la montagna che disegnerà. Nella seconda categoria di disegni il traffico, il trasporto, va nella direziona opposta. Adesso si tratta di portare al foglio quel che è già nell’occhio della mente. Consegna piuttosto che migrazione (…) In questa categoria non troveremo confronti o incontri. Piuttosto osserviamo da una finestra la capacità di un uomo di sognare, di costruire un mondo alternativo e immaginario. John Berger I disegni sono più vicini e più rapidi nel trasmettere sensazioni immediate: tanto più si va verso il dipinto, tanto più scuro diventa il bosco attraverso cui passa Cappuccetto Rosso, e non è soltanto il lupo ma anche la strega cattiva e i sette nani e poi Giuda e Gesù e i giornalisti che lei deve affrontare. Marlene Dumas Verbena non riusciva a capire se era rimasta prigioniera dentro il tronco del gelso, o tra le radici sepolte, oppure se era sbucata fuori dalla città; nella foresta minacciosa che tanto la impauriva... nella libera foresta che tanto l’attraeva... Italo Calvino Otto anni fa, non avrei dipinto il soggetto che ho intrapreso ora: una radura piena di piante. Mi sarebbe sembrato un vero guazzabuglio: dovevo iniziare a guardare, disegnare e ancora guardare. Ora, grazie al tempo che ho trascorso a disegnare queste piante so quel che cerco. Come si sovrappongono l’una all’altra? Dove finisce una e comincia l’altra? Fino a dove si arrampicano le ortiche? Naturalmente, anche se il soggetto è davanti a noi, interviene il ricordo anche solo di un secondo, di cinque secondi, di un minuto fa. David Hockney (…) sicché lo sviluppo di ogni conoscenza altro non è, per Humboldt, che la traduzione in termini finalmente esatti e rigorosi di un’impressione aurorale, quella appunto espressa dal paesaggio, che di scientifico non ha nulla, ma senza la quale tutta la scienza sarebbe impossibile. Franco Farinelli Mi rendo conto che quando vediamo qualcosa a noi arriva solo una parte di informazioni, una sensazione, un’idea vaga di quel che realmente si può vedere. Non conosco i dettagli né la terminologia, ma io so che il nervo ottico non mi sta dicendo tutta la verità. Quello che vediamo sono solo indizi. Il resto è una nostra invenzione, il nostro modo di ricostruire ciò che è reale, sempre ammesso che, filosoficamente parlando, sia possibile l’esistenza di qualcosa che noi definiamo reale. Don DeLillo Dipingere è sempre stato per me un tentativo di esplorare cosa effettivamente la pittura sia ancora in grado di fare o gli sia permesso fare. Ma si tratta anche della pura ostinazione di continuare a dipingere, anche se apparentemente non ne usciva nulla di buono. Gerhard Richter Dipingere non è un’attività progressista. Marlene Dumas Capire, sperare, credere non per convinzione ma per effetto di un’esperienza fisica, credere che dal fare fisico, dalle stesse imperfezioni della tecnica (il nostro pessimo modo di camminare all’indietro) si rivelino parti del mondo e parti di noi che non avevamo espresso né conosciuto prima di vederle – e a quel punto capiamo di averle sempre conosciute benissimo. Negli interstizi aperti da quegli stessi gesti 20

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stupidi (le pagine strappate a casaccio, la riga, la parabola) mettiamo in atto, vediamo e anche rendiamo onore al contributo che diamo alla comprensione del mondo. William Kentridge Ma come il mito insegna, tutto inizia quando invece di Dioniso, il dio della vita senza interruzioni e limiti, della vita intesa come infinito e indistinguibile (cioè inseparabile) processo, lo specchio riflette il bianco velo di terra che ricopre il suo volto e lo nasconde ai suoi stessi occhi: riflette cioè il suo viso trasformato in una chiara superficie, e proprio perché per la prima volta distinguibile, mai vista prima. Soltanto per effetto di tale trasformazione-sostituzione le spade e i coltelli dei Titani possono entrare in funzione e sezionare la totalità del processo vitale, approfittando dell’attimo che corrisponde alla sua parziale paralisi. E soltanto con tali lame è possibile ottenere i contorni, i limiti, le linee che separano e definiscono le cose, le sezionano e spartiscono, e rendono perciò possibile la nostra vita, che proprio in virtù di tali limitazioni è diversa da quella degli dei. Franco Farinelli Dall’inizio dell’Ottocento a oggi questa concezione del museo come approdo terminale di tutte le distruzioni che via via si susseguono non ha cessato di svilupparsi. (…) Collezionare, raccogliere, salvare oggetti dalla distruzione fa parte di un comportamento che l’uomo sembra aver tenuto costantemente nel tempo, a partire dal gesto elementare di disporre oggetti intorno a sé, nella forma di una microstruttura protettiva, fatta di reperti legati alla vita e alle persone. Adalgisa Lugli É forse per questa ragione che le statue dell’antichità, giunte a noi con le guance rotte, con gli occhi cavi e le gambe spezzate, mi trasmettono un profondo senso di stoicismo. Un busto romano senza più naso, con un vistoso fendente sul cranio continua a guardarti dritto negli occhi, impassibile, come un San Sebastiano trafitto da dieci frecce, grondante sangue e legato stretto a un albero. Mi verrebbe da dire che quelle statue incarnino, o meglio pietrifichino, tutta la forza etica ed eroica dell’arte, che sopporta le ferite del tempo e dell’uomo senza lamento, lasciando una risposta muta, ma potentissima, contro l’ingiuria. Massimo Pulini All’altezza di un gruppo di cespugli Tom ha fatto giurare a tutti di mantenere il segreto e poi ci ha fatto vedere un buco nella collina, proprio dove i cespugli erano più fitti. Poi abbiamo accesso le candele e siamo andati avanti a quattro zampe. Dopo duecento metri circa siamo arrivati a uno slargo. Tom s’è messo a cercare l’entrata e un attimo dopo s’è infilato sotto la parete della roccia dove nessuno poteva accorgersi che c’era un buco. Attraverso un passaggio stretto siamo entrati in una specie di stanza umida e fredda e piena di goccioline e ci siamo fermati. Tom fa: «Adesso fondiamo una banda di briganti e la chiamiamo “la banda di Tom Sawyer”. Chi vuole entrarci deve fare giuramento e scrivere il suo nome col sangue». Mark Twain Ci vogliono due sguardi verso il nostro Sud, uno sguardo interno e uno esterno. Intimità e distanza. Per parlare di un paese bisogna starci dentro, bisogna avere l’infiammazione della residenza, ma ci si deve anche sentire estranei. Franco Arminio Noi vediamo con la memoria. La mia memoria è diversa dalla sua, quindi anche se siamo entrambi nello stesso posto, non vediamo la stessa cosa. David Hockney Il frottage, lo sappiamo, è una tecnica archeologica per eccellenza: cattura le tracce più antiche e meno visibili. Porta alla luce fossili di gesti, momenti brevi (il passaggio di animali) e periodi lunghi (formazioni geologiche) induriti come il carbone. Ora, per Penone, essere uno scultore è anche essere fossile: un’impronta del tempo. Georges Didi-Hubermann L’immagine dipinta rende presente quel che è assente, perché è avvenuto in un luogo molto lontano o molto tempo fa. L’immagine foresta. Pittura Natura Animale 21


dipinta consegna al qui e ora quel che rappresenta. Va a prendere il mondo e lo porta a casa. (…) Turner esce dalla burrasca con un dipinto. Valica le Alpi e riporta un’immagine della terrificante grandiosità della natura. L’infinito e la superficie della tela giocano a nascondino nella sala dove è appeso il dipinto. John Berger Abbiamo poi scoperto che i cinesi, nell’XI secolo, avevano già rifiutato l’idea del punto di fuga perché implicava il fatto che l’osservatore fosse all’esterno e non si muovesse. Se non ci si muove, si è praticamente morti. Nella pittura cinese si viaggia all’interno del paesaggio. David Hockney Nel mio caso è davvero questione di riuscire a piazzare una trappola con la quale poter catturare il fatto nel suo momento più vitale Francis Bacon Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Henry D. Thoreau Dipingo perché sono una donna. (È una necessità logica.) Se il dipingere è femminile e la pazzia è una malattia femminile, allora le donne pittrici sono pazze e tutti i pittori maschi sono donne. (…) Dipingo perché sono una ragazza di campagna. (Le ragazze di città intelligenti non dipingono.) Marlene Dumas L’evoluzione ha funzionato anche in questo. Le foglie grandi sono idonee agli ambienti umidi, come le foreste tropicali; nei climi secchi non le troverete mai: lì sono piccole e spesse (si chiamano sclerofille), in modo da perdere poca acqua nella traspirazione. Le foglie sono un meraviglioso organismo. Sono loro la parte più attiva dell’albero. Traspirano attraverso gli stomi, delle piccole valvole disposte sulla parte inferiore. Mediante gli stomi avvengono gli scambi di gas, ricorda Barbera: entra l’anidride carbonica, fuoriescono vapore acqueo e ossigeno. Ecco perché sono così importanti per noi. E le radici. Sono tra le cose più disegnate da bambini, forse perché non si vedono. Un’altra meraviglia dell’albero. Sono più ampie della parte ramificata esterna, per necessità: sostengono l’albero e lo nutrono. Non scendono troppo in profondità. Sono superficiali, perché nel primo metro di terra c’è la maggior parte del nutrimento necessario creato da resti organici di altre piante o animali. Lì c’è più ossigeno e acqua. Marco Belpoliti Vedi quest’albero tutto contorto? Se tu gli giri intorno in questo senso vedrai il bosco sottosopra, se gli giri intorno in senso contrario, l’alto e il basso si rovesceranno di nuovo. Italo Calvino Si può immaginare un percorso intorno alla museologia solo dotandosi di uno strumento molto prudente e rispettoso in un terreno così complesso: una specie di carta geografica di un territorio di cui si è ben lontani dall’avere una configurazione definitiva, ma di cui si deve essere preparati a ridisegnare di tanto in tanto i confini, con tutti i rischi del procedere senza sapere quale sarà la figura finale che prenderà forma. Il delinearsi di un disegno che si dispiega via via e in cui si fissano di tanto in tanto i luoghi e nomi è quanto si può procedere a fare in questa sede. Adalgisa Lugli Da ogni sguardo il disegno raccoglie una piccola evidenza. Esso consiste, tuttavia, nell’evidenza di molti sguardi che si mostrano insieme. Da un lato, in natura, non esiste veduta immutabile quanto quella di un disegno o di un dipinto. Dall’altro, quel che in un disegno vi è di immutabile consiste di un numero tale di istanti assemblati che finiscono per costituire una totalità piuttosto che un frammento. L’immagine fissa del disegno o del dipinto è frutto dell’opposizione di due processi dinamici. Sparizioni cui si oppone l’assemblaggio. Se per praticità si accetta la metafora del tempo come flusso, come fiume, allora l’atto del disegnare andando controcorrente, raggiunge l’immobilità. John Berger 22

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Il catalogo è una potente mappa di orientamento che si offre al visitatore, che può andare a cercarsi da solo gli oggetti, e può avere finalmente l’impressione che il museo non sia un unico enorme boccone da ingoiare in un attimo, ma un luogo di consuetudine in cui si va di tanto in tanto a vedere una sezione, un’opera. Adalgisa Lugli Tu che puoi dissolvere le ombre. Dormi, dormi. Dormi, che ho inventato un mondo nuovo. Solo per te. Paolo Benvegnù La luna si levò, ma come Hansel fece per cercare le bricioline, ecco che erano sparite, le migliaia e migliaia di uccellini del bosco le avevano trovate e becchettate. Hansel credeva di trovare lo stesso la via di casa, e si trascinò via Gretel, ma presto si persero in una zona selvaggia e camminarono tutta la notte e il giorno dopo, finché non si addormentarono per la stanchezza; e camminarono ancora per un giorno, ma non venivano fuori dalla foresta, e avevano tanta fame, ma da mangiare non c’era che qualche piccola bacca trovata per terra. Jacob e Wilhem Grimm Le sue mani cercarono un fuscello con cui disegnare in terra i suoi pensieri. John Steinbeck

Bibliografia Franco Arminio Geografia commossa dell’Italia interna Bruno Mondadori, Milano - Torino 2013 Italo Calvino La foresta - radice - labirinto Oscar Mondadori, Milano 2000 Marco Belpoliti Ma che cos’è un albero? Doppiozero.com (27 luglio 2017) Martin Gayford A bigger message. Conversazioni con David Hockney Einaudi, Torino 2012 Henry D. Thoreau Walden ovvero Vita nei boschi BUR, Milano 1988 Mariangela Gualtieri Fuoco Centrale Einaudi, Torino 2003 Cormac McCarthy Suttree Einaudi, Torino 2009 John Berger Sul disegnare Libri Scheiwiller, Milano 2007 Massimo Pulini Il secondo sguardo Medusa, Milano 2002 John Berger Presentarsi all’appuntamento Libri Scheiwiller, Milano 2010 Publio Ovidio Nasone Metamorfosi Garzanti, Milano 1995 Marlene Dumas “Più grande del naturale” Mano. Fumetti Scritti Disegni/sei - Coconino Press, Bologna 2001 Georges Didi-Hubermann Su Penone Electa, Milano 2008 Maurice Sendak Nel paese dei mostri selvaggi Babalibri, Milano 1999 Gerard Richter A cura di Hans Ulrich Obrist La pratica quotidiana della pittura Postmedia Books, Milano 2003 Francesco Motta La fine dei vent’anni Woodworm, Arezzo 2016 William Kentridge Sei lezioni di disegno Johan & Levi Editore, Monza 2016 Alexander Von Humboldt Antologia a cura di Franco Farinelli Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente Quodlibet / Humboldt, Macerata - Milano 2014 Don DeLillo Zero K Einaudi, Torino 2016 Franco Farinelli Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2003 Adalgisa Lugli Museologia Jaca Book, Milano 1992 Massimo Pulini La parte muta Medusa, Milano 2006 Mark Twain Le avventure di Huckleberry Finn Oscar Mondadori, Milano 2004 David Sylvester Interviste a Francis Bacon Skira, Milano 2003 Paolo Benvegnù Earth Hotel Woodworm, Arezzo 2014 Jacob e Wilhelm Grimm Tutte le fiabe Donzelli Editore, Roma 2015 John Steinbeck Furore La Biblioteca di Repubblica, Roma 2002 foresta. Pittura Natura Animale 23


FORESTA. Pittura Natura Animale > Rimini Ala nuova del Museo della CittĂ Giovanni Frangi A cura di Massimo Pulini e Massimiliano Fabbri


La pittura scandaglia la superficie In questo ossimoro si catalizzano due delle principali componenti di un’arte millenaria, quelle che pertengono all’emerso e al sommerso della visione. Come dire che in un dipinto l’ultima pennellata ha ragione su tutte le altre, ma che senza le altre non avrebbe ragione d’essere. La pittura scandaglia la superficie, sonda la profondità del pensiero nella schiuma delle onde, trova la carne nello strato più esposto della pelle, vede lo spessore della zolla nella cresta di fili d’erba. Quando Albrecht Dürer ritrasse la Grande zolla (Vienna, Albertina), che vangò dal terreno in un giorno d’inizio estate del 1503 ponendola sopra un tavolo, fece un’opera di prospettiva usando un effetto di primissimo piano. Il suo occhio e la sua mano si inoltrarono nella foresta in miniatura, analizzarono l’elevarsi degli steli di gramigna, le foglie allargate della piantaggine e quelle dentate del tarassaco e intuirono la profondità del terreno, traducendo tutto questo in due sole dimensioni, in una sottile superficie cartacea, su cui l’acquerello non aggiunse altro spessore. Quello era comunque un ritratto dal vero, ma ci sono certe opere di Dosso Dossi o di Tintoretto che ci restituiscono il sottobosco a memoria, facendoci percepire anche l’umidità dell’aria, il vento tra le foglie. Il luogo in cui l’immagine pittorica della natura diviene più intensa non è all’aperto, en plein air, ma nel chiuso di un atelier, entro il quale le riflessioni più meditate, i pensieri più reconditi, gli sguardi più acuti, si impastano con l’immaginazione dell’artista. David Caspar Friedrich non dipingeva le sue soverchianti visioni naturali stando sull’orlo dell’abisso, le inventava mentre era seduto davanti al proprio cavalletto, certamente dopo averne fatto esperienza, ma la forza di quelle opere è una potenza ragionata lucidamente, ruminata nel dettaglio da una paziente pratica di laboratorio e di tecnica. Anche il modus operandi degli impressionisti credo sia stato, in buona parte, mitizzato. Sono convinto che perfino Claude Monet, dopo aver abbozzato in giardino le prime ninfee, le rifinisse nel chiuso dello studio, dove trovava un’intimità specchiante tra la luce e il suo pensiero. Questa premessa mi è servita a disporre sulla tavolozza alcuni aspetti dell’opera di Giovanni Frangi, che del tema naturale ha quasi costruito la propria ossessione. La prima stagione di Giovanni era caratterizzata da robusti spessori materici, come se la sua pittura tentasse di divenire zolla, quasi cercasse di sostituirsi al paesaggio stesso, alla sua immanenza. Un impenetrabile impasto disponeva campiture e rilevava forme, ammantava visioni nelle quali anche i fiumi assumevano una consistenza magmatica. Mentre da qualche anno quel terreno cromatico si è concentrato in arcipelaghi che sembano veleggiare su bianche superfici. Talvolta anche le pietre dipinte da Frangi si scambiano per ninfee nel venire a galla della materia pittorica sopra il foglio di carta; gli alberi diventano cortecce e cercano di inseguire la loro ombra e la verticalità dei tronchi sente il bisogno di striature orizzontali, come nei boschi di betulle di Klimt. La consistenza del pigmento, la densità del pennello, dialoga con un disegno rapido, largo e compulsivo, desunto dalla proiezione di un’immagine fotografica che, abbandonata la propria momentanea memoria, lascia sul terreno un campo asciutto, più mentale che fisico. Un vuoto che diviene utile, un valore aggiunto offerto dalla sottrazione, da una mancanza che diviene luce. È proprio sulle antinomie che si gioca la più recente ricerca di Giovanni Frangi, dove peso e aria trovano una danza armonica, dove materia e spirito della natura si fondono tra loro. Allora assieme alle sparizioni si manifestano le presenze, così il vuoto fa da prospettiva al pieno e viceversa. Ne deriva una profondità affiorante che è metafora della pittura, di quell’ossimoro in cui è immersa l’arte stessa. Massimo Pulini

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Giovanni Frangi

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Masua II, 2016 pastello a olio su carta

Ninfee I, 2016, pastello a olio, matita e pigmento su carta, cm 206x221

Masua IV, 2016 pastello a olio su carta

Fontanamare II, 2016, pastello a olio, matita e pigmento su carta, cm 200x280

Ninfee II, 2016, pastello a olio, matita e pigmento su carta, cm 206x221

Angara, 2016, pastello a olio su carta nera, cm 200x280

Fontanamare I, 2016, pastello a olio, matita e pigmento su carta, cm 200x280

Antigua I, 2016, pastello su carta nera, cm 198x150

Trevi, 2016, pastello a olio, matita e pigmento su carta, cm 200x280

Antigua II, 2106, pastello su carta nera, cm 150x200

San Pietro, 2016, pastello a olio, matita e pigmento su carta, cm 200x290

Giovanni Frangi È nato a Milano il 12 maggio 1959 Ha studiato all’Accademia di Belle arti di Brera Ha cominciato a esporre nel 1983 L’ultima sua mostra è stata nel 2017, Prêt-à-porter a Palazzo Fabroni a Pistoia Vive e lavora a Milano

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FORESTA. Pittura Natura Animale > Bagnacavallo Convento di San Francesco • Salette garzoniane

