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CAPITOLO IV
from Il profilo gestionale delle associazioni dei cittadini e dei pazienti impegnate in sanità
by marziagallo
CAPITOLO IV
La discussione sui risultati e i trend emergenti
I dati che emergono dalla Survey sono numerosi ed alcuni meriterebbero ulteriori approfondimenti che PAL farà nel corso delle sue attività di ricerca. È possibile però rilevare alcuni trend verso cui ci orientano le informazioni raccolte, riconducibili a 10 milestones di seguito elencate e discusse analiticamente. 1. Una leadership al femminile 2. Il valore dell’esperienza 3. Addestramento vs formazione 4. Una opinione di sé in contrapposizione con le competenze e l’efficacia 5. Criticità nello sviluppo delle relazioni esterne 6. I nuovi leader e l’ambizione di conoscenze 7. Competenze più elevate a livello regionale 8. Fabbisogno di skills tecniche 9. Partecipazione, tavoli, direttivo, associazioni, collaborazione, empatia, persone: una visione plurale 10. Legami scarsi, network fragile
1. Una leadership al femminile
I dati anagrafici mostrano che il 68,4 % dei rispondenti, prevalentemente composti da dirigenti dell’organizzazione, sono donne, in linea con quanto accade nel più ampio panorama del non profit dove circa il 71% (Istat, 2018) della forza lavoro è costituita da donne. Nonostante ciò la correlazione con le posizioni di “comando” appare ancora labile. Nel terzo settore infatti la leadership femminile è fortemente minoritaria tanto che solo una posizione apicale su quattro è ricoperta da donne (Il Sole 24ore, 2016), così come confermato anche dai dati Istat. A margine di ciò tuttavia una leadership tutta al femminile è senza dubbio rintracciabile all’interno di quelle associazioni
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che si occupano di problematiche legate alla condizione della donna, quali violenza domestica e femminicidio. Questi dati indicano che nel mondo dell’associazionismo dei pazienti siamo di fronte ad un fenomeno in controtendenza. Non sappiamo se sia nuovo in quanto non abbiamo dati di ricerche precedenti ma sicuramente assistiamo all’emersione di un universo di esperienze, di storie, di iniziative e di battaglie sociali che hanno una impronta femminile. Su questa distribuzione percentuale così elevata potrebbe aver inciso la composizione delle associazioni rispondenti, provenienti in larga parte dal mondo oncologico (circa il 26%). Tale area patologica è sfortunatamente crescente e di conseguenza maggiormente rappresentata anche a causa del proliferare di tumori femminili. La notizia positiva in questo scenario è legata al ruolo importante e preponderante delle donne nelle attività di difesa della salute e dei diritti ad essa collegati. Nel settore dell’advocacy dunque il famoso “soffitto di cristallo” che impedisce alle donne di emergere non solo si è incrinato ma addirittura si è infranto. Restano da discutere motivazioni e implicazioni di questo nuovo paradigma di leader. Accanto al genere, altre caratteristiche che emergono dai dati riguardano le informazioni anagrafiche e di stato civile delle rispondenti, con una età media pari a 50 anni, per lo più conviventi e con figli. Il profilo della leader donna di associazione è quello di una persona che bilancia il suo tempo tra impegni quotidiani e miglioramento della condizione delle persone affette da uno stato patologico. Sebbene non siamo in possesso del dato relativo al loro status di malate, siamo a conoscenza della loro funzione come caregiver, presente solo nel 48% dei casi. Ciò vale a dire che una quota pari al 62% non ricopre il ruolo di leader di associazione perché dedita alla cura di un malato nella vita privata, ma piuttosto probabilmente per un interesse e una vocazione che vanno al di là dell’esigenza. Altro dato degno di nota emergente dall’analisi delle caratteristiche demografiche dei leader delle associazioni è il titolo di studio. Con un 57,9% dei rispondenti in possesso di una laurea, lo scenario identifica interlocutori con a disposizione un bagaglio di conoscenze specifico ed elevato.
