TEMPO LONTANO
Non parlerò di neve, di freddo, di crisi, di euro, di immigrati, di politica, di criminalità. Questa volta voglio parlare d’ altro,parlare a me stesso dei miei ricordi: abbastanza chiari ma frammisti in quel breve tempo così lontano, certo del dove ma dubbioso delquando. E nessuno a correggermi: i genitori e i due fratelli maggiorinon ci sono più, i due minori non c’erano ancora.
SOMMARIO 1. Africa
pag. 5
2. Dai nonni
pag. 7
3. Le ceste
pag. 11
4. Vita rusticana
pag. 13
5. Guerra e pace
pag. 17
6. Vicenza
pag. 20
7. l latte
pag. 23
8. La vaca mora
pag. 25
9. La scuola
pag. 27
10. Cortili
pag. 30
11. Strase, ossi, ferovecio
pag. 34
12. Un altro mondo
pag. 36
13. Divagazioni
pag. 40
14. Venezia
pag. 44
1
Africa Finita la guerra eravamo tornati a Vicenza, in Viale Margherita, a venti passi da Porta Padova. In una stanza del nostro appartamento si era installato un abusivo: Orazio. Tornavamo da un paese a una quindicina di chilometri. Vi avevo frequentato le prime classi delle elementari e vissuto gli ultimi anni di guerra. Durante la Campagna di Tunisia mio padre era là, “militarizzato”: guidava un camioncisterna per i rifornimenti del Regio Esercito italiano. Era stato qualche tempo a Roma e mia madre ed io eravamo andati a trovarlo prima che traghettasse in Africa: il mio primo viaggio, per molto tempo unico e memorabile. Avevo 4 anni, ma credo di ricordare ancora le lunghe ore in treno, le fermate in stazioni di città mai viste, la lunghissima galleria. Nelle foto mi sono visto in giro per Roma, mi ricordo in piedi in un ristorante. Da mia madre ho poi sentito che mi avevano complimentato per avere cantato “Lili
Marleen” in tedesco: io non lo ricordo; so che la si sentiva cantare alla radio tutti i giorni ma so anche che all’asilo la suora mi dava una caramella da succhiare mentre gli altri cantavano. Dalla Tunisia mio padre scriveva lettere rassicuranti, chiudendole con un “vinceremo“: arrivavano aperte, censurate. Erano veline leggere in buste leggere, posta aerea; restarono rassicuranti ma col passar del tempo sempre più gravi. Scriveva che sotto bombardamento si metteva in una buca di bomba perché era impossibile che due bombe cadessero nello stesso posto…. Scriveva di amici feriti o peggio…. Scriveva che doveva ritornare ma non c’erano navi per farlo. La RAF spadroneggiava sul Canale di Sicilia, ma tornò indenne e dimagrito.
2 Dai nonni. Dopo i primi bombardamenti in città siamo sfollati dai nonni paterni. La casa aveva una grande cucina con un grande focolare, la cucina economica, ca$on*(madia), credenza , tante sedie, la macchina per cucire, una grande tavola su cui mangiavamo noi cinque, i nonni, tre zie e talvolta altri zii e cugini. Contro il freddo invernale la stanza veniva ridotta con provvisori tramezzi di legno e veniva posta una pedana nell’ angolo dove le zie lavoravano. A ovest della cucina c’era un largo corridoio: varie cose alle pareti, a sud la porta; nell’angolo nord-ovest, nel sottoscala, c’era il seciaro, una vasca di pietra di grande superficie e piccola profondità sopra la quale erano appesi quattro secchi e la ca$a, il mestolo dalla tazza capace e quasi cilindrica; a destra la scala di legno saliva a camere e granaio; poco prima di salire si aveva sul fianco destro l’ entrata del “tinello”, diventato allora la nostra camera da letto. Sopra il soffitto di tavole di cucina, tinello e corridoio c’erano tre camere al primo piano; al secondo si trovava il granaio con i mucchi di mele, di noci, di frumento, di pannocchie e la macchina per sgranarle facendo girare la grande ruota-manovella. Dalla nostra camera si passava per una stanza ingombra di non so
cosa, si finiva nella stalla – dov’ erano un asino e due mucche – e si usciva nel portico per un grande portone. Sul solaio dei due locali un ampio spazio conteneva il deposito delle ceste, utensili vari, cose vecchie e il fieno sopra la stalla; davanti ad essi il portico si apriva a sud con due luci divise da un un pilastro centrale, a Ovest lo chiudeva la cucina e a Est il muro perimetrale. In cucina si entrava dal portico. Seci e ca$a (Secchi e mestolo) erano di rame: l’acqua presa e bevuta direttamente con la ca$a era fresca e di sapore speciale. Di rame era anche il caliero (paiolo) appeso alla catena sul focolare. Vi si cuoceva la polenta, rimestandola per lungo tempo con la mescola di legno, badando che non facesse i munari (grumi) e non prendesse el brustolin (sapore di bruciato). Una volta cotta veniva subito versata sul panaro, il grande tagliere circolare con annodato un tratto di gaveta (spago sottile) per affettarla. Di ottone erano invece i bossoli di proiettili d’ artiglieria , decorati e non, usati a ornamento del focolare o come soprammobili, vasi da fiori, fermaporte e altro. Ne avevano in tutte le case, ricordo della Grande Guerra. Tutto quello che era di rame o di ottone veniva lucidato col soldame (pomice); i pavimenti (portico