Mirko Baricchi • Manica lunga

Luca Coser | Lorenzo di Lucido • Primo piano

Paola Angelini | Enrico Minguzzi Elena Hamerski | Massimiliano Fabbri Lorenza Boisi | Luca Caccioni • Sala delle capriate

Veronica Azzinari 36

A cura di Massimiliano Fabbri


Bagnacavallo Convento di San Francesco

LC = Luca Coser LDL = Lorenzo di Lucido MB = Mirko Baricchi LC = Luca Caccioni EM = Enrico Minguzzi EH = Elena Hamerski MF = Massimiliano Fabbri VA = Veronica Azzinari LB = Lorenza Boisi PA = Paola Angelini

MF MF VA

LC

LDL

MF EH EH

MB MB

EM EM LC

EM

LB LB PA

LC

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Mirko Baricchi

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Luca Coser

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Lorenzo Di Lucido

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Paola Angelini

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Lorenza Boisi

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Enrico Minguzzi

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Luca Caccioni

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Elena Hamerski

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Massimiliano Fabbri

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Veronica Azzinari

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Palazzo Pezzi

GL

GZ

DG

VP

GB+DG

MN MS

SC

GB AB

piano terra

JC

primo piano

GL = Giovanni Lanzoni GZ = Giulio Zanet MS = Marco Samorè SC = Silvia Chiarini

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MS

DG = Domenico Grenci GB = Giovanni Blanco MN = Matteo Nuti AB = Antonio VP = Vera Portatadino MS = Marco Salvetti JC = Jacopo Casadei

DRi = Denis Riva DRo = Debora Romei MA = Marco Andrighetto


FORESTA. Pittura Natura Animale > Cotignola, Museo civico Luigi Varoli DRo

DRi

MA

secondo piano

Palazzo Pezzi Marco Samorè | Silvia Chiarini Giovanni Lanzoni | Giulio Zanet Marco Salvetti | Jacopo Casadei Antonio Bardino | Matteo Nuti Vera Portatadino | Giovanni Blanco Domenico Grenci | Debora Romei Marco Andrighetto | Denis Riva Palazzo Sforza Rudy Cremonini Alberto Zamboni Casa Varoli Alessandro Saturno Massimo Pulini Vittorio D’Augusta A cura di Massimiliano Fabbri 93


RC

AZ

RC

PIANO TERRA PIANO TERRA Palazzo Sforza piano terra PIANO TERRA

Palazzo Sforza primo pianoPIANO PRIMO

PIANO PRIMO

PALAZZO SFORZA PALAZZO SFORZA PALAZZO SFORZA

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PIANO PRIMO

RC

Palazzo Sforza secondoPIANO piano SECONDO PIANO SECONDO

PIANO SECONDO


AS

AS

AS V DA

Casa Varoli piano terra

AZ = Alberto Zamboni RC = Rudy Cremonini AS = Alessandro Saturno V DA = Vittorio D’Augusta MP = Massimo Pulini AS = Alessandro Saturno

AS

MP

Casa Varoli primo piano 95


Rudy Cremonini

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Alessandro Saturno

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Giulio Zanet

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Vera Portatadino

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Matteo Nuti

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Antonio Bardino

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Marco Salvetti

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Jacopo Casadei

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Giovanni Blanco

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Studio di Giovanni Blanco con il ritratto a Domenico Grenci


Studio di Domenico Grenci con il ritratto a Giovanni Blanco

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Domenico Grenci

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Marco Andrighetto

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Debora Romei

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Denis Riva

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MR

CB

LB

FG

Comune di Fusignano

FORESTA. Pittura Natura Animale > Fusignano, Museo civico San Rocco Comune di Fusignano Cesare Baracca | Lucia Baldini | Federica Giulianini Museo civico San Rocco Luca De Angelis | Giulia Dall’Olio Cesare Baracca | Lucia Baldini Raccolta targhe devozionali Marina Girardi | Martina Roberts | Federica Giulianini 184

A cura di Massimiliano Fabbri


LB GDO

LDA

MR = Martina Roberts CB = Cesare Baracca LB = Lucia Baldini FG = Federica Giulianini GDO = Giulia Dall’Olio LDA = Luca De Angelis MG = Marina Girardi

CB

Museo civico San Rocco

MG

MG

MG MG

MG MG

MR FG

Raccolta targhe devozionali

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Cesare Baracca

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Luca De Angelis

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Lucia Baldini

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MIC

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FORESTA. Pittura Natura Animale > Faenza MIC Museo Internazionale delle Ceramiche Lorenza Boisi A cura di Irene Biolchini e Massimiliano Fabbri

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In fondo al giardino un Volto Verde La personale che Lorenza Boisi presenta all’interno delle stanze del MIC non è una mostra antologica di sculture scelte, ma una selezione di nuove opere, tutte concepite come site specific per gli spazi del museo. E tuttavia vi è nella selezione dei pezzi scultorei e nell’elaborazione della performance, che animerà tanto le opere quanto gli spazi del piano superiore del museo, tutto il senso della ricerca dell’artista. In un’intervista Lorenza Boisi ha parlato della sua pittura come di una sequenza di segni, un abbecedario1. Ritorna alla mente la pittura di Miró e il suo abbecedario esposto a Mallorca. Descrivendo le stelle, il suo simbolo forse più noto, fu proprio l’artista ad affermare che l’unico modo per non avere controllo di sé era ripetere il gesto un numero così infinito di volte che la mente non sarebbe più stata in grado di ordinare i movimenti della mano. Solo tramite la ripetizione del segno egli non avrebbe avuto più controllo, potendo liberare l’inconscio. Ed è proprio nella liberazione della parte non necessariamente controllata che si annida tanta pittura di Lorenza Boisi che proprio alla dimensione notturna, onirica ha pagato tributo nella mostra Night Vision del 2010. In questa selezione presentata al MIC la dimensione inconscia, sottesa a tanta pittura, si manifesta proprio nel desiderio, lo stesso desiderio che Pigmalione – prodromo scultore – nutriva per la sua scultura, così perfetta, più perfetta di qualunque donna. All’interno delle sale dei “bianchi di Faenza” Lorenza Boisi interviene con un’inondazione di colore, di vita, di desiderio. I tre performers che popolano le sale del museo, seminudi nella loro provocante giovi-

nezza, sembrano dare corpo al desiderio di Pigmalione: riattivano, in tutta la loro seduttività, la sensualità della scultura. Gli oggetti che i ragazzi portano in mano non sono strumenti neutri, accessori alla messa in scena, ma vere e proprie sculture. Le stesse sculture che torneranno inanimate sui plinti per tutta la durata della mostra. Inanimati, ma non morti. Vi è in questa rivilitalizzazione della scultura il monito di Martini che scriveva: ‘la statuaria è morta. La scultura vive’.2 La statuaria, legata indissolubilmente al dato iconografico e allo stile, deve essere superata – secondo Martini – in favore di una scultura che sia ‘un discorso spontaneo, misterioso ma fatale, come lo svolgersi della nascita nel grembo materno; una facoltà naturale eterna che stupisce per la semplicità di ripetersi nel tempo come un filo d’erba’.3 In attesa di una nuova vita. Vita misterica, alchemica che popola anche la ricerca di Lorenza Boisi. Ma che caratterizza anche la storia della ricerca ceramica, in quel susseguirsi di reazioni chimiche che generano il colore. E del resto è proprio nella ricerca alchemica dell’oro, da un errore sperimentale, che si scoprì come realizzare la porcellana. Di queste ed altre alchimiche possibilità si fa custode l’artista che, come l’uomo dal Volto Verde di Meyrink, ci riconsegna parte della nostra quotidianità disvelata di senso, un senso che emerge solo mediante la rappresentazione della stessa, così come nel caso dei resti del picnic che popolano un contemporaneissimo déjeuner sur l’herbe. Irene Biolchini

1 «La mia pittura ha conosciuto la definizione fluida di un abbecedario di segni spontanei, potremmo dire un’interna economia linguistica». Lorenza Boisi in E. Borneto, Lorenza Boisi. Night Vision, Espoarte.net, 27 Gennaio 2010. Cfr: https://www.espoarte.net/arte/lorenza-boisi-nightvision/ 2 La frase è riportata in nota alla seconda edizione di Scultura lingua morta. Cfr: A. Martini, a cura di G. Mardersteig, La scultura lingua morta, Officina Boldoni, Verona, 1948. 3 Ibidem. Le osservazioni qui riportate sono debitrici del saggio scritto da Claudia Casali in occasione della mostra tenutasi negli spazi del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. Cfr: C. Casali, La scultura, approdo dell’anima, in Arturo Martini. Armonie. Figure tra mito e realtà, Bononia University Press, 2013, pp. 17- 27. 224

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Lorenza Boisi

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È una notte senza stelle, cioè: è una notte con tutte le stelle, con tutte le stelle tutte spente, ma la loro presenza, pur muta, cieca ed indistinguibile è poderosa. Una limpida notte di Ottobre che arriva dopo una di quelle giornate dai contorni nitidi, dove tutto è irrigidito da una luce di vetro. È una notte, luminosa, Luminosissima, bioluminescente… una di quelle notti in cui ho rivolto lo sguardo verso il disco pallido e lattiginoso della luna, per riscoprirvi dei lineamenti famigliari; il volto di mia madre. Mia madre anche lei luminosa e ieratica, ermetica e fredda… freddissima. Un volto fermo, composto, serenamente rassegnato. Oppure, più grande e con altre fantasie, tanti anni dopo, per trovare sempre in quella luna, oppure in un’altra, il mitico coniglio con il suo pestello, leggendaria combinazione metafisica giapponese che mi fa sempre sorridere. Il giardino è tutto vivo, ma tutto siderale. In fondo al giardino, lungo il muro a secco coperto di muschio, liscio e morbido, a suo modo anche lui vivo, resta un’antica vasca in granito, smangiata e fissurata, ferma e irremovibile. Resta da un passato che non conosco, da un passato che era passato molto prima che io potessi nemmeno esistere nell’immaginazione di qualcuno. Nessuno la sposterà mai… nemmeno quando io non rimarrò più in nessun ricordo. È troppo pesante. La vasca è colma di acqua piovana, verde, marcia culla di nuove esistenze microscopiche. Soffio leggermente tre volte sull’acqua e con l’indice della mano sinistra ne suddivido l’area in quattro metà identiche. Il disco luminoso si riflette nella superficie verde argento, ora tutta increspata e tremolante… Ad un tratto l’aria si riempie di un fruscio violento, che rende sonoro il bambuseto alle mie spalle, ne fa un’orchestrazione esotica, subcontinentale. Dall’alto dei rami del grande salice, molti insetti calano danzanti sul tavolo in pietra. Danzano e si agitano in una luce azzurra e la musica alla quale danzano, fievolissima, lontanissima mi pare un vecchio walzer… Poggio l’orecchio contro il suolo bruno, tra l’erba alta, il cosiddetto “prato italiano”, che poi è solo erba… La terra è fredda ed umida, smossa di recente, forse per seppellire un secchiello per la sabbia ed una paletta, qualche conchiglia… un secchiello con strani disegni bianchi, tutti incrostati di sale… forse, per seppellire un gatto. Apprendo le segrete conversazioni tra i bulbi e le radici, mi pare di poter sentire/vedere lo strisciare di lunghi vermi anonimi, riconosco il respiro di qualche fiore e poi, sì… ecco, il gatto c’è! Un gatto di nome Texaco è seppellito proprio sotto la piccola porzione di terra su cui appoggiano le mie ginocchia. Il suo delicato scheletro d’avorio si sta sbriciolando lentamente e la sua pelliccia, quel che ne resta, è solo una massa informe, fradicia e pietosa. Credo di riconoscere un sibilo, quello che puoi sentire quando metti una camera d’aria a galleggiare nel lago. Vorrei trovarmi egualmente in ogni angolo del giardino per poter imparare altri segreti. Tutti i segreti. Alzandomi anche io faccio rumore. Scricchiolo. Le mie ginocchia intorpidite gracchiando denunciano tutta la miseria di una forma finita ed imperfetta. Cammino, tentando di non farmi udire nemmeno da me stessa. Raggiungo il limitare del muro di cinta, verso quella parte di giardino che sta in fondo alla proprietà dove non va mai nessuno, dove non vado mai io… giacchè gli altri, sono tutti morti da un tempo che pare un secolo. Mi faccio largo tra gli sterpi verso quel passaggio in pietra che ricordo molto vagamente, ma non vedo da almeno 30 anni. So che alla fine del giardino c’è una porta, un grande portone in pietra che è il quarto ingresso alla proprietà. La porta Nord. Lo so per averla vista da bambina, ma ora non sono nemmeno sicura che esista per davvero. Che esista fuori dai miei ricordi, dai miei sogni, questa vasta soglia granitica, quasi una costruzione rituale, arcaica. Il portone è là, crollato a mezzo, varco archetipico tra il “dentro” ed il “fuori”, tra la sfera del controllo, della famigliarità e quanto sia ignoto, forse, inconoscibile. I massicci pilastri in granito reggono malamente un lungo e piatto serizzo irriconoscibile per via della vegetazione. Trattengo il respiro e avanzo, senza troppa convinzione, e poi, senza una vera coscienza della mia incoscienza sono “di là”. Sono oltre. Sono adulta. Non è che sia cambiato qualcosa. Sono solo più alta di circa tre centimetri. La scarpa destra mi infastidisce, mi va stretta. Quella sinistra 230


invece no… il corpo è dismetrico, non è per davvero speculare nelle sue due metà, soprattutto il mio. Ho una gamba più corta dell’altra, contrapposta ad un occhio più grande, più aperto del suo gemello, le braccia lunghe, più lunghe di quelle di tutte le donne che conosco. Braccia che sono remi a fendere l’acqua, elemento in cui mi trovo meglio che altrove, dove non provo corruzione né coazione, dove sono completamente intonata ed elementale. Infatti sulla terra fatico, sono sgraziata. Ora avanzo tutta piegata in avanti risalendo un pendio piuttosto ripido e scosceso, tutta graffiata dalle giovanissime robinie, fortunata solo nel non pestare ortiche, le ortiche che ho imparato ad eludere sempre. Un sentiero da molto evitato segna un percorso evitabile che porta verso la “casa del matto”. Questo mi ricordo dalla mia infanzia: dietro la mia proprietà, nel folto di un bosco completamente abbandonato al suo naturale decorso, infestato da vipere e bisce, abitato da volpi, faine e cinghiali… quasi impraticabile per i tanti alberi caduti ed i rovi avvinti ad ogni verticalità, ad ogni tentativo identitario, Lì sta una casupola in pietra. Una casina minuscola, quasi una casetta per gioco, dove una famiglia di contadini teneva rinchiuso un parente lunatico e forse pericoloso, o forse solo rimasto bambino. Forse solo per il non sapere dove altro metterlo questo “matto” senza che affliggesse, con la sua macchia, il destino di giovani spose e la mesta, semplice vita di chi lavora la terra e non ha tempo per chi veda i santi oppure il diavolo, per chi voglia guardare troppo le stelle o parlare incessantemente d’amore. Era la “casa del matto” con “il matto” che, nel passato remoto, viveva qui, isolato e costretto tra quattro mura erette con poche pietre e socialmente dimenticate, a passare il suo tempo, senza forse una coscienza vigile della propria condizione, a fabbricare rudimentali manufatti, assemblando pochi sterpi e rami con dello spago. Figure di animali soprattutto. Animali umili che poteva ricordare dalla vita in cascina… un mulo, un cane, un gatto, qualche animale del bosco, forse un pipistrello… certo, più di tutti aveva amato e riprodotto un animale, l’unico animale di cui conosceva l’esistenza senza mai averlo toccato o almeno conosciuto nella sua vita di prima, la sua vita fuori dalla “casa del matto”. La sua vita di prima di essere “matto”. Nella cascina, sul grande camino che poteva ospitare ben sei persone grandi e grosse in piedi, stava l’unica decorazione di quel modesto vivere, l’unica concessione ad una ruralità ascetica. Una stampa olografica raffigurante un cervo reale tutto dritto con grandi palchi di corna ben ramificate, sullo sfondo solo un cielo azzurrissimo, unto di qualche striscia biancastra che voleva esser nuvole. Questa stampa, inclusa in una modesta cornicetta in legno scuro, arrivava chissà da dove ed era una di quelle “cose di casa” che sono prese per buone ed implicite senza alcuna storia e senza alcuna domanda, da chiunque in quella casa vi abiti o vi abbia mai abitato. Allora lui, “il matto”, quel cervo reale della stampa oleografica, lo aveva raffigurato molte volte, perfezionandolo, di volta in volta, reificandolo, con corna straordinarie ed arborescenti fatte con tanti rametti quanti ne potesse recuperare in quei pochi momenti in cui uno dei suoi famigliari lo venisse a trovare, portandogli una pagnotta e del latte e facendolo uscire per qualche momento dalla sua gabbia che era anche sua reggia. Questi animali nati dalle sue mani restavano così nella casa… addossati gli uni agli altri come salvati nell’Arca. Quando erano troppi, li disponeva con cura tutto all’intorno della casupola, in un giardino dell’Eden tutto privato, tutto popolato di animali veri o apotropaici, pullulante di serpi ma senza nessuna tentazione. Arrivata in cima ad una roggia, intravedo, annegata nel verde quanto forse, ha potuto essere una costruzione, una casupola… parecchie pietre ammassate ed ancora un’idea d’impianto architettonico molto più vicino ad una rovina che ad un’abitazione. Un disagio mi preme sul petto. Resto in ascolto. Ma no, il bosco ascolta me a sua volta senza farsi udire, tutto è immobile per alcuni istanti. Poi di nuovo, tutto un fremere di vento tra le foglie che si maschera da ruscello, quando la faccia verde mostra quella argentata e le chiome degli alberi più alti si flettono, inchinandosi, tutti verso la luna. Luna che è sempre al suo posto. Ma pare molto più piccola, più rassegnata. Rassegnazione ma senza disincanto. Intorno, ogni nodosità d’albero, ogni asperità di roccia porta ben riconoscibili i caratteri di un volto umano. Il piede destro mi duole, il sinistro è sempre in silenzio. È ora di tornare. Lorenza Boisi 231


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FORESTA. Pittura Natura Animale > ForlĂŹ, Galleria Marcolini Lorenzo di Lucido | Alessandro Finocchiaro Giulio Catelli | Annalisa Fulvi A cura di Lorenzo Di Lucido

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I pittori non dipingono ciò che vedono, ma vedono ciò che dipingono Giuseppe Di Napoli. Vista da troppo lontano una battaglia può assomigliare ad una scampagnata. In questo senso la mostra che apre la rassegna Selvatico vuole essere una tappa di avvicinamento al tema centrale di questa edizione. Un chiarimento della visione ed un lento avvicinamento al vero e proprio corpo della rassegna. Ho voluto chiamare autori che da sempre affrontano il paesaggio e che ne hanno fatto il fulcro del loro operare. La pittura diviene paesaggio, nel senso che l’impasto e l’addensarsi del corpo pittorico collimano con la formazione sedimentata e terrosa di una superficie che è analisi del paesaggio e della materia nel medesimo tempo. Nei lavori di Giulio Catelli il sedimento pittorico compone strato su strato, sguardo dopo sguardo, avventura dopo avventura il corpo del dipinto. Il paesaggio è costruito da una selva densa e calda di gesti e tempi che non hanno intento puramente descrittivo, ma hanno la forza di misurarsi palmo a palmo con le infinite possibilità date dalla molle pasta del colore ad olio. Davvero la pittura appare nel suo essere assieme riflessione e corpo. Nulla è gratuito in questa pittura, nulla è messo lì per ammiccare, tutto è tenuto assieme da una tempra forte tesa ad esprimere tutto all’interno di una sintesi generosa, dove lo sguardo è esso stesso selva da districare e distillare tramite il medium pittorico. Anche nelle opere di Alessandro Finocchiaro il paesaggio è il cardine attorno a cui rotea una pittura generosa e autentica. Uno sguardo attento, acuto coglie anche negli aspetti più semplici tutta la complessità cha la rappresentazione pittorica da sempre pone ai pittori. Anche la sua pittura si compone all’interno di una materia densa e corposa, elegante e poetica. Mi piace rimarcare che tanto

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per Catelli quanto per Finocchiaro, ci si può accostare ad un modo di sentire e concepire la pittura che è da considerarsi legata ad autori italiani, vengono in mente i nomi di De Pisis e Fausto Pirandello e finalmente si ha la possibilità di tornare a guardare la fonte da cui si arriva. Nelle opere di Annalisa Fulvi una foresta di strati compone l’immagine quasi per collasso. L’intarsio e il collage pittorico che vanno a ricoprire la superfice sembrano vadano a costruire l’immagine quasi per un accidente, si ha a volte l’impressione che la selva di gesti e strati possa liberarsi l’una dall’altra lasciando crollare ciò che invece vediamo apparire. Il filtro fotografico legato al paesaggio e alle sue trasformazioni ha come contraltare il comporsi e scomporsi della pittura. Come in una roccia sedimentaria o in una zolla di terra ci pare possibile ripercorrere i vari stadi di una storia fermata in un punto che è allo stesso tempo fondamentale ed instabile, pronto a nuove trasformazioni. Lorenzo Di Lucido cerca da qualche tempo a questa parte di analizzare il farsi corpo della luce in pittura. I monocromi esposti sono dei paesaggi ruminati e ridisposti sulla superficie in modo tale da catturare o riflettere una determinata qualità della luce. In qualche modo la pittura vuole masticare il mondo e restituire sulla superficie il bolo dell’avvenuta masticazione. Il dipinto rappresenta sempre il risultato di una avventura compiuta, di un corpo a corpo o di un viaggio in cui l’immagine e il colore sono l’approdo ultimo del percorso svolto. Lorenzo Di Lucido


Annalisa Fulvi

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Alessandro Finocchiaro

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Giulio Catelli

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Lorenzo Di Lucido

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Giulio Catelli

È nato a Roma nel 1982. SI è diplomato nel corso di laura triennale in studi storico-artistici all’università La Sapienza di Roma. Successivamente ha frequentato il biennio specialistico di pittura all’accademia di belle arti di Macerata.

