Partito Democratico Avellino
Linee guida per la politica ambientale in Irpinia
Linee di indirizzo per la politica ambientale Partito Democratico - Avellino
Linee di indirizzo per la politica ambientale in Irpinia - Aprile 2015 – Avellino - a cura di Mario Pagliaro - ambientecomunita@gmail.com - www.ambientecomunita.tumblr.com
Si ringrazia per gli importanti contributi al Forum: • • • • • • • • • • • • • • •
Sabino Aquino - geologo Rosario Caravano - Circolo PD - “Laboratorio Democratico” – Avellino Antonio De Feo - Circolo PD “E. Berlinguer” – Serino Virgilio D'Adamo - Circolo PD – Gesualdo Michele Genua - Circolo PD – Frigento Annalisa Gimigliano - Circolo PD - “Laboratorio Democratico” – Avellino Raffele Giusto - Circolo PD - Fontanarosa Rocco Lafratta – geologo Antonella Nazzaro - Circolo PD – Chiusano San Domenico Adamo Patrone - Circolo PD - Bagnoli Irpino Maurizio Petrillo - Circolo PD - “Laboratorio Democratico” – Avellino Toni Ricciardi - Direzione provinciale PD Armando Sturchio - Circolo PD Caposele Claudio Mazzone - Circolo PD Senerchia Ferdinando Zaccaria - dott. Agronomo
per aver contribuito, nella Conferenza Programmatica provinciale •
Elvira Capuccio, Vito Carbone, Angelo Ceres, Nello Conte, Sabatina D'Avanzo, Vincenzo Di Marino, Antonio Famiglietti, Paolo Mascilli Migliorini, Francesco Palmieri, Comitato “No trivellazioni in Irpinia”, Michele Policano, Marietta Giordano, Alberico Rossetti, Antonio Sarno, Antonio Fieramosca, Sabatino Schiavo
...su tutti, per aver orientato le nostre azioni:
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Ugo Morelli
segr. prov.PD - forum “Ambiente e Comunità”
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1. “Ambiente e Comunità”
Anche la parola ambiente è divenuta retorica, compresa, oramai, tra quelle espressioni della “semantica della convenienza”, che ha tolto il gusto di poter essere semplici, a chi crede nella concretezza dell’esprimersi. Per questo, con la nascita della nuova Segreteria provinciale, nell'ottobre 2013, si scelse di comunicare la proposta politica sui temi ambientali, del Partito Democratico in provincia di Avellino, usando due parole che sintetizzassero un concetto e chiarissero, anche, un impegno fuori dalla demagogia. Comunità: è l’insieme di individui e fenomeni sociali attivi in uno stesso ambiente fisico. Ambiente: il contenitore di tali fenomeni. Un contenitore di cristallo, bellissimo ma fragile, di cui è necessario conoscere, esattamente, i confini e la loro natura, per potersi muovere con piena libertà al suo interno. Contenuto e contenitore, significato e significante, due realtà antropologicamente in relazione biunivoca. Dallo stato di questo rapporto derivano condizioni di crisi o di opportunità. Immaginare di slegare gli equilibri “ambientali” dai contesti culturali, sociali ed economici che influenza, significa limitarsi all’analisi della retorica, alla coltivazione dell’emergenza, al culto dell’estetica. Il Forum provinciale del PD, “Ambiente e Comunità, per questo, si è posto come obbiettivo essere luogo di analisi organica dei fattori di crisi di questo binomio: emergenze ambientali, dinamiche demografiche, produttive, culturali e di proposta, nel senso di promozione di azioni in grado di anticipare i processi critici e preservare, in Irpinia, gli equilibri tra le Comunità e l’Ambiente che ne contiene la vita. Le ragioni storiche della formazione di una Comunità sono da ricercarsi nel bisogno primordiale di riunirsi per meglio affrontare le necessità umane, sociali e produttive. Nel momento in cui le variabili della storia rallentano la convenienza alla convivenza iniziano, inconsciamente, a venir meno anche le ragioni dell’esistenza della comunità stessa, intesa come aggregato di uomini e azioni e dei luoghi che li accolgono. Così,
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ha inizio il degrado dei luoghi, antropizzati e non. Lo sforzo, quindi, deve essere quello di ricreare convenienza ad usare quei luoghi ed a trasformarli. Non nella oleografica conservazione o preservazione di un ricordo. L’attenzione, invece, dovrà essere quella di analizzare le emergenze negative e superarle stimolando nuove funzioni, realmente produttive ma che possano integrarsi con le caratteristiche del territorio, al fine di non creare nuovi scempi. Il limite tra la distruzione dei territori e la loro mummificazione è assai flebile. La riconoscibilità di questo limite ed il suo rispetto, devono essere l’obiettivo della politica. Quanto di seguito esposto sintetizza i punti oggetto di attenzione in questi, circa, due anni di forum. Un solo “filo rosso”, attraverso il quale si è cercato di testimoniare il metodo scelto. Un impegno forte, soprattutto perchè si è scelto di non gridarlo ma di condividerlo, con chiunque, dentro e fuori il partito, avesse volontà laica di perseguire obbiettivi e non solo di annunciarli. Il pragmatismo, cui la politica deve accompagnarsi, sempre preceduta dall'utopia, non ha mai alimentato la pretesa del raggiungimento immediato degli obbiettivi, anche perchè, sulla diffusa invisibilità dei temi ambientali, troppo è dovuto ai rallentamenti culturali coltivati in tanti anni, anche dalla demagogia e dal folclore dell'“ambientalismo d'emergenza”. Quanto ci ha impegnato, quindi, all'interno e fuori del Partito, è stato l'innesco di processi culturali “altri”, su di un aspetto della politica che continua a sembrare secondario, quando confrontato con la gestione del potere e che, invece, abbiamo voluto dimostrare quanto sarebbe potenziale, per l'esercizio dei poteri.
Mario Pagliaro responsabile Ambiente e Comunità Segr. Prov. PD Avellino
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2. Lo “Sviluppo reversibile”
“Non c'è più tempo, per correre” L'azione politica per i territori non può immaginare di continuare, ancora, a seguire le emergenze, soprattutto giornalistiche, nel vano tentativo di poter dare risposte, spesso contraddittorie, nel metodo e nelle conseguenze. La necessità evidente, invece, è quella di avere un metodo unico, di sistema, che intrecci le azioni dell'uomo sui territori (tutte le azioni), attorno ad un filo rosso ed orienti gli amministratori, le istituzioni, i cittadini verso azioni omogenee, capaci di chiudere il cerchio dei bisogni in una catena di mutue sostenibilità, reali anche nel medio/lungo periodo. Occorre, quindi, “avere visione”, per non incartarsi nell'ansiosa ricerca di soluzioni a “presunte emergenze”, solitamente, conseguenza di risposte veloci a pregresse “presunte emergenze”. Se vogliamo continuare a ripeterci: “Non c'è più tempo”, almeno, aggiungiamo: “...per correre”. Se la redditività di impresa e lo spettro della disoccupazione sembrano giustificare ogni iniziativa con parvenza di risposta alla domanda di stabilità economica delle comunità, è pur vero che, dopo l’Ilva di Taranto, si è finalmente innescata la convinzione diffusa che nemmeno il “lavoro” sia più sacro del “ben vivere”. L'Isochimica, la Novolegno, l'inquinamento del fiume Ofanto, Sabato, Calore, degli acquiferi nel Solofrano-Montorese, sono fattori che si sommano in una molteplicità di precarietà ambientali, tutte frutto di scelte istituzionali antiche, ma diffusamente condivise anche dalle speranze popolari di uno sviluppo demiurgo. L’Irpinia non è “Terra dei Fuochi”, sarebbe facile anche per un partito a vocazione di governo, nascondersi dietro questa espressione forte nella speranza di poter raccogliere consenso o drenare fondi.
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L’Irpinia, però, soffre di molte e gravi emergenze ambientali che non sono, frutto di “estranei cattivi” che occultano ai “buoni inconsapevoli” vagoni di inquinamento. Le contraddizioni ambientali e nelle comunità, in Irpinia sono tutte figlie di uno scollamento storico tra speranze da realizzare e azioni scelte per realizzarle, da una idea di sviluppo “presto, tanto e subito” che ha accomunato, sia le classi politiche scelte, che le comunità chiamate a sceglierle, nello sviluppare contraddizioni di sistema. Pur se impopolare, dobbiamo dirci che, nel giudizio di un sistema ambientale precario, bisogno ripartire dalla triste verità per cui nessuno è assolto ma, tutti, dobbiamo sentirci responsabili di quanto ci accade, per aver compiuto, taciuto, non efficacemente contrastato o semplicemente non compreso quanto palesemente si andava consolidando contro il senso di Bene Comune ed a favore di ipotesi individuali. La reversibilità delle scelte Per tutto questo, non è più il tempo di imporsi scelte esistenziali tra ipotesi di “sviluppo infinito” e ambizioni di “sviluppo sostenibile”. Il primo ha dimostrato la sua concretezza solo in logiche interessate, interne alle lobby politico-affaristiche che, dopo aver creato e consolidato il proprio potere economico, derivante dal protezionismo di rendite di posizione acquisite, immaginano di poter sopravvivere a se stessi, nonostante intorno, il mondo stia cambiando. All'opposto, la filosofia di uno “sviluppo sostenibile”, nobile e condivisibile nei presupposti, è, progressivamente diventato luogo della retorica, spesso anche elettorale, attraverso il quale sembra si possa giustificare tutto ed il suo contrario. Per darsi punti di unione più oggettivi, meno esposti alle personali interpretazioni, adottando un approccio interdisciplinare, è il caso di orientare le azioni antropiche verso presupposti di “reversibilità”. Ovvero, desumendo dalla fisica, “verso qualsiasi processo o trasformazione del sistema che, possa svolgersi indifferentemente dallo stato iniziale allo stato finale o viceversa”. Per concretizzare tale visione nei processi fisici reali, e non disperdersi in casi limite ideali, basterebbe immaginare di tendere, in ogni azione sul territorio, a livelli di reversibilità quanto più distanti dallo zero, attraverso i quali, sia il sistema
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socioeconomico, sia l’ambiente con cui esso interagisce, passino per una successione di stati di equilibrio. In questo modo, ragionando sul grado reversibilità degli impatti che conseguono alle nostre scelte, si rende superabile l'eterna dicotomia “ambiente/industria, “qualità/quantità”, “bello/brutto”, permettendo di affrontare programmazioni economiche senza certezze precostituite, scontri tra diverse sensibilità, andando finalmente verso più oggettive, reali e durevoli valutazioni costi/benefici.
LINK
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L'incontro con Ugo Morelli, del 7/03/2014, “Paesaggio Lingua Madre”, è stato il filo conduttore delle zioni del Forum, è possibile riascoltarlo sulla nostra web-radio
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3. Territori
Pianificazione territoriale La pianificazione è uno dei punti fondamentali di proposta politica e di amministrazione istituzionale. Negli anni, la materia ha fatto innumerevoli riflessioni su stessa, sul proprio ruolo e sulle conseguenze che potrebbero scaturire da un suo uso corretto e virtuoso. La comune accezione del tema, però, risponde ancora a logiche antiche fatte di ricerca di nuove volumetrie possibili, approcci tecnicisti, produzioni di economie fini a se stesse. Troppo spesso la pianificazione non è mossa dal desiderio di raggiungere degli obiettivi, manca di “visione” e questo riduce l'urbanistica a strumento “elettorale” più che politico/amministrativo. Tramontata l’epoca dei meri modelli incrementali matematici, quantitativi, giusti in quanto giustificabili, oggi, per un'azione urbanistica efficace, a tutte le scale d'intervento, è fondamentale attivare processi “altri”. La cultura del “limite” La maggioranza dei nostri paesi rientrano nel limite dei 5000 abitanti, previsto dall'A.N.C.I. per esser considerati “Piccolo comuni”. Molti altri, tecnicamente superano quella soglia, ma il dato “funzionale”, invece, li cala perfettamente in queste realtà. Dopo decenni di cultura del “gigantismo”, finalmente, questo non è più considerabile un dato negativo. Il dibattito culturale contemporaneo, ha creato nuove sensibilità, per le quali, il concetto di “limite” non è più fattore di “diminutio”, ma elemento di opportunità “altra”. E' oggettivo, infatti, quanto la cultura dello sviluppo “in quantità”, come possibile risposta immediata a domande contingenti, abbia determinato, diffusamente, lo snaturamento dei nostri piccoli centri, favorendo il loro progressivo allontanamento da uno sviluppo “della qualità”, quindi, della durevolezza dei processi a medio/lungo periodo.
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La cultura del “senso del limite”, però, non è approccio auspicato solo per i piccoli centri. Anche quelli mediamente più grandi, devono obbligarsi a prevedere e gestire i fenomeni demografici futuri e non più ad auspicarli, immaginando di poter diventare luogo d'incontro di tutta la domanda abitativa e di servizi esistente. Un bagno di realismo, comporterebbe l'accettazione che anche i centri più grandi della nostra provicnia, restano fortemente caratterizzati o comunque, dipendenti dai caratteri rurali al contorno. In generale, la loro crescita dimensionale è addebitabile, storicamente o a fenomeni di connurbazione, legati a processi speculativi più meno regolati o ad anomale “esplosioni” demografiche, derivate da fenomeni più complessi, esterni alle dinamiche locali e che hanno visto nel nostro territorio solo un casuale, spesso temporaneo, luogo d'incontro tra domanda e offerta immobiliare a basso prezzo. La cultura della rete Anche in funzione delle nuova normativa in materia di “Area vasta”, diventa concetto fondamentale, per una ri-comprensione del significato di crescita urbana, abbandonare l'ottica dimensionale delle strutture per orientarsi verso il la “qualità dei servizi”. In questo, il concetto di “rete” è l'alternativa alla “strutturazione autarchica”. Lo “Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo”, afferma che “non meno importante è il collegamento in rete di piccole città nelle aree meno densamente popolate e con un’economia più debole. In tali contesti, la messa in comune degli strumenti operativi rappresenta spesso l’unico modo per raggiungere le soglie che consentono a ciascuna area urbana di disporre di attrezzature e servizi economici, che non potrebbe offrirsi da sola.”1 o che, aggiungiamo, presenterebbero nel breve termine, insostenibili diseconomie. Quest'approccio, rappresenta con evidenza lo scenario programmatico all'interno del quale comprendere la portata della definitiva svolta dettata dal D.Lgs. 267/2000, quindi, della definitiva necessità di abbandonare l'utopia, da sempre rincorsa, di assolvere all'interno della singola realtà territoriale, tutte le risposte di servizio e/o attrezzature, 1
Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo, Unione Europea, 1999
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per le infinite richieste provenienti da una società sempre più articolata nelle forme, nelle funzioni e nei tempi, come quelle attuale. Alla pratica delle "connurbazioni spontanee” va sostituita la pianificazione coordinata tra aree omogenee. Per questo, occorre dare una accellerazione decisa allo strumento delle “Unioni di Comuni”, da recepire nel senso di una organizzazione omogenea e di crescita organiìca delle comunità, non più quale contingente strumento di convenienza o di opportunità politica. Consumo del suolo Attraverso il dibattito su questo tema si è riuscito a sdoganare la teoria e la pratica urbanistica dalla impasse: “edificare=sviluppo”. Contributo determinante, alla sua diffusione, sono state proprio le analisi socioeconomiche e le programmazioni a scala europea. Nei suoi documenti, infatti, la U.E., da tempo, ritiene il consumo di suolo per l’espansione urbana la principale minaccia alla conservazione delle risorse ambientali. In ambito europeo, infatti, è ormai prevalente il punto di vista secondo il quale lo spazio rurale “rappresenta nel suo complesso un bene comune al di là degli assetti proprietari e delle forme di conduzione”2. Grazie a questa “nuova” sensibilità, l’attenzione per le aree “non edificate”, è rivolta alla multifunzionalità del territorio rurale, alla sua capacità di produrre un flusso di beni e servizi utili alla collettività legati non solo alla produzione primaria ma anche e soprattutto al riciclo ed alla ricostituzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo) al mantenimento degli ecosistemi, della biodiversità del paesaggio, all'innesco di economie “reversibili”. La superficie di territorio consumato è passata dai 21.000 kmq del 2009, ai quasi 22.000 kmq del 2012, mentre in percentuale è ormai perso irreversibilmente il 7,3% del nostro territorio. In base ad uno studio del Central Europe Programme, secondo il quale 1 ettaro di suolo consumato comporta una spesa di 6.500 euro (solo per la parte relativa al mantenimento e la pulizia di canali e fognature), il costo della gestione 2 A. DI GENNARO Tempo da lupi per il territorio rurale italiano, in M. C. GIBELLI (a cura di) La controriforma urbanistica
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dell’acqua non infiltrata in Italia dal 2009 al 2012, è stato stimato intorno ai 500 milioni di Euro. La prospettiva di sostenibilità, impone di portare in conto i costi, diretti e indiretti per l'ambiente. Questi, si affrontano: a)
attraverso una drastica riduzione del consumo del suolo non urbanizzato;
b)
incentivando, nella realizzazione di nuove edificazioni infrastrutturali, urbanistiche ed edilizie, il riuso delle aree già urbanizzate, in modo da evitare ulteriore consumo di suolo, specie a vocazione agricola.
c)
realizzando efficaci politiche a favore dell’agricoltura, specie quella di pregio dei prodotto DOC, DOCG, biologici, biodinamici ed a lotta integrata;
d)
nei nostri centri, a fronte dell’eccessivo consumo di suolo, una parte rilevante di edilizia abitativa libera rimane invenduta o non occupata, serve, quindi, incentivare il suo riutilizzo nei programmi di edilizia abitativa sociale o convenzionata.
