Racconti Belli
uno
Ritorno a
Frigorenhavn
La Grana Edizioni
Immagine di Copertina, impaginazione e grafica: Pietro Rotelli www.pietrorotelli.com
Racconti Belli uno Tutti i diritti @ degli autori I edizione Dicembre 2019 La Grana Edizioni
Ritorno a Frigorenhavn
Ieri è mancato Erik. Come sarebbe a dire chi? Erik! Erik Satie. Alla morgue c’eravamo solo Louis e io, i suoi unici amici, ma non ci hanno permesso di vedere il corpo: hanno detto che era ridotto troppo male. Il che è strano, per essere veramente una cirrosi. Abbiamo insistito, poi sono arrivate le guardie e ci hanno accompagnati fuori, nella nebbia intorno alla Senna, un mondo grigio, senza Erik, senza la sua musica. In mano avevamo però i suoi effetti personali: due bigliettini e due chiavi. I primi erano una specie di commiato irriverente, nel suo solito stile. Su uno c’era scritto: “Scusate se non vi ho salutato,
rischiavo di perdere il transaereo.” Forse aveva sentito l’avvicinarsi della fine e aveva voluto farsi beffe anche del momento supremo. Benché rattristati, abbiamo sorriso nel leggerli. Parole semplici per confortare i sopravvissuti. Le chiavi erano quelle del suo “armadio”. Così Erik chiamava il suo appartamentino ad Arcueil. Le abbiamo guardate a lungo. Benché rattristati dalla circostanza, eravamo un po’ eccitati all’idea di entrare nella stanza chiusa del suo “armadio”. *** Oggi piove, ad Arcueil. Il caldo estivo si somma all’umidità della pioggia e rende l’aria irrespirabile. Se un gigante strizzasse i nostri polmoni ne ricaverebbe acqua, invece di sangue. Proviamo una chiave, poi l’altra. Quando apriamo la porta ci accoglie l’odore della decadenza. La poca luce che filtra dalla porta mostra abbandono e le sagome di due pianoforti tristi. Ci facciamo coraggio ed entriamo. Louis apre l’unica finestra. Luce crepuscolare e maltempo, un’atmosfera perfetta per il lavoro dei necrofori. Siamo come scarabei che esplorano un cadavere e ne scavano l’interno per trarne nutrimento. Vogliamo nutrirci ancora dello spirito di Erik, delle sue arguzie, del suo genio. Forse troveremo uno spartito inedito, un tesoro nascosto, un’eredità inattesa, o forse siamo solo animali curiosi, adolescenti che per la prima volta sono ammessi nell’alcova e ardono dal desiderio di assorbirne i segreti e di farne indigestione. La porta agognata è davanti a noi. Nessuno sa cosa ci aspetti
al di là di quel diaframma di legno scolorito. Ogni graffio è un glifo che sussurra di sterminati attimi sacrificati a navigare tra isole di creatività circondate da oceani di frustrazione. Louis e io ci guardiamo, poi infilo la seconda chiave nella serratura. La giro. Ora la maniglia. Un cigolio nel silenzio. La luce alle nostre spalle si fa beffe delle ombre, profili assurdi che fanno galoppare l’immaginazione per sentieri impervi affacciati su burroni di follia. Ci accorgiamo di aver trattenuto il respiro. Lo lasciamo uscire e aguzziamo lo sguardo su un magazzino disordinato. Entriamo. Le nostre impronte si mescolano ad altre più antiche, nella polvere. Louis mi mostra un ombrello, ancora confezionato. Ce ne sono molti altri, sia nuovi che segnati da intemperie e intemperanze. Scatole di bigliettini, accatastate senz’ordine apparente, che si rivelano un formidabile ostacolo agli invasori del sacrario. Ne leggo qualcuno e mi sorprendo a sorridere, dato che la grafia è quella di Erik. E per un po’ lo sentiamo di nuovo con noi. Poi trovo il violino. Non sapevo che Erik sapesse suonare il violino. Egli era un virtuoso del pianoforte, strumento che amava più delle donne. Ne aveva due, anche se uno era inservibile. Lo avevamo trovato pieno di posta: buste e buste, una marea di carta aggrovigliata, tutte ancora chiuse.