compreso) lavati con acqua, varechina, segatura; si broava su (si lavavano le stoviglie) nel seciaro e per la biancheria si faceva la broa – acqua bollente e cenere, la li$ia; per certe pulizie si adoperava con grande attenzione anche l’ oio fumante (vetriolo?). Spesso d’inverno ci si rifugiava nella stalla, odorosa ma calda senza consumare legna: il nonno faceva ceste, le donne lavoravano faxendo filò (chiacchierando), noi guardavamo, ascoltavamo, se capaci aiutavamo. Filavano la lana (di pecora o di coniglio d'Angora?), lavoravando a feri facevano maglie, berretti, sciarpe, guanti, manopole, calzini: la nonna, agilissima, con quattro corti ferri a due punte confezionava senza guardare le maglie tubolari, mentre parlava velocemente o ci raccontava favole o storie di santi o contava i punti. Era piccola e magra, sempre indaffarata, sempre veloce ed efficiente, vestita di scuro, sancheta (mancina). Aveva un fratello maniscalco che chiamavano Cajenna (per dire cattivo come il pepe); lei invece era molto buona, si chiamava Maria e aveva avuto 11 figli dei quali allora viventi Giuseppe (Beparle), Anna (Neta), Rosina, Teresa, Maria: mio padre e le quattro zie “Stivane”.
Il nonno Antonio (Toni Stivàn) era invece flemmatico e se la scattante nonna lo sollecitava a qualche lavoro rispondeva serafico “Calma, calma Maria: spunta el sol anca domàn“, vale a dire “c’è sempre tempo”. D’ estate lui amava fare un pisolino pomeridiano: se noi ragazzi giocavamo troppo rumorosamente, se non badando al “ssss” della nonna gli impedivamo di dormire, poteva scendere e burberamente minacciarci con la scuria, la frusta che usava con l’asino. Non ricordo una sola volta che ci abbia davvero colpiti, ma per qualche giorno poteva dormire in pace.
------* ho usato $ per s di sole o ss breve, come la pronunciano in Veneto e x per s di rosa.
3 Le ceste Quando, d’ inverno, non c’erano lavori nei campi il nonno faceva ceste. Lavorava nella stalla, al caldo. Con il carro (la careta, a quattro ruote cerchiate di ferro sormontate da un ampio pianale senza sponde) tirato dall’asinello andava a prendere i pali di castagno a Caltràn e le strope (vimini) a Fimon, un giorno di viaggio di quà e uno di là, uno ai piedi dell’altipiano e l’altro oltre Vicenza, sul piccolo lago. Ci sono andato anch’io con lui ma non so se durante o dopo la guerra. Metteva i pali in ammollo nell’ albio, la grande vasca di pietra, e li lasciava nell’ acqua qualche tempo; poi piegati a U e induriti col fuoco diventavano manici e i pezzi avanzati corte gambe, tagliati in sottili liste servivano per l’ ossatura delle ceste. Per fare manici e liste cavalcava la cavalla, una panca di legno con un’ asse verticale su cui erano infissi tre pioli usati per curvare o appoggio; sagomava gambe e manici in modo che fosse facile metterli e difficile toglierli, facendo due
o tre denti a cuneo. Incrociava le liste formando una stella dai molti raggi; partendo dal centro infilava i vimini e creava la base facendoli passare alternativamente sotto e sopra le strisce; piegava in su i raggi e continuava a intrecciare fino all’altezza voluta terminando con un giro sopra e sotto il bordo superiore. La cesta appariva allora come un grosso riccio, con la punta di ciascun vimine che fuoriusciva a intervalli regolari; con una lama affilata le tagliava alla base, infilva le due estremità del manico tra i vimini e i due raggi della stessa lista, a volte inseriva tre o quattro gambe di 5-10 cm. Le ceste erano finite, scure: se si volevano chiare erano poste sotto un grosso telone e sbiancate bruciandovi zolfo. Talvolta usando vimini scuri e chiari faceva ceste, piÚ spesso cestelli, con righe nere su sfondo bianco o viceversa. Tutte finivano su nel deposito, pronte per le consegne di primavera fatte con carro e asino. Ne ricordo una a un grande emporio di Thiene, passando l’Astico a MontÊcio (Montecchio Precalcino) dove la strada entrava nel torrente quasi sempre asciutto: un viaggio che allora mi pareva lunghissimo.