La rilevanza del “non edificabile” L'urbanistica dei piccoli centri italiani e di quelli provinciali in particolare, è storicamente caratterizzata da un nucleo edificato compatto, di servizio a realtà rurali più o meno omogenee. Tali porzioni di territorio non sono “terra di nessuno”, bensì, la ragione stessa della esistenza dei nuclei urbanizzati. La loro tutela e valorizzazione, quindi, non solo va nel senso di uno “sviluppo reversibile”, ma anche della tutela sociale, produttiva, idrogeologica dei territori. Agire sulla conservazione di questa parte nevralgica di territorio, significa agire sull'essenza stessa dell'intero sistema socio-economico-ambientale della comunità. Trasformarlo, resta una scelta legittima, ma solo quando consapevole delle conseguenze nel lungo periodo e se mossa da analisi reali. L'alternativa al “buon senso” è lo sviluppo di una “dispersione urbana”, fenomeno direttamente legato al degrado ed all'aumento dei costi sociali. Negli Usa tale dispersione è avvenuta attraverso la costruzione di nuovi insediamenti,
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in Europa, lo stesso fenomeno si è prodotto, per lo più, attraverso l’espansione dei nuclei esistenti. In Italia, negli ultimi trent'anni, si sono ampliati i nuclei storici, a ciascuno dei quali tradizionalmente la pianificazione, ha assegnato una quota di aree di espansione secondo il principio dell’accontentare “tutti” proporzionalmente e mantenere il consenso. In Irpinia, fondamentale strumento, per questa politica fu, nel dopoterremoto, la “ricostruzione fuorisito”. Con «Area urbana» è definibile l'insieme di edificazioni, urbanisticamente inteso, che forma una intera città, molto spesso superiore all'estensione dei confini comunali, prodotta, solitamente da un processo di agglomerazione e che può integrare (a livello di interrelazioni commerciali e demografiche, anche se non amministrative) un processo di conurbazione. Il concetto di «Area extraurbana», invece, «richiede necessariamente il superamento di un approccio disciplinare consolidato, quasi una sorta di blocco “ideologico”, al territorio extraurbano assunto come luogo parzializzato, destinato di volta in volta ad essere supporto fisico della produzione agricola, ricettore di funzioni “scomode” rifiutate dalla città, ambito di “attesa”, “serbatoio” delle future espansioni urbane, o, nel migliore dei casi, luogo da sottoporre a processi di tutela ambientale, intesi come azioni di musealizzazione territoriale in un’improbabile tentativo di recuperare l’immagine “verde” della campagna, un tempo connessa (nell’immaginario collettivo) con le aree agricole.»3 Infatti, l'approccio semantico: “rurale come sinonimo di ritardo”4, che tendeva ad identificare la ruralità con il ritardo socio-economico, oramai è superato nelle moderne teorie urbanistiche e relegato solo agli studi statistici degli anni '60/'80. In questi, nel tentativo di cercare parametri giustificativi di un sviluppo diverso dalla economia “fordista”, si scelse il grado di “ruralità” e di “analfabetismo” quali misura di una supposta “de-crescita”. Permane, invece, ma solo nell'inerzia di certe scelte politiche e nella pratica “di
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F. FERRER, M. OLIVIER, Guida per la pianificazione in aree extraurbane nell'ambito del PTR Ovest Ticino, Regione Piemonte 1998 D. STORTI (a cura di), Tipologie di aree rurali in Italia, Istituto Nazionale di Economia Agraria, Roma 2000
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mestiere, la visione del “rurale come spazio interstiziale”, implicita in una particolare tipologia di studi sulla zonizzazione territoriale, volti all’individuazione di regioni funzionali dal punto di vista socio-economico. “La concezione dominante propria della legislazione urbanistica che assegna al piano urbanistico la funzione di determinare l’edificabilità delle aree nel quadro più generale della soddisfazione del fabbisogno abitativo, ha per lungo tempo messo in secondo piano che i beni urbanistici possano essere destinati a funzioni diverse e più complesse della semplice edificabilità ad uso residenziale.” 5 Da questo, scaturisce l’uso residuale del termine disciplina urbanistica delle “zone” agricole e non delle “aree”. Queste, infatti, restano nella prassi diffusa, non rilevanti per la complessità delle funzioni ambientali/produttive cui assolvono, quanto più semplicemente per i limiti “quantitativi” alla trasformazione edilizia.“ A questo riguardo, uno dei temi principali posti sotto osservazione dalla urbanistica mondiale, è proprio la trasformazione dei territori da un uso ‘naturale’ (quali foreste e aree umide) ad un uso ‘semi-naturale’ (quali coltivi) o, cosa peggiore “artificiale” (quali edilizia, industria, infrastrutture). Attenzione cresciuta, in quanto, tali transizioni, oltre a determinare la perdita, nella maggior parte dei casi permanente e irreversibile, di suolo fertile, causano ulteriori impatti negativi, quali frammentazione del territorio, riduzione della biodiversità, alterazioni del ciclo idrogeologico e modificazioni microclimatiche. Inoltre, la crescita e la diffusione delle aree urbane e delle relative infrastrutture determinano un aumento del fabbisogno di trasporto, della creazione di sottoservizi e del consumo di energia, con conseguente aumento dell’inquinamento acustico, delle emissioni di inquinanti atmosferici e di gas serra. Rigenerazione urbana E' un’attività che mira non solo ad una riqualificazione fisica, necessaria per rilanciare l’immagine urbana a livello estetico, ma che è affiancata da interventi di natura culturale, sociale, economica ed ambientale, finalizzati ad un incremento della qualità della vita, nel rispetto dei principi di sostenibilità ambientale e di partecipazione sociale. Essa rappresenta l'occasione per risolvere l'assenza di identità dei luoghi, l'assenza di
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P. URBANI, La disciplina urbanistica delle aree agricole, in Astrid rassegna, nr. 21/2009)
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spazi pubblici, le densità edilizie. Può essere raggiunta attraverso: Riqualificazione del patrimonio immobiliare Il patrimonio edilizio italiano del periodo 1950/'80, si caratterizza per una diffusa assenza di qualità, invasività urbanistica e carente sicurezza sismica. Riqualificarlo deve essere una priorità per garantire ai cittadini la qualità e la sicurezza dell'abitare e per migliorare la qualità sociale e ambientale, oltre che una grande occasione per promuovere l'occupazione e l'impiego dell'imprenditoria locale. Tale obbiettivo si persegue attraverso: a) “Sostituzione edilizia”, ovvero, sostenendo quegli interventi edilizi che comportano demolizione e ricostruzione anche con diversa articolazione e collocazione, senza alcun intervento sulle opere di urbanizzazione. b) attraverso scelte che il perseguimento di elevati standard di qualità, bassi costi di realizzazione, minimo impatto ambientale e risparmio energetico, risolvendo il tema nella sua complessità. c) la programmazione di interventi di edilizia sociale, diversificando l’offerta di godimento del diritto dell’abitare, incentivando il mercato locativo e l’housing sociale. d) la rivalutazione degli spazi pubblici, del verde urbano, dei servizi di comunità. Il recupero dell'edilizia storica Il “restauro” non può, ancora, essere scambiato con la “ristrutturazione”. La conservazione dei valori, non coincide quasi mai, solo, con la conservazione della materia. Soprattutto, l'efficienza statica non corrisponde alla quantità di similitudini esistenti tra una architettura antica ed una contemporanea, come la qualità estetica non risiede in quelle tra l'immagine esistente e quella che si vorrebbe “fosse stata”. Per un corretto rapporto con l'architettura storica, occore considerare che: a) il principale intervento per la valorizzazione e conservazione delle edilizie storiche è la costante “manutenzione ordinaria” b) la salvaguardia dei centri antichi e storici va ricercata attraverso la loro “rifunzionalizzazione compatibile”, per evitare di ridurli a sterili musei ma renderne possibile la loro “messa in produzione”; c) la valorizzazione di un Bene Culturale, passa anche per la qualificazione del
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contorno; il restauro dell'edilizia storica, parte dalla scelta di una nuova “destinazione d'uso compatibile”.
Aree industriali Ecologia Industriale e del Paesaggio Le previsioni contenute nei P.U.C., relativamente ai “Piani per gli Insediamenti Produttivi”, sono solitamente fondati su premesse produttive, storicamente concluse o più comunemente, sulla presunzione di poter immaginare un futuro, a partire dall'esigenza di soluzione a casi particolari. La conseguenza semplicistica è la scelta di ratificare i fenomeni accaduti ed in maniera automatica prevedere altro suolo agricolo da urbanizzare, in funzioni di nuove auspicate potenzialità, genericamente immaginate, commerciali, artigianali o industriali. Infatti, non è uno standard progettuale acquisito, l'individuazione delle ragioni di eventuali modificazioni aziendali e/o di trasferimenti delle eccellenze. Per tutto questo, invece, è fondamentale programmare gli Insediamenti Produttivi, perché rispondano soprattutto a reali ed accertate esigenze economico-sociali e produttive ed a concrete prospettive di utilizzazione, desumibili da specifiche indagini. L'organicità tra vocazione dei territori e scelte industriali Soprattutto, è necessario uscire dall'ottica generalista, che tanto poco ha dato in termini di continuità produttiva ed occupazionale ai nostri P.I.P., costruendo, invece, una loro “vocazione” specifica. Serve strutturare l'accoglienza di quelle iniziative imprenditoriali, commerciali e/o manifatturiere, che siano omogenee alla vocazioni territoriali, individuate dagli enti sovracomunali. Elementi da cui si ricava una precisa indicazione, di macrosistema, della possibile vocazione verso la quale indirizzare le proprie infrastrutture commerciali/manifatturiere. Per quanto sopra, in Irpinia, in generale, sarebbe auspicabile una rielaborazione dei P.U.C., non per ri-vedere in senso semplicistico il
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dimensionamento e/o la perimetrazione delle aree produttive già previste, ma per definire politiche e azioni volte a valorizzare gli insediamenti produttivi preesistenti e ad attrarre imprese innovative, ambientalmente sostenibili e capaci di promuovere occupazione qualificata, produttività e competitività. Il ciclo industriale “chiuso” Nell'azione di revisione è auspicabile, creare le condizioni per un'ecoefficienza del sistema produttivo locale, giungendo alla configurazione di insediamenti produttivi organici alle previsioni regionali e nazionali per le “Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate” (APEA). Un approccio, secondo principi di “Ecologia Industriale e del Paesaggio”, permetterebbe di considerare il sistema industriale come parte di “un ciclo chiuso dove, in analogia con quanto avviene in natura (in cui non esiste il concetto di rifiuto), tutti i prodotti di un processo produttivo (scarti compresi) rappresentano materie prime di un altro processo, secondo una logica virtuosa di interdipendenza imprenditoriale attraverso sistemi di “pianificazione ambientale” e strumenti di “progettazione ecologica” [...] Tra gli argomenti alla base dell’Ecologia Industriale si trovano: la necessità di minimizzare l’utilizzo di energia, la produzione di rifiuti e l’impiego di risorse, l’utilizzo vicendevole di rifiuti industriali e prodotti di scarto come input di processi industriali e la necessità di elasticità del sistema per il recupero immediato di traumi inattesi.” 6
In sostanza, l’abbandono della logica dell’edificio industriale quale mero “mezzo di produzione” (costruito unicamente nel rispetto di requisiti di funzionalità ed efficienza del processo produttivo), destinato a cicli produttivi medio/brevi. Questo sarebbe il primo passo per raggiungere anche l’obiettivo del miglioramento della qualità ambientale dell’edificato e degli spazi aperti. Traguardo, che non è sinonimo di maggiori costi, bensì, in una logica sistemica di eco-efficienza, sarebbe fattore in grado di generare un risparmio 6
Regione Piemonte, Linee guida per le Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate, 2009
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e un migliore utilizzo delle risorse. Cosa analoga, accadrebbe attraverso la riduzione del prelievo d’acqua di falda tramite il riciclo dell’acqua piovana e delle acque grigie, la predisposizione di reti fognarie separate e la realizzazione di sistemi di depurazione collettivi, oppure, nel campo dell'energia, massimizzando l’impiego delle fonti rinnovabili e incentivando la realizzazione di sistemi di produzione di energia efficienti e con più basse emissioni di inquinanti, dalle applicazioni fotovoltaiche per la produzione di energia elettrica, ai collettori solari termici, al recupero del calore dissipato nei processi produttivi o all’utilizzo delle biomasse.
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4. Tutela Ambientale Le nostre “aree naturali” sono uno dei simboli dell’assenza di un metodo, di una pianificazione. Aprendo i giornali, ancora oggi, apprendiamo di iniziative distinte su temi come: dissesto idrogeologico, operatori forestali, cinipide. Come se questi fossero tutti singoli problemi, a cui dare risposte singole. Dimostrando, quindi, uno scollamento tra scienza e coscienza, dove la necessità, è esattamente il contrario, riunire questi temi e pianificarli in una visione unica. Di metodo. D’altronde, il mondo scientifico già lo ha fatto. Da tutte le ricerche pubblicate, emerge l’unità dei problemi legati alle calamità naturali. Persino nelle premesse agli interventi istituzionali è così. Di fatto, però, il metodo burocratico vince e tutto viene spezzettato, in una miriade di interventi che vagano tra il romantico, l’inutile ed il dannoso. Dietro parole importanti e condivisibili, anzi auspicabili, come: “forestazione”, “sentieristica”, “ingegneria naturalistica”, “sistemazione idraulica” ci sono milioni di euro spesi per arredi rustici in alta montagna destinati a marcire, possibili movimenti franosi assicurati con interventi, a dir poco, approssimativi, sentieri lastricati o addirittura cementificati e dotati di sottoservizi, come in una normale sezione stradale. Sopratutto, progetti di opere sovradimensionate, invasive e lesive degli ecosistemi, aventi quale obiettivo dichiarato, esclusivamente la spesa di estemporanee risorse economiche.