2. Il valore dell’esperienza
Analizzando il profilo di leader si osservano elevati punteggi relativi all’autoconsapevolezza, quali empatia, coinvolgimento del team, chiarezza, ac-
countability ed empowerment. Ne emerge un quadro in cui le doti personali e l’esperienza hanno un peso non indifferente. Inoltre presentano punteggi molto alti l’impatto e l’influenza nell’associazione, la capacità di costruire partnership, come quella di fidelizzare i soci. Questi punteggi salgono via via che aumenta la tenure nell’organizzazione, che va di pari passo con l’esperienza. I valori prevalenti riguardano l’impegno in contatti personali, l’attenzione ai collaboratori, l’ascolto, il mantenere la parola data, la gestione del gruppo, la collaborazione. È interessante notare anche come proprio alcuni di tali valori coincidano con quelli messi in luce negli studi che analizzano la leadership femminile. Sharon Hadary (Hadary, 2016), ricercatrice e scrittrice di grande esperienza sul tema, e Laura Henderson, al termine di una approfondita indagine sul campo, scaturita nel testo: “How Women Lead” individuano i sei punti di forza che caratterizzano lo stile di comando delle donne e che rappresentano la loro caratteristica vincente. 1. Per le donne leader, prima di tutto ci sono i valori 2. Le donne leader sono olistiche e multiformi 3. Caratteristiche principali delle donne leader: comprensione e collaborazione 4. Le donne leader sanno ascoltare 5. Le donne leader sanno creare condivisione 6. Le donne leader sanno valorizzare i propri collaboratori
Un’ esperienza dunque che si rifà ad alcune competenze ritenute vincenti per condurre una organizzazione. Tali competenze inoltre risultano presenti anche per quel 36% di leader che appartengono al genere maschile. Essi infatti forniscono risposte del tutto sovrapponibili a quelle già discusse per le donne. Sembrerebbe quindi che questa scala di comportamenti sia diventata un tratto distintivo dell’associazionismo dedicato all’advocacy, sia che sia guidato da donne o che veda uomini in posizioni di responsabilità. Le esperienze condotte dalle associazioni dei cittadini e di pazienti sono spesso eccezionali per i risultati che riescono ad ottenere. Nel mese di settembre 2019 per la prima volta l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha incluso le patologie rare in una dichiarazione politica, sulla copertura sanitaria universale (UHC), adottata da tutti i 193 Stati membri, durante l’assemblea generale ONU in corso a New York. Questo risultato, è stato raggiunto grazie al lungo impegno di EURORDIS-Rare Diseases Europa, del
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Consiglio Internazionale delle Malattie Rare (RDI) e del comitato delle ONG per le malattie rare. Ma come ci sono arrivate? Quale esperienza di relazioni, di condivisione con i collaboratori, di programmazione strategica hanno costruito? Per poter dare una risposta a questi interrogativi sarebbe estremamente importante che le organizzazioni promotrici trasformassero questo grande successo in un sapere formalizzato, ricostruendo tappe, risorse, strategie adottate per arrivare alle Nazioni Unite. L’esperienza non basta se non diventa competenza formalizzata e trasmissibile. Uno dei fini che si pone il PAL è esattamente questo: aiutare le associazioni e trasformare l’esperienza in competenza trasmissibile e replicabile. Per tale ragione ALTEMS sta lavorando sulla promozione di “community of practices” quali ambienti favorevoli alla crescita delle organizzazioni e di condivisione delle esperienze di successo. Nel caso delle associazioni dei pazienti ciò costituirebbe un passo importante per condividere i“saperi”maturati attraverso la pratica.
3. Addestramento vs formazione
L’universo delle associazioni dei pazienti è costellato di iniziative: convegni, corsi, premi, fiere, campi scuola, cui le associazioni prendono parte più o meno attivamente anche in relazione alle opportunità di apprendere nuovi saperi e competenze specie quando esse riguardano le aree patologiche di diretto interesse. Nonostante l’apprezzabile valore di queste iniziative informative, esse rappresentano una forma di apprendimento debole, caratterizzato cioè da una forte e a volte esclusiva applicabilità ad un contesto abbastanza circoscritto e limitato. Ne sono alcuni esempi la gestione della patologia, l’empowerment del paziente nell’uso dei dispositivi, le innovazioni cliniche, l’uso del web e dei social, le relazioni istituzionali, le nuove disposizioni normative e così via. L’addestramento risulta una attività sicuramente positiva e ricca di opportunità di conoscenza, da incentivare anche come occasione di incontro con altri soggetti, quali diverse organizzazioni dei pazienti, medici, esperti, amministratori. Se però tale attività è volta a far fare un salto di qualità decisivo alle associazioni è necessario costruire percorsi formativi integrati, dove le persone siano messe in grado di misurarsi e fare propri stili e attitudini comportamentali legati al ruolo di manager che devono incarnare, con un mix di competenze che da una parte conservino il valore di una leadership civica, costruita sulla esperienza, dall’altra la completino negli aspetti carenti della professionalità necessaria.