Ragazzo che passa 2017, olio su tela 60x50 cm

Alessandro Finocchiaro

(Catania, 1967). Tra le personali: 2005, Galerie Arphil, Paris; 2007, Galleria Andrè, Roma (presentato da Guido Giuffrè); 2009, Galleria Lo Magno, Modica (presentazione di Stefania Portinari). Nel 2011 è stato invitato alla 51a Biennale d’Arte di Venezia, Padiglione Italia in Veneto per il centocinquantesimo dell’Unità nazionale a cura di Vittorio Sgarbi (Villa Contarini di Piazzola sul Brenta). Espone nel 2015 alla Civica Raccolta Carmelo Cappello in Palazzo Zacco di Ragusa, personale curata da Andrea Guastella. A giugno di quest’anno ha partecipato a Landina, residenza di pittura a cura di Lorenza Boisi nel territorio di Verbania. Vive a Collevecchio, in Sabina.

D’apres I., 2014, olio su tela, cm 40x40

Annalisa Fulvi

Nasce a Milano nel 1986 dove attualmente vive e lavora. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano dove consegue il diploma nel 2011.

Una superficie ricca di pieni e di vuoti, forme statiche e linee dinamiche, l’accostamento di immagini e di forme attraverso il gesto, le sovrapposizioni cromatiche e le trasparenze. Una miscela, un collage in cui si sommano e si incastrano vari elementi. La realtà è sempre interpretata, reinventata e modificata, ma rimane mimesis fondata sull’osservazione del paesaggio e sull’utilizzo costante delle immagini che ne traggo. Pittura che è testimonianza di uno sguardo sulla realtà messa in essere da composizioni che evocano qui lo stabile materiale della terra, lì la sua caducità.

Natura morta, 2017, acrilco su tela, 100x80 cm

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Schede autori

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Marco Andrighetto Paola Angelini Veronica Azzinari Lucia Baldini Cesare Baracca Antonio Bardino Mirko Baricchi Giovanni Blanco Lorenza Boisi Luca Caccioni Jacopo Casadei Silvia Chiarini Luca Coser Rudy Cremonini Giulia Dall’Olio Vittorio D’Augusta Luca De Angelis Lorenzo Di Lucido Massimiliano Fabbri Marina Girardi Federica Giulianini Domenico Grenci Elena Hamerski Giovanni Lanzoni Enrico Minguzzi Matteo Nuti Vera Portatadino Massimo Pulini Denis Riva Martina Roberts Debora Romei Marco Salvetti Marco Samorè Alessandro Saturno Alberto Zamboni Giulio Zanet


Marco Andrighetto (Treviso, 1979) Nel 2007 si diploma in Pittura, presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nel 2009 consegue l’Abilitazione per l’insegnamento di Discipline grafiche e pittoriche. La sua ricerca predilige il disegno, la pittura e gli interventi site-specific.Vive e lavora a Treviso. Tra le maggiori esposizioni ed esperienze vi sono: “Premio Suzzara” 2016, Suzzara (MN). “BOCS” Cosenza, 2016, residenza artistica. “Factory ArtProjects”, 2015 Berlino (DE). 2015 “Two calls” Nuovo Spazio di Casso (PN); 2014 Residenza artistica, Borca di Cadore (BL), Dolomiti contemporanee.“Premio Bice Bugatti Segantini” 2012, Nova Milanese (MB). “Le cose hanno ilpotere che gli dai” 2011, Arsenale Novissimo, Venezia. “Premio Arte” 2011.“Premio S. Fedele” 2010. “Premio Celeste” 2009. La ciclicità della vita della foresta produce una materia densa, formata da strati. I principi vitali che ne permettono l’esistenza sono contenuti nelle piante e non nel suolo, privo di nutrimento. La flora è costituita da varietà infinite di specie, un esemplare dista miglia da uno simile. Questa diversità convive ed è connessa al ciclo vitale del tutto. La loro decomposizione infatti, genera la vita quando la nostra memoria dimentica.Il mio lavoro segue questo processo naturale. Cambio identità al materiale che trovo.Recupero carte da macero e le seziono negli strati interni, completo frammenti di realtà con la pittura seguendo i segni impressi nelle superfici dal tempo. L’opera stessa diviene madre di altre opere, lo scarto che produco nella lavorazione è parte di essa e genera nuove forme.

Vastum, 2017. Installazione, carta 148x135 cm Pipistrello 40x14x14, cerchio cm 45 di diametro

Sedimenti, 2017, strappo di intonaco e foglia d’oro, cm 44x32, trittico

Germogli, 2016, acrilico su carta, dittico, cm 47x41

Libellule, 2017, acquerello su carta, cm 73x73 foresta. Pittura Natura Animale 241


Paola Angelini Nel 2011 ha frequentato il Laboratorio di Arti Visive presso L’Università IUAV di Venezia con Bjarne Melgaard, e nello stesso anno ha esposto nel padiglione norvegese della 54° Biennale di Venezia, all’interno della mostra Baton Sinister, curata dallo stesso. Nel 2017 ottiene un Master Fine Arts presso Kask Conservatorium di Gent (BE). Ha ricevuto diversi premi, tra cui nel 2014 il premio Level 0 durante ArtVerona, selezionata da Cristiana Collu per il Museo Mart di Rovereto. Nel 2014 e nel 2016 ha partecipato alla residenza artistica presso il Nordic Arti- sts’Centre Dale (NKD), Norvegia, nello stesso anno è risultata assegnataria della residenza presso la Fondazione Bevilacqua la Masa di Venezia. Tra le sue mostre personali si ricordano: Le forme del Tempo, a cura di Veronica Caciolli, Museo Palazzo Pretorio, Prato (2017), La conquista dello Spazio, Galleria Nazionale delle Marche, Urbino (2017), What is Orange? Why, an Orange, Just an Orange, Marsélleria, Milano (2016), Regio, a cura di Arild H.Eriksen, Galleria Massimodeluca, Mestre – Venezia (2014); Landskapet, mostra di residenza Nordic Artists’Centre Dale (NKD), Norvegia (2014); Blue Memory, Rod Bianco Gallery, Oslo (2012). Vive e lavora a San Benedetto del Tronto. I dipinti di Paola Angelini pubblicati in catalogo, e le due grandi tele in mostra dentro a Selatico/Foresta, provengono da Forme del tempo mostra chiusasi di recente a Palazzo Pretorio, ed esposti ora presso l’ex convento di San Francesco di Bagnacavallo per gentile concessione del Museo e della curatrice del progetto Pretorio Studio Veronica Caciolli. Estratto dal comunicato stampa della mostra svoltasi a Prato dal 20 maggio al 13 luglio 2017: Dipinti, disegni, grandi tele, sculture e un wall painting realizzate dall’artista Paola Angelini consegnano al pubblico una rielaborazione corale e originale dell’essenza di un museo che custodisce capolavori d’arte insieme all’identità e alla memoria di Prato. Una mostra frutto di un intenso lavoro di ricerca che nasce all’interno del progetto Pretorio Studio, avviato nell’autunno del 2016 e ideato da Veronica Caciolli allo scopo di valorizzare il museo e la sua collezione attraverso la collaborazione con artisti contemporanei. Il progetto ruota attorno al concetto di tempo e alle sue manifestazioni, storiche, stilistiche e simboliche, con l’intenzione di farle risuonare nella prospettiva presente e attraverso l’apertura a tutti i linguaggi. Il dispositivo consta a sua volta di tre tempi: un momento di ricerca costituito da una residenza in museo, un periodo di sviluppo, e la presentazione finale attraverso una mostra. Di volta in volta, l’interpretazione di segni condivisi e nascosti sarà affidata alla peculiare capacità di ogni artista, dalla cui visione emergerà un intreccio di tempi e luoghi, forme e narrazioni nell’arco di circa otto secoli. La prima artista invitata è la giovane Paola Angelini: durante la sua residenza nel dicembre 2016, l’artista ha realizzato quattordici tele e dieci disegni, lavorando ad ogni piano e cercando vertiginosamente di catturare le impressioni più sfuggenti del museo, estendendo il proprio sguardo ai dettagli del palazzo, agli affreschi e all’allestimento. Da dicembre a maggio l’artista ha lavorato presso il proprio studio in Belgio, a Ghent, producendo altre quattro grandi tele che sintetizzano ciascuna in un’unica immagine soggetti differenti, ricostruendo così una prospettiva unica sul museo. La tavolozza che si è imposta interpreta quella utilizzata per l’installazione permanente delle opere. Le ricorrenze come la pennellata nervosa, il colore epifanico e la composizione gerarchica, cedono il passo in questo ciclo a una rappresentazione più dominata ma multifocale, assorbendo a tratti il contesto e la grande tradizione spaziale fiamminga.

Giardino Mosaico, 2017, olio su tela, cm 210x270

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Giardino Mosaico, 2017, olio su tela, cm 210x270

Studio di Scultura dal vero, 2017, tecnica mista su tela, cm 40x50

Le Forme del Tempo, 2017, acrilico e carboncino su parete, cm 1000x400, Museo di Palazzo Pretorio, Prato, Italy


Veronica Azzinari Nasce a Milano nel 1986. Si diploma nel 2006 nella sezione di Cinema d’Animazione presso la Scuola del Libro di Urbino. Spinta dall’esigenza di asportare la materia e di graffiare le superfici dei suoi lavori grafici e pittorici, ben presto si avvicina alla tecnica della Calcografia grazie ad Opificio della Rosa, sviluppando una personale ricerca artistica che fonde la stampa con il disegno, concentrandosi sui temi legati ai primordi e alla natura. Dal 2010 ha esposto in diverse città d’Italia, collaborato con diverse realtà della scena musicale Italiana e condotto workshop per adulti e laboratori per l’infanzia presso “La Corte della Miniera” e “Opificio della Rosa”. Ha pubblicato per riviste come Lo Straniero, La Lettura e I quaderni del Teatro di Roma. Attualmente vive e lavora in provincia di Pesaro Urbino. COGLIERE E RESTITUIRE (cartografie dal mondo vegetale) Cogliere e restituire non è solo il titolo della mia ultima serie di tavole ma è per me una filosofia e un atteggiamento che accompagna quotidianamente il mio esistere e di conseguenza il mio lavoro come artista. Costantemente immersa in ambienti naturali raccolgo, fisicamente e visivamente, gli indizi lasciati dalla terra, dalle piante, dalla roccia, dall’acqua. Colleziono informazioni nascoste tra i ritmi ripetuti da ogni elemento, tra i disegni metodici all’interno di ogni seme, germoglio, fiore… mi perdo tra le texture di ogni roccia che incontro, mi lascio ipnotizzare dai mantra millenari delle comunità di fili d’erba. Colgo tutto questo con la piena coscienza di un disegno enorme e ordinato e con lo smarrimento di un essere umano che ha perso parti di memoria e che tenta di assemblare i pezzi, guidato dall’entusiasmo dello scienziato e un agire prevalentemente intuitivo. Quindi cogliere e raccogliere per poi osservare, interiorizzare e restituire per immagini che non vogliono avere la pretesa di spiegare qualcosa ma solo sottolineare e ricordare una parte precisa tra i tanti appunti con la speranza un giorno di poterli unire tutti e trovare, non tanto una risposta quanto più una domanda precisa. Con il forte desiderio di indagare passo per passo su tutti gli elementi naturali che hanno un forte legame, nonché ascendente, sul nostro esistere, parto, con questa nuova seria dedicata al mondo dei vegetali con particolare attenzione sulle specie autoctone primitive ancora esistenti sul territorio Italiano e che hanno una memoria molto antica. Cinque soggetti dedicati alle seguenti piante: equiseto, bardana, felce, muschi, orchidee Tutti realizzati in calcografia e disegno a olio e tutti a raccontare la storia scritta nell’alfabeto incomprensibile delle venature, forme e dei loro ritmi. Ogni soggetto sarà ospitato da fogli di carta realizzata a mano dalle forme irregolari a bordature “smembrate”, una scelta estetica con riferimento alla cartografia o per meglio dire a frammenti di quella che, in condizioni di memoria e sapienza, sarebbe potuta essere una mappa unica e definita. Colgo quindi indizi e informazioni tra le zone umide e verdi dei luoghi che attraverso e restituisco brandelli di mappe da ricomporre cercando di orientarmi, cercando di ricordare e di conservare la memoria. Faccio luce su una storia già scritta da tempo e che è solo da rileggere. Focalizzo lo sguardo sui piccoli processi, sui dettagli, sulle manifestazioni nel micro, perché li nasce tutto ciò che vediamo allontanando lo sguardo.

Felce #1, acquaforte, terra e impressione vegetale su carta di cotone 200 g, monotipo cm 60x90 (installata)

Bardana #1, acquaforte, terra e impressione vegetale su carta di cotone 200 g, monotipo cm 70x80 (forma ovoidale)

Orchidea #1 acquaforte, terra e impressione vegetale su carta di cotone 200 g, monotipo cm 50x60 (installata)

Muschio #1 acquaforte, terra e impressione vegetale su carta di cotone 200 g, monotipo cm 45x75 foresta. Pittura Natura Animale 243


Lucia Baldini Ho frequentato il liceo artistico e l’accademia di Belle Arti di Ravenna e Bologna. Dopo i diplomi ho continuato gli studi e la formazione per l’artigianato, il teatro, la didattica dell’arte. Ho lavorato in campagna, in fabbrica, nella formazione professionale, come barista, aiuto cuoco, scenografa e costumista, stampatrice, atelierista e insegnante. Vivo a Traversara di Bagnacavallo, (Ra) La mia ricerca personale è rivolta al paesaggio, alla luce, al corpo. Indago questi temi attraverso la pittura e il ricamo di paesaggio, la stampa su stoffa, la fotografia su materiali come foglie e tessuti, la scultura con pasta, lana, terra cruda. I lavori recenti sono dedicati ai terremoti, alle leggi sui diritti umani e ambientali. Le mie prime esposizioni risalgono al 1990. Dipingo paesaggi dal 1997, stucchevoli, lirici, romagnoli, dipinti discretamente, da salotto, piacevoli, silenziosi, più grandi che piccoli di dimensione, su tela, ad olio, privi di iperbole intellettuale, facili, poco sofferti, inutili. Esposizioni recenti: 2017 Boobs, Taft, Atene (collettiva) con Sol me rapuit istallazione di foglie, clhorophill print. E Cursed love embroidery, corsets. Light, deep, green, Aria Art Gallery, Londra (collettiva) con I see a darkness istallazione. 2016 Linfatica, Aria Art gallery, Firenze (collettiva) con Hotel Roma, clhorophill print e Petrolio, istallazione. Biennale del Disegno. FAR, Museo della città, Rimini (collettiva) Scritto in un giardino, Paesaggi, Museo della città, Rimini doppia personale, con Stefano Mina. La bellezza io non so cosa sia Galleria Comunale la Molinella, Faenza (Ra) opere su tela (personale). 2015 Arte dal vero, Museo S. Domenico, Imola (Bo) (collettiva). Interregnum – Antropocene Ricurvo, teso, rivolto verso la parete di roccia, un odore metallico nell’aria. Sangue, succo d’erba, argilla disciolta, carbone di legna arsa la notte prima. Traccio contorni di ombre vibranti nel proiettarsi della luce calda del fuoco sul fondo, sulle pareti fredde, scabre, scintillanti di minerali, tonalità biancastre, rosate, grigie. Animali, uomini, capanne, carri, lance, scene di caccia, rituali, segni, simboli. La foresta no, alberi e boscaglie no, il mare no, nemmeno il cielo. Il sole sì. Nei miei primi disegni il paesaggio non è raffigurato. Sarebbe come raffigurare la roccia stessa. È troppo indistinto da me, è parte di me. Un’estensione di me. Poi la testa del bue è ruotata, è diventata simbolo e fonema. Ho imparato a scrivere, a raccontare storie, a raccogliere, a coltivare, ad allevare, ad uccidere le estensioni di me. A distaccarmi dal bosco, dalla montagna, dagli arbusti fioriti, dai rampicanti. Ho costruito palazzi per la mia anima divina, case per le anime defunte, templi per le divinità creatrici generate dai segni, dai colori, dalla roccia scolpita. Ed ecco che lì dentro, nella penombra, ho sentito la nostalgia profondissima per quella comunione perduta, per ciò che il mio genio ha voluto in sacrificio, il creato, così com’era, intero e indistinto da me, e ho dipinto fiori, frutti, arbusti, boschi. Crescendo ho dipinto paesaggi luminosi e lontani, colline, scorci azzurrini, sullo sfondo, di pale d’altare, di ritratti di duchi e duchesse. Ho dipinto Boscherecce, con foreste ed acque, racemi ed edere, finti giardini dentro ad una stanza del palazzo di città. Invecchiando ho dipinto Paesaggi, solo paesaggi. Da soli. Ho inventato un genere nuovo, pittoresco, sublime, analitico, astratto, lirico, surreale, fotografico, cinematografico. Documentare. Ciò che si sta estinguendo. Un oggetto di studio. Un esercizio pittorico. La nostalgia che si era incarnata in profondità, ritratta, nascosta, è riemersa come una scheggia che il corpo risputa fuori dopo trent’anni. Così ho dipinto i miei paesaggi. In questo passaggio di era, mentre crolla l’impero e non possiamo più vivere come abbiamo fatto finora, ma il nuovo sistema di vita non è stato ancora inventato. Noi piccoli pittori, grandi e piccoli, ci rintaniamo a dipingere. Nello studio. Nella nostra piccola caverna. Ricurvi, tesi, rivolti verso la parete, per tracciare i contorni, per indagare le ombre e il loro significato terribilmente incerto nel nostro oggi. Con la stessa ostinazione di una farfalla che batte le ali…e causa un uragano.