Sicurezza del territorio I territori a rischio dissesto idrogeologico sono diffusi in maniera ormai omogenea in tutto il territorio nazionale, con cause rinvenibili nella sua particolare conformazione geologica e geomorfologica ma pure, nella progressiva perdita di funzione all'interno delle economia locali, fattore che allontana il monitoraggio e la cura dei luoghi accellerando i processi naturali di degrado. Le azioni per una sua messa in sicurezza
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devono considerare: a) l'enorme importanza di azioni costanti di monitoraggio e mappatura del territorio; b) manutenzione e rigenerazione sia del territorio c) Revisione delle passate scelte di lottizzazione urbanistica con potenziale carica invasiva ambientale d) le azioni di salvaguardia delle “aree naturali” passano, prima, per la rifunzionalizzazione dei territori; e) le tipologie d'intervento a salvaguardia, devono derivare dalle programmazioni di ri-funzionalizzazione, non da mere ipotesi tecnico/tecnologiche. f) La tipologia di programmi di intervento, come, allo stato, si evidenzia il “Grande Progetto Sarno” sono solo progetti di spesa dannosi, perchè incentrati su logiche di intervento sovradimensionate, antiche per concetto, tecniche e metodi di attuazione.
Estensione/attuazione delle normative di tutela vigenti Il timore che la rigidità dei vincoli di tutela ambientale, si scontri con un uso libero (se non spregiudicato) del territorio, ha creato le condizioni per una generale assenza dei nostri territori di pregio ambientale, eccellenza agricola o enogastronomica, come pure, di rischio sismico ed idrogeologico, dai contenitori della pianificazione di tutela. Davanti ad emergenze di gestione ambientale quali: nuove ipotesi produttive, strutturazione del ciclo dei rifiuti, del ciclo energetico, però, esplode la incompatibilità, vera o presunta, di queste nuove programmazioni con le caratteristiche proprie dei territori. La verità è che, pur di lasciare intatta la possibilità “elettorale” di concedere o negare un permesso di costruire, si sono lasciati interi territori nella totale assenza di programmazioni di tutela. Oppure, quando le si è previste in nome di opportunità di finanziamento, lo si è fatto senza convinzione, senza dare conseguenza reale alle scelte intraprese. Conservando tutte le contraddizioni che, di fatto, rendono nulle le potenziali tutele.
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Per quanto premesso è necessario intervenire a livello Regionale, provinciale e di comunità, per realizzare: a) b) c) d) e) f) g)
individuazione aree ad alta valenza ambientale e produttiva/ambientale attuazione di tutele verso le aree di produzioni agricole di pregio ri-definizione dei parchi regionali e delle aree contigue realizzare la messa in rete delle aree protette individuazione di corridoi ecologici tutela delle biodiversità tutela degli alberi monumentali
Inquinamento delle acque Non esiste un temi ambientali che non sia riferibile ad un sistema “macro”. La situazione delle acque superficiali e degli acquiferi potabili in Irpinia è emblematica di una sottocultura dell'ambiente visto come realtà residuale. a) considerazione dei corridoi fluviali gli accordi multisettoriali e multiscalari; b) consapevolezza, volontarietà e flessibilità dei processi decisionali; c) governance delle trasformazioni dei territori; d) approccio eco-sistemico; e) condivisione e responsabilità delle comunità; f) azioni condivise di riqualificazione e valorizzazione; Inquinamento urbano In questa definizione non rientrano le grandi emergenze ambientali ma la produzione quotidiana di inquinamento all'interno dei centri urbani. Questa, non è una conseguenza necessaria del progresso o della crescita. Semplicemente una apparente convenienza in termini di costi/benefici nel breve termine. La causa principale sta nella “mental habit”, nelle “abitudini” che l'inerzia civica coltiva nelle nostre comunità. Per questo, spesso, occorre grande convinzione e “coraggio politico” per affrontare e risolvere strutturalmente, anche con scelte impopolari, le questioni ambientali che trovano causa nelle scelte stratificate nel quotidiano delle
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comunità. La difficoltà a rendere diffusa la consapevolezza che all'inquinamento urbano, ad eccezione di casi limite, contribuiamo singolarmente con le nostre personali scelte di vita, è la ragione per cui i tentativi di soluzione dei problemi si scontrano sempre con meccanismi “NIMBY” (Not In My Back Yard - non nel mio cortile), per i quali le cause degli accadimenti negativi sono sempre da attribuibili ad “altri” e da perseguire con rigore ma al netto dei singoli diritti acquisiti, veri o presunti. Anche i più banali. Per troppi anni, si è risposto a questa approssimazione civica con pari approssimazione politica. Sono troppe, però, le conseguenze che ancora tolleriamo per la strategia “non scelta” ma costantemente applicata. Inquinamento da PM10 Avellino, da oltre un decennio, registra lo sforamento continuato dei livelli massimi di polveri sottili tollerabili per legge (vedi dati ARPAC http://www.arpacampania.it/avellino) In questi anni, è generalmente mancata una azione strutturale d'intervento sulla questione. Quando applicata, anche la doverosa limitazione del traffico veicolare, è stata interpretata in maniera poco incisiva. Ad esempio, in riferimento alle categorie di veicoli solitamente oggetto delle limitazioni: •
veicoli a benzina PREEURO1 ED EURO 1 - ( 01/01/1993 – 30/01/1996)
•
i veicoli a gasolio anche EURO 2 ( FINO AL 01/01/2001)
•
ciclomotori e motoveicoli dal 17/06/2002-01/01/2003
analizzando i dati ACI sul parco autovetture distinto per tipo di alimentazione, presente in provincia di Avellino al 2013, si scopre che i veicoli appartenenti alle categorie limitate, sono: •
totale autovettura circolanti: 259.437 unità di cui
•
tot. aut. Benzina = 110.201 (42% del tot. Auto) ◦
•
Tot. aut. Benzina [euro 0+euro 1] = 40526 (15% del tot. auto)
tot. aut. Gasolio = 129.745 (50% del tot. auto) ◦
Tot. aut. Gasolio [euro 0+euro 1+euro 2] = 31816 (12% del tot. auto)
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Per cui, in provincia di Avellino, il totale delle auto interessate dal provvedimenti di limitazione, è pari solo a circa il 28% di quelle immatricolate. In più, considerando che: •
•
mediamente le auto di vecchia immatricolazione, per le limitate prestazioni, l'elevato costo dei consumi, il basso valore di acquisto, sono caratterizzate da: ◦
una minore tendenza all'utilizzo
◦
un reddito medio/basso del proprietario
◦
età medio/alta del proprietario
gli interventi l'intervento di limitazione del traffico, non intervengono sulle tipologie che producono più inquinanti, quali:
◦
autovetture a gasolio euro 3-4-5 (non soggette a limitazione), su cui esistono controverse posizioni sulla efficacia dei “Filtri Anti Particolato”. Studi dell'Agip, dichiarano che, se da un lato i FAP riducono le emissioni di polveri sottili, dall'altro, produrrebbero polveri ultrafini(< 0.1 µm) e nanopolveri (<0.05 µm) in quantità elevate e non rilevabili dalle tecnologie standard,
•
◦
SUV (quasi tutti a diesel)
◦
macchine sportive
◦
auto grossa cilindrata
a livello sociale, le limitazioni ◦
colpiscono gli automobilisti che già usano poco l'auto
◦
potenzialmente non hanno la possibilità economica di acquistarne un'altra
◦
si ritrovano in fascia di età alte
si evidenzia che i provvedimenti di limitazione del traffico, quando adottati con formule più preoccupate di non invadere le “abitudini” delle comunità, che di raggiungere risultati oggettivi, non costituisco lotta strutturale all'inquinamento da PM10. Questa, infatti, si dovrebbe caratterizzare promuovendo il cambiamento delle “abitudini
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alla mobilità”, agendo sulla indicazione e sul sostegno concreto di “best practices” verso le quali tendere a livello di comunità. Ovviamente, si possono individuare diverse scale d'intervento, da quelle più immediate a quelle più strutturali, ma anche le prime devono prevedere azioni più credibili quali: •
Rendere strutturali i periodi di limitazione del traffico.
•
Anticipare la scelta dei varchi “ZTL” individuando aree di parcheggio e interscambio esterno alle aree limitate ad essi associati.
•
Attivare linee di trasporto pubblico di collegamento tra i parcheggi scambiatori ed i punti d'interesse nel centro cittadino.
•
Estendere le limitazioni a tutte le categorie EURO (benzina e gasolio) per le autovetture con cilindrata superiore ai 1600 cc.
•
Car pooling - prevedere deroghe alle limitazioni per i mezzi con a bordo almeno 4 persone se omologati a 4 o più posti.
•
Deroghe ai mezzi privati con a bordo portatori di handicap in possesso di apposito contrassegno e per gli ultra settantenni.
•
Sostegno alla mobilità alternativa
Sommatorie di azioni che devono, comunque, essere intese quali premesse “d'urgenza” ad una programmazione più strutturale fatta di piani traffico, piani di mobilità pubblica, piani di mobilità alternativa, pedonalizzazione del centro urbano. Strumenti attraverso i quali aumentare, in quantità e qualità, la mobilità pubblica, quindi a limitare e regolamentare il ricorso a quella privata
LINK •
In merito all'estensione delle tutela ambientale, un momento importante è stata la presentazione dell'O.D.G del 27/1172014, da parte del gruppo PD alla
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Regione Campania, primi firmatari Rosetta D'Amelio e Giulia Abbate, a cui il Forum ha conttribuita alla redazione ◦
•
O.d.g. tutela ambientale
La ri-funzionalizzazione dei territori è fondamentale per la sicurezza degli stessi. In una serie di incontri con i circoli dei comuni “castanicoli”, si è discusso del fenomeno del “cinipide e anche come potenziale conseguenza negativa sul dissesto idrogeologico
◦ •
Cinipide ed ecosistema ambientale in Irpinia
Anche le azioni considerate minime, possono essere interpretate come manifesto di un metodo d'azione
◦
Profilassi del Cancro dei platani ad Avellino
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5. Energia
Una programmazione energetica anche a livello locale, è utile a creare opportunità ambientali ed economiche, partecipando al fabbisogno nazionale, evitando sterili pratiche speculative. A questi risultati si concorre considerando: Pianificazione territoriale a) fondamentale un Piano Energetico Regionale per il superamento delle contraddizioni energetiche sui territori; b) funzionali, “Piani energetici” provinciali e comunali organici c) necessaria la “diversificazione” delle fonti energetiche rinnovabili sui territori; Distretti “Green” a) aumento di consapevolezza nelle comunità di essere parte di macrosistemi b) il monitoraggio degli sprechi energetici e idrici, sia nel privato che nel pubblico, necessario per l'efficienza energetica; c) diffusione sul territorio di programmazioni energetiche fortemente impostate sull’efficienza e le fonti rinnovabili, quale spunto di crescita economica “Green economy” a) creazione di una “filiera delle rinnovabili” b) opportunità di riqualificazione energetica degli edifici, i benefici economici ed ambientali derivanti dagli interventi, dalle buone pratiche di risparmio energetico e dall’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili. c) Inderogabile l'adozione di “best practices” da parte delle amministrazioni locali a partire dalla propria gestione quotidiana d) appalti verdi e) come, la diffusione sul territorio di programmazioni energetiche fortemente impostate sull’efficienza e le fonti rinnovabili può favorire essa stessa una
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f)
crescita economica basata sull’innovazione tecnologica e causa di minori sprechi; le opportunità di riqualificazione energetica degli edifici, i benefici economici ed ambientali derivanti dagli interventi, dalle buone pratiche di risparmio energetico e dall’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili.
LINK
•
Una importante azione del forum “Ambiente e Comunità”, sui temi energetici è stata l'analisi prodotta per supportare i circoli territoriali, nella individuazione di una posizione sul tema dell'Accumulatore
◦
di Flumeri.
La sintesi prodotta, ancora oggi, è nei primi posti su Google, per le ricerche sui Sistemi di Accumulo Non Convenzionale.
•
Le trivellazioni petrolifere in Alta Irpinia, primi dei temi trattati, quale manifesto del metodo di azione prescelto e degli obiettivi da conseguire. ◦
la relazione
◦
il materiale prodotto
◦
Risoluzione parlamentare “Attività produttive” e “Ambiente”
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6. Materie Seconde (Rifiuti)
Il termine rifiuto è improprio o meglio, sintomatico di un approccio non scientifico della questione. Serve sdoganare il tema dall’accezione culturale di “danno” a quella di “risorsa”. Un processo culturale che si concretizza attraverso la: Gerarchia della Direttiva Europea 2008/98CE a) ridurre b) preparazione per il riutilizzo c) riciclaggio d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia, e) smaltimento. Gestione locale dei Rifiuti “Rifiuti zero”, “pubblica/privata”, “porta a porta”, “differenziata spinta”, “comune riciclone”, considerare la gestione locale dei sistemi di raccolta e smaltimento, risolvibile in formule più o meno d'effetto ma sempre circoscritte a logiche localistiche, troppo spesso figlie di presunzioni autoarchiche, è lo standard che ha caratterizzato anche l'Iripinia, dagli anni '90, l'esplosione di quella “emergenza rifiuti” che dura, ancora oggi, senza soluzione di continuità, da allora. Soprattutto in coincidenza della recente riforma della legislazione regionale in materia, occorre, invece, che i “nuovi” protagonisti del sistema di gestione, i sindaci, metabolizzino nelle loro scelte e rendano palese nella costruzione dei servizi di raccolta, la gerarchia sopracitata, attraverso azioni conseguenti, quali: a) b) c) d)
tendere alla chiusura del “ciclo dei rifiuti”, in ottica di “filiera corta” la diminuzione dei livelli complessivi di produzione; analisi della gestione a partire da scala territoriale macro; attuare “processi partecipati” nella scelta, attuazione e gestione dei “piani industriali di smaltimento”
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e)
analizzare le opportunità della separazione tra la gestione della raccolta e dello smaltimento f) garantire elasticità nell'applicazione dei “piani industriali di smaltimento” attraverso feedback/monitoraggi continui e terzi; g) organizzare la raccolta sul territorio per aree omogenee, sulla base dell'economicità della raccolta a scala territoriale; h) perseguire, prima la condivisione in rete ed ottimizzazione degli impianti di smaltimento, poi, la creazione di nuovi; i) aumento della consapevolezza delle comunità locali verso visioni di sistema e non meramente localistiche; j) una raccolta differenziata spinta nell'ordine del 70-80%; k) la soluzione, nella raccolta differenziata, del contrasto tra rifiuti “raccolti” e quelli “effettivamente smaltiti”; l) incentivare la riduzione degli imballaggi, l'attivazione dello scambio e del riuso. m) premialità per le comunità virtuose e “succes fee” per progettisti e dirigenti dei piani; n) legare la scelta dei modelli e dei flussi di raccolta differenziata all’impiantistica di recupero effettivamente disponibile in condizioni logistiche accettabili; o) la considerazione delle economie su scala territoriale macro;
LINK
•
Da questi punti, nel gennaio 2015, sono derivate le linea di indirizzo della Segreteria Provinciale PD al candidato alla presidenza della “nuova”Ato Rifiuti, Mario Bianchino.