4 Vita rusticana In cucina si entrava dal portico, attraversata la cucina si entrava nel corridoio e girando subito a destra passando per la nostra camera e per l’altra stanza si finiva nella stalla e da lì (girando ancora a destra) si tornava nel portico per un grande portone di legno, l’entrata delle bestie (due vacche e un asino). Vista dal cortile a sud, nella metà a sinistra erano i due piani abitativi mentre a destra la parte inferiore era aperta e divisa in due da un pilastro: un’ampio portico sul quale si affacciava la finestra dell’altra stanza e il portone della stalla. Sopra i due piani abitativi c’era il granaio. Sopra l’altra stanza c’era una specie di magazzino e sopra la stalla il fienile, in un’unico spazio libero fino al tetto. Nel portico una grossa trave andava dal fienile al muro opposto, dov’era il pilastro; un soppalco di tavole era sistemato tra il centro della trave, il muro sud e il muro est; al di sopra di magazzino-fienile, soppalco e portico si vedevano i coppi del tetto; dentro e fuori per sei mesi volavano le rondini e per sei restavano i nidi vuoti. Una volta all'anno la trave veniva usata per appendervi e squartare il maiale, ma quando non serviva a quello scopo spesso vi si legavano i due capi di una corda per fare el brìscolo (l’altalena). Una scala a pioli portava al fienile, da lì passavo al soppalco camminando sulla trave: tanta incoscienza bambinesca provocava il terrore negli adulti e conseguenti sgridate e punizioni; ma spesso durante la siesta non c’era nessuno a vedermi. Un’ altra scala a pioli saliva a una
sporgenza della parete est ed al soppalco che sosteneva: là mi era permesso andare a raccogliere le uova di gallina; altri posti per le uova erano nel fienile e dentro il pagliaio, ma si cercavano e trovavano anche altrove.Sull’angolo sud-est del portico, poggiata all’interno del muro c’era la pompa dal lungo manico e abbondante getto con sotto un grande contenitore (el seciòn): a volte dovevamo, più spesso ci divertivamo a pompare l’acqua, lì per le bestie o nei secchi per gli usi domestici; all’esterno del muro c’era l’ albio; la latrina era un casotto di legno sopra il letamaio, laggiù oltre la casetta col porcile sotto al pollaio e poco lontana dal pagliaio conico, ai confini con l’orto del vicino. In quella zona, ma vicino alla strada, cresceva un moraro, un gelso dalle tenere foglie che servivano anche a sfamare i voraci rumorosi vermetti sulle arelle stese sopra cavalletti nel granaio, fino a quando, silenziosi, si richiudevano nei loro bozzoli dorati: calava il silenzio in granaio e cominciava il ciacolare delle zie in cucina, intente a bollire i bozzoli e a trarne la seta. Qualcuno ci veniva lasciato, ne usciva la farfalla. Le arelle tornavano sul soppalco. Altri ricordi mi fanno dubitare d’ avere sempre dormito
nella stanza al pianterreno. Oltre la porta del granaio c’era il sacco con le ciope de pan biscotto, il pane biscottato a lunga conservazione: ricordo che ne prendevo e, scendendo al mattino, con quello rubavo un po’ della panna formatasi sopra il latte, nel bacile (piana) che la nonna metteva alla sera sul davanzale della finestra a tramontana, a metà scala, per fare burro. La finestra a tramontana era il frigo di mia nonna e il burro lo faceva sbattendo la panna in un fiasco spagliato. Frutta e verdura si prendevano nell’ orto, quand’ era la stagione. Cominciava presto la giornata: governare la stalla, mungere le vacche, raccogliere uova e verdure, preparare il mangiare. Si andava nei campi a volte in bicicletta, più spesso sul carro a quattro ruote tirato dall’asino, al passo o al piccolo trotto. Anche a far pasquetta si andava così, tranquillamente. Invece quanto correva el mu$eto (l’asinello) sotto un cielo nero, minacciante acqua e grandine, per portare al sicuro un carico di fieno! Il nonno aveva lavorato uno o due giorni di falce e poi, per alcuni giorni, tutti con forche e rastrelli per spargerlo al mattino e riunirlo in marèli alla sera. C’ era il sole, il fieno doveva essere bello asciutto, pronto per essere messo nel fienile, dopo la siesta. E arriva quel tempaccio; il nonno attacca l’asino al carro e di corsa ai campi (1 – 1,5 Km da casa)