Il nastro bianco, olio su tela, cm 80x60, foto di Stefano Tedioli 244

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(Boschereccia 1), 2017, olio su tela, cm 60x80, foto di Stefano Tedioli

Amon (fiume verdeazzurro), 2017, olio su tela, cm 120x80 foto di Stefano Tedioli

La possibilità di un’isola (fiume rosanero), 2017, olio su tela, cm 80x120

Collapse (la strada), 2016, olio su tela, cm 80x60, foto di Stefano Tedioli

Interregnum, 2017, olio su tela, cm 100x150, foto di Stefano Tedioli


Cesare Baracca Nasce a Fusignano nel 1965. Ha studiato alle Accademie di Belle Arti di Ravenna e di Bologna diplomandosi in pittura nel 1990 con una tesi su Piero Manai. Docente presso l’Università per Adulti di Lugo (RA) e precedentemente alla Scuola di Disegno del comune di Fusignano (RA). Fondatore dell’associazione culturale B52. Hanno scritto di lui : Massimo Pulini, Gian Ruggero Manzoni, Aldo Savini, Giovanni Scardovi, Marinella Bonaffini, Sabrina Foschini, Sabina Ghinassi, Pier Marco Turchetti, Giancarlo Papi, Carlo Vita Fedeli, Lorenzo Mantile, Maria Rita Bentini, Michela Becchis, Marisa Zattini, Nino Arrigo, Franco Bertoni. Risiede a Masiera di Bagnacavallo (RA). Esposizioni recenti: 2016: Quartetto per trapani, nell’evento a cura di Rodolfo Gasparelli “Il mio vero tempo, quello in cui il vino verrà ritrasformato in acqua, non è ancora venuto”, Le Torri dell’Acqua, Budrio (BO). Overlook, a cura di Cesare Baracca e Massimo Pulini, con Riccardo Cavallini, Valerio Melchiotti, Elisa Nasolini, Emanuele Sartori, Ala Nuova Museo della Città di Rimini. Aperto, Museo Ex Convento del Carmelo, Sassari. Volti, ritratti in Romagna dal primo Novecento ad oggi, a cura di Franco Bertoni, centro polivalente Giovanni Isola, Imola. Il mio vero tempo, quello in cui il vino verrà ritrasformato in acqua, non è ancora venuto, a cura di Rodolfo Gasparelli, Le Torri dell’Acqua, Budrio (BO). 2015: Ineventi, con Pier Marco Turchetti ed Enrico Vagnini, Auditorium di Palazzo degli Studi, Faenza. Sehnsucht, con Elisa Nasolini, Galleria Molinella, Faenza; presentazione Pier Marco Turchetti; catalogo Carta Bianca. 2014: La Via Lattea, Pescherie della Rocca, Lugo (RA). Xilografie, Biblioteca del Comune di Cervia (RA). Hangover Hotel, Museo della Città di Rimini. A cura di Massimo Pulini e Lorenzo Mantile. Arte dal vero, aspetti della figurazione in Romagna dal 1900 ad oggi, a cura di Franco Bertoni, Museo di San Domenico, Imola. A sud del pensiero, Castello Medievale di Sperlinga, a cura di Nino Arrigo, Sperlinga (EN). Fra Arte e Poesia, Il Vicolo Galleria Arte Contemporanea, Cesena. Is this an exile?, L.E.M.(laboratorio estetica moderna), a cura di Giovanni Manunta Pastorello, Sassari. Fusignano in Arte, Centro Culturale Il Granaio, Fusignano. Quando l’arte è F.A.T.A, Palazzo Albertini, Forlì, a cura di Marisa Zattini. 2013: Le belle crudeltà, Spazio C.etrA, a cura di Sergio Monari, Castel Bolognese (RA). Quando l’arte è F.A.T.A, Oratorio di S.Antonio, Dovadola, a cura di Marisa Zattini. Collettivocontemporaneo, 41 San Vitale arte contemporanea, Massalombarda. XIX edizione “Libri mai visti”, a cura di V.A.C.A., ex chiesa In Albis, Russi (RA). Al tempo della mia infanzia, quando si andava a parenti a Portico di Romagna, un mio zio, da tutti chiamato “Tonino”, mi accompagnava al fiume, tra boschi e pareti rocciose, in quella natura che amavo tanto. Vedendo il mio entusiasmo e curiosità per la bellezza che mi circondava volle mostrarmi di più e mi disse: “Vedi? Questo bel ramo di pioppo sembra in salute ma osservandolo meglio, su questo lato della corteccia c’è un piccolo foro, apriamolo… guarda all’interno c’è un rodilegno che lo sta divorando”. Poi raccolto un sasso mi disse: “guarda com’è regolare questa pietra levigata, pensa che anche dura com’è non può resistere alla continua corrosione del fiume… e poi guarda qui, al centro c’è una sottile vena minerale; ogni cosa che ci sembra perfetta e conclusa nella sua natura ne contiene un’altra più sottile e misteriosa, ecco se sollevi qualche pietra ben presto troverai qualcosa di inaspettato, qui c’è una piccola vipera! Qua uno scorpione!”. La natura bella che ammiravo conteneva sempre il mistero del dolore. ET IN ARCADIA EGO, così è e così sia, una lezione che imparai molto presto.

Pan, 2014, olio su tela, cm 90x100

Pittore nel bosco, 2006, acrilico su carta, cm 28x39

Iside e Osiride, 2016, olio su tela, cm 150x200

I vivi e i morti, 2017, tecnica mista su tela, cm 140x160

Guardiani, 2016, acrilico e motosega su ante, cm 159x166 (assieme)

S. Sofia, 2016, olio su tela, cm 80x50

foresta. Pittura Natura Animale 245


Antonio Bardino È nato ad Alghero nel 1973. Vive e lavora a Udine. Terminati gli studi in decorazione all’Accademia di Belle Arti di Sassari, si specializza in mosaico e si dedica alla sperimentazione di nuove tecnologie grafiche. Nel 2007 è stato selezionato da Francesco Bonami e Sara Cosulich Canarutto per la collettiva ManinFesto, Villa Manin Centro d’Arte Contemporanea, Passariano di Codroipo (UD). Le più recenti mostre collettive sono: nel 2017 1 Koffer Kunst -FAR OFF Art Cologne (DK), Into the woods, Galleria Villa arte contemporanea, Monza (MB), nel 2015 Premio Rugabella, Villa Rusconi, Castano Primo (MI); Pittura italiana, CARS, Omegna (VB) e Landina, Museo del Paesaggio presso Palazzo Biumi Innocenti di Pallanza (VB). Nel 2014 La verità dell’artificio, Villa Marini Rubelli San Zenone degli Ezzelini (TV); Cout de foudre # 1, Contact Zone Contemporary Art Gallery, Lugano (CH) e Cult of personality, Galleria MLZ art deep, Trieste. Nel 2013 Upokeimenon (sott’acque), DC-Dolomiti Con-temporanee, Nuovo Spazio espositivo di Casso (PN); La meglio gioventù, Galleria Comunale, Monfalcone (GO) e Spotlight on Italy Collection, Saatchi Gallery on line, a cura di Rebecca Wilson, Londra (UK). Mentre tra le personali: nel 2015 Paesaggi laterali, Sponge Arte contemporanea, Pergola (PU); nel 2009 Il vuoto pneumatico e il mondo reale, SPAC-FVG, Palazzo Orgnani Martina, Venzone (UD); nel 2007 Music for airports, Galleria Dora Diamanti Arte Contemporanea, Roma e 2005 No signal, Galleria Nuova Artesegno, Udine. Precarietà, sospensione, transitorietà, lateralità, sono forse queste le parole chiave che mi vengono in mente, pensando alla mia pittura. Mi interessa il tema del paesaggio nell’aspetto antropologico e i luoghi laterali, “terzi”. Zone un tempo urbanizzate o meglio antropizzate e in seguito abbandonate alla natura stessa che ha inesorabilmente ripreso possesso del suo territorio. La natura si riappropria degli spazi in maniera inaspettata e per questo motivo suscita meraviglia. Non paesaggi da cartolina, ma angoli di bosco comune anche anonimi, quotidiani. A volte dipingo a memoria, senza alcun riferimento reale, cerco un trascinamento emozionale, questo mi permette di liberare la pittura che si scarnifica e si stratifica senza un apparente riferimento, visioni nitide, si sovrappongono, si alternano e frammentano. Una pittura che “si fa da sola”, in una perdita consapevole di controllo per arrendersi a uno sguardo che va oltre il contingente. Un invito a volgere l’attenzione verso pensieri e angoli più nascosti, laterali, andare oltre una appagante visione retinica, percorrere e attraversare, questi luoghi che non sono la meta di un viaggio, ma soltanto un transito.

Senza titolo, 2017, olio su tela, cm 80x60

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Paesaggio laterale, 2017, olio su tela, cm 305x205

Paesaggio laterale, 2015, olio su tela, cm 46X38

Senza titolo, 2017, olio su tela, cm 60x80

Senza titolo, 2017, olio su tela, cm 55x38


Mirko Baricchi (La Spezia, 1970) Dopo il liceo si trasferisce a Firenze, dove frequenta l’Istituto per l’Arte e il Restauro Palazzo Spinelli. Dopo il diploma e un breve periodo di lavoro come grafico pubblicitario, parte per il Messico, un viaggio che segna la sua vita d’artista. Qui lavora come illustratore per una nota agenzia di comunicazione americana, ma non abbandona la sua passione per la pittura. In una delle sue numerose visite ai Musei messicani viene folgorato dall’artista Rufino Tamayo. Lascia il lavoro in agenzia come illustratore e poco dopo partecipa ad una collettiva al Museo Siqueros, ricevendo riscontri positivi da parte della critica. Dopo oltre due anni torna in Italia, trasferendosi a Milano, dove lavora nel campo della pubblicità e dell’editoria. In questo periodo matura la decisione di dedicarsi esclusivamente alla pittura. Nel 1998 torna a vivere a La Spezia. La Cardelli & Fontana presenta i suoi dipinti e da subito inizia una collaborazione ed un rapporto di grande stima, non solo professionale. È del 1999 la sua prima personale in questa sede, da quella data ad oggi Baricchi non si è più fermato. La scelta del materiale sul quale lavoro ha giocato un ruolo fondamentale per la realizzazione dell’opera, questa consapevolezza è maturata nel corso degli anni e dopo molto lavoro sul “campo”. Consapevole sopratutto del fatto che a seconda della “storia” che si vuole raccontare è necessario un supporto adatto, per storia intendo evidentemente non solo quella legata alla narrativa ma intesa come modalità funzionale e efficace ad uno scopo pittorico. Le grandi carte che sono esposte al Camec nate sotto il nome/titolo di Humus, per esempio, sono frutto di una considerazione se vuoi romantica fatta rispetto all’effetto degli agenti atmosferici sui materiali esposti alle intemperie, sole, gelo ecc. La carta è il supporto che più di tutti mi ha permesso di essere testimone di questa se vuoi entropia coatta, coatta perché ho lasciato i grandi fogli all’aperto per due settimane e alla fine di questo processo ho riconosciuto il fondo /supporto adatto per ciò che avevo intenzione di dipingere, cioè una sorta di inventario paesaggistico quasi primordiale. Sulla tela non mi sarebbe stato possibile, la tela resiste, non traspare, non si macera, quindi mi avrebbe tenuto lontano dall’atmosfera che volevo. Per lo stesso motivo funzionale/tecnico uso la tela ma per scopi diversi, la serie che conclude la mostra, la quarta stanza per intenderci, dal titolo Pangea, è stata prodotta interamente su tela, avevo bisogno di un supporto molto teso e da preparare in maniera che risultasse quasi una lamina di metallo, liscia, sul quale un pennello bagnato (per tutta l’esecuzione) potesse scivolare senza attrito. Quindi in definitiva il supporto incide molto, ma è sempre una scelta razionale, tanto quanto l’uso di un materiale o di un colore o di un formato.

Testa, 2017, tecnica mista su tela, cm 60x50

Pangea #26, 2017, tecnica mista su tela, cm 80x90

Particolare, 2016, tecnica mista su tela, cm 120x100

Pangea #28, 2017, tecnica mista su tela, cm 220x200

Pangea #7, 2017, tecnica mista su tela, cm 120x120

Pangea #1, 2017, tecnica mista su tela, cm 150x150

foresta. Pittura Natura Animale 247


Giovanni Blanco È nato a Ragusa nel 1980. Vive e lavora a Rosolini e a Bologna. Bologna 17 agosto 2017 Ogni capolavoro amplifica il tempo e come una bestia affamata sbrana l’ovvietà. Questa è una delle immagini più intense a cui faccio ricorso per potermi accostare alla pittura, all’arte tutta. Davanti ad una tale visione ho bisogno di riprendere fiato, abituato come sono a sporgermi in punta di piedi sulla soglia del visibile, ovvero in quel luogo immaginario dove certi pensieri e i sensi ambiscono alla bellezza. In questi giorni di canicola agostana ho riflettuto molto sul tema proposto per la nuova edizione di Selvatico. Definirò quanto vado pensando da tempo sulla pratica della pittura, accompagnando il visitatore in un percorso metaforico capace di far compiere un salto (o una caduta?) all’interno di quel labirinto esistenziale ed estetico, già custode delle forme insondabili della vita e della morte. Il mio intervento prenderà vita negli spazi di palazzo Pezzi a Cotignola, edificio ricco di suggestioni e memorie stratificate. Coinvolgerò il fruitore a partire dalle scale, luogo di transito e “colonna vertebrale” dell’architettura, per un percorso espositivo verticale e ascensionale dove si svelerà per tappe e registri diversi il senso di questa mia scansione espressiva. Salendo i primi gradini del palazzo, infatti, il visitatore si troverà davanti al primo lavoro: una stampa lenticolare abrasa e incisa, rappresentante un paesaggio collinare investito da un verde glorioso che, ad un primo e fugace sguardo, potrà risultare astratto. L’opera ha per titolo “Il primo luogo”, lo spazio dove tutto si origina, ed è incorniciata da una pelliccia sintetica e arruffata che preme e lima il confine estetico della visione: questo vuole essere un omaggio a Courbet. A seguire, si vedranno alcune immagini della storia dell’arte non molto note, forse perché giudicate nel tempo immorali, licenziose, eppure di superba bellezza, con significati che stanno alla base della cultura occidentale. Si tratta di due gruppi scultorei scolpiti nel marmo provenienti dall’area archeologica di Pompei, risalenti alla prima età imperiale: il primo rappresenta Pan nell’atto di possedere una capra; il secondo vede due corpi acefali, un satiro e una

Ritratto di Domenico, 2017, acrilico su cotone, cm 40x30 248

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Gravità del rosso, 2017, olio su tela, cm 60x80

ninfa, anch’essi dichiaratamente intenti ad accoppiarsi. Sono opere sorgive che commuovono per forza erotica e per grandezza poetica. Da qui alcune suggestioni mi hanno spinto a realizzare due grandi monotipi su carta, freddi e quasi impersonali nell’esecuzione, divorati da una luce abbacinante, come a voler rispondere a tutto il portato carnale che gli originali esplicitano. A contraltare di questo primo ragionamento ho dipinto altri due soggetti in cui la presenza volutamente retorica e tragica, tuttavia debordante di sensualità, fa l’elogio del concetto di abisso: un piccolo crocifisso settecentesco in cartapesta visto come attraverso un vetro sporco e alcune teste di agnelli disposte sul bancone di un mercato popolare di Palermo. Quest’ultimo risultato sancisce un legame col senso del disfacimento della materia e del corpo, del franare delle certezze, eppure gonfio di poesia, nel quale credo di trovarvi quella profondità che sottintende uno degli aspetti del fare pittura. Dopo molti anni di ricerca, mi ritrovo nuovamente a scandagliare alcune mie vecchie ossessioni, per quell’affondo necessario che lo studio e l’osservazione richiedono, assieme allo smarrimento e al dubbio senza i quali questa indagine mi apparirebbe priva del suo più rilevante valore: una, seppur modestissima, possibilità di nominazione della verità? Inoltre, data l’ampiezza del tema, non poteva mancare uno scambio diretto -in questo caso direi frontale- con un altro pittore, ben consapevole della pluralità degli artisti presenti a questo evento con cui inevitabilmente cortocircuiterò. Nello specifico sarà l’occasione per confrontarmi con l’opera e la poetica di Domenico Grenci, col quale ho recentemente discusso sul grado e sulle dinamiche di questa nuova relazione. A entrambi è piaciuta l’idea di traslare simbolicamente a Cotignola una delle pareti dei nostri studi mediante gigantografia, con lo scrupolo di farne però traccia fantasmatica, evocazione silenziosa, quinta metafisica, per esemplificare una quotidianità del fare su cui collocare rispettivamente i ritratti che ciascuno dedicherà all’altro. Non molto tempo fa scrivevo da qualche parte che l’immagine è il residuo di un sentire, di una intuizione, l’unica traccia sensibile in grado di dialogare con la memoria, col tempo, aggiungendo spazio alla parola. Dipingere è amplificare l’effimero, è il mettere radici altrove. Sempre. Giovanni Blanco

Via dei canti #2, 2017 inchiostro calcografico su carta (monotipo), cm 195x200

Senza titolo, 2017 olio su tela, cm 80x60

Via dei canti #1, 2017, inchiostro calcografico su carta (monotipo), cm 260x150


Lorenza Boisi Per la sua personale faentina “In fondo al giardino, un Volto Verde”, Lorenza Boisi presenta un’indagine figurale nell’immaginario polisemico della Rappresentazione. Dal mito della “statua animata” al Déjeuner sur l’Herbe, attraverso significati e significanti diversi, immanenti e fenomenici, richiamando così una somma alta della sua storica produzione di pittura e ricerca ceramistica. L’impianto scultoreo ed installativo si implementa di una vita performativa che richiama la dimensione demiurgica dell’artista Pigmalione, rafforzando il legame statua/immagine/modello, attraverso la presenza silenziosa e mobile di figure neoplatoniche educate alla stilizzazione, tra scultura animata e pittura affacciata al rituale di magia simpatica.

Prove per una performance con Alessia ed Ilaria, 2017

Il mio Volto Verde, 2017, ceramica, h 50 cm circa, courtesy RIBOT, Milano

Double still life, 2017, ceramica, cm 80x30 circa

Senza titolo, 2017, ceramica, cm 70x60 circa

The Girl, 2016, olio su tela, cm 70x60

Heads, 2017, ceramica, h 40 cm circa, courtesy RIBOT, Milano

Girlz, 2017, olio su tela, cm 180x160

Indastudio, 2017, olio su tela, cm 100x80

OMG, 2017, olio su tela, cm 100x80 foresta. Pittura Natura Animale 249


Luca Caccioni Nato a Bologna nel 1962. Ha frequentato le scuole normali poi il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti. Ha insegnato Pittura a Palermo e Brera, dal 2002 tiene la Cattedra di Arti Visive e Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dagli anni novanta conduce un intensa attività espositiva tra pittura, disegno e installazione in Italia e all’estero; ha tenuto mostre personali in gallerie quali Spazia di Bologna, Marconi di Milano, Studio la Città di Verona, Gentili a Firenze, Oredaria e il Segno a Roma, Carzaniga di Basilea, Greene di Ginevra, Marcorossi di Milano, Giacobbi di Mallorca, Sales di Barcellona, Vannucci a Pistoia, Otto a Bologna, Galvani a Tolosa, Lorenzelli a Milano . Recenti sono le personali in Musei e Istituzioni pubbliche quali il Museo di Lissone e il Museo d’Arte Contemporanea Metropole di Saint Etienne. Vive e lavora tra Bologna e la Toscana, dove ha un secondo studio.