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7. Turismo
Premessa Il turismo è una economia di servizio e come tale risente fortemente dell'oscillazioni della domanda, del variare delle tendenze e dei momenti stagionali. Questo è più vero per le aree interne. L'offerta turistica irpina, in generale, si basa su episodi importanti ma non eccezionali. Per questo non può essere vista come elemento totalizzante di una economia reale. Sicuramente, può essere parte importante di un programma di produttività sostenibile. Il tentativo, quindi, non deve essere l'importazione di modelli esistenti, magari vincenti, ma decontestualizzati dalle realtà specifiche ma la costruzione di una specificità in cui tutte le componenti della qualità irpina, ambientali e produttive creino un circuito econmico diversificato. Nel turismo, oggi, è fondamentale proporre al mercato prodotti ed offerte che si traducano in prenotazioni e vendite. La promozione di bei paesaggi, musei, città, spiagge, montagne, strutture d’accoglienza turistica e di ricettività, non è più sufficiente. Ciò che serve è la promozione del prodotto ed un’offerta integrata. Il turismo, può essere un importante strumento di sviluppo solo se inserito in una filiera di produzione e restituito al mercato. Sottratto, quindi, all'occasionalità delle programmazioni e delle gestioni che lo contraddistingue in provincia e che poco o nulla, hanno portato in termini di ricaduta strutturata sui territori. Impresa culturale a) Il turismo è impresa, serve tendere ad offerte professionali; la programmazione pluriennale, la continuità, le analisi oggettive dei risultati raggiunti, misurate dall'accrescimento della qualità dell'offerta, la partecipazione del territorio alle iniziative e la nascita di strutture professionali di servizio, sono fondamentali. b) Il volontariato può essere sussidiario, in una offerta di filiera;
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c)
d)
e)
il turismo è impresa. Il volontariato può essere un valore aggiunto. Ma nn è possibile, ancora, immaginare di costruire offerte turistiche fondando solo su iniziative occasionali, programmazioni estemporanee, competenze e disponibilità volontaristiche. Il pubblico deve favorire le iniziative, il mercato deve giustificarle. nella gestione delle reti turistiche locali, il coinvolgimento di operatori privati professionali è auspicabile, previa l'adesione a protocolli di gestione e di obbiettivo, condivisi con le componenti culturali ed istituzionali sul territorio. Redditività d'impresa e finanziamenti pubblci Il turismo impresa, affidare la fattibilità di una inizitiva, avendo come riferimento principale I contributi istituzionali o finanziamenti pubblici, non crea quelle garanzie di coerenza e qualità dell'offerta, che oggi il mercato richiede ma, soprattutto, capaci di conferire valore aggiunto al territorio. Puntare al turismo di qualità. A meno di esperienze già consolidate, le nuove programmazioni turistiche devono puntare, non ai grossi flussi turistici, ma al turismo di qualità, capace di essere alternativa su più momenti. Incentivando, così, una maggiore attenzione alla qualità qualità non solo delle ofefrte tiristiche ma dell'intero territorio.
Fare “rete” Le singole offerte turistiche dei nostre comunità non possono immaginarsi totalizzanti. Anche per evitare inutili concorrenze o realizzazione di infrastrutture sovradimensionate e di difficile gestione, è necessario, oltre che vantaggioso, creare sinergie con i territori limitrofi (ma non solo), al fine di diversificare e coordinare le proposte, compensare le rispettive carenze strutturali e rendere più credibile l'offerta. a) Creare una rete ospitalità diffusa, coinvolgendo e promuovendo le aziende artigianali tipiche del territorio, per un'offerta turistica arricchita dalle produzioni tipiche e di qualità. b) E' necessario puntare sulla innovazione e qualificazione della produzione artigianale, in particolare quella destinata al merchandising turistico/museale. c) I riferimenti produttivi da coinvolgere nell'offerta turistica, devono essere
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selezionati tra aziende effettivamente operanti. L'assenza di tali realtà in un singolo territorio, non giustifica il ricorso a risorse ocacsionali, ma deve essere spunto per la creazione di reti con altre realtà a diversa vocazione. Turismo e territori Il sistema turismo non può solo trarre vantaggio dalla qualità originaria dei territori. Deve anche produrne di nuova. a) incentivare una “economia del paesaggio”; al fine di incentivare una “economia del paesaggio”, specie una rifunzionalizzazione del territori montani, ai fini della salvaguardia idrogeologica, è utile dare sostegno alle programmazioni turistiche dell'associazionismo qualificato, operante in aree naturali. b) promuovere la formazione e l'aggiornamento degli operatori; è fondamentale promuovere l'innalzamento della qualità dell’accoglienza, anche privata, attraverso la formazione e l'aggiornamento della cultura del lavoro nei servizi turistici. c) turismo “certificato”; La partecipazione a disciplinari comunali e sovracomunali di certificazione, di promo-commercializzazione alle imprese o di brand territoriali, sono sempre opportunità da seguire con coerenza, per legare al territorio quella immagine di qualità che, nel tempo, può fidelizzare la domanda turistica. Emigrazione come risorsa Al fine di separare la potenzialità dalla retorica, è giunto il momento di intervenire e di ribaltare il paradigma di una piaga, quale quella migratoria, in risorsa propulsiva per questo territorio. a) Promuovere le strategie dell'export dei prodotti tipici verso la rete dei consumi degli italiani all’estero b) incentivare il “turismo familiare”, c) Offerta di strumenti di conoscenza della storia e tradizioni delle comunità, rivolta agli oriundi di seconda terza e quarta generazione.
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8. Conferenza Programmatica: i contributi
Di seguito, si riportano in versione integrale, i contributi scritti consegnati al Tavolo “Ambiente e Comunità” della Conferenza Programmatica provinciale, del 28/29 novenbre 2014. Gli interventi al tavolo, invece, è possibile riascoltarli su cliccando l'indirizzo: Web-Radio Spreaker: "tavolo "Ambiente e comunità"
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La difesa del suolo Sabino Aquino geologo
Significa, anzitutto, conservazione dell’ambiente naturale, geografico e geologico, in cui l’uomo vive, si alimenta e svolge le sue attività. La difesa del suolo, pertanto, è la conservazione dell’habitat umano, dove bisogna ottimizzare la utilizzazione del territorio e delle sue risorse, dove bisogna, nell’umano possibile, limitare le calamità naturali e regolamentare, nel rispetto del territorio, tutte quelle opere dell’uomo che nel corso dei secoli hanno reso più gravi e catastrofici gli eventi naturali. Alluvioni, siccità, terremoti, frane fenomeni d’inquinamento ambientale e le loro conseguenze, formano oggetto di dissertazioni che pongono l’accento su problematiche interdisciplinari finalizzate, tendenti a separare minuziosamente gli aspetti naturali, sociali ed economici di questi deprecabili fenomeni che il “fato” si accanisce a voler dirigere verso il nostro “Bel Paese”. Ebbene da questa impalcatura voluta, guidata, utilizzata o sfruttata, a seconda dei vari punti di vista, scaturisce sempre la unanime conclusione che è indispensabile fare qualcosa e che non vi è più tempo per rinvii o soluzioni di compromesso. Tutto ciò è oramai stato detto e scritto troppe volte. Come accade in simili circostanze la carenza, le negligenze, i difetti e tutte le altre magagne, vengono prepotentemente messe in evidenza e danno luogo ad una innumerevole serie di interpretazioni limitate da, più o meno, plausibili riserve. Ciò serve ad ingarbugliare maggiormente la comprensione dei fenomeni e rendere quindi possibile giustificazioni di vario tipo, tendenti a vanificare ogni possibile responsabilità a monte. Il denominatore comune, sempre richiamato in ogni circostanza, è la imprevedibilità degli eventi naturali e, quindi, la impossibilità di adottare misure preventive o comunque di programmare adeguate infrastrutture capaci di limitare, se non annullare, gli effetti di tali fenomeni. Questo modo di vedere ha già avuto le sue disastrose conseguenze in tante occasioni e non è superfluo ricordare le inondazioni del Polesine, l’alluvione di Firenze, le frani di Sarno e Quindici, le varie alluvioni della Calabria ed i recenti episodi di straripamento del torrente Lierza nel Trevigiano, tanto
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per citare solo alcuni esempi eclatanti che hanno scosso l’opinione pubblica. Le alluvioni come le frane fanno parte della più ampia problematica della dinamica esogena direttamente connessa a fattori climatologici che procede secondo ritmi naturali spesso prevedibili, sempre che gli equilibri naturali non siano alterati da azioni diverse che accelerano tali processi o ne invertono localmente le tendenze evolutive. Ad oltre venticinque anni dalla emanazione della Legge 183 che resta il caposaldo dell’attuale difesa del suolo, il Ministero dell’Ambiente ha stimato in circa 60 miliardi di euro i fondi necessari per la realizzazione di interventi idonei ad eliminare il dissesto idrogeologico presente in Italia. Sicuramente lo stato attuale di degrado del sistema fisico è frutto di una sostanziale inadeguatezza infrastrutturale e programmatica sul territorio, oltre che dall’abitudine di fronteggiare, senza prevedere, la razionale gestione del territorio. In particolare, diventa sempre più pressante l’esigenza di calibrare gli interventi in funzione della massima efficienza, viste le limitate risorse economiche disponibili. Certamente, la problematica va affrontata per gradi, intervenendo prioritariamente sulle questioni più rilevanti, ma necessariamente, conservando una visione di insieme dei vari settori ad essa connessi. E’ da evidenziare che nel corso degli anni il nostro Paese ha subìto un’estesa urbanizzazione, con superfici rese sempre meno permeabili, ed un sempre più elevato abbandono del territorio di montagna con degrado dei versanti, fatti che hanno progressivamente ridotto la manutenzione dei corsi d’acqua ed hanno causato l’inefficienza del sistema di opere idrauliche e di bonifica realizzate nel corso dei secoli. Inoltre va anche considerato che nella routinaria quanto abusiva utilizzazione del territorio, la mancanza di controlli tecnici pubblici sulle inevitabili implicazioni tra opere antropiche e dinamica evolutiva del territorio ha aggravato ulteriormente i preesistenti equilibri del suolo. Tutto ciò, accompagnato da una evoluzione dei fenomeni di precipitazione intensa, determina una variazione nella risposta del territorio ai fenomeni meteoclimatici che si sintetizza attraverso un incremento del coefficiente di deflusso, con la conseguenza che, a parità di eventi meteo-climatici verificatisi nel passato, si hanno oggi maggiori e più intensi eventi di piena. Questo comporta una diminuzione del tempo di ritorno, e quindi, sempre più frequentemente dobbiamo assistere a fenomeni di alluvioni e di piene dei corsi d’acqua con vittime e perdita di beni. E’ quindi fondamentale che le già esigue risorse economiche disponibili per la difesa del suolo vengano destinate in primo luogo alla manutenzione delle opere idrauliche esistenti, alla corretta regimentazione delle acque di infiltrazione, alla sistematica pulizia dei corsi d’acqua per assicurare le
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condizioni naturali per il deflusso delle piene. Non è più immaginabile che per la mancanza delle forme più elementari della conservazione del suolo (regimentazione delle acque di infiltrazione, sistemazione dei terrazzi, conservazione della permeabilità del suolo ecc..), in occasione anche di eventi atmosferici di modesta entità, il sistema territorio entra inevitabilmente in crisi procurando quei danni e soprattutto quei lutti che oramai da anni siamo costretti a registrare. Il territorio ha caratteri di dinamicità che impongono un continuo aggiornamento dei quadri diagnostici e previsionali, anche rispetto al rischio idraulico. Diventa quindi essenziale ancorare il governo delle acque da un lato ad una adeguata “cultura del dato idrologico” e dall’altro a norme e prescrizioni di tipo pianificatorio, in grado di orientare gli interventi sul territorio in “modo virtuoso” e superare la logica dell’intervento di emergenza per affrontare le cause che possono determinare situazioni di rischio. In tale ottica bisogna far nascere nella pubblica amministrazione la cultura di un ente gestore del territorio che accorpi tutte le specificità dell’habitat territoriale-ambientale, eliminando, nel contempo, quella miriade di enti che, spesso sovrapponendosi nelle competenze territoriali, esprimono pareri, che non sempre possono ritenersi coerenti con uno oculata politica di salvaguardia territoriale. I territori a rischio dissesto idrogeologico sono diffusi in maniera ormai omogenea in tutto il territorio nazionale, con cause rinvenibili nella sua particolare conformazione geologica e geomorfologica ma pure, nella progressiva perdita di funzione all'interno delle economia locali, fattore che allontana il monitoraggio e la cura dei luoghi accellerando i processi naturali di degrado. Le azioni per una sua messa in sicurezza devono considerare: a) l'enorme importanza di azioni costanti di monitoraggio e mappatura del territorio; b) manutenzione e rigenerazione sia del territorio che del patrimonio edilizio pubblico e privato; c) le azioni di salvaguardia del territorio passano prima per la rifunzionalizzazione dei territori; d) le tipologie d'intervento a salvaguardia, devono derivare dalle programmazioni di ri-funzionalizzazione, non da mere ipotesi tecnico/tecnologiche.