Dalla survey emerge che solo una porzione limitata di rispondenti hanno preso parte ad iniziative formative vere e proprie, caratterizzate da un apprendimento forte in quanto esportabile ed applicabile in molteplici contesti. Infine esiste una fetta di associazioni (circa il 40%) che ha dichiarato nella survey di non aver mai partecipato né ad iniziative di addestramento, né tantomeno di formazione.
4. Una opinione di sé in contrapposizione con le competenze e l’efficacia
I rispondenti alla Survey sono piuttosto confidenti riguardo alla qualità del proprio profilo di leadership, e questo a prescindere dall’anzianità nel ruolo e dall’età anagrafica. Autocontrollo, capacità di definire gli obiettivi, fare rete, costruire partnership e molti altri fattori presentano punteggi molto alti. Ad una prima lettura sembrerebbe di trovarsi di fronte a persone altamente auto-efficaci, con una notevole concezione di sè. In realtà una più attenta lettura aiuta a comprendere come ci si trovi di fronte ad un tratto differente, tipico di chi incarna una funzione di “guida”. Secondo Daniel Goleman (Goleman, 2003) unadelle caratteristiche portanti di un leader è l’intelligenza emotiva. In base almodello sviluppato dallo studioso, il successo di un leader dipende non solo da cosa fa, ma anche da come lo fa e quindi dalla sua capacità di ispirare e di guidare le emozioni. Per Goleman le competenze correlate all’ intelligenza emotiva sono la “selfawarness” da intendersi come la consapevolezza delle proprie emozioni, una accurata opinione di sè e la fiducia in se stessi, accompagnata dalla capacità di self management (autocontrollo, trasparenza, adattabilità, orientamento al risultato, iniziativa e ottimismo), di “social-awareness (empatia, consapevolezza organizzativa), e di “relationship management” (ispirazione, capacità di influenzare, catalizzare il cambiamento, gestire i conflitti, lavoro di squadra e collaborazione). Tali definizioni aiutano a capire quanto sia importante per un leader, anche di una associazione dei pazienti, guidare le proprie emozioni e accrescere la propria autostima, tratti che si rintracciano anche nel nostro campione. Tuttavia i risultati dell’indagine mostrano anche un’altra faccia della medaglia che rende il profilo del leader di associazione di cittadini e pazienti più complesso e sfidante da analizzare e comprendere. Come abbiamo visto nell’ambito dell’analisi fattoriale, le variabili latenti che compongono il profilo del leader sono: attenzione al gruppo, orientamento al compito, compimento degli obiettivi, empowerment dei collaboratori e chiarezza, tutti fat-
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tori positivi tranne l’ultimo emergente identificabile alla stregua di un senso di “bassa auto-efficacia”. Tale variabile composta da affermazioni quali: “se fallisco mi sento inutile”, “ho dubbi sulle mie competenze”, “qualche volta non riesco ad avere il controllo del lavoro” identificano una bassa fiducia nelle proprie capacità. Tale evidenza, in netto contrasto con l’opinione che i leader della associazioni hanno di sé stessi, può tuttavia essere considerata fisiologica in quei soggetti con una alta self awarness, che ricomprende la presenza di consapevolezza circa i propri limiti. Ciò costituisce un input ad individuare con maggiore precisione dove e in quali situazioni i leader di associazione si percepiscano poco efficaci e poco competenti. Nel complesso, seguendo la teoria e la classificazione di Goleman, i rispondenti delle associazioni godono di buona salute manageriale perché, pur vivendo momenti di incertezza e di senso di inefficacia, sono sostanzialmente leader consapevoli del loro ruolo e delle loro responsabilità.