The holy man uses it for bees and water (ubbidiente per le api), 2017, olio su alluminio, 150x100 cm

A bee dance circuit (the desire to draw von firsch), 2017, olio su alluminio, cm 60x60 250

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“…dove non bastasse, questa primavera, ho dipinto una ventina di lavori asciugati e “scaltri” su una superficie a me sconosciuta e reattiva . Non so se mai li esporrò, anche se l’occasione fa il pittore ladro. Ho usato l’olio. E pezze di cotone egiziano per cancellare. Stavolta. Interessava a me la quota del gesto, poi un suo controllo quasi orientale, poi l’attribuzione poetica. Ma questo l’ho pensato solo prima. Durante ciò, il mio pensiero sovreccitato (quasi a giustificarmi e a giustificare i lavori) si è trascinato su quale alta ed esoterica disciplina del vedere racchiude la pittura in sé, probabilmente la più alta, paritetica sia per i “praticanti” che per i “vedenti”. Uno strumento insito, antico e vicino, il più funzionale alla conoscenza e alla pratica della sublimazione della realtà, sulla quale tanto insisteva il viennese. (la cura) Da dire c’è che a febbraio e marzo stavo guardando la pittura antica… un blu risognato affiorante nel chiostro ottagonale dei Carracci, i segnali da

È come dare il concime alle colonne, 2017, olio su alluminio, cm 60x60

Mirage of a walker architect, 2017, olio su alluminio, cm 60x60

Because it was sensitive, 2017, olio su alluminio, cm 60x60

interpretare che stanno nelle mani dipinte di Marcantonio Franceschini dalle quali puoi riconoscere l’autore con certezza, le pitture antiche consunte trovate che secondo me non vanno mai restaurate ma solo consolidate e pulite. …quando sono stato a osservare e a dare i titoli alle opere, ho usato forme di parola e detti popolari raccolti dalla terra che si sentono, come del resto faccio quando uso gli oggetti nelle installazioni e tento di attribuirgli un valore magico. (touche) Due titoli mi piacevano assai. “Come dare il concime alle colonne”. “Come mettere gli occhiali al ninino”. (maiale) Anche un terzo mi piaceva, da una canzone di aznavour. da “note manoscritte e libere per alcune lezioni sulla pittura che farò”. Sinalunga, aprile 2017

Di tutto il blu oltremare che mi è caduto nel risvolto dei pantaloni, 2017, olio su alluminio, cm 60x60

Like to wear glasses to the pig (è come mettere gli occhiali al ninino), 2017, olio su alluminio, cm 60x60

Picture to meditate with three wisteria seeds in your pocket, 2017, olio su alluminio, cm 60x60

Marcaccio (Trying frantically its own icon not you realize you have it already), 2017, olio su alluminio, cm 60x60


Jacopo Casadei (Cesena, 1982) Mostre personali 2016 - Veduta a margine, TOMAV, Moresco, (FM) 2015 - This is nowhere, Yellow, Varese; Defrag, a cura di Gabriele Tosi, Localedue, Bologna Mostre collettive 2017 – TU35 expanded, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato 2015 – Le stanze d’Aragona, a cura di A. Bruciati ed E. Marsala, Rizzuto gallery, Palermo - Contemporary Italian Painters Today, Federico Bianchi gallery, Milano 2014 – Let there be light,Yellow, Varese - Landina, a cura di L. Boisi, Palazzotto d’Orta, Verbania - Visioni per un inventario: mappa del navegar pittoresco, a cura di A. Bruciati, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia 2012 – On cloud seven, Cars, Omegna 2011 – I can’t take my eyes of you, Mars, Milano La mia ricerca vuole indagare una forma particolare di paesaggio, lontana da connotazioni naturalistiche facilmente percepibili e descrizioni particolareggiate, permeata invece di una profonda visione interiore. Il paesaggio diventa il nucleo d’origine per più ampie implicazioni emotive, la natura esterna si fonde con visioni, memorie interne, e questo fa sì che essa si amplifichi in una serie continua di corrispondenze. Il linguaggio pittorico si fa indefinito, fuggente e il paesaggio si fonde completamente nella mente umana. Negli ultimi lavori, la visione arriva ad indagare la stessa struttura pittorica, l’immaginazione prende corpo sulla tela attraverso il segno e il margine tra la pittura e il disegno si confonde fino a costruire l’opera finale. Il segno è usato come mezzo per l’analisi delle immagini e, insieme alla pittura, si traduce lo spazio astratto interiore, cercando di estrapolare pensieri, sensazioni e ricordi. Il parallelismo che si crea è con la scrittura e la traccia lasciata sul piano pittorico assume anche una valenza temporale: è il percorso della memoria che sviluppa le figure nel tempo, visioni sedimentate su diversi piani compositivi che si sovrappongono l’uno sull’altro. Quello che ricerco è una scrittura visiva: la pittura e il segno grafico si mescolano, si confondono, il colore dà al segno un corpo, una consistenza materica e le linee rafforzano e imprimono significati al lavoro interiore che ha portato alla creazione di questo immaginario, di queste sensazioni, stimoli, visioni, passaggi della memoria. La stessa scelta del materiale è per me fondamentale con un’attenzione particolare alla preparazione della superficie della tela proprio per una specifica risposta del colore e del segno tracciato.

Zo zli, 2016, tecnica mista su legno, cm 38x27

Jump japan love jump, 2016, tecnica mista su legno, cm 65x51,5

W’sg, 2017, tecnica mista su legno, cm 83x60

Memory folder, 2016, acquerello e matita su carta, cm 29,7x21

Psn, 2016, tecnica mista su legno, cm 38x27

Senza titolo 2016, tecnica mista su legno, cm 38x27

foresta. Pittura Natura Animale 251


Silvia Chiarini Nata a Faenza nel 1978, si diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2003, e da allora ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in Italia e all’estero tra le quali si segnalano Galerie 1990-2000 di Parigi, Gamud di Udine, Palazzo della promotrice delle Belle Arti di Torino, Museo Carlo Zauli di Faenza, Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, Galleria 91mq di Berlino. Tra i premi vinti ricordiamo “Premio Guercino”, Bologna, “Premio Arte in Contemporanea”, Modena e Premio “Amici della G.A.M.” di Bologna. Attualmente vive e lavora a Faenza. silviachiarini.blogspot.it Le mie opere sono stratificazioni di memorie, ognuna di esse è il risultato di diverse sovrapposizioni di appunti di colori, luci, segni e odori. Quando si osservano questi dipinti si può scavare nella loro storia fatta di cancellazioni e rifacimenti innumerevoli, a volte più leggibili altre volte impercettibili, ogni tela è il frutto di un’emotività che cambia durante la sua realizzazione. Il mio è un tentativo di stabilire un rapporto con il concetto di esperienza e memoria. Attraverso queste composizioni paesaggistiche, fatte di rocce, alberi e vegetazione, creo rimandi alla sfera intima e meditativa ricercando un equilibrio e una pace che solo nell’osservazione del nostro io si può trovare.

Due cespugli, 2016, acrilico matite e tempere su tela, cm 20x20 252

| selvatico [dodici]

Cespuglio oro, 2017, matite acrilico e inchiostro su tela, cm 30x30

Reperti naturali, 2016, acrilico matita e tempere su tela, cm 25x20

Papaja, 2016, acrilico tempere matita e ricamo su tela, cm 30x24

Fiume, 2017, acrilico tempere e matite su tela, cm 120x100

Due soli, 2017, acrilico tempere e matite su tela, cm 120x100


Luca Coser Artista, è nato a Trento nel 1965. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti a Venezia, con Emilio Vedova, e a Firenze dove si è diplomato. Tiene la sua prima esposizione collettiva significativa nel 1985, a cura di Danilo Eccher, e la sua prima esposizione personale nel 1989 negli spazi della galleria Ponte Pietra di Verona, a cura di Luigi Meneghelli. Da allora ha esposto in numerose gallerie pubbliche e private in Italia e all’estero, presentato da autorevoli curatori e direttori museali. Il suo lavoro è oggi rappresentato da Gilda Contemporary Art, Milano – Kips Gallery, New York – And.n Gallery, Seoul. Attualmente vive a Trento e Milano, città quest’ultima dove è docente di ruolo di Disegno per l’arte contemporanea, all’Accademia di Belle Arti di Brera. lucacoser.net, lucacoser@gmail.com Uno scrittore che amo ha detto che Il senso di soglia è una calma che involontariamente conduce avanti. Un altro, altrettanto amato, ha descritto nelle fattezze di una giovane donna l’esatto contrario: Fuori la luce calda accorciò la sua ombra, e lei si ritirò. Michelangelo Antonioni, citando la celebre frase di Robert Oppenheimer, suggerisce che il processo creativo possa essere tecnicamente dolce, qualcosa, cioè, che conduce all’azione (anche alla complessa e colpevole costruzione di un ordigno nucleare). Lievemente, lì dove sentimento e ragione dimenticano a memoria, dove il destino di ognuno si sviluppa in modo fluido, al contempo intelligente e inconsapevole. Il mio lavoro artistico, riuscito o meno che sia, ha la presunzione di trovarsi esattamente lì, su quella soglia. Lieve, insostenibile e tecnicamente dolce, tra l’avanzare e il ritrarsi.

Teoria e metodo 03, 2017, acrilico su lino grezzo, cm 60x80, Courtesy Gilda Gallery, Milano

Analisi del taglio dolce, 2017, acrilico su lino grezzo, cm 190x180, Courtesy Gilda Gallery, Milano

Solo testo 02, 2017, tecnica mista su carta rosaspina, cm 100x70, Courtesy Gilda Gallery, Milano

Solo testo 01, 2017, tecnica mista su carta rosaspina, cm 100x70, Courtesy Gilda Gallery, Milano

Teoria e metodo 04, 2017, acrilico su lino grezzo, cm 60x80, Courtesy Gilda Gallery, Milano

Teoria e metodo 05, 2017, cm 60x80, acrilico su lino grezzo, Courtesy Gilda Gallery, Milano

foresta. Pittura Natura Animale 253


Rudy Cremonini Bologna 1981 Personali The club, Galerie Thomas Fuchs, Germany (2017); Volta Ny 2017, Galerie Thomas Fuchs, New York (2017); CPT, Centro di permanenza temporanea, Galleria Doris Ghetta, Ortisei, Italy (2016); Zone di sicurezza, Teatro Comunale di Bologna, Italy (2016); Le jardin intérieur, Istituto italiano di cultura di Strasburgo, France, (2015); The pleasure is yours, Galerie Thomas Fuchs, Stuttgart, Germany, (2015); Alla fine il cielo, TOMAV Torre di Moresco Centro Arti Visive, Moresco, Italy, (2015); R&R, Spazio 522, New York (2014); Project Room Galleria Bianca, Palermo, Italy(2014); Rudy Cremonini, Galerie Thomas Fuchs. Stuttgart, Germany,(2013); Amigdala | Il tempo ritrovato, L’Ariete arte contemporanea, Bologna, Italy(2012); La vita la vediamo a memoria Giorno della memoria 2012, Museo Ebraico, Bologna, Italy (2012); Documenti d’alterità Museum of wax anatomical models Luigi Cattaneo Alma Mater Studiorum University of Bologna. Italy. Project GiaMaArt studio. (2010); Collettive Kunst 16 Zurich, Brennecke Fine Art, (2016); Positions Berlin Art Fair 2016, Galerie Thomas Fuchs (2016); Contemporary Italian Painters Today - A Personal View, Federico Bianchi, Milano Italy 2015); Rudy Cremonini & Sergiu Toma - NEXT, Galleria Doris Ghetta, Bolzan, Italy (2015); Selvatico tre. Il buco dentro agli occhi o il punto dietro alla testa. Bagnacavallo, Italy (2014); Trigger party, Mars, Milano Italy (2013); Face and Skin, Galerie Thomas Fuchs, Stuttgart, Germany (2013); In Trance, European House of Art Upper Bavaria (2013); Dorian Gray, Second Guest – Ana Cristea Gallery, New York (2012); Nomadic Settlers – Settled Nomads. Kunstraum/ Bethanien, Berlin. Kunstraum Kreuzberg / - Bethanien Berlin Project in Cooperation with SAVVY Contemporary, Berlin, Germany (2012); La foresta non è un giardino che non è stato educato? Non è un animo selvaggio e libero? Non è il luogo intimo capace di oscurare il cielo? Dove corre l’istinto, l’odore e nel calore umido dei respiri che offusca il senso, si ripetono i pensieri fino alla tana, preghiere semplici fatte di pochi grigi. Poi il bordo, il confine, il vuoto della scelta, le ultime ombre prima del controllo, della salvezza, dell’educazione, della civiltà; il rovescio, dove il cielo controlla e illumina, dove le cose si spiegano.

Heart earthen, olio su tela, cm 40x50 254

| selvatico [dodici]

A good place to stay 2017, olio su tela, cm 90x120

Educazione #1, 2015, olio su tela, cm 70x80

Educazione #14, 2015, olio su tela, cm 160x190

Nella notte i fiori, 2015, olio su tela, cm 150x190

Night eater, 2017, olio su juta, cm 200x160


Giulia Dall’Olio Nasce a Bologna, dove vive e lavora. Si diploma in pittura presso l’Accademia di Belle Arti della sua città con una tesi sull’importanza del “vuoto” nelle arti giapponesi. Si susseguono varie mostre, nel 2015 espone al MAR, Museo d’Arte di Ravenna per Critica in Arte in una personale curata da Leonardo Regano, nel 2016 espone al Museo di Palazzo Poggi a Bologna con la mostra Il Terzo Paesaggio e nel 2017 partecipa alla collettiva Sequela presso l’ex Chiesa di San Mattia a Bologna all’interno del circuito eventi di Artcity, espone tra Germania e USA. www.giuliadallolio.it

Tra luce ed ombra Al centro della mia pittura c’è la natura: selvaggia, rigogliosa, mistica. Tra luce e ombra, il dato vegetale si sfalda e si ricompone in architetture vulnerabili, in una moltitudine di segni che si stagliano contro fondali uniformi, in una dimensione atemporale, gravida di valore spirituale. Acque immote, fronde, fili d’erba: i miei paesaggi sono luoghi reali, il territorio emiliano in cui sono nata e cresciuta, attraversati da elementi di disturbo per la visione. Tagli, incisioni, colature: sfigurazioni del dato reale che connettono l’osservatore a una dimensione altra del paesaggio. L’albero che si discioglie in un’immagine archetipa e universale, elemento di congiunzione tra i due regni, il cielo e la terra, diviene simbolo di un percorso di crescita e di evoluzione ascetica, come ha scritto Leonardo Regano in occasione della mostra Il Terzo Paesaggio, che ho tenuto a Bologna, al Museo di Palazzo Poggi, nel 2016. Nella mia opera cerco il silenzio che non trovo nella mia quotidianità; il mio lavoro diventa il mio reagire all’influenza del dato materiale, il mio cammino verso una dimensione contemplativa.

g 19][68 d, 2017, carboncino e biro su tela, cm 59x43

g 19][69 d, 2017, carboncino su tela, cm 150x200

g 19][66 d, 2017, carboncino e pastello su carta, cm 28x38

g 11][6 d, 2017, carboncino e olio su tela, cm 50x60

g 11][8 d, 2017, carboncino e olio su tela, cm 45x60

g 8][5 d, olio e pastello su tavola incisa, cm 184x312 foresta. Pittura Natura Animale 255


Vittorio D’Augusta Fiume, 1937. Risiede a Rimini. Dopo un periodo di formazione, partecipa negli anni ’70 ai movimenti europei della concettualità analitica. Questa sua attività è documentata in Empirica, museo Castelvecchio, Verona, 1975, e in Astratta, Secessioni astratte in Italia dal dopoguerra al 1990, Palazzo Forti, Verona, a cura di Giorgio Cortenova e Filiberto Menna. Tra pittura e spazialità sensibile, espone in diverse rassegne, tra cui Le Designazioni del senso, Loggetta Lombardesca, Ravenna, 1978, a cura di Giovanni Maria Accame; Un’area ostensiva, a cura di Giulio Guberti, Landesmuseum Joanneum, Graz; Metafisica del Quotidiano, GAM di Bologna, a cura di Franco Solmi; I materiali dell’arte, Castello Sforzesco, Milano, a cura di Veca; Pittura/Ambiente, Palazzo Reale, Milano 1979, a cura di Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daolio; Nuova Immagine, Palazzo della Triennale, Milano, 1980, a cura di Flavio Caroli, Carta Ipotesi, Galleria De’Foscherari, Bologna. Con il Gruppo dei Nuovi/Nuovi, teorizzato da Barilli, espone a Modena, Palazzina di Parco Massari, Roma, Palazzo delle Esposizioni, Genova, Teatro Falcone, Torino, Galleria comunale d’Arte Moderna, e, recentemente, allo Studio Vigato di Alessandria, Galleria La Steccata di Parma, Galleria Frittelli di Firenze. È presente ad Anni Ottanta, GAM di Bologna, e ad Aspetti dell’Arte italiana 1960/80, Francoforte, Berlino, Hannover, Bregenz, Vienna. Nel ’94 Marisa Vescovo lo invita a Frequences lumineuses alla Villette di Parigi, e, nel 2004, a Opera al nero, presso la Mole Vanvitelliana di Ancona. Ha allestito personali in importanti gallerie europee: Nacht St. Stephan, Vienna; Vera Munro, Amburgo; Kunstverein, Francoforte, a cura di Peter Waiermeier; Centro Bellreguard, Valencia; Galleria Tanit, Monaco; Galleria Schneider, Costanza. Tra le personali in Italia: Galleria Piramide, Firenze; Galleria Ferrari, Verona; Studio Cavellini, Brescia; Galleria Annunciata, Milano; Studio Malossini, Bologna, Galleria Fabjbasaglia, Bologna e Rimini; Studio Vigato, Alessandria; Galleria Tasso, Bergamo, con testo di

Marisa Vescovo. Nel ’94 espone opere su carta ai Musei di Modena, con testo di Flaminio Gualdoni; nel ’95 personale alla GAM di Bologna, con testi di Dede Auregli e Gian Ruggero Manzoni. Claudio Spadoni, che nel 1983 lo aveva invitato a Critica ad Arte, a cura di Achille Bonito Oliva, Palazzo Lanfranchi, Pisa, nel 1999 lo invita alla Quadriennale di Roma. Giancarlo Papi cura la personale al Palazzo del Capitano, Cesena, e Sabrina Foschini quella al Laboratorio dell’Imperfetto, Gambettola. Tra le mostre più recenti, L’Elogio della Figura, a cura di Marisa Zattini e Antonio Paolucci, Palazzo del Capitano, Cesena, 2007, e Doppio Panico, a cura di Antonio Bertoli e Marisa Zattini, Oratorio di S. Sebastiano, Forlì, 2009/10. Barilli presenta la personale allo Studio Vigato, Milano, 2012. Personale Il Giardino e la Guerra, FAR, Rimini 2013, con testi di Massimo Pulini e Sabrina Foschini. Nel 2016 Biennale del disegno, Museo di Rimini, e Pentagonale, Galleria Fabjbasaglia Rimini, a cura di Bruno Corà, con Gastini, Icaro, Spagnulo, Mattiacci; Per vie diverse, Magazzino del sale, Cervia, a cura di Claudio Spadoni. Nel 2017: “Io sono liquido sale”, incontro con la poesia di Rosita Copioli, Locus Solus, Palazzo Giangi, San Marino. I tre pittori Sul fango argilloso delle rive di un fiume tibetano, o del Marecchia - non si capiva bene poiché era notte e la vallata, in alto tra gli Appennini, non sembrava diversa dalle vallate del Tibet, e la luna, con sguardo distante, rischiarava debolmente tutto uguale, e uguale era il silenzio - un pittore, forse giapponese, con uno stecco appuntito, scrisse una frase su quel fango argilloso: “Pittore è colui i cui pensieri hanno costantemente come termine di paragone la pittura”. Sotto la frase scrisse il suo nome: Tsu Uda Ga. Un secondo pittore, forse valdostano, passando su quella riva dopo qualche giorno, lesse la frase, che l’acqua non aveva ancora cancellato del tutto, e, con uno stecco appuntito, scrisse lì accanto sul fango ar-

Inchiostri e crisalidi. Frammenti per una installazione, 2010, china acquerello e grafite su carta, cm 24x33 256

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gilloso: “Ogni parola scritta sul fango è una poesia, e se l’acqua della notte non l’avrà cancellata, sarà una bella poesia”. Sotto, scrisse il suo nome: Ivo Troit. Poco tempo dopo, passò un terzo pittore, di Rimini, città a Nord Ovest del Tibet, nato a Fiume, città a Nord Est di Rimini. Indossava un montgomery scuro, il cappuccio sul capo, simile a un saio francescano, umiliato nella schiena da schizzi di fango. Frenò, si fermò, pose per terra la mountain bike (Cobran, made in Cerasolo Ausa, lega leggera, no parafanghi), avendo cura che non si infangasse il deragliatore del cambio Schimano, made in Japan. Guardò, come se già li conoscesse, i nomi e le frasi dei due pittori, e disse tra sé: “Conosco quei due pittori come me stesso” e pronunciò a memoria le frasi, quasi illeggibili a causa dell’acqua della notte. Poi, raccolto uno stecco appuntito, tracciò lì accanto sul fango argilloso il disegno di un volto, che gli assomigliava. Sotto, scrisse il suo nome. Da allora sono trascorse molte lune, le stagioni, gli anni. Le piene cancellarono ogni traccia. Pochi frequentano quei luoghi: un pescatore di frodo, un camminatore solitario, una cicloamatrice, una guaritrice, un pastore errante forse armeno, un pensatore in pensione, un animatore turistico e precario, un politico notturno e marchigiano, una guardia forestale, un boscaiolo, un vecchio cacciatore di Maiolo, un ex elettrauto - ora eremita - di El Ta Lam (secondo Tonino Guerra: “Talamello”). Non guardano il fango degli argini, ma l’acqua del fiume, la vita che scorre, le nuvole contro il profilo fermo dei monti, uno stormo di starne, una pernice, un fiore. Solo un poeta, passando di notte per quella riva, se la luna avrà rischiarato il fango argilloso con raggi radenti, potrà ancora indovinare, in uno solo, il disegno di tre volti. (Il nome del terzo pittore pare fosse un maldestro anagramma degli altri due. Così almeno sembrò al pescatore di frodo, persona poco attendibile).