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Riordino del servizio idrico integrato in Campania Sabino Aquino geologo
Il Decreto-Legge 12/09/2014 n.133, meglio noto come “Decreto Sbocca Italia”, legifera anche in materia di gestione delle risorse idriche, prevedendo, tra l’altro, l’istituto dell’ “Ente di Governo dell’ambito” che, entro il 31 dicembre 2014, dovrà surrogare gli attuali A.T.O. (Ambito Territoriale Ottimale). A tali nuovi organismi è affidata, di fatto, la pianificazione del ciclo integrato delle acque e l’attivazione delle procedure per l’affidamento del Servizio Idrico Integrato (SII), sempre su scala d’ambito. La Regione Campania, nel maggio del 1997, determinò sull’attuazione del SII, in osservanza della legge 36/94 (Legge Galli): in particolare, definì nel territorio regionale cinque Ambiti Ottimali, ed approvò gli indirizzi ed i criteri per la elaborazione (da parte degli Enti di Ambito), dei programmi degli interventi necessari al conseguimento degli obiettivi previsti dalla legge di riferimento nazionale (n.36/94). La citata norma riferiva anche su un complesso di possibili interventi generali, quali monitoraggio e ravvenamento delle falde idriche e revisione degli schemi acquedottistici, la cui attuazione era giustamente subordinata alla individuazione della domanda attuale e futura, nonchè ad una gestione sinergica ed equilibrata della risorsa disponibile. A tal riguardo gli Enti di Ambito e/o le Autorità di Bacino avrebbero dovuto procedere alla razionalizzazione nell’uso e nella ripartizione della risorsa idrica disponibile. A distanza di oltre 17 anni dalla L.R. 21 maggio 1997, n. 14, la Regione Campania, nel prendere atto del mancato conseguimento degli obiettivi prefissati, reinterviene nella materia con la Deliberazione n. 204 del 24/6/2013, ossia con un Disegno di Legge che prevede il “Riordino del Servizio Idrico Integrato” anche attraverso la riduzione degli Ambiti Territoriali Ottimali da cinque a tre. Questo recente provvedimento, già approvato dagli Uffici competenti, prima di essere sottoposto alla valutazione del Consiglio Regionale, molto probabilmente diventerà cogente nell’ambito della legge finanziaria della Regione Campania da approvarsi entro fine anno. La predetta nuova normativa regionale, se approvata, merita molte considerazioni e riflessioni. Innanzitutto, essa appare come
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l’ennesimo atto dell’evidente scarsa attenzione che si presta, in sede normativa, alle conoscenze idrologiche e idrogeologiche del territorio; purtroppo, questo deficit è generalizzato e riguarda non solo la Regione Campania ma l’intera nazione come dimostrano i recenti disastri verificatisi nelle regioni del Nord-Ovest della penisola. Si osserva, in particolare, un totale disinteresse per le più antiche ma anche più recenti risultanze scientifiche, un pressappochismo preoccupante che, in generale, non solo non contribuirà a migliorare l’attuale status dei corpi idrici ma condurrà ad ulteriori problemi nella gestione della risorsa Acqua. E’ ben noto, infatti, che l’incipit per una corretta e integrata gestione delle risorse idriche siano i caratteri idrogeologici del territorio. Essi, infatti, condizionano in modo marcato molti aspetti idrologici stante la stretta interrelazione esistente tra geologia, sottosuolo, acque superficiali e acque sotterranee, idrodinamica sotterranea e deflusso superficiale e la molteplicità di variabili e fattori che incidono nella genesi delle acque o di un moto sotterraneo. Un errore molto comune è nella identificazione dei limiti dei bacini idrogeologici con quelli dei bacini idrologici che possono coincidere ma spesso si diversificano per quella molteplicità di variabili innanzi citate e che impediscono, spesso, una corretta interpretazione anche dei soli deflussi superficiali. Il disegno di Legge della Regione Campania, oltre a non tener conto delle infrastrutture idriche e fognarie già presenti sul territorio campano, che è fondamentale soprattutto in un’ottica gestionale e di razionalizzazione dei costi e di efficientamento delle gestioni, non risponde ai connotati morfologici, fisici ed idrogeologici del territorio campano che è caratterizzato da acquiferi accolti nei più importanti massicci montuosi e nelle piane alluvionali in esso presenti. In sostanza: i bacini sotterranei (acquiferi) e superficiali (bacini imbriferi) ricadenti nel territorio campano presentano confini e limiti non coincidenti con quelli amministrativi fissati per i tre nuovi ATO. Praticamente, con la nuova delimitazione degli A.T.O. in diversi casi, ci troveremo che uno stesso acquifero di importanza strategica, sotto il profilo dell’approvvigionamento idropotabile, invece di essere pianificato e gestito da un unico “Ente di governo dell’Ambito” verrà governato da due diversi A.T.O. con inevitabili pesanti e negative ripercursioni soprattutto sotto il profilo della corretta ed ottimale gestione integrata delle risorse idriche, con il serio rischio di incorrere in un sovrasfruttamento o, all’opposto, di una sottoutilizzazione dell’acquifero. Per quanto riguarda la provincia di Avellino, la nuova perimetrazione degli Ambiti Territoriali Ottimali presenta diverse incongruenze sotto il profilo idrogeologico. In particolare:
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La estesa ed articolata propaggine montuosa denominata dei “Monti di Avella-
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Partenio-Pizzo d’Alvano”, invece di considerarla, giustamente, un unico complesso carbonatico che è sede di importanti acquiferi sotterranei è stata smembrata in due Ambiti Territoriali Ottimali. Ne consegue che, irrazionalmente, nell’A.T.O.1 vengono inclusi i territori comunali di: Cervinara, Mercogliano, Monteforte Irpino, Ospedaletto d’Alpinolo, Pietrastornina, S. Angelo a Scala, San Martino V.C., Summonte e Rotondi mentre nell’A.T.O.2 quelli di: Avella, Baiano, Domicella, Lauro, Marzano di Nola, Moschiano, Mugnano del Cardinale, Pago del Vallo di Lauro, Quindici, Sirignano, Sperone e Taurano. Il territorio comunale di Bagnoli Irpino include la piana del Laceno. Tale conca endoreica che è tributaria, attraverso le acque sotterrane, delle sorgenti del Sele, presenta un bacino imbrifero di circa 10 km 2 che si estende nel cuore della importante idrostruttura del Monte Cervialto. Orbene, questo comprensorio, invece, di includerlo nelle competenze dell’ATO 3 (com’è giusto, in quanto alimenta anche le sorgenti del Sele) viene fatto ricadere nell’ATO 1 accorpandolo ai territori comunali rientranti nell’autonomo e importante acquifero carbonatico denominato “Terminio-Tuoro”. Altro caso eclatante che testimonia chiaramente la incongrua delimitazione amministrativa dei nuovi ambiti territoriali, sotto l’aspetto idrogeologico è rappresentato dal bacino del Torrente Solofrana. Tale bacino imbrifero, che in provincia di Avellino si estende per circa 15 km 2, è stato suddiviso in due diversi ambiti in quanto il territorio comunale di Solofra è incluso nell’ATO 1 mentre l’ adiacente territorio comunale di Montoro Superiore e quello di Montoro Inferiore (oggi unificati) ricadono, invece, nell’ATO 2.
Le citate anomalie che appalesano gli studi idrogeologici del territorio con una evidenza indiscutibile, si aggravano ulteriormente se messi in relazione con le attuali localizzazioni infrastrutturali e le relative interconnessioni che, come già innanzi detto, non sono state minimamente considerate in sede di pianificazione e programmazione regionale. A tal proposito, si sottolinea che la legislazione vigente in materia di risorse idriche (D.L.vo 152/2006 ) prevede, tra l’altro, che il corretto utilizzo delle risorse stesse sia subordinato ad una stima, non solo dei fabbisogni attuali e futuri delle utenze, ma anche dei volumi idrici effettivamente disponibili. La conoscenza di queste informazioni, tuttora molto approssimative, e dei relativi bilanci (che sono consequenziali) è
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essenziale per evitare ulteriori e più gravi problemi tra cui il sovrasfruttamento o anche l’esaurimento della risorsa. In conclusione, ogni scelta del legislatore presuppone una solida, consolida e certa conoscenza scientifica e territoriale e deve essere conseguente a valutazioni congiunte di tutte le componenti che incidono sull’efficienza e sulla economicità delle future gestioni: occorre, quindi, dare il giusto rilievo agli studi e alla scienza per ottimizzare la gestione integrata delle risorse idriche, soprattutto se essi presentano quel grado di interdisciplinarietà e di connessione tale da inserire il tutto in un unico quadro di riferimento gradualmente aggiornabile. E, quindi, auspicabile che le Autorità regionali competenti facciano le dovute riflessioni sulle norme che si apprestano a varare in materie di Servizio Idrico Integrato.
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Lo sviluppo sostenibile delle idee Antonio De Feo (ricercatore niversitario)
Il territorio quale spazio geografico e umano, è il luogo dello sviluppo economico, sociale e produttivo. Da quando l’uomo ha cominciato a stanziarsi, a coltivare la terra e ad allevare gli animali, costruendo gli abitati, è cominciata una interessante e sinergica “lotta” tra l’uomo e la natura. Ciò ha consentito, nei millenni, di adoperare “politiche” di adattamento che consentissero all’uomo di ricevere benessere e crescita, e all’ambiente di adattarsi alle esigenze antropiche senza perdere la sua forza e il suo valore. Questo rapporto è sempre stato rispettoso e dialogico, attento alle esigenze dell’uno e dell’altro. Con il processo di industrializzazione e soprattutto con l’industrializzazione forzata, tale rapporto è stato ampiamente compromesso, in quanto l’uomo ha smarrito il suo legame con la natura e lo ha cominciato a comprendere in maniera strettamente e puramente funzionale: non più uno scambio ma un’autarchia antropica. Oggi il concetto di sostenibilità e le esigenze che ne derivano, cerca di coniugare i bisogni del ripristino di questo legame da recuperare e lo sviluppo del benessere umano inteso come un insieme di condizioni capaci di rendere l’uomo felice. Tale obiettivo sembra partire da un assunto imprescindibile: il vero sviluppo armonico dell’uomo è possibile prima di tutto se coniugato in chiave locale, cioè a partire da un processo di crescita non di un settore economico o di un aggregato locale, ma come un processo di sviluppo territoriale, basato sulla valorizzazione sostenibile delle risorse materiali e immateriali presenti in un certo territorio, che coinvolge anche la sfera sociale e culturale e le capacità di autorganizzazione dei soggetti7. È interessante notare come in un contesto di globalizzazione diffusa, si punti ad uno sviluppo di tipo locale, o meglio si riconosca nella territorialità, il valore aggiunto per la realizzazione della globalizzazione: dal locale al globale invece che dal globale al locale. Emerge quindi una ridefinizione di concetti come tempo, spazio e distanza,
7Cfr. G. DEMATTEIS-F. GOVERNA (a cura di), Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità: il modello SLot, FrancoAngeli Editore, Milano 2014, pag. 16
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tanto cari alla nostra società liquida. Naturalmente è necessario dare una definizione nuova anche a concetti come luoghi e territori, città e comunità, ambiente e spazio. Sinteticamente possiamo dire che il nuovo vocabolario da costruire deve partire dall’assunto che i luoghi, i territori, le città, le comunità, l’ambiente o lo spazio sono valori aggiunti da considerare non a partire da una concezione classica, cioè considerati quale insieme di beni oggettivi che hanno un rapporto di casualità con ciò che sta prima, collocando tutto sulla stessa scala di valori e quindi uguali a tutti gli altri fattori produttivi, bensì a partire da una concezione moderna di capitale, dove essi hanno un intrinseco rapporto di finalità col futuro, la preminenza come fattore dello sviluppo e la non identificazione con l’attrezzatura produttiva8. Tale visione conduce a considerare la regione, il territorio circoscritto geograficamente e culturalmente, come il livello strategico dello sviluppo globale. Se da un lato notiamo la difficoltà a parlare oggi di comunità, dall’altra parte scorgiamo in essa tracce di valori tuttora attuali, come la fiducia, la reciprocità e l’identità locale, che sono motori importantissimi nel processo di uno sviluppo sostenibile9. Queste caratteristiche hanno la forza di apparire come una sfida, un’opportunità, una costruzione. Il luogo non è più assunto come una realtà data, rigidamente individuabile e delimitabile sulle carte, ma come un divenire possibile, un costrutto sociale che deriva dalla interazione fra i soggetti e le componenti, materiali e immateriali, del territorio. I caratteri locali vanno così individuati e conosciuti dall’interno, in modo da descrivere la tensione fondamentale tra aspetti soggettivi e aspetti oggettivi, tra il “senso del luogo”, soggettivo e simbolico, e la “concezione del luogo”, oggettiva e naturalistica10. Un ulteriore riflessione vede il territorio generato a partire dallo spazio, che è il risultato di un’azione condotta da un attore sintagmatico (attore che realizza un programma) a qualsiasi livello. Appropriandosi concretamente o astrattamente di uno spazio, l’attore “territorializza” lo spazio11.
8F. MARTINI, La ricerca della sostenibilità. Modell di interazione economiaambiente, ed Celid, Torino 2012, pag. 13i 9Cfr, A. BAGNASCO, Tracce di comunità, Il Mulino, Bologna 1999 10J.N. ENTRIKIN, The betweenness of place. Towards a Geography of Modernity, Macmillan, London 1991 11C. RAFFESTIN, Per una geografia del potere, Unicopli, Milano 1981, pag 149
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Così il territorio è considerato quale “produttore di memoria”12 e, contemporaneamente, “creatore di un codice genetico locale”13. Si fa strada con forza l’idea che il patrimonio territoriale non è semplicemente un “essere” ma un “divenire”, superando una visione nostalgica che lascia il posto a traiettorie trasformative che fanno leva su elementi di continuità e di stabilità che attraverso un processo di “accumulazione selettiva” identifica e racconta non tanto ciò che del passato permane, quanto piuttosto ciò che è riattualizzato nel presente14. Sinteticamente il territorio diventa “progetto”. In questo percorso, dinanzi agli interrogativi sui sentieri percorribili per la sostenibilità territoriale, devono intervenire a supporto tutte quelle strategie e quelle politiche che, in maniera armonica, puntino ad uno sviluppo equilibrato di tutte le componenti di un territorio, e ciò, senza che, nel perseguimento degli obiettivi di natura economica, siano sacrificate le componenti di natura sociale, ambientale, culturale o generazionale. In sintesi, lo sviluppo economico-produttivo potrà contribuire alla sostenibilità territoriale se e solo se sarà sostenuto da strategie imprenditoriali e politiche capaci di assicurare un equilibrio armonico tra le diverse dimensioni dello sviluppo15. Un modello di sviluppo per essere sostenibile deve essere ETICO, EQUILIBRATO, EQUO e DINAMICO. Tra le strategie possibili per il perseguimento della sostenibilità dello sviluppo territoriale, la tutela delle identità riveste un ruolo centrale perché accresce il senso di appartenenza degli individui al modello di sviluppo economico, sociale, ambientale e generazionale di cui sono parte integrante16. La territorialità e la sua multidisciplinare definizione, trova il suo modello perfetto nei territori a vocazione rurale, che svelano la forze di quanto detto e costituiscono una possibilità, l’opportunità di un progetto complesso e complessivo che ha come forza la sostenibilità.
12J.L. PIVETEAU, Le territoire est-il un lieu de mèmorire? L’esperace gèographique, 2,1995, pagg 113-123 13A. MAGNAGHI, Il progetto locale, Bollati Borighieri, Torino 2000 14P. RABINOW, French Modern. Norms and Forms of the Social Environment, The MIT Press, Cambridge 1989 15Z. ANDREOPOULOU-G.P. CESARETTI-R. MISSO (a cura di), Sostenibilità dello sviluppo e dimensione territoriale. Il ruolo dei sistemi regionali a vocazione rurale, FrancoAngeli editore, Milano 2012, pag. 49 16Ibidem, pagg. 50-51
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Concretamente l’Europa ha fissato alcuni obiettivi generali per il sostegno allo sviluppo sostenibile delle aree rurali per il periodo 2014-2020, dettando alcune priorità: (a) Promuovere il trasferimento di conoscenze e l’innovazione nel settore agricolo e forestale e nelle zone rurali (b) Potenziare la competitività dell’agricoltura in tutte le sue forme e la redditività delle aziende agricole (c) Preservare, ripristinare e valorizzare gli ecosistemi dipendenti dall’agricoltura e dalle foreste (d) Incoraggiare l’uso efficiente delle risorse e il paesaggio a un’economia a basse emissioni di carbonio e resiliente al clima nel settore agroalimentare e forestale (e) Promuovere l’inclusione sociale, la riduzione della povertà e lo sviluppo economico nelle zone rurali17. Sinteticamente, valutando questo quadro a partire dalla nostra realtà, possiamo dire subito e con forza che non possiamo accettare le trivellazioni, in quanto non solo deturperebbero il nostro territorio, ma lo distruggerebbero, ne segnerebbero la fine. Dobbiamo dire di no all’uso indiscriminato del territorio e alla cementificazione selvaggia che sta rendendo la verde Irpinia sempre più grigia. Siamo costretti a dire di no allo scippo delle acque da parte di chi preleva una risorsa che deve essere disponibile per tutti, ma il cui utilizzo deve essere regolato con rigide regole. Vogliamo dire di no a chi vede le zone interne come pattumiere da riempire o come aree secondarie, senza valore aggiunto. Certamente dobbiamo dire anche dei “si”. Dobbiamo dire che siamo d’accordo al potenziamento del settore primario e alla tutela dei prodotti agricoli che fanno la nostra provincia leader in Campania e in Italia di nocciole, castagne e uva da vino di altissima qualità. Dobbiamo dire di si a vere politiche di sostegno al turismo etico, all’albergo diffuso, alla scoperta di borghi e tradizioni, alla cultura enogastronomica e alla valorizzazione di tradizioni ancestrali. Vogliamo dire di si allo sviluppo di una mobilità diffusa sostenibile che punti sul rilancio, il ripristino e il potenziamento di percorsi già tracciati. Dobbiamo dire di si a politiche di tutela dei boschi, delle valli, dei beni pubblici a servizio dello sviluppo locale, delle identità culturali territoriali. Vogliamo dire di si al ruolo che una terra di mezzo può dare ad una regione complessa eppure estremamente ricca di possibilità, nell’evoluzione verso uno sviluppo possibile.