5. Criticità nello sviluppo delle relazioni esterne
Tra le competenze “deboli”, come dichiarato dai rispondenti, si annoverano lo scarso impatto e capacità di influenza nelle relazioni esterne, sia che si tratti di relazioni istituzionali, sia che si parli di rapporti con altre organizzazioni, questione a cui verrà dedicato spazio in seguito. Le difficoltà di rapporti con le istituzioni rappresentano un nodo più volte sottolineato dalle associazioni e allo stesso tempo una delle sfide con le quali misurarsi prioritariamente. È ancora debole l’approccio culturale e organizzativo orientato a dare spazio ad un dialogo con le associazioni dei pazienti. L’Italia si è dotata, anche grazie all’attivismo dei cittadini, di un ampio patrimonio legislativo in tema di partecipazione. A partire dal Decreto Legislativo 502/1992 contenente un Titolo su “Partecipazione e tutela dei diritti” fino ad arrivare al più recente Piano nazionale sulle cronicità, che in più parti richiama la necessità di un coinvolgimento dei pazienti e delle loro organizzazioni come elemento essenziale per l’attuazione del dispositivo. Lo stesso hanno fatto le Regioni con provvedimenti ad hoc o inserendo strumenti di interlocuzione e partecipazione nei loro Piani sanitari. Eppure allo spirito e alla lettera delle leggi non sempre è corrisposta una attuazione concreta e corretta. La “Consultazione sulla partecipazione civica in sanità” (Cittadinanzattiva, 2019), progetto realizzato da Cittadinanzattiva tra il 2018 e il 2019, mette in guardia da alcuni fattori critici che impediscono la effettività del coinvolgi-
mento, qui sintetizzati: 1. Molte previsioni contenute nelle norme, anche stringenti e di alto profilo, sono dichiarazioni di principio 2. Molti istituti e strumenti di partecipazione prevedono norme regolatrici burocratizzanti con troppe previsioni di organi e di procedure, mentre altri provvedimenti privilegiano una lista di operazioni pre-impostata 3. Vi è scarsa integrazione fra modalità di coinvolgimento più tradizionali e modalità di coinvolgimento on line 4. La ricostruzione dei momenti partecipativi è spesso complicata e legata alla memoria di chi era presente personalmente 5. Manca una valutazione sugli output dei processi di partecipazione e non sembra essere praticata quasi in nessun casouna valutazione degli outcomes Al fine di misurare e controllare la qualità del coinvolgimento, Cittadinanzattiva propone una matrice, riportata a pagina 66. Al fine di incrementare la capacità di impatto delle associazioni nelle relazioni con le istituzioni tale matrice può essere utilizzata come strumento per misurare i punti di forza e di debolezza nel sistema di relazioni. Si forniscono alcuni esempi per la comprensione del funzionamento della matrice: • Qualità dei meeting: la qualità di un incontro è data dal tipo di output che produce. Se ad esempio non avviene alcun tipo di verbalizzazione dei contenuti discussi la qualità è bassa. • Coinvolgimento delle associazioni: se il coinvolgimento delle associazioni è garantito da criteri oggettivi e codificati, come sperimentato in EMA , e non sulla base di scelte casuali e arbitrarie, la qualità aumenta. Da questi elementi emerge fortemente come la debolezza nelle relazioni esterne non costituisce un aspetto marginale, ma piuttosto rappresenta un elemento chiave nella definizione del profilo di ruolo, legato alle competenze manageriali e relazionali.
6. I nuovi leader e l’ambizione di conoscenze
Tra gli item dalla ricerca è stata inserita la tenure nell’organizzazione e nella carica di leader. I risultati indicano una lunga militanza nell’organizzazione (12 anni di media) e un mantenimento nella carica abbastanza stabile (9 anni di media). Ciò combacia con una generale manifestazione di difficoltà da parte dei Presidenti nel garantire un adeguato ricambio e accanto a ciò un
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sostanziale desiderio di sostituzione e di scarico da questo tipo di responsabilità. Sicuramente, come in altri settori, esistono eccezioni, ovvero organizzazioni nelle quali la lunga permanenza nel ruolo è voluta da chi lo esercita e non piuttosto da difficoltà o impossibilità di sostituzione. Il tema interessa la ricerca e l’attività del PAL per almeno due motivi. Innanzitutto perché gli stessi dati dell’indagine ci indicano che una leadership più giovane, inferiore agli 11 anni, è più propensa a percorsi di miglioramento ed è maggiormente desiderosa di incrementare le proprie competenze. Esiste un dinamismo più forte in chi deve ancora dimostrare la propria capacità di leadership e misurarsi con le sfide che ha di fronte. Tuttavia questo fenomeno è scevro da correlazioni con l’età anagrafica risultando dunque totalmente da attribuirsi all’anzianità nell’esercizio del ruolo. Chi da più tempo ricopre questa posizione infatti ha (o ritiene di avere) maggiori competenze. Questo elemento rappresenta un vantaggio ma anche un limite legato ad una sorta di immobilismo nella organizzazione . In secondo luogo è interesse del PAL lavorare sugli strumenti che servono a favorire un processo di ricambio della leadership. Anche in questo caso entra in gioco la competenza. Si tratta infatti di acquisire la capacità strategica e manageriale di creare le condizioni per un turn-over dirigenziale. Per farlo si richiede un investimento sulle risorse umane, non solo nella veste di collaboratori ma anche come possibili successori. Ciò comporta la necessità di misurarsi con programmi a medio e lungo termine, di porsi i problemi della sostenibilità, di riuscire a coniugare conservazione delle competenze acquisite e apertura al nuovo (“ricambio con conservazione”), di porsi il problema della remunerazione o meno dei dirigenti. Si tratta di competenze che si possono senz’altro acquisire, ma che richiedono un investimento di risorse e di tempo, non sempre alla portata di chi gestisce una associazione. Il PAL, come momento di incontro e di scambio tra le associazioni, può e vuole diventare lo strumento utile a pensare a soluzioni innovative che sostengano i leader in tale lavoro.