Il legno del violino è liscio e sembra vibrare sotto il tocco delle mie dita. Sicuramente opera di un grande liutaio. La lacca ha un odore indefinibile, ancora intenso. Imbraccio lo strumento e comincio a suonare, ma ottengo solo suoni striduli. Mi giro verso Louis e m’impietrisco. Sulla soglia c’è qualcuno. Porta un cappello, baffi e un pizzo importante. Lo sguardo è celato dal riflesso della luce sulle lenti degli occhiali. Indovino dei lineamenti affilati e labbra atteggiate in un sorriso beffardo. Qualcosa mi fa mormorare: «Erik?» Implicazioni assurde stimolano la mia paura. Sento un rombo crescente obnubilare i miei sensi ed è solo la voce di Louis che mi riporta alla realtà: «Possiamo aiutarla?» «Quello è il mio violino» dice l’uomo. È un ottimo francese, il suo, ancorché venato da un lieve accento tedesco. Non so perché ma gli credo. L’impulso, irresistibile, è quello di allungargli lo strumento. Quando lo afferra sento una vibrazione arcana attraversare il legno ed è con immenso sollievo che ritraggo le mani vuote. Nonostante la somiglianza sorprendente ora è chiaro che non si tratta di Erik. In quest’uomo, un’aria solenne e grave occupa tutto lo spazio che nel mio amico era colmo di allegria e irriverenza. L’uomo studia il violino, quasi con sospetto, poi lo imbraccia e accenna alcune battute dalle Vexations di Erik. È strano risentire quella musica, familiare al pianoforte, eseguita con il violino. Eppure, mentre le note fluiscono ininterrotte, spinte
verso l’Empireo dalla perizia straordinaria del musicista, è impossibile resistere al turbine musicale. L’attenzione vaga sul musicista, ritorto nell’interpretazione, e lo sguardo è catturato dalla danza delle dita. Note pure divengono dissonanti e si trasformano, e il mondo si rovescia mentre affondo nel gorgo di un’esperienza sinestesica e sfumature impossibili strisciano sulle mie squame, mentre oscuri sapori siderali sussurrano di universi sonori torturati da creature scaturite da ere in cui l’Uomo era solo sarcasmo tra le spire mentali di un dio alieno. Quando l’archetto si solleva dalle corde è come precipitare a terra da cime incommensurabili. Le mie gambe vacillano. Louis è a bocca aperta. Apro e richiudo la bocca, e deglutisco, dimentico di come articolare suoni umani. «Grazie» dice l’uomo, che ha capito lo stesso. La sua voce si è affievolita, quasi consumata. Sembra anche più piccolo di poco fa, rattrappito, o forse è il violino che si è ingrandito, come se si fosse nutrito della vitalità del musicista. «Vi prego di scusarmi» sussurra. «Il transaereo per la Repubblica Boreale è in partenza.» Si volta e sta per andarsene. «Aspetti!» riesco a latrare, con voce da primate. Anche se qualcosa in me non vuole, io devo assolutamente sapere: «Come si chiama?» «Potete chiamarmi Erich» dice, «Erich Zann.» E sparisce oltre l’uscio, come se non fosse mai esistito.
Nota dellʼautore L’idea del racconto nasce dalla lettura del bel saggio di Renzo Giorgetti intitolato La musica di Erik S. che appare nel n. 12 di Studi Lovecraftiani, rivista di saggistica edita dalla Dagon Press. L’altro debito di riconoscenza è nei confronti del blog Cahiers De La République Boréale da cui proviene la riproduzione del bigliettino olografo di Erik Satie all'inizio del racconto.
Lʼautore Gabriele Falcioni nasce nel 1969 nel gomito d'Italia. Affascinato da tutto ciò che è misterioso, fantastico e scientifico, si vende alla Scienza finché all'alba dell'informatica personale passa alla Scienza dei Calcolatori. Nel frattempo fa un sacco di cose che implicano pasticciare con penne, matite e giochini. Da ciò scaturiscono comparsate nel settore dei giochi intelligenti, con editori come Nexus e Wild Boar, e nel settore della narrativa fantastica, sia come parte del tricefalo Paolo Agaraff, sia come uno dei fondatori della Carboneria letteraria, sia come entità autonoma. Qualche volta ha vinto concorsi letterari. Sembra che odi scrivere biografie e faccia di tutto per renderle incomprensibili, ma forse è solo una leggenda.
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elio marracci elio.marra@gmail.com
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