17Ibidem, pagg. 73-74
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Dobbiamo e vogliamo dire di si alla tutela e allo sviluppo equilibrato e dinamico del territorio quale monumento più importante che abbiamo ricevuto e che abbiamo il compito di trasferire alle generazioni future.
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I “Contratti di Fiume” Rocco La Fratta geologo
Il World Water Forum definisce, già nel 2000, i Contratti di fiume come forme di accordo che permettono di "adottare un sistema di regole in cui i criteri di utilità pubblica, rendimento economico, valore sociale, sostenibilità ambientale intervengono in modo paritario nella ricerca di soluzioni efficaci per la riqualificazione di un bacino fluviale". Era già allora acquisita la consapevolezza che il traguardo di un simile obiettivo richiede uno sforzo di natura non solo istituzionale, ma anzitutto culturale, affinché le acque, non solo i fiumi ma anche gli ambienti acquatici e, più in generale, i territori dei bacini possano essere percepiti e governati come “paesaggi di vita”. Questo approccio culturale trova riscontro sia nelle politiche del Parlamento Europeo sulle risorse idriche, che, in campo internazionale, dalle Nazioni Unite. Queste ultime eleggono infatti il bacino idrografico quale unità di riferimento per le politiche di sostegno alla biodiversità. I Contratti di fiume, o Lago, Falda, Costa, Paesaggio, ecc., possono essere identificati come processi volontari di partecipazione alla programmazione negoziata, volti al contenimento del degrado eco-paesaggistico e alla riqualificazione dei territori dei bacini/sottobacini. Tali processi si declinano in maniera differenziata nei diversi contesti amministrativi e geografici in coerenza con i differenti impianti normativi, in armonia con le peculiarità dei territori, in correlazione alle esigenze, in risposta ai bisogni e alle aspettative della cittadinanza. In un sistema di governance multilivello, dunque, i Contratti si configurano come processi continui di negoziazione tra le Pubbliche Amministrazioni e i soggetti privati coinvolti a diversi livelli territoriali e si sostanziano in accordi multisettoriali e multiscalari caratterizzati dalla volontarietà e dalla flessibilità tipiche di tali processi decisionali. Un processo di governance delle trasformazioni dei territori dei bacini idrografici che faccia riferimento ad un approccio eco-sistemico deve fare leva sulla responsabilità
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della società insediata, che riconosce nel bacino la matrice della propria identità culturale. Da tale riconoscimento scaturiscono comportamenti e volontà di azioni condivise di riqualificazione e valorizzazione a partire dalle risorse idriche. Le direttive europee 2000/60, Direttiva Acque, e 2007/60, Direttiva Alluvioni, impongono agli Stati membri degli obiettivi ben precisi di qualità delle acque (raggiungimento delle stato di BUONO per i nostri fiumi entro dicembre 2015) e di difesa dal rischio idrogeologico e dalle alluvioni. Nel contesto nazionale i Contratti di Fiume, anche sottoforma di Contratti di Lago, Falda, Costa, Paesaggio, ecc. costituiscono una vera innovazione, una rivoluzione pacifica, democratica e dal basso, per reagire al continuo diffondersi del dissesto idrogeologico e della precarietà di un territorio reso sempre più drammaticamente vulnerabile dall’eccessiva antropizzazione e dalla carenza di manutenzione. I contratti di fiume intendono, innanzi tutto, contribuire a superare la logica dell’emergenza mettendo in campo una politica integrata e pattizia che coinvolga tutti i soggetti interessati, verso una prevenzione attiva ed in grado di produrre indubitabili conseguenze positive anche sul piano economico. Grandi passi in avanti si sono fatti anche sul piano istituzionale e del riconoscimento di questo strumento sia a livello nazionale che regionale. L’emendamento approvato a settembre dalla Commissione Ambiente della Camera, per l’inserimento dei CdF nel collegato ambientale (d.lgs. n. 152/2006 T.U. ambiente) alla legge di stabilità ne è la prova a livello nazionale. Le Regioni che hanno aderito alla Carta Nazionale dei Contratti di Fiume sono ben otto e altre 5 stanno decidendo di aderire alla Carta nazionale. La Regione Campania lo ha fatto con Delibera della Giunta Regionale n. 452 del 22.10.2013 in cui sono ben evidenziati i seguenti punti: • riconoscimento e promozione dei Contratti di Fiume e di Lago quali forma di programmazione negoziata e partecipata ai fini della riqualificazione ambientale dei bacini idrografici; • condividere e diffondere i principi ed i contenuti della "Carta Nazionale dei Contratti di Fiume”; • di porre in essere un'attività di sensibilizzazione e promozione, coinvolgendo Enti territoriali, associazioni di categoria e tutti gli altri soggetti presenti sul
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territorio al fine di implementare l'utilizzo dello strumento dei Contratti di Fiume e di Lago.
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Avellino e la Valle del Sabato liberare i corsi d’ acqua e sistemare le aste fluviali come strategia di riequilibrio del territorio Paolo Mascilli Migliorini ECODEM
La recente riapertura da parte della magistratura e della stampa Avellinesi della questione del Rio Cupo (noto anche come Torrente San Francesco) e della sua ontologica esistenza nonostante non sia possibile vederlo, essendo stato tombato, cioè rinchiuso in una gabbia di cemento su cui sono state realizzate strade, ormai da molti decenni, merita di essere riportata dalla dimensione giuridico-fideista a quella di politica urbanistica. Questo deve essere necessariamente fatto dal partito che esprime il Sindaco per almeno due motivi: 1. Perché nel DNA del Partito Democratico vi è l’ Ambientalismo, non per l’ assorbimento di questa o quella corrente o di questo o quell’esponente di partiti scomparsi, come i Verdi in ogni loro declinazione, ma esattamente per il carattere programmatico che le strategie di sostenibilità ambientale delle scelte da compiere a qualsiasi livello, anche a livello di politiche sociali ed economiche, hanno avuto nella costruzione della Missione stessa del Partito, sin dai dimenticati albori dell’Asinello e della Margherita. Quanto questo sia vero va verificato ogni momento e su ogni tema, perché non sia una foglia di fico o lo sfogo di pochi e residuali membri di commissioni ambiente del partito. O solo una falsa coscienza.
2.
Perché quello di dare equilibrio al territorio è tra i principali compiti di un Sindaco, e a lui spetta tradurre in normativa urbanistica e in progetti, o addirittura in politiche urbanistiche, i propri convincimenti, la Missione che giustifica la sua scelta di campo.
Nella fattispecie, è inutile tentare di tradurre i gravi problemi idrogeologici e ambientali di Avellino nei termini della dialettica tra le correnti, sono questioni che ci riguardano
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tutti e riguardano il futuro di tutti. Proviamo a riprendere il tema: 1. Avellino medievale e poi moderna nasce alla e per la confluenza di due torrenti il Rio Cupo ( detto anche San Francesco ) e il Fenestrelle. Questi lambiscono la collina della Terra, abitata sin dall’ età Romana, e alla loro confluenza già in età altomedievale sorgono strutture difensive, da cui avrà origine il Castello. Nella trasformazione rinascimentale dell’ area il Rio Cupo viene con ogni probabilità utilizzato per i giochi d’ acqua del Parco, come farebbe pensare il Ninfeo sottostante la Casina del Principe. Dalla fine del XIX secolo inizia il processo di scomparsa del Rio Cupo, che si materializza a partire dalla formazione della via Circonvallazione. Il Fiume tuttavia è ancora lì e basta affacciarsi dal ponticello adiacente alla casina del Principe per vederlo scorrere. Questo sotto il profilo storico. 2. Il Rio Cupo e maggiormente il Torrente Fenestrelle sono alimentati da un ricco sistema di sorgenti che provengono dal massiccio del Partenio, il primo, e dai rilievi del Faliesi e del Vallo di Lauro, l’ altro, e nonostante il diverso carattere del loro invaso definiscono incisioni e valli significativi per l’ equilibrio idrogeologico dell’area. Ma soprattutto hanno il compito di raccogliere e ordinare naturalmente uno dei sistemi sorgivi di media altezza da cui ha origine il fiume Sabato, che il Fenestrelle raggiunge ad Atripalda, e da questo il fiume calore. Siamo, con il sistema Fenestrelle/Rio Cupo alle origini di uno dei principali sistemi idrogeologi della Campania la cui integrità e le cui relazione strutturali ( cioè naturali) con il contesto immediato ( e cioè anche l’ assorbimento da parte dei terreni che attraversa o la velocità del deflusso delle acque) vanno salvaguardate indipendentemente dagli aspetti paesaggistici. Questo sotto il profilo ambientale. 3. Il Rio Cupo e Fenestrelle, con l’intero bacino imbrifero di cui fanno parte ( e quindi anche con tutti i torrenti e le sorgenti che in essi confluiscono e i valloni che li fanno confluire) sono protetti ai sensi della lettera c dell’ art.1 della legge 47/1985 ( legge Galasso), e poi sono così confluiti nella terza parte– beni paesaggistici- del Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici, il Decreto Legislativo 42/2004. Nelle classificazioni della legge Galasso, e quindi anche del codice Urbani, non vi è la discrezionalità valutativa che invece esiste per le classificazioni che provengono dalla legge 1497 del 1939, che tutelava le
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eccezionalità morfologiche o paesaggistiche. La legge Galasso ritiene di interesse nazionale la tutela di condizioni morfologiche quali montagne, corsi d’ acqua, sponde marine boschi ecc, alcune delle quali giuridicamente individuate (le aree gravate dagli Usi Civici ), e si da solamente dei limiti di applicabilità per le aree già pienamente configurate ( aree A e B di Piano regolatore, aree soggette a pian i ASI o PIP già approvati al momento della emanazione della legge). La competenza in materia è delle Regioni, che in Campania hanno subdelegato i Comuni, perchè il paesaggio è materia di pianificazione urbanistica. Lo Stato ha solo potere di controllo attraverso l’ esercizio de Parere. Questo sotto il profilo paesaggistico. Dunque la competenza delle scelte relative al risanamento dei corsi d’ acqua che attraversano Avellino è senza alcuna possibilità di dubbio del Sindaco di Avellino, che vi provvede innanzitutto attraverso atti di programmazione urbanistica. Nel nostro caso solo il Torrente Fenestrelle è stato oggetto di previsioni urbanistiche. Dopo una lunga battaglia che ha visto insieme Soprintendenza e forze politiche ( e contrarie quelle che allora governavano la città e da cui provengono culturalmente molti degli attuali esponenti del PD locale), è stato definitivamente sancito l’ uso a parco della valle in cui scorre e pochi anni fa dal PRG Gregotti ne è stata prevista la sistemazione. Nulla però è accaduto, se non la bretella di Piazzetta Perugini, anche a causa di una sostanziale inattuabilità del disegno del parco, troppo complesso dal punto di vista normativo, troppo costoso e poco rispettoso del paesaggio originario. Vale la pena di riprendere il tema riproponendo una vecchia ma mai tramontata considerazione di Legambiente “ Il Parco c’è già ”, basta renderlo fruibile e quindi risanarlo igienicamente, prima che il degrado e l’ inquinamento, che, ricordiamocelo, è inquinamento delle sorgenti del fiume Calore, siano irreversibili. Questo implica sia la capacità di mantenere i valloni e le coste collinari sia anche quella di recuperare e riusare ai fini cittadini di tutti i percorsi e i manufatti esistenti, dai ruderi delle chiesette ai Mulini al Mercatone, senza falsi moralismi e soprattutto senza ulteriori interventiambientalismo reversibile- come dice il coordinatore dell’area Ambiente e Comunità del PD Irpino. E’ un tema squisitamente di assetto di un’area preziosa e di fruizione di servizi per il cittadino, il verde è un servizio pubblico. Dove vi sono tratti del fiume già sistemati, come al campetto S.Trinità, essi sono felicemente e intensamente usati dagli avellinesi.
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E’ anche un tema di occupazione qualificata. Questo sarebbe un buon punto da mettere a carnet per la prossima amministrazione. Il Torrente Rio Cupo/San Francesco invece versa in uno stato di estremo rischio perché prima del recupero formale e igienico dell’asta fluviale, prima ancora del suo riuso e della sua manutenzione, vi è il tema della sua liberazione dalla gabbia di cemento che nel secolo scorso lo ha nascosto e negato. Il tema qui prima che di disegno dell’ambiente è di sostanza. Dovunque in Italia e altrove, dopo la diffusa cementazione dei fiumi,e dopo il loro Tombamento, sono in corso politiche di rinaturalizzazione, che nel caso delle cementazioni degli alvei sono ormai facili e routinere per l’ ampio numero di esempi degli ultimi anni. Non così per lo stombamento dei corsi d’ acqua, che i nuovi assetti metereologici rendono sempre più impellenti e improrogabili. Qui la questione è la ricostituzione delle aree di sfogo del letto per esondazioni senza danni nel caso di apporti eccessivi di acqua meteoriche ( le “bombe d’ acqua” con pessimo termine). Spesso sugli alvei chiusi vi sono delle strade, come per via Tagliamento o via Circumvallazione nel caso avellinese, sempre i fabbricati stringono ulteriormente il letto del fiume. Eppure non è possibile evitare di “stombare” i corsi d’ acqua, i cambiamenti climatici e la diminuzione dell’ assorbimento dei suoli fanno si che ogni autunno da qualche parte in Italia, e ad Avellino ricordiamoci i fiumi esondano ciclicamente, si arrivi alla tragedia. E’ politica oramai generalizzate quella di liberare o comunque far defluire all’ aperto i corsi d’ acqua ingabbiati nel cemento. Per Avellino occorre quindi che il tema sia posto innanzitutto in forma amministrativa e di progettazione infrastrutturale, quindi in chiave paesaggistica. Chiediamo una delibera di giunta che abbia questo indirizzo e richieda agli uffici comunali di elaborare un piano strategico per il riequilibrio idrogeologico dell’area. Il piano dovrà anche comprendere la gestione di un parco “a natura” (comunque a impatto zero ) nel Fenestrelle, la classificazione e la manutenzione dei valloni, lo “tombamento” del S.Francesco e la sistemazione “ a verde” delle aree che traversa, la de cementificazione del letto del “Fenestrelle”. Di fatto è una variane urbanistica di tutela della salute dei cittadini ma anche della città. Siamo anche sicuri del grande ritorno economico di questa operazione e della possibilità di aprire imprese di green economy che essa susciterà Chiediamo che nel partito si apra un dibattito su questo tema, che ha peraltro valenza intercomunale, e che il dibattito sia pubblico e in grado di mostrare la sua valenza sociale e politica, coinvolgendo anche settori di imprenditoria di qualità.