7. Competenze più elevate a livello regionale
I dati della Survey ci dicono che i leader delle associazioni di livello regionale hanno un livello di competenze superiori rispetto ai leader appartenenti ad associazioni di livello nazionale. Seppur si tratti in alcuni casi di differenze lievi, l’informazione che ne deriva è significativa. È sicuramente molto più difficile misurarsi con i problemi di un Paese che avere responsabilità per
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una quota di territorio più limitata. Gli interlocutori istituzionali aumentano passando dal livello regionale a quello nazionale o addirittura talvolta europeo, così come diviene più complessa la gestione interna dell’organizzazione. D’altra parte è interessante registrare la crescita delle leadership locali, che in situazione di regionalismo sempre più avanzato, rappresentano un interlocutore importante sia per i cittadini che per le istituzioni. È quindi fuor di dubbio che per supportare i leader delle associazioni dedite all’advocacy è necessario percorrere ambedue le direzioni. Ad esempio un’associazione impegnata ad ottenere nuove terapie per i tumori o il riconoscimento di una malattia rara, necessita del rafforzamento della propria dimensione nazionale. Così come la definizione degli investimenti per la salute nelle Leggi finanziarie annuali o le decisioni dell’agenzia regolatoria sulla introduzione di innovazioni farmaceutiche necessitano di una portata nazionale. Eppure le associazioni, pur denunciando quotidianamente le distorsioni di un federalismo diseguale, devono misurarsi quotidianamente con quanto avviene nei territori. Quindi una buona notizia che la ricerca ci restituisce è una maggiore attenzione alle competenze da parte delle leadership regionali, perché con buona probabilità è proprio a tale livello che si sono fatti maggiori passi in avanti nella interlocuzione e nella partecipazione civica. Ad esempio in alcune Regioni sono già attivi tavoli di confronto con le associazioni su temi quali PDTA, dispositivi, programmazione dei servizi territoriali, liste d’attesa, farmaceutica, in cui è necessario mostrare non tanto il possesso di competenze tecniche e specifiche sulla materia (farmaci biosimilari, dispositivi medici per i diabetici, centri di riferimento per le malattie rare, ecc), quanto piuttosto la presenza di un bagaglio di conoscenze manageriali e trasversali. La Survey parla infatti di capacità legate alla comprensione del contesto e di mappatura degli interlocutori, abilità negoziali, teambuilding, capacità di sviluppare alleanze e partnership, di saper raccogliere e usare i dati, di saper comunicare e motivare le persone, infine di fare un’analisi delle risorse necessarie ed acquisirle. L’esperienza in altri settori ci dice che possedere tali capacità aumenta la possibilità di ottenere buoni risultati nella gestione dei rapporti sia con i cittadini che con i diversi interlocutori e stakeholder. Il fatto che i rispondenti si siano dimostrati molto attenti a questi aspetti come caratteristici del loro profilo di leader, significa che li considerano dunque particolarmente importanti. Sotto questa prospettiva è possibile affermare che la strada intrapresa dal PAL nel campo della formazione è quella giusta, ma d’altra parte indica anche che non è sufficiente un lavoro a livello nazionale, senza la disseminazione della formazione manageriale al livello
regionale. Ne sono testimonianze le esperienze in corso presso la Regione Marche e (in stato embrionale) nella Regione Campania, in cui sono attivi i già citati processi di convenzionamento con l’Università cattolica del Sacro Cuore e con ALTEMS.