Luca De Angelis È nato a San Benedetto del Tronto (Italia), nel 1980. Si è diplomato in pittura presso l’accademia di belle arti di Urbino. Ha partecipato a diverse mostre collettive in spazi pubblici e privati. Ha partecipato a programmi di residenza artistica nazionale e internazionale, come Painting Practices, residenza di pittura a Nogaredo al Torre (UD) nel 2014, Belgrade AIR, programma di residenza a Belgrado nel 2015 È stato finalista in vari Premi nazionali d’arte e nel 2013 è stato vincitore del premio Francesco Fabbri nella sezione arte emergente, nel 2014 si è aggiudicato il premio speciale under 35 del Combat Prize. Il suo lavoro è stato acquisito dalla Fondazione Domus per l’arte moderna e contemporanea durante Artverona fiera nel 2014 e nel 2015 un suo lavoro entra nella collezione della Galleria Civica di Modena. Attualmente vive e lavora a Milano Le rappresentazioni dell’uomo e dell’ambiente naturale che lo circonda sono le forme iconografiche più antiche e persistenti. Questo immaginario, che resiste nel tempo e che ciclicamente torna, sembra essere frutto di un legame primordiale e oscuro; la natura, che si presenta con il suo carattere selvaggio, assume le sembianze di un oggetto enigmatico. L’individuo che si inoltra all’interno di questo organismo primitivo rischia di perdersi, ma il suo ”passaggio al bosco” contiene il coraggio del gesto rivoluzionario. Colui che si allontana dal gruppo e si smarrisce di proposito, per avvicinarsi ad un ambiente colmo di incertezze, sa di intraprendere un percorso rischioso e solitario. Durante il tragitto, la foresta o il bosco non si rendono scenari di un semplice racconto ma diventano lo specchio di uno stato emotivo dove concetti e narrazione si congelano per dar spazio ad una realtà dalle forme evocatrici.

Foresta, 2016, olio su lino, cm 30x40

Gendarme, 2016, olio su lino, cm 200x150

Senza titolo, 2017, olio su lino, cm 25x30

Senza Titolo, 2016, olio su lino, cm 40x30

Fino a notte, 2016, olio su tela, cm 25x20

Dietro al giardino, 2016, olio su lino, cm 25x20

foresta. Pittura Natura Animale 257


Lorenzo Di Lucido Ăˆ nato nel 1983. Vive e lavora tra Abruzzo e Lombardia. Ho semplicemente masticato dei paesaggi restituendoli poi sulla superficie. Non volevo fare niente altro che dipingere e dipingere. Ho respirato e ho dipinto e avrei voluto che i dipinti avessero il ritmo del mio respiro. Credo che il corpo sia un aspetto imprescindibile e fondamentale per la pittura. Allora ho cercato di dare un corpo al colore e alla luce tramite il mio dipingere. Niente altro.

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Late, 2017, olio su tela, cm 140x100, courtesy yellow, foto di Cosimo Filippini

Lateness, 2017, olio su tela, cm 140x100, courtesy yellow, foto di Cosimo Filippini

Willow, 2016, olio su tela, cm 40x30

Tavola di grizzana, 2017, olio su tela, cm 80x60, courtesy yellow, foto di Cosimo Filippini

| selvatico [dodici]

Rumine, 2016, olio su tela, cm 30x24

Erased, 2016, olio su tela, cm 30x24

Tenda di grizzana, 2017, olio su tela, cm 40x30, courtesy yellow, foto di Cosimo Filippini


Massimiliano Fabbri

È nato a Cotignola nel 1972. Vive a Bagnacavallo. Nel 1995 si è diplomato in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Pittore e disegnatore, per il Museo civico Luigi Varoli di Cotignola ha ideato Selvatico, progetto, geografia e ciclo di mostre di arti visive in dialogo con le collezioni museali e altri spazi del territorio; per lo stesso Museo Varoli ha curato i nuovi allestimenti della casa-studio dell’artista. Educatore, presso la scuola Arti & Mestieri di Cotignola, tiene laboratori di quasi arte per bambini e ragazzi. Nel 2016 la sua ultima mostra personale (con Luca Caccioni) all’interno della Biennale del Disegno di Rimini, a cura di Claudia Collina e Massimo Pulini, presso il Complesso degli Agostiniani, sala Pamphili. Quando entro in studio, spesso, l’impressione di dover cominciare tutto da capo e di non esser capace di fare tesoro dei gesti già compiuti. Nessun metodo. Però, questa imprendibilità del metodo, e sua memoria a cui tornare con difficoltà, è anche ricercata: abitudine minata, come a preparare un terreno più insidioso imprevedibile. Sensazione frustrante; grazie a questa instabilità la sorpresa e l’accadimento possibili. Amnesie ed errori su cui si costruisce l’immagine. La tecnica, un animale acquattato da risvegliare a proprio rischio e pericolo: tutto avviene in essa, in questo indispensabile corpo a corpo; una volta addomesticata la bestia, condizione temporanea e mai acquisita, o dimenticata infine, si aprono spazi, piste e possibilità. Questo, nebulosamente, ciò che mi serve, che

Sistema limbico, 2016 Luogo Fossile Gesto, olio su tela, 2016-17 cm 120x100 olio, carboncino e matita bianca su carta, cm 100x70

aspetto e preparo nel procedimento, questo non sapere bene come e cosa succederà sulla tela, quale l’immagine che, per quanto incerta lacunosa imperfetta, alla fine del processo resisterà, mutando, vincendo per stanchezza, manifestandosi con più forza. Arrivare alla pittura senza avere un’idea ben precisa di quella che sarà l’immagine finale, e aspettare che emerga, si precisi e definisca, senza prevedere automatismi, flussi o condizioni di sospensione del giudizio: massimo controllo capace di mettere anche, contemporaneamente, nella condizione di spettatore; perduti nel dettaglio e tenuti a distanza. L’assedio è la condizione, una specie accerchiamento E, in contraddizione con questa sensazione di avventura, la noia, che gioca un ruolo assai importante e passa da una sorta di ripetizione del gesto che significa pratica quotidiana, la più regolare metodica possibile, un fare artigiano inevitabile: il lavoro stupido e testardo, l’esercizio che libera, nessuna ispirazione; una disciplina. Una volta riusciti a sospendere il pensiero attraverso una quasi ginnica di occhio e mano, può succedere qualcosa: la scena è pronta, è la pittura; nessuna finestra attraverso cui guardare, dentro piuttosto. La pittura è una pelle e proprio come l’epidermide è composta di più strati: questo mi cattura, questo suo crescere e formarsi attraverso stratificazioni di materie, visioni e tempo; questo sommarsi sulla superficie di fantasmi ombre residui di visione; questo fondarsi dell’immagine su tracce sotterranee sui cui si sviluppa negando e distruggendo, passando spesso per una sensazione concreta di perdita. Frammenti. Pittura archeologia. Seppellendo e coprendo. Pittura geologia.

Sonnologie [Forse non ti piace la notte], 2016, olio su tela, cm 120x80

Sonnologie [Il cielo in una stanza], 2016, olio su tela, cm 120x80

In questo il dipingere è un tentativo di orientamento, mediazione tra mondi: processioni di immagini che premono spingono sedimentano. Un’aggiunta costante e uno scavo. Un ritorno. Una mappa che congiunge e collega. Una geografia, non tanto dello spazio, ma del tempo. Superficie profonda. Il ripensamento a sovrapporsi. Pittura capace di mostrare e nascondere al tempo stesso, l’occultamento sommerso degli strati che la compongono e le molte immagini cancellate che stanno sotto, invisibili perdute. L’errore. L’apparizione che non si è stati capaci di trattenere. Un procedimento di costruzione e aggiunta che passa attraverso un secondo sguardo, che in parte nega ciò che è rimasto impigliato sulla tela o foglio. Sorta di combattimento che oscilla tra la massima definizione possibile dell’immagine e sua sparizione. Forse, proprio perché non riesco a figurare e proiettare nella mente un quadro prima di dipingerlo, ad anticiparlo come cinema, tutto avviene nella materia: in partenza qualche traccia disordinata, galleggiante e alla deriva: fotografie come memoria e frammento del mondo, dettagli isolati, salvati e fuori contesto capaci di attirare la mia attenzione, alcuni disegni dal vero, oggetti e cose della natura senza valore, reperti di collezione bambinesca, ossi di pesca e foglioline, rametti belli e piccole vertebre perfette; una pratica simile al collage o all’innesto che rimette insieme e cuce questi pezzi e mancanze sparse, e loro crescere e incontrasi e incastrarsi felice. La pittura come un giardino della mente, una foresta. La metafora dell’andamento vegetale che si rispecchia nei processi del cervello e nel prendere forma di un disegno mi sembra l’immagine più esatta, una specie di coltivazione.

Un fango d’altre epoche, 2016 olio su carta, cm 70x50

Giardino [furore], 2017 olio e carboncino su carta, cm 70x50 foresta. Pittura Natura Animale 259


Marina Girardi È illustratrice, autrice di libri a fumetti e cantastorie. È nata in una valle delle Dolomiti nel 1979 e vive su un crinale boscoso dell’Appennino bolognese. I suoi libri prendono spesso la forma del diario di viaggio: Kurden People, Appennino e Tutta discesa (Comma22 editore) raccontano di viaggi a piedi e in bicicletta, Capriole (Topipittori editore) è l’autobiografia della sua infanzia nomade in giro per l’Europa. Con il suo compagno, il disegnatore Rocco Lombardi, ha realizzato L’argine (Becco Giallo editore), una storia di solidarietà e resistenza ambientata a Cotignola (RA) durante la Seconda Guerra mondiale. Insieme hanno creato anche Nomadisegni, un progetto itinerante di passeggiate disegnate per raccontare le storie nascoste dentro al paesaggio. Spesso al sabato dipinge in strada a Bologna, con la sua bicicletta da pittrice e poi la domenica torna in montagna a cantare la Canzoni della Donna Albero. www.magira.altervista.org www.nomadisegni.it Selva matrilinea Natura Madre, Fonte oscura di vita spontanea, Matrice Nera di terra fertile che genera e cura ogni creatura, Mater Metamorfosi, Magna Magmatica venerata ieri tra gli alberi del Bosco Sacro, oggi pallido sorriso di ceramica. Seguo la matrilinea e sono nella selva, dove ogni cosa è unita dal ciclo vitamortevita, mi perdo e vagabondo, sto nella mia parte inchiostro nera prima di ritrovare colore e luce. Per via di madre ritorno alla radice, nel ventre di fango trovo la necessità della visione, intingo nel lattesangue e ramifico il seme in una foresta di segni, vene per la linfa vitale, arterie di conoscenza, trama che lega all’infinito, intreccio di nido che cura.

Alberodiluna #1 2017, acquerello e matite su carta, cm 21x29,7 260

| selvatico [dodici]

Alberodiluna #2 2017, acquerello e matite su carta, cm 21x29,7

La Lupa conosce la strada #1 2016, acrilico su carta, cm 50x50

La Lupa conosce la strada #3,2016, acrilico su carta, cm 50x50


Federica Giulianini (1990, Ravenna) Vive e lavora tra Ravenna e Milano. Dopo il diploma presso il Liceo Artistico P.L. Nervi di Ravenna, consegue il diploma di laurea in Arti Visive / Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Una ricerca artistica intreccia forme del regno umano ed animale tra le vibrazioni ottiche della natura, nutrendosi di una sensibilità poetica, storico culturale e mitologica. Il suo percorso comprende tecniche miste ed eclettiche che occupano antiche carte, tavole e tele dominate da segno e pittura. Costante è la sua partecipazione a mostre personali e collettive, premi e pubblicazioni, residenze d’artista e workshop in gallerie e musei nazionali ed internazionali. Alcune tra le recenti: Acite, Galleria Vibra Spazio Contemporaneo di Idee (Ravenna) testi a cura di Chiara Serri; Entropia, Set Up Contemporary Art Fair (Bologna); Premio Internazionale Marina di Ravenna 015 (Ravenna); Meteore a cura di Bruno Bandini Palazzo S.Giacomo (Russi); Incontro, a cura di Silvia del Campo (Roma); Secondo Livello Otto Gallery (Bologna) a cura di Giuseppe Lufrano; L’Approdo, Museo Archeologico della Regione Sicilia (Gela). www.federicagiulianini.com federicagiulianini@gmail.com Hybris La natura non può essere solo piacere estetico. È una forza generatrice che sull’opera diventa immagine circoscritta di un insieme, un estratto, che agglomera grovigli senza tempo, l’evidenza e l’inaspettato. La ricerca di una pittura senza tempo mi preme, sospesa, come il mito è una sorta di modo di essere capace di riportare la scena alla sua realtà, alla propria origine non solo nella sua iconologia ma dandogli anche una propria iconografia. Una struttura in accordi ritmici di forme mitiche e di contorni nitidi, sbalorditi e saltuari da cromie che spostano visioni e prospettive euritmiche che segnano passaggi atmosferici. È la matita a suggerirmi la sagoma di uno spettatore dal valore alchemico che orna quello magico della natura, è la volontà di ridisegnare il linguaggio estetico della forma pittorica, tralasciando al fruitore una riflessione surreale, statica e dinamica allo stesso tempo. Un cielo turbato da ombre che emergono, l’ossimoro del silenzio che grida in una vegetazione in solitudine: questo è l’intermezzo di uno stadio dell’artista, ciò che mi porta a cogliere le forme vitali della natura ed animarle. Non esiste paesaggio senza una corrispondenza tra soggetto e natura. Quell’indomabile rapporto che induce ad una analisi intima, sfoglia le pagine dell’inconscio, come foglie che cadono abilmente e diversamente in ogni stagione, quella forza che la tela, la carta supporta ad ogni spasmo della mente. Ogni distruzione è origine, ogni cancellazione è vita, ogni vita è decostruzione. Il segno è ciò che si ricorda, che vive.

Costellazione celeste, 2016, tecnica mista su carta cm 32x27

Micene, 2017, tecnica mista su carta, cm 60x80

Disorientamento Temporale, 2017, tecnica mista su carta cm 42x50

Veritas Filia Temporis, 2016, tecnica mista su tela, cm 200x150 foresta. Pittura Natura Animale 261


Domenico Grenci Nato ad Ardore nel 1981, vive e lavora a Bologna. Attualmente collabora con la Nuova Galleria Morone di Milano e con la Galleria Alessandro Casciaro di Bolzano. La Natura disobbediente Ogni giorno, assistiamo a delle lotte, esse fanno parte di quei naturali accadimenti che oramai sempre più spesso cerchiamo di indovinare, di circoscrivere ma che non riusciamo più a comprendere del tutto. Parlando di natura, dobbiamo constatare che abbiamo perso dei pezzi di memoria, di conoscenza, di esperienza ed in questo sfaldamento del pensiero, ma anche biologico, abbiamo assistito alla nascita di scenografie spesso sorde, inanimate, davanti alle quali si svolgono le nostre esistenze. I giardini, in tutto questo, assolvono un ruolo fondamentale, rappresentano le così dette eccezioni. Un luogo di per sé è un’eccezione, una singolarità, penso ad uno sfondamento nel paesaggio urbanizzato. L’incontro, a volte improvviso, altre volte pianificato, con il luogo, è sempre rivelazione e cambiamento, veniamo trasformati. Basta, a volte, varcare la soglia di un giardino per comprendere che quella soglia rappresenta la separazione tra due mondi. Attraversare la soglia della stanza, condivisa con Giovanni Blanco, assume il significato di entrare in un territorio, una foresta, dove si intercettano cose a volte semplici, a volte complesse. All’interno di questa selva, in questa mise en scène del mio e del suo studio, vi è una creazione stratificata, organica, dove il lento lavorio del tempo e dell’azione dell’artista lo trasforma, lo modifica restituendo un ordine profondo. Penetrare in un luogo ha a che fare con il tornare ed il ritrovarsi, ritrovare qualcosa che pensavamo perduto e che si manifesta con il dono. Conseguentemente, questo gruppo di opere, che a voi presento, è un testamento di smarrimenti e di domande, molte delle quali destinate a restare aperte. È un tentativo che, come tale, porta con se tutto il peso dei fallimenti e delle aspettative. Ma questo gruppo di opere è anche frutto di un tempo sospeso, monco di un passato e di un futuro. Esse vivono in un presente dilatato e, così come un giardiniere che lavora con l’invisibile, mi sono convinto ad accompagnarle senza cercare di padroneggiarle veramente. I lavori presentati sono da intendersi come un ventaglio di possibilità e di opportunità: da “la finestra tra i salici” a “la radura”, da “di notte le rose” a “friche”, essi vanno pensati come angoli di un unico giardino, luoghi diversi per suggestione ma concomitanti, attigui, disposti su un unico cammino di esistenza. Il giardino ha assolto dunque, in questo contesto un connotato metaforico, assieme alla pittura si è fatto compagno, ultimo rifugio possibile, terapeuta felice, disobbediente per sua natura. In quanto tale il giardino è uno spazio delimitato, chiuso, una fucina non molto lontanamente alchemica, nella quale si testano forme di possibili paesaggi destinati a diventare poi ideali di vita. Ed ecco che, in questo medesimo fare alchemico, il giardino si tramuta in opera pittorica e l’opera si fa mondo. In questo, intravedo, nel momento in cui la pittura si chiude su se stessa, all’interno dei suoi confini, una forma di resistenza ed un atto sovversivo che avrà, però, sopravvivenza se si farà penetrare dalla luce. Quella stessa luce che indica la via tra i salici, che fa impallidire le rose la notte e che crea lo sfasamento all’interno della friche. Ho trovato un paradossale conforto in ciò che i francesi definiscono, appunto, con il termine “friche”, ovvero nell’incoerenza estetica, l’incontro fugace con quel segreto sottile, illeggibile, che si nasconde dietro l’apparente stato di abbandono delle cose, in attesa, paziente, di una decisione che possa poi trasformarsi in azione. Il risultato ultimo di questo coltivare è il perenne mutamento, esso genera delle epifanie e, come tutte le epifanie, portano con se più domande che certezze.