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Estensione “Direttiva Seveso III” “No Trivellazioni Petrolifere in Irpinia” Comitato ambientalista
Proposta per mozione/risoluzione per la estensione della “Direttiva Seveso III” ai pozzi petroliferi esplorativi/estrattivi – –
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a) b) c) d)
vista la convenzione Onu sulla diversità biologica, viste la rete Natura 2000 istituita dalla direttiva 92/43/Cee del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (la direttiva habitat) DIRETTIVA 2012/18/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 4 luglio 2012 sul controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con sostanze pericolose, recante modifica e successiva abrogazione della direttiva 96/82/CE del Consiglio vista la Sentenza Corte di Giustizia Ue 15 settembre 2011, causa C-53/10 Controllo dei rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose - Prevenzione - Opportune distanze tra le zone frequentate dal pubblico e gli stabilimenti in cui sono presenti notevoli quantità di sostanze pericolose considerando che, la normativa italiana risulta carente di precise prescrizioni riguardanti la collocazione dei siti di esplorazione/coltivazione di idrocarburi, considerando che non esiste precisa disciplina riguardante l’indicazione di distanze minime tra i siti suddetti e i centri abitati, C. considerando la crescente attenzione nell’opinione pubblica riguardante la necessità di tutela dell’ambiente e di garanzia per la salute umana, D. considerando che i siti destinati all’esplorazione/coltivazione di idrocarburi comportano utilizzo di materiale tossico inquinante,
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riconosce l'urgente esigenza di adottare un sistema comune di prevenzione finalizzato ad evitare ogni forma di esposizione della popolazione civile ad agenti inquinanti; esorta il Governo, a seguito del suo riesame del quadro normativo, a presentare al più presto al Parlamento le proposte legislative che ritenga necessarie per affrontare le carenze individuate – ad esempio nella direttiva sulla responsabilità ambientale, estensione della direttiva Seveso III e le altre normative europee – nel regime normativo applicabile all'estrazione e alla prospezione di petrolio e ad altre forme di sfruttamento del territorio; ritiene che l'attuale normativa in materia di responsabilità ambientale contenga varie importanti carenze e chiede quindi al Governo di esaminare l'opportunità di rivedere il contenuto e di estendere la portata dell'attuale normativa Ue (comprese la direttiva sulla responsabilità ambientale, la direttiva Seveso III) e/o di introdurre eventualmente una nuova normativa che sia necessaria per tener conto di tutti i rischi connessi allo sfruttamento degli idrocarburi su terraferma e di rafforzare le regole che disciplinano la responsabilità in caso di incidenti petroliferi; ritiene inoltre che qualsiasi proposta legislativa debba garantire un ampio quadro giuridico il quale: – impedisca per quanto possibile alle attività su terraferma potenzialmente pericolose di causare danni agli ambienti circostanti; – garantisca che l'intera responsabilità incomba a chi inquina in relazione a qualsiasi danno provocato da tali attività, inclusi i danni all'ambiente terrestre e al clima globale; invita il Governo a proporre una normativa per garantire l'applicazione di norme di sicurezza uniformemente elevate a tutti i siti petroliferi e alle operazioni estrattive sul territorio nazionale; invita il Governo a introdurre un quadro rigoroso e vincolante per la notifica da parte delle società in materia di pratiche ambientali, sociali e di governance e a esaminare le misure per rafforzare l'impegno degli investitori istituzionali con le società per quanto riguarda i rischi di investimento connessi a carenti pratiche ambientali.
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ESTENSIONE AREE INTERESSATE DA SIC/ZPS, INTRODUZIONE AREE SIR (Siti di Importanza regionale – Zone agricole di pregio) INTRODUZIONE AREE sir (siti di interesse regionale – aree prossimi ai borghi storici) •
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Vista la direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche; Vista la direttiva 2009/147/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 novembre 2009, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (in abrogazione della direttiva 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979); Vista la decisione di esecuzione 2013/741/UE della Commissione, del 7 novembre 2013, che adotta un settimo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica continentale; Vista la decisione di esecuzione 2013/739/UE della Commissione, del 7 novembre 2013, che adotta un settimo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea; Visto il decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 31 gennaio 2013 (Sesto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica continentale in Italia, ai sensi della direttiva 92/43/CEE); Visto il decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 31 gennaio 2013 (Sesto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea in Italia, ai sensi della direttiva 92/43/CEE); Visto il decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 19 giugno 2009 (Elenco delle zone di protezione speciale “ZPS” classificate ai sensi della direttiva 79/409/CEE); Visto il regolamento emanato con decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatica); Visto il decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio 3 settembre 2002 (Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000); di provvedere a:
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modificare i perimetri del SIC (codice Natura 2000 ……) e del SIC (codice Natura 2000 ……), includendo ESTENSIONE zone d’interesse ;
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istituzione SIR per aree d’interessate da coltivazioni specifiche di genere rientranti nei territori contrassegnati dai marchi di qualità:
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La diaspora diventi risorsa Toni Ricciardi (ricercatore universitario)
Nell’Italia a più velocità, nel Mezzogiorno differenziato, persiste un elemento che unisce identitariamente tutti: l’emigrazione. Si può discutere e schierarsi pro o contro il revisionismo di Pino Aprile, scegliere di essere neoborbonici o filo sabaudi, padani o leghisti a vario titolo, ma indubbiamente, dalla Valle d’Aosta a Lampedusa, siamo stati e siamo il popolo migrante per eccellenza. Poi si può declinare il concetto in maniera diversa, eliminandone, in base al punto di vista il suffisso “emi” o “imi”, declinarlo in forme diverse – parlando di mobilità, fuga o diaspora –ma in fondo il concetto rimane lo stesso. In questo quadro, la provincia di Avellino si riconferma inesorabilmente protagonista, insieme ad altre province dell’entroterra meridionale, con i sui oltre 103.000 iscritti all’Aire. In aggiunta, in alcune aree dell’Irpinia, il processo di desertificazione demografica e sociale rischia di diventare irreversibile. D’altronde già nel 2008 il Rapporto elaborato da Confcommercio-Legambiente sul disagio insediativo prevedeva che, a partire dal 2016, molte aree interne, soprattutto quelle del Mezzogiorno del paese, corressero il rischio di diventare “paesi polvere”. Purtroppo le previsioni di questa analisi, che si basa sul ventennio 1996-2016, vengono riconfermate annualmente anche dal Rapporto”Italiani nel mondo” della Fondazione CaritasMigrantes. L’Alta Irpinia e con essa quella che ormai è stata ribattezzata l’Irpinia d’Oriente, continua progressivamente a svuotarsi. I dati purtroppo ci confermano in tutta la loro tragicità come in queste aree il processo di desertificazione, legato al disagio insediativo, sociale e occupazionale, sia quasi irreversibile. Mentre altre aree della provincia – la fascia dei Comuni intorno alla città capoluogo ed il baianese – crescono a ritmi da boom economico, anche se le ragioni non sono queste, nel resto della provincia di Avellino, dal 2007 ad oggi, perdiamo un piccolo Comune di 2000 abitanti l’anno.
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Il dato complessivo della sola presenza all’estero, oltre ad allarmare – anche se questa è una costante in crescita a partire dalla metà degli anni Novanta che si aggrava progressivamente durante l’arco dell’ultimo decennio – ci fornisce anche un’ulteriore chiave di lettura. Azzardando delle stime, scientificamente accettabili, possiamo affermare che la presenza reale degli irpini nel mondo si aggiri introno al mezzo milione. La cifra si raggiunge sommando agli oltre 100mila attuali, perlopiù sparsi in Europa, tutti gli oriundi (seconda, terza e quarta generazione), in questo caso, prevalentemente presenti nelle Americhe e in Oceania, dove vige il principio dello ius soli. Ci riferiamo a persone che nella maggior parte dei casi non parlano nemmeno più l’italiano, ricordano a stento qualche espressione dialettale (ormai in disuso nei minuscoli borghi irpini) e che sono state una o più volte in vacanza in Italia, nelle città d’arte o nelle mete turistiche più famose, ma che non conoscono il paesino dal quale partirono tanti decenni fa i propri avi. Questo dato viene confermato nel 2011 dalla Banca d’Italia, la quale ha ritiene che oltre 70milioni di persone dall’estero (e tra di essi per più della metà sono italiani o oriundi) si sono recati in Italia di passaggio o per trattenersi uno o più giorni. Inoltre, quando si parla di made in Italy o di italian style occorre ricordare come questo si sia affermato durante 150 anni soprattutto attraverso la rete dei consumi degli italiani all’estero. Il dato ci viene confermato, ad esempio, dalle recenti ricerche di Vittorio Daniele e Nicola Ostuni, dove si dimostra come l’export di prodotti alimentari sia cresciuto esponenzialmente all’aumento della presenza degli italiani all’estero. Sul versante invece dei viaggi di ritorno, tema centrale di questa riflessione, già negli anni Novanta l’antropologa italo-australiana, Loretta Baldassar ci dimostra come il “turismo familiare” o delle “radici” attragga sempre crescenti numeri di italiani ed oriundi nel suo Veneto, con ricadute in termini economici non trascurabili. Infatti, non è un caso che le regioni che maggiormente investono in questo segmento di promozione territoriale legato alla riscoperta delle proprie radici familiari, usanze alimentari, tradizioni sociali, siano Veneto, Piemonte, Lombardia e Liguria, tutte regioni di antica emigrazione. Queste, insieme alla Toscana e all’Umbria, sono le stesse dove è da decenni forte la presenza di Musei e centri che si occupano del fenomeno migratorio. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, tolto l’esperimento della “Nave della Sila”, progetto di un museo rievocativo nella Sila curato da Gian Antonio Stella e da Mirella Barracco e la rete dei piccoli musei siciliani, nulla è stato fatto, nonostante l’ambizioso progetto del Museo
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dell’emigrazione che doveva sorgere all’Immacolatella Vecchia, nel cuore del porto di Napoli. Si comprende facilmente come sia giunto il momento di intervenire e di ribaltare il paradigma di una piaga, quale quella migratoria, in risorsa propulsiva per questo territorio. Le strutture vuote, sia nella città di Avellino che nell’intera provincia non mancano. Come non mancano centri di ricerca e musei a vario titolo, che potrebbero essere facilmente integrati ed arricchiti e visti in una chiave diversa. Il target al quale noi dovremmo rivolgere la nostra attenzione sono le seconde, terze e quarte generazioni, che hanno, sì, sentito parlare della terra d’origine dei propri avi, ma che di fatto ogniqualvolta vengono a fare un viaggio in Italia, non vanno oltre Roma, Firenze e Napoli o Capri. Offriamo loro la possibilità di conoscere i luoghi dai quali sono partiti i propri nonni o bisnonni, ed invogliamoli a riscoprine le tradizioni, la gastronomia, la cultura. Insomma, realizziamo non solo un semplice museo, bensì la casa della riscoperta del passato dei tanti che hanno proiettato le nostre radici al di là dell’Oceano e in mezza Europa. Come si evince, con una semplice idea, si riuscirebbero a rilanciare diversi aspetti sui quali la politica dibatte tanto, ma che non sempre riesce ad inquadrare nella veste giusta. Cos’è questo se non sviluppo territoriale, promozione dei prodotti tipici e delle specificità culturali, connesse alle storie dei tanti e tanti che a stento hanno sentito la parola Avellino, pur essendone a pieno titolo cittadini. Di seguito, si ripropone un quadro di sintesi del flusso migratorio che ha interessato la provincia di Avellino, dall’unità ai giorni nostri. Emigrazione. Peculiarità territoriale La provincia di Avellino, in particolar modo l’Alta Irpinia, non si caratterizza solo per essere un’area ad alto tasso sismico (il più famoso è quello del 1980) bensì, anche come territorio soggetto, nelle diverse fasi della storia dell’emigrazione italiana, ad alti tassi di espatrio. Il periodo in cui per la prima volta si registrano dati di una certa rilevanza numerica rispetto agli espatri, è ascrivibile a dopo il 1880, con scarse 1.000 partenze, le quali cresceranno in media sulle 3-4mila unità all’anno fino a ridosso del 1900. In questo primo ventennio i flussi saranno diretti, prevalentemente, verso il centro America (Messico) e l’America Latina, in particolar modo Brasile e poi Argentina. A partire dal nuovo secolo, e nell’arco di un quindicennio (1900-1915) si avrà una netta prevalenza
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degli espatri verso gli Stati Uniti, con una media annua che oscillerà tra le 12.000 e le 18.000 partenze l’anno, toccando il picco di oltre 20.000 partenze nel 1902. In definitiva, nel periodo tra il 1880 e il 1915, la provincia di Avellino ha subito oltre 280.000 partenze, equamente suddivise tra i tre circondari di Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi ed Avellino, con rispettivamente un tasso di espatrio del 22%, del 30% e del 40%. La fase tra le due guerre mondiali, oltre ad essere caratterizzata dal blocco e dalla legislazione fascista in materia di emigrazione, non ci offre dati in merito, solo stime. Stando a quest’ultime, si stima che non più di 25.000 irpini modificarono la propria residenza. A partire dal secondo dopoguerra, le partenze riprenderanno con vigore, attestando la provincia di Avellino quale prima provincia campana in termini d’incidenza sulle partenze. Lo spopolamento dell’entroterra meridionale Nel 1950, mentre si chiudeva per il Mezzogiorno l’epoca segnata dal dominio dei proprietari terrieri a livello economico, sociale e politico, si aprì una nuova fase nella storia del Sud: essa vedrà definirsi nuovi equilibri sociali e politici che non avranno più al centro la terra, le campagne, i contadini, bensì la voglia di formare una diffusa proprietà coltivatrice. I limiti di tale impostazione riaffioreranno qualche anno dopo, nel 1957, quando l’avvio del Mercato comune europeo (Mec) provocherà un esodo di enormi proporzioni dalle campagne del Sud. Nonostante l’avvio di questa nuova fase, le condizioni nel Mezzogiorno erano disastrose, simili a quelle della fase anteguerra. Un primo indicatore del divario di sviluppo tra le regioni del Mezzogiorno e quelle del Centro-Nord lo possiamo riscontrare nel principale indicatore economico, il PIL per abitante, il quale offre un’immagine della persistenza e dell’immutabilità del sottosviluppo meridionale. Nel 1951 il PIL corrispondeva al 54% rispetto a quello del Centro-Nord. Inoltre, alcuni dati complessivi ci confermano come, agli inizi degli anni ’50, il divario tra Nord e Sud del Paese fosse tutt’altro che attenuato. In altre parole, mentre gli anni ’50 si aprono nel segno dell’intervento straordinario da parte dello Stato – Cassa per il Mezzogiorno, Ente di riforma agraria e legge sulle aree industriali (1957), la quale puntava nella prima fase alla realizzazione delle infrastrutture e delle opere pubbliche e nella seconda nell’industrializzazione del meridione – il divario resta fortemente presente. Infatti, analizzando alcuni indicatori quali, ad esempio, il consumo di carne, di energia elettrica, il possesso di apparecchiature radiofoniche, la condizione della povertà, notiamo come la spaccatura tra il Sud e il Centro-Nord, sia ancora
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considerevole. Inoltre, al Sud era notevolmente marcato l’analfabetismo, corrispondente a cinque volte la percentuale del Centro-Nord. Insomma, il Mezzogiorno era ancora prevalentemente agricolo, con ampie sacche di povertà e cospicui tassi di analfabetismo, anche se il problema scolastico non riguardò solo il Sud del Paese. Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, basti pensare che, un decennio dopo, nel 1961, soltanto il 18% della popolazione parlava abitualmente l’italiano. Il sistema scolastico continuava ad essere fortemente esclusivo e classista, programmato ad arte per allontanare i figli delle famiglie povere, benché sia da rilevare l’aumento degli studenti. In una simile cornice, si intuisce come un numero molto alto di giovani continui a scoprire il mondo del lavoro a 14 anni e anche prima, al termine delle elementari. Si tratta spesso di ragazzi che provengono dalle campagne e sono destinati a tornarci dopo aver frequentato qualche anno di scuola, malgrado la nuova Costituzione repubblicana preveda l’istruzione obbligatoria sino a 14 anni. Restando ancora sulla questione meridionale, possiamo individuare il problema dell’agricoltura del Mezzogiorno, ed in modo particolare nelle terre dell’osso, nella sua sovraoccupazione. Con questo termine non ci riferiamo tanto al peso percentuale degli addetti in agricoltura sul totale dell’occupazione, sebbene questo dato faccia certamente parte del quadro, bensì, ad un eccesso di occupazione tecnicamente necessaria al comparto stesso che generò, insieme alla politica dei “coltivatori diretti”, una produzione tecnicamente inefficiente. Tale manovra comportava, da un lato, il frazionamento del latifondo e la creazione di una piccola e media azienda contadina assistita nella fase del decollo, dal punto di vista tecnologico e, per questa via, messa in grado di funzionare efficientemente; e, dall’altro, contemplava, soprattutto dalla zona dell’osso, l’emigrazione, considerata come un’inevitabile necessità per conseguire lo sfollamento delle campagne. E, dunque, l’emigrazione era funzionale all’alleggerimento del settore agricolo dal peso dell’eccessivo numero di braccia e avrebbe portato al conseguente aumento di produttività. Nel fare un bilancio del fenomeno migratorio a metà degli anni ’60, RossiDoria definì l’esodo rurale apertosi nel periodo 1950-55 come un: “[…] processo irreversibile e sostanzialmente liberatore”. Tale giudizio, sostanzialmente positivo, non fu mai smentito, neppure quando a metà degli anni ’70il movimento migratorio toccò quota 5 milioni. Nonostante questo però, Rossi-Doria non si stancò mai di denunciare la condizione “vergognosa” in cui avveniva l’esodo degli emigranti, abbandonati a se