8. Fabbisogno di skills tecniche
Mentre i punteggi sulle competenze manageriali e comportamentali sono molto alti, quando si passa a parlare delle skills tecniche essi si abbassano. Sebbene con livelli di variabilità tra gli intervistati, livelli più alti si riscontrano nelle conoscenze informatiche, nell’uso dei social, e nelle capacità progettuali. Le skills tecniche sembrano essere scarsamente influenzate dalla tenure nell’organizzazione e dall’anzianità, così come dalla posizione nell’associazione. I rispondenti di genere maschile appaiono in possesso di maggiori skills tecniche rispetto alle donne. In generale i punti più problematici sono il fundraising, la conoscenza delle lingue, la raccolta dati, il monitoraggio dei servizi, le competenze amministrative, segnale che esistono ampi spazi di miglioramento e di investimento negli anni a venire. Rispetto alle tempistiche alcune skills richiedono una certa celerità di apprendimento perché servono a misurare l’efficacia di una associazione. Si pensi ad esempio alla capacità di raccogliere dati a supporto dei propri obiettivi. Ormai si parla con una certa frequenza di Patient evidence (Nice, 2019), vale a dire dell’importanza di raccogliere e presentare dati che misurino l’impatto di determinati trattamenti sui pazienti e sulla loro qualità della vita. Nel campo dell’Health Tecnology Assessment ci sono esperienze significative di quanto la raccolta delle esperienze e delle evidenze dei pazienti possano incidere sul decision making delle amministrazioni sanitarie. A testimonianza di ciò si riporta l’estratto di un articolo di recente pubblicazione (Facey et at, 2019) che pone in evidenza l’importanza del Patient Involvement nella scelta delle terapie. L’articolo (riportato a pagina 70) presenta quattro casi nei quali il punto di vista dei pazienti e delle loro associazioni (Patient-based evidence) è stato determinante ai fini della scelta dei trattamenti. Il confronto tra l’esperienza scozzese del trattamento delle medicazioni antimicrobiche per il trattamento delle piaghe, quella canadese relativa alla cure per le apnee del sonno, l’esperienza inglese sull’uso di inibitori per il trattamento della spondilite anchilosante e l’esperienza brasiliana dove esiste un apparato legislativo in grado di formalizzare un tipo di modalità partecipativa alle scelte sanitarie.
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È quindi molto importante acquisire la capacità di fare propri gli strumenti di raccolta informazioni e di presentazione delle evidenze, messi a disposizione dalla Società internazionale di HTA (HTAi) tramite l’HTAi Interest Group for Patient and Citizen Involvement in HTA (PCIG) (HTAi, 2019), fondato nel 2005. Così come i materiali che sono stati predisposti da Eupati (Eupati, 2019) Le associazioni per converso conoscono bene l’utilità di determinate competenze tecniche. Si pensi all’uso di internet e dei social, delle app, degli strumenti informatici in genere. Prima della rivoluzione digitale le possibilità di comunicare con un ampio pubblico erano veramente limitate. Si potevano utilizzare i canali televisivi, i giornali, i messaggi di posta, la comunicazione vis a vis in occasioni pubbliche. Oggi, grazie al web le possibilità di comunicare sono pressoché illimitate, a costi bassissimi e con una platea notevole di persone. Eugenio Santoro, responsabile del laboratorio di informatica medica del dipartimento di Salute Pubblica dell’IRCCS – Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” (Santoro, 2017) parla di 11 milioni e mezzo di italiani che usano internet per informarsi sulla salute. Lo stesso sito “Dove e come mi curo”, portale di Public Reporting (Doveecomemicuro, 2019), ha registrato
1,7 milioni di utenti unici solo nel mese di settembre 2019 di cui solo il 10% costituito da professionisti sanitari. Sono innumerevoli i blog in cui i pazienti comunicano scambiandosi esperienze sulla loro condizione, che sia il diabete o il fibroma uterino, una malattia reumatica o un problema pediatrico dei propri figli. La ricerca non aveva tra i suoi obbiettivi la valutazione della correttezza o meno delle informazioni diffuse. È però indubbio che avere tra le proprie skills la capacità di usare internet e soprattutto i social è diventata una priorità assoluta per le associazioni dei pazienti. La competenza che si richiede ad un leader di patient advocacy non è necessariamente quella di un blogger o di un webmaster. Diventa però difficile comunicare con il proprio pubblico se si rientra nella categoria degli analfabeti digitali. A tale esigenza si aggiunge la necessità di avere conoscenza dei progressi della sanità digitale, con le sue enormi possibilità di migliorare la qualità dei trattamenti sanitari e di semplificare la vita dei pazienti. La scelta da parte della ricerca di porre in evidenza questo tipo di skills è direttamente collegata al ruolo sempre più significativo che le organizzazioni dei cittadini potranno avere in questo ambito. Importanti sono a tale proposito le prime esperienze di coinvolgimento dei pazienti nella valutazione delle innovazioni digitali , come avviene nel Patient’s Digital Health Award (Pdha, 2019).