Finestra tra i salici, 2017 olio, bitume e pastelli su tela, cm 45x76 262

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Friche, 2017, olio, pastelli e bitume su tela, cm 45x76

Di notte le rose, 2017 bitume olio e pastello bianco su tela, cm 46x33

Radura, light box, 2017 inchiostri e olio su acetato e vetro, cm 22x22


Elena Hamerski È nata a Forlimpopoli nel 1989. Si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna prima in pittura poi in didattica dell’arte e mediazione del patrimonio culturale. Ha partecipato a diverse mostre collettive in spazi pubblici e privati. Nel 2012 ha vinto il Premio Terna-sezione giovani e nel 2017 il Premio speciale Rottapharm Biotech - Biennale Giovani Monza con l’acquisizione di due lavori nella Pinacoteca Civica di Monza. Ha ideato Change!, progetto incentrato sullo scambio e relazione tra artisti. Attualmente vive e lavora a Forlì. Foresta nera. Selva nigra. Marciana Silva. Foresta. Silva Forestis. Bosco di fuori. Piante al di fuori del recinto. Recinti di segni convulsi. Il giardinaggio. Come meccanica vegetale. Nature morte. Storie naturali. Sterili nature. I fiori del male. Quanta Mala mela. Sembri una cattedrale, foresta, e mi spaventi. Gridi come un grand’organo, e nel cuore perverso, stanza d’eterno lutto e d’incessante rantolo, risponde il De profundis modulando il suo verso. Per morire ci vuole coraggio. Invito al viaggio. Natura. La natura che ti somiglia tanto. Sapori languidi. Sotto boschi. Sopra boschi. Dentro boschi. Fuori boschi. Dentro alberi. Il nero che ti porti dentro. Gli alberi come mondo dove rifugiarsi. Natura matrigna. Natura materna. Nero come le cose sporche. Le cose brutte. Le cose che si tengono per ultime. Guerra. Carbone fossile. Carbone da ardere. Carbone per riscaldare. Carbone per la fine di un’era. La fine di un mondo. Il Barone Rampante. Alberi come terre. Come isole. Il confini del selvatico oltre il quale ci si spinge. Ci modella l’animo. Potendo perdere le sembianze di uomo. Come foglia. Come bacca. Come fiore. Alberi altissimi. Sottoboschi minuti. Odori acri. Foreste per ritrovare la natura che abbiamo perso. Sarò come una cellula fra motori.

Foresta Nera, libro 36 pagine, 2017, olio di lino, pastelli acquerellabili e carbone su carta, cm 50x74 Courtesy Francesca Merendi

Foresta Nera Callistemon Citrinus, 2017, olio di lino, pastelli acquerellabili e carbone su carta, cm 220 x150 Courtesy Francesca Merendi

Foresta Nera Pyrostega Venusta, 2017, olio di lino, pastelli acquerellabili e carbone su carta, cm 220 x150 Courtesy Francesca Merendi

foresta. Pittura Natura Animale 263


Giovanni Lanzoni Lanzoni in un gioco di invenzione bambinesca, veste i panni del detective o esplora­tore o archeologo o costruttore, che ricompone il mondo e re-inventa storie perdute a partire da questi indizi e parti prima disseminate, poi raccolte e lasciate a sedimenta­re, selezionate, e infine inserite in complessi palinsesti e meccanismi: la cosa singola quasi muta, o non dotata di pieno significato si ri-organizza in sequenza, spartito o frase; musica, racconto, flusso narrativo, spazio tempo, crescita. Ragnatela. Sorpren­dente nido. E così non può fare a meno di un accumulo da cui muove e parte la sua ricerca e ossessione, accumulo che ascolto dei tanti echi e risonanze che sprigionano dalle cose e che nelle cose sembrano imprigionati; e una specie di tentativo artigianale di mettere ordine a questo archivio caotico e geologico di cose e frammenti e pezzi sparsi di mondo. la carta, nelle sua moltitudine di forme e colori e immagini, viene salvata e cucita e sovrapposta in grandi collage che si imparentano sempre alla mappa e alla geografia, perché processi di orientamento dentro alla babele che ci sommerge di immagini e fotografie e riviste e vecchi fogli dipinti da cui isolare e salvare un dettaglio per poi, da esso, ripartire. Come nuovi. In solitudini (forse non) troppo rumorose. Sulla soglia welcome, gigante kitsch del benvenuto stampato, rito di passaggio che ci mostra l’ingresso, che ci accoglie e guida all’interno/esterno di una foresta di carta, foresta di segni, disegni di carta. Alberi la cui corteccia diventa foglio, ritaglio e filo d’erba, esercizio di riciclo: alla fine anche Hervé Tullet viene passato al tritacarte. Pratica che scandisce una sequenza musicale dove ogni singola nota/stelo va a com­porre lo spartito. Il foglio si fa supporto/terreno e sottobosco, mantra erboso, fibra di cellulosa, foresta al microscopio. Accumulo di frammenti giustapposti che rinunciano ora alla figurazione e si riorganiz­zano in caleidoscopici mandala. Foglie di fogli che cadendo si depositano e stratifica­no in modo disordinato, con la grazia del caso. Le veline cucite tra loro simulano vetri, grandi velature lattiginose, e incroci di reticoli pressappoco regolari ne rigano la superficie. Un tutto opaco, offuscato, polveroso. Il Grande Vetro non più crepato ma appannato.

Grande vetro appannato, 2017, collage, cm 110x92 264

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Grande vetro appannato #2, 2017, collage, cm 110x92

Tullet passato al tritacarte #2, 2017, collage, cm 64x80

Welcome!, 2017, collage, cm 70x102


Enrico Minguzzi (Cotignola 1981) Dopo essersi diplomato al Liceo Artistico di Ravenna, Enrico Minguzzi ha seguito i corsi dell’Accademia di Belle Arti di Bologna dove si è laureato nel 2008. Negli anni, ha soggiornato per qualche tempo a Milano per poi stabilirsi a Bagnacavallo, dove ora vive e lavora. A Milano, nel 2008, ha tenuto la sua prima mostra personale, Liqueforme, presso lo Studio d’Arte Cannaviello, cui farà seguito quella del 2011 dal titolo Decostruzione. Successivamente ha tenuto mostre personali a Vicenza (2013); nel Palazzo Ducale di Pavullo sul Frignano (2014); a Ravenna (2015); a Rimini (2015) e a Torino (2016). Nel 2017 ha svolto il programma di residenza presso Areacreativa 42 (Rivarolo C.se, Torino) il cui frutto è sfociato nella sua prima installazione sitespecific permanente presso il comune di Valperga (To). Dal 2005 a oggi ha inoltre partecipato a numerose mostre collettive ed ha ottenuto premi e segnalazioni quali: premio “Combat Prize” del 2017; vincitore del il premio “Mantegna cercasi” del 2014; il “Premio DAMS”, curato da Renato Barilli, nel 2006; il “Premio SAMP” nel 2006; il premio “Babele. I luoghi della contaminazione” del 2007; mentre è stato finalista al “Premio Celeste” del 2006; secondo classificato al “Premio Nazionale delle Arti” del 2006; finalista al “Premio Morlotti” del 2007 e al “Premio Marina di Ravenna” del 2012. [na-tù-ra] Il più stretto legame tra il mio lavoro e la natura non è il soggetto, anche se è certo che la raffiguro. La natura compone una serie infinita di disequilibri, di litigi e legami, esigenze e ripieghi che sfociano nella più totale perfezione. Non dipingo luoghi precisi e non mi occupo di natura, mi occupo di immagini e di pittura, della natura della pittura. Spingo i miei soggetti verso uno slittamento e un allontanamento dalla propria naturale stabilità. Tutto è apparentemente quieto, ma pervaso da un senso di incompiuto, una sottile irrequietezza; l’assoluta stabilità é qualcosa di già esaurito. Il lavoro nasce come una fioritura, una proliferazione di strati di colore. In questa modalità operativa, velocità esecutive differenti si susseguono e formano un equilibrio costituito da una serie di disequilibri. Questo penso sia il legame più stretto che si può trovare tra il mio operato e la natura.

19 giugno, 2017 olio su lino, cm 40x50

Rumore di un luogo immobile, 2016 olio su tela, cm 80x100

Ricordo di non esserci mai stato, 2017 olio su tela, cm 180x240

La riscoperta, 2017 olio su tela, cm 80x100

Del buio e di altre storie di luce, 2016 olio su lino, cm 40x50

La seconda luce, 2016 olio su tela, cm 124x124

foresta. Pittura Natura Animale 265


Matteo Nuti Nasce a Bientina (Pi) nel 1979, dopo il liceo artistico continua la sua formazione da autodidatta, nel 2005 si trasferisce a Milano e nel 2012 a Roma. Nel 2016 torna nella campagna toscana dove vive e lavora. Mostre e Collaborazioni 2017: Combat Prize, Museo Fattori – Livorno; On Demand Chiesa SS Crocifisso dei Bianchi - Lucca. 2015: Fragile – Cappella Belgiojoso, Catania. 2013: Un homme juste est quand même un homme mort – Palais De Tokyo, Paris. 2012: These Peanuts are Bullets – Family Business Gallery, Chelsea, New York. 2011 Maurizio Has Left the Building – (Matteo Nuti/Pierpaolo Ferrari) Le Dictateur, Milano. 2010: WE Are Not Ready – Le Dictateur, Milano. 2009: Biennal of Young Artist from Europe and Mediterranean BJCEM – Museum of Contemporary Art Skopjie, Republic of Macedonia. 2008: Morfologie (Matteo Nuti and Marco Mazzoni) – K Gallery, Legnano, Milano. 2006: Celeste Prize – Museo Marino Marini, Firenze Il suo lavoro è stato pubblicato e promosso da Le Dictateur, Toilet Paper Magazine, Freshpaint Magazine, Guggenheim Musem Ny, Booooooom.Com, The Lucky Jotter, Abitare, Flash Art Italia, Rolling Stone Italia, Electa, Johan & Levi. Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia (Arthur C. Clarke) Matteo Nuti dipinge con una tecnica sviluppata da autodidatta, che fonde tecnologia, chimica e gestualità pittorica tradizionale. Dipinge il quadro in digitale ed interviene sul dipinto utilizzando solventi chimici che sciolgono il pigmento e gli permettono di ridipingere l’immagine. Nonostante la significativa componente digitale di partenza, l’artista raggiunge dunque un risultato fortemente pittorico, dove la pratica manuale e gestuale funge da protagonista. Nuti vive nella provincia toscana, i cui soggetti rurali diventano per lui fonte costante di ispirazione. Le opere in mostra dialogano con la tradizione pittorica toscana dei macchiaioli, di cui Nuti riprende paesaggi e soggetti rurali. Greggi di pecore, pastori e bovini fungono però per l’artista non solo da meri modelli figurativi, ma diventano metafore di comportamento umano, di dinamiche sociali contemporanee di convivenza, relazione, isolamento, forza ed oppressione. La campagna toscana è dunque per Nuti un microcosmo dal quale attingere riflessioni ed intuizioni di carattere universale sull’identità, la natura e la transitorietà umana. In questi lavori, le macchie diventano forme e viceversa, il contenuto si mescola al contenitore per dare luogo a figure e paesaggi atemporali, in cui si riassume una lettura quasi ancestrale dell’esistenza.

Gregge -Transhumance Bovarismo, 2017, tecnica mista su carta fotografica, cm 127x75 266

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Il Custode di mio fratello, 2017, tecnica mista su carta fotografica, cm 50x41

Il Pastore di mio fratello, 2017, tecnica mista su carta fotografica, cm 50x41

Pecore Nere Transhumance Bovarismo, 2017, tecnica mista su carta fotografica, cm 150x122

You’ll never walk alone - Doppelganger Bovarismo, 2017, tecnica mista su carta fotografica, cm 110x110


Vera Portatadino È nata a Varese nel 1984. Diplomata in Arti Visive presso la NABA, si trasferisce a Londra, UK, dove consegue un Master in Fine Art presso il Chelsea College of Art and Design nel 2009. Nel 2014 fonda Yellow, artist-run space, di cui è direttrice, dedito alla ricerca pittorica attuale. Yellow ha sede a Varese, nell’ambito di Zentrum, centro e network per l’arte contemporanea. Il mio lavoro si manifesta come indagine ed evocazione di alcune caratteristiche proprie dell’esistenza: precarietà, trasformazione e contraddizione, sono alcune delle esperienze condivisibili, che fanno della realtà un oggetto costantemente interessante. La pittura stessa diventa strumento e soggetto che esplora e si costituisce in uno spazio che continua a mutare, dove pennellate e colore si materializzano oscillando tra astrazione e figurazione, quasi a voler enfatizzare una condizione di costante trasformazione della materia per mano del tempo. La natura è la forma di una bellezza minacciata dalla propria sparizione. La pittura ne è mistica contemplazione. Foreste che sembrano prendere vita o disfarsi sotto lo sguardo vigile di un uccello, foreste che fioriscono quando tutti se ne sono andati. Polline e petali viaggiano nell’aria alla ricerca di nuove possibili forme di vita. Nel cosmo la materia si espande. Nel microcosmo, continua la sua trasformazione. Tra qualche anno saremo su Marte. Oppure, seduti in qualche altra stanza ad esplorare realtà virtuali attraverso protesi digitali. Fuori, il vento continuerà a sospingere fronde, fiori, rami. Le radici scaveranno ancora. Da lassù ricorderemo la Terra. Quaggiù, forse, intelligenze artificiali se ne prenderanno cura. Vera Portatadino

Nevermore, 2017, olio su lino, cm 120x100

The Witnesses, 2017, olio su lino, cm 120x100

Time, 2017, olio su tavola, cm 30x24

Ticking Away, 2017, olio su tela, cm 18x24

foresta. Pittura Natura Animale 267


Massimo Pulini Da quando si è tagliato i capelli, nell’agosto del 2016, Massimo Pulini stenta a riconoscere il proprio passato. La serie di alfabeti, che proprio dallo stesso anno ha iniziato a dipingere, può intendersi come un primo tentativo di recupero della memoria. Nel termine foresta vedo le generazioni di esistenze che si sono abbattute dietro di noi e che, come tronchi, cortecce, rami e foglie, hanno sedimentato al suolo le loro materie, trovato macerazione nell’ombra, divenendo terra sopra la terra, la terra e la terra. Così siamo tenuti a camminare sulla nostra storia, ad avere sotto di noi gli strati di pietre che un tempo erano riparo e nido, fondamenta di chiese che hanno echeggiato canti, statue frantumate e ora letargiche, utensili abbandonati dopo un uso secolare. Foresta era, in origine, il bosco esterno al proprio paesaggio, il grande bosco lontano, quello degli altri. Allora ho scelto di scriverlo in quattro alfabeti, i principali tra quelli nati sulle sponde del mediterraneo. Così sono le lettere a divenire alberi, tronchi, rami e foglie. Per sottile combinazione i termini foresta, δάσος, ‫ רעי‬e ‫ ةباغ‬sono costruiti con caratteri che non si ripetono, dunque, estraendoli dai loro alfabeti, è possibile vedere i vuoti lasciati da quegli alberi abbattuti, che fanno filtrare luce nella macchia d’ombra compatta di tutte le altre lettere.

Foresta, 2016, composizione di sette opere ad olio su vetro, cm 24x18

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Denis Riva Denis Riva detto Deriva Ganzamonio (ITA) 1979 Vive e lavora a Follina (TV) Disegnatore, pittore, raccoglitore, osservatore, assemblatore, ricercatore, installatore, sperimentatore, non attore. Non partecipa a premi. Non si è diplomato all’accademia di belle arti di. Vive sotto il peso terribile dell’arte che trasporta quotidianamente con sé. Nessun Master, anche se utilizza spesso la parola Maztèr. Non è docente all’università. Frequenta continuamente due cani. Nonostante la moltitudine di lavori fatti in questi ultimi anni è convinto di essere appena all’inizio della propria ricerca ma comprende che potrebbe anche essere alla fine. Nel 2017 compie vent’anni di mostre. Perdersi nel nulla è una pratica che nasce spontanea. Seguire l’istinto, fregarlo, dargli del filo da torcere. Veloce come la morte e lento come il giorno. Fedele alle proprie regole, tenace come un dente primordiale. Le illusioni restano per pochi attimi. Non mi piace scrivere, ho poco tempo e dovrebbe farlo qualcuno più bravo di me. Forse dovreste fare meno domande. Osservare è meglio che fotografare con uno smart fong. A volte quando raccogli un legno.

Macerie, 2017, acrilico e matita su assemblaggio di carte, cm 300x200

Osservare il nulla, 2017, acrilico e matita su assemblaggio di carte, cm 100x150

Abitante, 2017, acrilico e matita su assemblaggio di carte, cm 200x200

Cambiamenti improvvisi, 2016, acrilico e matita su assemblaggio di carte, cm 215x150

Confini involontari, Una bella giornata, Nascoste ma visibili

Best company, Confidenze millenarie, Il collezionista di legni

2016, china, matita e lievito madre su carta, cm 50x25

Reunion, 2016, acrilico e matita su assemblaggio di carte, cm 200x270

foresta. Pittura Natura Animale 269


Martina Roberts È nata a Torbay nel 1970. Vive a Bologna. Pittrice e designer di tessuti, insegna all’Accademia di Belle Arti di Napoli e di Rimini. Mostre recenti Departures, Fondazione Frax, Albir, Spagna, 2017; <Head liquid Head>, Factory, Bologna, 2016; The Journey, Museo d’Arte Ajuntament Vell, Calpe, Spagna, 2015. Collettive Attraversamenti, Palazzo Comunale di Grimaldi, 2017; Il cinema e lo sguardo degli altri, Galleria Quintocortile, Milano e Museo Mam, Cosenza, 2016; Il cinema e lo sguardo degli altri, Casale della Cinematografia, Marzi, 2015; Disseminazione, Casabianca, Bologna, 2015; Disegni scelti dall’archivio/Drawings Storage, Goethe Zentrum, Bologna, 2015; Guglia, Galleria Vertigo, Cosenza, 2015; Selvatico.Tre.Una testa che guarda, Museo Luigi Varoli, Cotignola, 2014; Biennale Disegno Rimini/Cantiere Disegno/Drawings Storage, Rimini, 2014. Nella foresta dei pensieri mi cerco tra le calli e i canali nella trasparenza del vetro nel segno e nel colore Nel vaso una laguna nella ricerca un elogio all’imperfezione

Forme di pensiero #1, 2017, acquerello su carta incisa + carta isotermica, cm 30x40 270

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Forme di pensiero #2, 2017, acquerello su carta incisa + carta isotermica, cm 30x40

Forme di pensiero #3, 2017, acquerello su carta incisa + carta isotermica, cm 30x40 cm

Forme di pensiero #4, 2017, acquerello su carta incisa + carta isotermica, cm 30x40


Debora Romei Nasce nel 1970 a Castelnovo nè Monti (Reggio Emilia), dove attualmente lavora. Vive tra Reggio Emilia, Modena e Bologna, si diploma in ceramica all’Istituto Statale d’Arte “Gaetano Chierici” di Reggio nell’Emilia, prosegue gli studi conseguendo la laurea in Decorazione presso l’Accademia di belle arti di Bologna. Terminati gli studi, ha la sua prima personale da Massimo Carasi in Milano, una mostra personale con i musei Civici di Reggio Emilia, in seguito viene selezionata dall’IBC dell’Emilia Romagna nella biennale vie di Dialogo, viene poi invitata a Smirne (Turchia) alla biennale dell’Egeo. Collabora come assistente di Sol LeWitt realizzando l’opera alla biblioteca Panizzi, Reggio nell’Emilia ed è invitata a realizzare l’opera Cimento di Mimmo Palladino nella prestigiosa sede della Collezione Maramotti. Dal 2000 ad oggi partecipa ad Arte Fiera a Bologna e MiArt a Milano e a numerose mostre personali, mostre collettive in location private e pubbliche. Nel 2017 espone a Palermo nel progetto Camera Doppia alla galleria XXS. Realizza l’opera site specific “ANASTASI#0”, per l’evento di Land Art land(E)scape, montagna di Reggio Emilia. È invitata alla mostra Foresta. Pittura Natura Animale, Palazzo Pezzi, Cotignola (Ravenna). “Sognai la mia Genesi”, venne titolata così una mia mostra personale e non per caso la mia pittura, segna me e la mia evoluzione ed è segnata dalla genealogia che mi precede. Una amica suora Eremita mi disse: “hai un forte legame con la terra” una verità che si spiega nella provenienza dei miei avi in origine pellegrini in direzione Roma che si fermarono per coltivare la terra. Questo forte legame alla terra che ho ereditato, in pittura è la parte che trattiene che mette in luce un grado di sospensione. Il desiderio di peregrinare di giungere altrove, in pittura è nella mutevolezza delle scelte stilistiche e sorgono appunto in modo naturale.