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stessi e privi del minimo sostegno, sia nei luoghi di origine che in quelli di partenza. In definitiva, se durante gli anni del boom economico, l’Italia cambiò allineandosi lentamente agli altri paesi europei, ciò avvenne anche nel Mezzogiorno – anche se a velocità totalmente diverse. Infatti, nelle terre dell’osso, ovvero nelle zone di montagna e di collina, come quelle ad esempio dell’entroterra campano, calabrese, lucano e molisano, la riforma agraria stentò, e probabilmente non riuscì mai, a modificarne la caratteristica strutturale: la miseria. Miseria che venne così descritta, in un’indagine del 1959, svolta da Lidia De Rita a Manopello, e riproposta da Guido Crainz nella sua Storia del miracolo economico: “[…] l’acqua scarseggia: non solo quella potabile, che viene distribuita una volta al giorno, sia d’estate sia d’inverno, con un’autobotte […] ma anche quella per gli altri usi domestici […]. Inutile dire che nelle case non c’è corrente elettrica e l’illuminazione è generalmente ad acetilene o ad olio”. Se le caratteristiche e le peculiarità delle zone interne del meridione furono solo parzialmente scalfite dalla riforma agraria, l’emigrazione, invece, ne decretò il lento e progressivo declino, tanto da farle rientrare oggi, a distanza di un cinquantennio, ancora in cima alle classifiche delle zone ad alto disagio insediativo. In questo lasso di tempo, per il Sud non ci fu solo l’emigrazione all’estero, in particolar modo in Svizzera, Francia, Belgio e Germania. Gli spostamenti interni (1955-70) tra zone di campagna e città, tra Sud e Nord del Paese, interessarono ben 25 milioni di italiani. Di questi, oltre 10 milioni cambiarono regione di residenza. Inoltre, fra il 1958 e il 1963 i meridionali che si trasferirono al Centro-Nord furono poco meno di un milione. A svuotarsi, in primo luogo, sono le aree di montagna e di collina, le case isolate, le frazioni e i nuclei abitativi sparsi (vi vive 1 italiano su 4 nel 1951, meno di 1 su 5 nel 1961, 1 su 8 nel 1971). Mentre, nel decennio 1951-61, il 70% dei Comuni italiani perde i suoi abitanti ed il grosso degli aumenti di popolazione si registra nelle città del triangolo industriale e nella capitale. Per quanto attiene il meridione, in questi anni reggono, solo parzialmente, il confronto, Napoli ed alcune zone della Puglia, come ci ricorda Danilo Dolci, nelle sue celeberrime inchieste in Sicilia. In conclusione, nonostante l’intervento straordinario dello Stato, attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, la Riforma agraria, i progetti e le leggi per l’industria nel Sud e in “montagna”, la questione meridionale non fu mai risolta: si acuì, ancor di più, il divario tra Nord e Sud del Paese. In un simile quadro, all’interno dell’elemento territoriale caratteristico ed emblematico della terra dell’osso, rientra l’Irpinia, nella quale i risultati della riforma agraria furono
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totalmente deficitari. La zona del cratere prima del sisma del 1980 In questo quadro di riferimento, appena brevemente tracciato, come possiamo contestualizzare la provincia di Avellino? Ed, in essa, la zona del cratere nel periodo che va dal 1951 al 1971? In particolare, quali erano le caratteristiche di chi partiva in questo periodo? Analizzando i dati dell’inchiesta sull’occupazione della popolazione campana, negli anni 1951, 1961,1971, è interessante notare come le percentuali degli addetti all’agricoltura in Alta Irpinia subiscano una lenta diminuzione. Nonostante il tasso risulti più alto rispetto alla media nazionale, nel ’71 i coltivatori diretti sono pari al 22%, contro il 33% del ’61 e il 42% del ’51. In linea di massima, possiamo tranquillamente affermare che, per tutto il secondo dopoguerra, l’emigrazione da questa area fu caratterizzata dalle partenze dei poveri contadini. Se si analizzano i tassi di disoccupazione (anni ’51,’61,’71), lo stupore è ancora maggiore. Infatti, mentre gli addetti al settore primario diminuiscono in modo esponenziale, il tasso di disoccupazione segue la tendenza inversa. Si passa dal 47% del ’51, al 49% del ’61, fino ad arrivare al 58% del ’71. In altre parole, l’emigrazione si prospetta quale unica soluzione percorribile. Infatti, analizzando il saldo netto migratorio dei Comuni appartenenti alla fascia A (18 per la provincia di Avellino), per il periodo 1951-71, esso è pari al 29,76% (64.172 unità) con un’incidenza di ben il 133,51% sull’incremento naturale della popolazione. Ciò significa, in pratica, che i flussi migratori, oltre ad assorbire per intero l’incremento demografico, hanno intaccato direttamente lo stesso patrimonio di quei Comuni per il restante 33,51%.
Analizzando i dati della tabella, si nota subito come l’indice del saldo migratorio raggiunga proporzioni allarmanti. Se nel caso della provincia di Avellino esso non supera il 27,74%, per quei pochi paesini delle province di Potenza e Salerno arriva a toccare quasi il 40%. Calcolando che, ad esempio per quanto riguarda il salernitano, i paesi rientranti nella fascia A sono solo 9, si comprende come ci si ritrovi di fronte a veri e propri spopolamenti. Per quanto attiene alla provincia di Avellino, se si prendono come riferimento i dati dei censimenti del 1961 e del 1971 e ci si sofferma esclusivamente sui Comuni disastrati, ci si rende subito conto di come, nell’arco di un decennio, si siano manifestate esclusivamente variazioni in negativo. Infatti solo il capoluogo (Avellino) e Solofra
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(0,9%), in maniera irrilevante, hanno subito variazioni in positivo. Escludendo il capoluogo irpino, per lo stesso motivo per il quale nella precedente tabella è stato fatto per Potenza, i dati cambiano totalmente. Si passa dal +1,4% allo sconcertante –12,6%, fino a toccare la punta massima nel caso del Comune di S. Mango sul Calore con il 22,5%. Analizzando la situazione nel complesso provinciale e distaccandosi dalle classificazioni post-sisma, per il periodo 1961-71, prendendo come limite massimo la perdita del 10% di popolazione nell’arco di un decennio, si nota come ben 77 Comuni su 119 perdono oltre il 10% di popolazione e solo 12 Comuni fanno registrare un segno positivo. Ad un’analisi dei dati, si nota come, se nel 1961 la popolazione della provincia di Avellino corrispondeva a 465.623 abitanti, dieci anni dopo essa scende al di sotto delle 430.000 unità; per restare pressoché uguale vent’anni dopo, nel 1981. L’Irpinia a trent’anni dal terremoto Sono passati da poco trent’anni dalla tragica sera del 23 novembre 1980. Molte cose sono cambiate, molte speranze sono state deluse e tradite. Non spetta a noi, in questa sede, fare delle valutazioni su come siano state spese le ingenti cifre – oltre 30 miliardi di euro (pari ad una manovra finanziaria) – su quanto alto sia stato il costo di ogni chilometro di asse viario realizzato e non ancora realizzato; su quanto sia costato ogni posto di metalmeccanico creato grazie agli incentivi statali e quanto questi soldi abbiano agevolato l’imprenditoria del Nord del Paese. Non tocca a noi valutare il reale impatto della fiatizzazione e dell’intero indotto in Irpinia, soprattutto oggi che grossa parte di questo indotto vive l’amara realtà della cassa integrazione e delle probabili chiusure (caso Irisbus). Non tocca a noi valutare le ridefinizioni dei tanti piccoli centri storici che in nome di nuovi modelli abitativi e dei tanti soldi che sono arrivati per la ricostruzione, molti amministratori locali non hanno avuto scrupoli nell’abbattere. Non tocca a noi valutare se un reale progresso ci sia stato e se questo sia stato accompagnato da un reale sviluppo. Come non spetta a noi valutare quante e quali generazioni hanno usufruito del miracolo terremoto, oppure, quanto risulti paradossale in zone sismiche come queste correre il rischio di vedersi cancellare ogni presidio ospedaliero di base. In questa sede a noi spetta il compito di valutare e mettere in correlazione il fenomeno migratorio che ha interessato la realtà territoriale in questione, osservandone in modo
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critico l’evoluzione, ma soprattutto verificando cosa è accaduto e cosa hanno prodotto tanti sforzi in una pur minuscola realtà territoriale del Mezzogiorno d’Italia. In altre parole, analizzando in rapporto con i dati antecedenti il sisma del 1980, come e se si è arrestato l’ingente flusso migratorio, che fa della provincia di Avellino, appunto, la prima provincia campana come tasso d’incidenza. Già nel 2010, a distanza di 30 anni dal terremoto dell’80, emergeva chiaramente come 55 Comuni perdessero oltre il 10% di popolazione. Con percentuali che oscillavano dall’oltre 56% di Cairano, al 40% di Montaguto e Morra de Sanctis; inoltre, ben 31 Comuni registravano perdite oltre il 20% rispetto all’immediato post-sisma. Inoltre, è significativo notare da un lato l’interconnessione con i dati del decennio antecedente il sisma, ma soprattutto come tutti i Comuni della fascia A, ad eccezione di Lioni (+9,4%), Solofra (+24,1%) e S. Michele di Serino (59,4%), continuino a perdere popolazione. Tracciando sinteticamente un parziale bilancio della vicenda migratoria irpina, possiamo tranquillamente affermare che oramai non si può più parlare di inarrestabile processo emigratorio, bensì risulta più corretto parlare di desertificazione inarrestabile, in particolare per quanto concerne l’Alta Irpinia. Infatti, negli ultimi cinque anni ci sono state oltre 10.000 nuove iscrizioni all’Aire. Si è passati dai 90.944 iscritti del 2007 ai 100.916 del 31 dicembre 2011. Se di queste, il 30% sono nuove iscrizioni per nascita all’estero e, se aggiungiamo un 10% c.a. di riallineamenti dei dati effettuati dalle anagrafi comunali, la provincia di Avellino ha visto verso l’estero, stando ai dati ufficiali, oltre 6mila partenze nell’ultimo cinquennio. Inoltre, stando a diverse indagini indipendenti, solo 1 italiano su 2 si iscrive, nonostante l’obbligatorietà, all’Aire. Quindi rispetto al 2010, nel 2011 l’Irpinia vede aumentare il proprio contingente verso l’estero di 1000 unità. Duplicando il dato e aggiungendo ad esso c.a. il 30% di mobilità interna, che di fatto compensa lo stesso dato relativo alle nascite all’estero, possiamo tranquillamente affermare che la provincia di Avellino perde un piccolo Comune di 2mila abitanti l’anno. Riassumendo, analizzando il trend nell’ultimo decennio della provincia di Avellino – la quale stando a dati (ancora provvisori) dei censimenti 2001 e 2011 passa complessivamente dai 431.179 ai 430.292 – possiamo asserire che il deficit demografico viene interamente assorbito dalla presenza degli stranieri regolari, che sono complessivamente c.a. 12mila e rappresentano il 3% della popolazione residente.
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Indice generale 1.“Ambiente e Comunità” di Mario Pagliaro ................................................................................................................................3 2.Lo “Sviluppo reversibile”..................................................................................................................5 “Non c'è più tempo, per correre”..................................................................................................5 La reversibilità delle scelte...........................................................................................................6 LINK.......................................................................................................................................7 3.Territori.............................................................................................................................................8 Pianificazione territoriale..............................................................................................................8 La cultura del “limite”....................................................................................................................8 La cultura della rete......................................................................................................................9 Consumo del suolo....................................................................................................................10 La rilevanza del “non edificabile”................................................................................................11 Rigenerazione urbana................................................................................................................14 Riqualificazione del patrimonio immobiliare........................................................................14 Il recupero dell'edilizia storica..............................................................................................14 Aree industriali.....................................................................................................................15 Ecologia Industriale e del Paesaggio............................................................................15 L'organicità tra vocazione dei territori e scelte industriali.............................................16 Il ciclo industriale “chiuso”.............................................................................................16 4.Tutela Ambientale..........................................................................................................................18 Sicurezza del territorio...............................................................................................................18 Estensione/attuazione delle normative di tutela vigenti.............................................................19 Inquinamento delle acque...................................................................................................20 Inquinamento urbano...........................................................................................................20 Inquinamento da PM10.................................................................................................21 LINK.....................................................................................................................................23 5.Energia..........................................................................................................................................25 Pianificazione territoriale............................................................................................................25 Distretti “Green”..........................................................................................................................25 “Green economy”.......................................................................................................................25
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LINK.....................................................................................................................................26 6.Materie Seconde (Rifiuti)...............................................................................................................27 Gerarchia della Direttiva Europea 2008/98CE...........................................................................27 Gestione locale dei Rifiuti..........................................................................................................27 LINK.....................................................................................................................................28 7.Turismo..........................................................................................................................................29 Premessa.............................................................................................................................29 Impresa culturale........................................................................................................................29 Fare “rete”..................................................................................................................................30 Turismo e territori.......................................................................................................................31 Emigrazione come risorsa.........................................................................................................31 8.Conferenza Programmatica: i contributi........................................................................................32 La difesa del suolo di Sabino Aquino .......................................................................................................................33 Riordino del servizio idrico integrato in Campania di Sabino Aquino .......................................................................................................................36 Lo sviluppo sostenibile delle idee di Antonio De Feo ......................................................................................................................40 I “Contratti di Fiume” di Rocco la Fratta ......................................................................................................................45 Avellino e la Valle del Sabato di Paolo Mascilli Migliorini .........................................................................................................48 Estensione “Direttiva Seveso III” di Comitato Notrivellazioni pterolifere in Irpinia .........................................................................52 La diaspora diventi risorsa di Toni Ricciardi..........................................................................................................................56
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