9. Partecipazione, tavoli, direttivo, associazioni, collaborazione, empatia: una visione plurale
È esistito un tempo in cui il profilo dei leader delle associazioni dei pazienti era di tipo monocratico, non per propria volontà ma per le condizioni date e per la natura pioneristica dell’impegno. Figure eroiche, veri innovatori. Riproporre oggi modelli analoghi sarebbe anacronistico con il rischio di dare spazio ad eccessivi personalismi ed autoreferenzialità. Questo è quello che sembrano pensare coloro che hanno risposto al questionario della Survey. Dall’analisi testuale delle risposte al questionario fornite nell’ambito dedicato alla rilevazione delle competenze, emerge una visione plurale della leadership, con la ripetuta presenza di parole chiave come partecipazione, tavoli, direttivo, empatia, collaborazione. Le stesse informazioni risultano sia dall’analisi dei questionari, sia dalla lettura delle mission nei siti delle associazioni di riferimento. Tra gli obiettivi dell’organizzazione ci sono la partecipazione, assieme al lavoro, il rapporto con gli associati e i pazienti, la realizzazione di tavoli. Un insieme di finalità che richiedono un forte rapporto con le persone. L’impegno dei leader sembra essere principalmente quello
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di relazionarsi con gli altri per svolgere il proprio compito. Lo stesso risultato emerge dalle risposte alla domanda che chiede con chi ci si confronta di più. La parola che risulta essere dominante è Direttivo. Ciò dovrebbe significare che il governo dell’associazione è collegiale, democratico e che non si prendono decisioni prima di averle condivise con chi siede negli organismi dirigenti. Si tratta di un esempio di trasparenza e di visione plurale che le associazioni dovrebbero sottolineare con più forza anche nella definizione della loro mission. Il riferimento qui non è ai testi degli Statuti, i quali per legge (si pensi alle varie normative su associazionismo e volontariato, e al Codice del Terzo Settore) devono contenere regole di collegialità e organi elettivi. Si sta parlando di comportamenti e di pratica quotidiana esplicitata nelle risposte al questionario, utilizzato per la ricerca. La parola Presidenti, ad esempio, compare nel conteggio dei termini ma è a caratteri molto piccoli. Ciò sta a significare che essa è poco citata dai rispondenti. Potrebbe darsi che i rispondenti abbiano leggermente “addolcito” la situazione della propria associazione nel rispondere alle domande. È comunque evidente un trend prevalente democratico e collegiale. Questa rappresentazione della leadership è rafforzata nell’analisi fattoriale. Il leader, anche in questo caso, appare come una persona che ha grande attenzione al gruppo, che mantiene la parola e le promesse, che incoraggia le persone e le spinge a cooperare tra loro. Ha un punteggio alto anche il principio della delega, con la propensione ad assegnare responsabilità sfidanti ai collaboratori e a permettere loro di influenzare le decisioni strategiche, accettando consigli ed indicazioni. Se si passa alle principali attività da svolgere: la parola Pazienti è la più ripetuta, accompagnata dal lavoro organizzativo, dalla attività di formazione, la partecipazione ad eventi, la gestione dei progetti, i rapporti istituzionali. Attività queste con un forte impatto di tipo sociale, per svolgere le quali necessita l’esperienza, ma anche una competenza manageriale, che sta a sottolineare l’importanza di una formazione adeguata. La buona volontà è una precondizione per promuovere socialità e spirito di gruppo, democraticità e condivisione. Ma proprio perché tale attività richiede ampi spazi di Autonomia e Responsabilità, termini ampiamente ripetuti nella ricerca, risulta essere centrale una competenza che rafforzi l’attitudine al controllo di sé e la capacità di azione. Ne discende una gestione plurale dell’organizzazione, che non rappresenta solo un valore a cui uniformarsi quanto piuttosto una capacità manageriale da apprendere, in quanto richiede lo sviluppo di “saperi” e l’acquisizione
di strumenti idonei. In situazioni complesse, contraddittorie e irte di ostacoli, avere competenze specifiche e una professionalità adeguata aiuta a raggiungere gli obiettivi. Non a caso gli stessi rispondenti inseriscono la capacità di promuovere la collegialità tra le proprie competenze, dandogli un posto nel profilo di ruolo.