La pittura che sorge da sé, è una pratica alla quale mi affido come fosse un Oracolo, nelle strutture nere in particolare che ironicamente avvicino al gioco orientale dello Shangai, (il fascino dell’est che cambia, anticipa e prolunga la mia dimensione temporale e mi fa riflettere sulla destinazione del sé) contengono una seria analisi psicologica sull animo umano e una necessaria ricerca di luce intesa come Salvezza. Nella pratica della pittura gli archetipi e i tarocchi sono il prima e il dopo, ne vengo affascinata per la simbologia profonda e per “il senso dello stare” come posizione nello spazio e nel tempo, ma anche l’equilibrio delicato dei segni architettonici il loro avere un “verso” (anche di natura psicologica) influenza come conseguenza tutto il restante campo pittorico e mi porta a delle considerazioni sulla nascitura e, (ricordati che devi morire, per cogliere il vero senso della bellezza) e considerazioni sull’“Oltre” che sta nell’Opera d’Arte. Praticando la meditazione per gradi ho iniziato uno studio dell’equilibrio del corpo anche nel fare la pittura perché credo sia un’operazione magica e operando una sintesi sia sui pensieri che sui movimenti ho appreso che meglio si può giungere alla gioia. Credo che la gioia perfetta si ha quando una cosa che si realizza viene senza sforzo e questo accade quando il pensiero va in stato di quiete e si entra in sintonia corpo e mente con la creazione... ci si sente transfer e si prova piacere e gioia la gioia che si riprova quando trovi il modo giusto e perfetto nel creare un oggetto nell’eseguire un lavoro nel creare un’opera e molto superiore all’idea di felicità in senso generale, probabilmente illusoria.

Gènoma # 1, 2017, olio su tela, cm 180x160

Gènoma # 2, 2017, olio su tela, cm 180x160

Irimo #4, 2015, olio su tela, cm 180x140

Irimo # 0, 2008, olio su tela, collezione privata, cm 180x160 foresta. Pittura Natura Animale 271


Marco Salvetti È nato a Pietrasanta nel 1983, vive e lavora a Massarosa (LU). Nel 2008 è invitato dalla Saatchi Gallery di Londra ad esporre una selezione di lavori durante la fiera Scope Art Basel. Partecipa nel 2009 alla IV Biennale di Praga dove espone una serie di lavori realizzati per la sezione Expanded Painting. A maggio 2010 partecipa alla collettiva Impresa Pittura presso le sale del Centro per l’Arte Contemporanea CIAC di Genazzano. A Luglio 2011 viene proclamato vincitore della sezione Under 35 del Premio Combat di Livorno. Tra il 2011 e il 2012 è in residenza a Berlino presso GlogauAIR e Funkhaus Nalepastrasse. Nel 2012 presenta la sua prima personale al Centro Arti Visive di Pietrasanta New Works on Painting and Video A Game With Shifting Mirrors. Espone alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia nella collettiva Visioni per un inventario. Una mappa del navigar pittoresco, nel 2014. Nel 2015 è invitato alla quarta edizione di Landina, alla collettiva Pittura Italiana Contemporanea presso CARS Omegna e al progetto Toscana Contemporanea a cura del Museo Pecci di Prato. A Marzo del 2016 presenta la mostra personale Diorama del Nuovo Mondo presso lo spazio Yellow di Varese. A Maggio 2017 è invitato alla residenza Attraverso il vero presso Castel di Ieri (AQ), dove assieme agli artisti Angelo Mosca e Vera Portatadino conduce un laboratorio di pittura rivolto agli alunni delle prime medie locali. Il paesaggio è un componente fondamentale del mio lavoro e prima ancora di iniziare a dipingere il mio sguardo è stato educato dai panorami che caratterizzano il luogo in cui vivo. Da ragazzo e durante il periodo dell’Accademia ho trascorso molti pomeriggi a disegnare all’aperto, ma davanti al cavalletto non ho mai utilizzato disegni preparatori o fotografie. Ho imparato nel tempo a ricostruire a memoria con lo scopo di trovare una mia figura mentale. Con gli anni questo paesaggio interiore è andato letteralmente riempiendosi di tematiche e visioni tratte dagli interessi personali, dalle letture e dagli studi effettuati. In particolare negli ultimi tre anni ho cercato di approfondire testi di antropologia, di storia, di geologia e di architettura, di scienze naturali e folklore, diverse discipline che potessero restituire nell’insieme una visione, per quanto caotica e frammentaria, della storia dell’uomo e della natura. Vorrei in sintesi con il mio lavoro raccontare una storia della pittura e una storia del mondo e la mia storia individuale. Parlando delle singole opere Case sulle Apuane porta nel titolo un preciso riferimento geografico al luogo in cui vivo. Mi sono ispirato alle piccole abitazioni sparse e ai laboratori artigianali che si incontrano lungo i percorsi delle Alpi Apuane, un’area quest’oggi stretta nella morsa dell’industria marmifera da una parte e dalle esigenze di tutela ambientale dall’altra. Satellite rappresenta una rudimentale macchina atta alla navigazione nello spazio. L’opera descrive la sfida scientifica e filosofica dell’uomo, alla ricerca di nuove Terre e nuove civiltà oltre i confini del proprio cielo, un orizzonte non più ad appannaggio della sola fantascienza. Piccola Archeologia rappresenta una composizioni di paesaggi e città immaginarie mentre Petrefakt, (termine tedesco caduto in disuso indicante i fossili, letteralmente “fatto di pietra”) è una riflessione sul tema del paesaggio appartenuto ad un’epoca geologica remota, simbolo della precarietà e della ciclicità della vita sul nostro pianeta.

Case sulle Apuane, 2017, olio e pastelli su carta applicata su tela, cm 50x65, courtesy dell’artista 272

| selvatico [dodici]

Petrefakt, 2017, olio e pastelli su carta applicata su tela, cm 60x65, courtesy dell’artista

Piccola Archeologia, 2017, olio e pastelli su carta applicata su tela, cm 33x36, courtesy dell’artista

Satellite, 2017, olio e pastelli su carta applicata su tela, cm 60x65, courtesy dell’artista


Marco Samorè Nato a Faenza nel 1964, dove vive e lavora. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 1987, inizia l’attività espositiva alla fine degli anni ‘80 attraverso l’uso della scultura e dell’installazione. Di questi anni sono le prime personali in gallerie private e collettive in spazi pubblici. Da metà anni ‘90 inizia la sperimentazione nei campi della fotografia e del video. Dal 2000 l’uso della fotografia e dell’installazione si fondono in un unico corpo di lavoro dando vita ad installazioni ambientali e site-specific. Parallelamente prosegue la sua attività di ricerca nel campo del suono attraverso dj set sperimentali di musica elettronica, accompagnati da appropriati apparati visivi. Dal 2010 gestisce “Tesco” spazio e Associazione Culturale con sede a Faenza, dedita alla ricerca contemporanea in tutte le sue forme e da cui sono nate alcune rassegne: “Phon-Circuito di produzioni musicali contemporanee”, il Festival “Nuovo-Confini Porosi” e “A Tastoni” rassegna di sperimentazione video/elettronica in collaborazione con Clandestino di Faenza. T.V.T.B. Prima ancora che arrivassero le valanghe di emoticon e smiley, prima ancora che il nostro linguaggio si condensasse nei vari cmq, lol e 6 3mendo, c’era solo quel T.V.B., così granitico ed immediato. Quelle tre lettere maiuscole e appuntate, che trovavi incise sulle panchine dei viali o scritte a pennarello sui muri sotto le pensiline dei binari della stazione, dicevano così tanto e non lasciavano scampo ad altre interpretazioni. Poi quel T.V.B. è diventato T.V.T.B. e poi TVTTB, TAT e via di questa strada fino ad arrivare alle odierne sigle incomprensibili, agli anglicismi vari, agli hashtag, andando a formare un labirinto espressivo in cui è difficile districarsi. Il T.V.T.B. realizzato per Selvatico si ferma al primo livello, semplice e diretto. Una tag old school - in fondo il primo aggregatore tematico della mia generazione - che funziona per riconnettere in modo scenografico e quasi didascalico gli oggetti d’affezione che compongono il mio personale percorso emotivo. Un labirinto in cui è facile entrare, costituito da elementi prelevati e liberamente campionati dalla mia indole, di fatto un doppiofondo piranesiano in cui affiorano elementi eterogenei: dai carotaggi urbani di Gordon Matta-Clark alle piccole sculture “erotiche” di Marcel Duchamp alle atmosfere stranianti dei quadri di Renè Magritte, ma anche le teste “taroccate” di Modigliani o i disegni semplificati dei rebus di Giancarlo Brighenti, fino alle insegne luminose che attirano gli allocchi.

La città ideale, 2014, Tecnica mista con ombrellini, cm 90x55x55

Castano scuro, 2015, Tecnica mista con candela, Dimensioni variabili

Valeria, Valeria, 2016, Progetto per Biennale Architettura Venezia/Off

Il curioso è distratto, 2017, Tecnica mista con ananas, cm 40x25x25

Undici appogiati, 2017, Plastica adesiva e polistirolo, dimensioni variabili

Anch’io, 2017, collage con libro, cm 30x22x5

foresta. Pittura Natura Animale 273


Alessandro Saturno È nato a Napoli nel 1983. Vive e lavora a Bologna. Tra le principali mostre 2017 Immemore – Breviario dell’assenza – Spazio Francesco Siracusa - Agrigento 2016 Profili del mondo - Biennale Disegno Rimini – Museo della Città - Rimini 2015 Aion – il tempo del corpo – L’Ariete artecontemporanea – Bologna 2013 L’Io liquido – Spazio Adiacenze – Bologna 2013 L’eclissi dell’occhio – Sala delle carceri di Castel dell’Ovo – Napoli 2012 Ciò che non tramonta – Complesso monumentale Santa Maria della Pace – Napoli Nelle sue forme archetipiche e i suoi simboli, la Foresta è luogo magico. In numerose rappresentazioni mitiche e leggendarie, non soltanto occidentali, è da sempre intesa come uno spazio misterioso, abitato da forze sconosciute. È la dimora dell’irrazionale lontana dai luoghi della civiltà, un territorio che si contrappone a ciò che è noto, popolato e controllato dall’uomo. È spazio iniziatico, e dal passaggio al suo interno si ritorna sempre mutati, rinnovati nella coscienza. L’uomo che la abita è un rinnegato, un pazzo o uno sciamano. L’uomo che la attraversa è sempre alla ricerca di qualcosa. Per me lo studio di un artista è tutto questo, una Foresta. Un’isola che sta aldilà dei luoghi del quotidiano e della vita diurna. Entrare al suo interno è passare accanto a forme e immagini che non ritroviamo fuori, nel mondo conosciuto. Ho attraversato e abitato per diversi giorni la Foresta di Luigi Varoli, popolata dai suoi segni e le sue creature che nel silenzio ti osservano. Mi sono letteralmente accampato lì, in attesa. Lentamente qualcuno o qualcosa si è fatto avanti. Era un cavaliere. Il suo volto celato da un bianco elmo di pietra. Davanti ai miei occhi si è rivelato e un attimo dopo capovolto la sua testa. È stato l’invito per questo viaggio. Ho incontrato poi decine di piccoli animali di tutte le specie, immobili, che all’unisono emettevano un unico suono. Richiamavano le mie figure. Allora ho dato loro ascolto e fatto sì che s’incontrassero su di un morbido spazio orizzontale, come un grande ipertesto sul quale potersi ibridare. Ho poi incontrato un bambino di legno, nato da un albero. Allora ne ho fatto nascere un secondo, dalla pittura. Un attimo dopo ho visto il bambino fatto adulto, il suo grande volto era lì, in luce e non guardava nulla fuori di sé. Eppure stava indicando qualcosa, una piccola, bianca porta di età romana. Da lì si vedeva una foresta in lontananza. C’era qualcuno che ne stava uscendo e così mi ha indicato la strada per accedervi. La foresta era in alto, leggera, sospesa, continuava a muoversi senza vento. Pare sia cresciuta in pochi giorni, e i suoi segni parlano una lingua che ancora non comprendo appieno.

Foresta di segni, 2017, acrilico su tela semi trasparente tinta a mano, cm 390x590 274

| selvatico [dodici]

Bambino, 2017, olio su tavola, cm 89x54

Hybrida, 2017, grafite e acrilico su carta, tessuti tinti a mano, cm 92x92

Cavaliere, 2017, olio e acrilico su tela, cm 93x41 – cm 10x21

Eco del tempo, 2017, olio e acrilico su tela, cm 130x160


Alberto Zamboni Nasce a Bologna nel 1971 dove tuttora vive e lavora. Si diploma all’accademia di belle arti di Bologna con una tesi sui viaggi di Magellano, illustrandone in maniera immaginaria i punti salienti attraverso la lettura del diario di bordo di A.Pigafetta. Svolge fin da subito la sua attività pittorica con particolare attenzione a certe impressioni suggerite da letture di viaggi antichi. Ora la sua pittura è improntata sulla ricerca atmosferica, che negli ultimi anni trova enormi spunti attraverso le letture di G.Simenon e H.Melville. Collabora con diverse gallerie tra l’Italia e l’estero e oltre la pittura nutre interesse verso il mondo dell’illustrazione. I suoi dipinti sono olii su tela e rappresentano paesaggi immaginari in cui si evoca un’atmosfera luminosa, legata alla necessità di mettere a fuoco il concetto di incanto e di indagare l’anima delle cose. Foreste profonde Da qui, come da un confine, iniziano i territori vergini e misteriosi dove si espande l’eterna ombra talvolta svelata da squarci di luce, brume luminose nell’alba cristallizzata. Intrecci di rami fortificano spazi dove uccelli si scambiano canti. Dall’ombra compare la presenza del cinghiale, eterno custode della foresta e ultimo simbolo di selvatica libertà. Alberto Zamboni

Uccelli notturni, 2013, olio su tela, cm 66,5x98,5

Uccelli notturni, 2013, olio su tela, cm 66,5x98,5

Oltre, 2014, olio su tela, cm 50x150

Uccelli notturni, 2002, olio su tela, cm 70x70

Uccelli all’alba, 2012, olio su carta, cm 48x33

Cinghiale, 2007, olio su tela, cm 100x70

Foreste profonde, 2016, olio su tela, dittico cm 70x140 l’uno

foresta. Pittura Natura Animale 275


Giulio Zanet Nasce a Colleretto Castelnuovo (Torino) nel 1984. Vive e lavora a Milano. Nel 2007 arriva terzo al premio Arte Laguna. Nel 2008 partecipa alla collettiva Master of Brera, Liu Hiusu Art Museum di Shangahi; è inoltre nella collettiva New Art new pop, Centro d’arte e cultura di Brolo, Mogliano Veneto. Nel 2009 è finalista del Premio Combat, espone nelle collettive Do not cross the line, Stazione di Porta Nuova a Torino e Open#1, S.A.L.E, Ex Magazzini del Sale, Venezia. Arriva secondo nel 2010 al Premio Italian Factory ed espone presso la First Gallery di Roma. L’anno seguente partecipa a due residenze: una a Santiago de Compostela e una a Berlino; espone la prsonale Hangover alla GiaMaArtStudio di Benevento, è finalista al Premio Celeste. Nel 2012 è finalista al Premio Lissone. Espone in due bi-personali: con Ester Grossi Written on the Hays, First Gallery, Roma e con Sabrina Casdaei Growing in lightness, Kaleidoscop, Berlino. Dello stesso anno le peronali Scuse per viaggiare, 5aOfficina, Milano; Things to do today, Quattrocentometriquadri, Ancona. Partecipa alla collettiva Crises and Rises, Istitut Francais-Palazzo delle Stelline, Milano. Nel 2013 è invitato alla residenza Haihatus in Finlandia, è presente alla Biennale di Venezia con il progetto We have arrived nowhere, partecipa alle collettive StreetScape, Pinacoteca Civica, Como e Last Young, Villa Brivio, Nova Milanese e realizza il progetto Loveless con Michael Rotondi, Spazio Meme, Carpi. Nel 2014 entra a far parte della collezione Artist Pension Trust di Londra e collabora alla creazione della collezione autunno/inverno 2014-15 con la stilista Giulia Marani. Nello stesso anno partecipa alla residenza Multipoint Art Symposium, in Slovacchia ed espone a Varsavia con il progetto Sto*Disegnando!!! Nel 2015 espone al Museo Riso di Palermo ed entra nella collezione Benetton Imago Mundi. A livello pittorico non lavoro mai su una base progettuale. I miei lavori si affidano al processo che metto in atto per realizzarli, stratifico forme e colori finché non li ritengo finiti. La riflessione che accompagna la realizzazione dell’opera è sempre rivolta al rapporto che intercorre tra gli elementi che la compongo, come se essi fossero elementi della vita stessa. La necessità di identificazione dell’uomo, le condizioni sociali, i sentimenti più o meno inconsci che solcano l’essere umano, la facilità di degradazione e adattamento. L’impotenza dell’uomo di fronte alla propria esistenza e alla realtà. Lavorando su una dimensione astratta tendo a non rappresentare nulla di specifico. La pittura si occupa dell’esistenza quotidiana e della questione di come questa possa essere rappresentata. È un lavoro di indagine sulle immagini, uno strumento di conoscenza del mondo, una raffigurazione di idee che trovano attraverso la pittura la propria realizzazione. L’ambiguità e l’evidenza, la ripetizione, la variazione, le regole e le omissioni, l’accettazione e il rifiuto sono elementi che metto in gioco per portare il fruitore ad interrogarsi sul significato dell’opera. Ogni opera quindi, compresa quella che presenterò, si apre a possibili e poliedriche interpretazioni e questa dinamica che inevitabilmente si instaura con il fruitore evidenzia l’impossibilità di oggettivizzare le emozioni e le eterne dualità che governano il mondo.

Senza titolo, 2016, tecnica mista su tela, cm 90x70 276

| selvatico [dodici]

Senza titolo, 2017smalto e acrilico su pvc, cm 200x170

Senza titolo, 2017, tecnica mista su tela, cm 90x70

Senza titolo, 2017, smalto e acrilico su pvc, cm 130x100

Senza titolo, 2016, tecnica mista su tela, cm 100x70

Senza titolo, 2017, smalto e acrilico su pvc, cm 150x120




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