10. Legami scarsi, network fragile
Il tema dei rapporti tra associazioni e dello sviluppo del network è particolarmente strategico. L’appartenenza ad un network indica legami, scambi di risorse e idee, collaborazione. Nella presente ricerca i legami esistenti tra le associazioni di pazienti e cittadini sono stati studiati mediante la tecnica della Social Network Analysis. Il quadro che ne emerge è quello di una rete di relazioni, con qualche punto di riferimento associativo che fa da catalizzatore. Ad un primo colpo d’occhio sembrerebbe trattarsi di una situazione ottimale. In realtà da una osservazione più attenta emergono elementi critici. Circa 30 associazioni non presentano alcun legame. Si rilevano inoltre una cospicua quantità di legami diadici e triadici, fondati con buona probabilità su specifiche tematiche di interesse (aree patologiche). In generale il numero dei legami tracciati nel grafo è molto esiguo (circa 155 connessioni), con una bassa densità. In sostanza, pur in presenza di relazioni, esse risultano essere non particolarmente significative e poco frequenti. Come detto in precedenza, il mondo associativo è denso di momenti di contatto, ad esempio convegni e seminari, ma anche con enti deputati al macro coordinamento tra associazioni quali le federazioni (si pensi al CNAMC di Cittadinanzattiva, FAVO o ancora UNIAMO), nonché di momenti pubblici di incontro ed iniziative collettive. Eppure tutto ciò non sembra ancora sufficiente a far si che le associazioni riescano a diventare una massa critica con forti e intense sinergie. Le organizzazioni di advocacy non dispongono di un potere economico, come nel caso delle aziende farmaceutiche, non hanno (ancora) un forte posizionamento nel sistema sanitario. La capacità quindi di fare gruppo per stratificare e condividere esperienze, competenze e relazioni, è essenziale al fine aumentare il proprio potere di influenza. Le attività del PAL e l’esperienza della prima edizione del Master in Patient Advocacy Management hanno permesso di fare alcuni importanti esperimenti di networking interassociativo, come nel caso delle associazioni di malati di Parkinson, riunite assieme per una finalità comune proprio grazie al PAL (Altems, 2019). Oppure della “Maratona sul patto per la salute”, re-
Il profilo gestionale delle associazioni dei cittadini e dei pazienti impegnate in sanità: tra diritti, management e partecipazione
alizzata nel mese di luglio 2019 dal Ministro della salute in cui sono stati convocati tutti gli stakeholder della sanità, tra cui le associazioni dei pazienti e di attivismo civico (più di 100), per tre giorni di consultazione. Alcune associazioni del PAL hanno deciso di presentare il medesimo documento di proposte, sia in forma orale nel proprio intervento, sia consegnando un contributo scritto. I leader associativi intervenuti hanno ambiti di attività e patologie di riferimento molto diversi. Eppure hanno ritenuto importante, accompagnare ai temi specifici dei loro interventi una piattaforma comune, proponendo la creazione di un’ interfaccia istituzionale permanente tra mondo della associazioni e delle istituzioni, con la funzione di facilitatore della partecipazione dei pazienti e della collaborazione costante tra i diversi soggetti. Il valore dell’iniziativa non riguarda solamente i contenuti, ma il metodo, vale a dire la scelta di costruire un legame finalizzato a mettere in comune una proposta di governance partecipata del sistema sanitario, utile per tutte le associazioni. I proponenti hanno avviato la costruzione di un network “denso” fatto di relazioni, contenuti, condivisione di emozioni, supporto reciproco, dimostrando che l’impegno per la tutela della propria patologia può misurarsi con una strategia più generale e con obiettivi da raggiungere insieme. Il primo risultato di tale attività è stata la creazione presso la Regione Lazio della figura dell’esperto facilitatore della partecipazione dei cittadini, che dovrà contribuire all’attuazione della Delibera sulla costruzione di un percorso di coinvolgimento delle associazioni nelle politiche regionali. Molti soggetti, soprattutto le federazioni di associazioni, si stanno interrogando sui modi più efficaci di fare rete. I dati dell’indagine e gli esempi sopra esposti possono aiutare a comprendere verso quale direzione orientarsi.