e tutti, in bicicletta o sul carro andiamo là per raccoglierlo velocemente, prendere fiato guardando il cielo e riprendere ancora più alacremente a metterlo sul carro, sempre più in alto, forcata dopo forcata: è tutto, altissimo, legato, bloccato sotto una lunga pertica. Svelto sul carro, sopra il fieno, col nonno: “iii” e l’asino parte, corre il poverino, schiocca la frusta, lo colpisce e corre, guardiamo il cielo, forse ce la farà, arriviamo, il cancello è aperto, c’infiliamo nel portico. “Ooo”, l’asino si ferma, il fieno è salvo, fuori inizia il diluvio. Anche i nonni materni abitavano in quel paese, nella piazza, un 300 metri dagli altri ed io ero spesso da loro, nipote preferito o quasi. Tre cugini doppi (figli di sorella di mio padre e fratello di mia madre) avevano gli stessi nostri nonni, zii e cinque cugini, che si adeguavano considerando loro parenti anche quelli che erano solo nostri.
5 Guerra e pace. Di notte c’era Pippo a terrorizzare i grandi e noi con loro, di giorno i bombardieri ad affascinarmi, una volta un sibilo vicino (una scheggia?) ad inorgoglirmi; nei campi raccoglievamo bossoli di mitragliatrice aerea. Mio padre girava col camion e spesso non c’era (era allora che dormivo al pianterreno?); i tedeschi nella vicina Bassano avevano impiccato non so quanti partigiani; al paese si diceva che ricercavano un uomo alto, magro; mio padre era alto, magro. Mia madre era quasi sempre spaventata e ora aveva un figlio di pochi mesi: su tutti i pannolini* e fasce aveva ricamato una “S”: dopo maschio femmina maschio doveva essere Silvana e così fu Sergio. E anche i tre cugini erano divenuti quattro. Ora i tedeschi fuggivano, si nascondevano le biciclette, un ragazzino di loro – pistola in mano – ne pretendeva una: non si poteva dargli quel capitale, nemmeno per la vita, ma poi se ne andò e restammo con bici e vita. Si ascoltava ancora guardinghi Radio Londra, ci parve di capire che gli alleati erano a Piacenza: sul tardi udimmo un gran colpo; mio padre ci fece stendere tutti a terra, mia madre terrorizzata voleva uscire ma fu stesa con la forza. Poco dopo un altro boato e un altro: ne contammo nove, poi silenzio; attesa, silenzio; ci trasferimmo velocemente nel rifugio scavato presso la casa dei Scàraba (la famiglia del fratello di mio nonno), appena al di là della strada e aspettammo, grandi e piccoli svegli e tesi. Gli uomini andavano e venivano;
prima dell’alba entrò qualcuno annunciandoci che erano arrivati gli “americani”: non erano a Piacenza, ma a Vicenza. Uscimmo, tornammo nella casa dei nonni, guardinghi e allegri; il primo “americano” che ho visto disse, in qualche modo, di essere polacco e cattolico e mostrava corona e santini; nella cucina c’era un Sacro Cuore con un lumino elettrico sempre acceso. Poi ne arrivarono altri, molti altri; ce n’erano ovunque, bivaccavano sulla strada, nell’aia, nel portico; scambiavano il loro scatolame con patate, cipolle e altri prodotti dell’orto che nel muro di cinta aveva ora una larga breccia; schegge metalliche erano conficcate nel portico, ma mamma non era uscita; usarono le nostre pentole più grandi per cucinare, bruciando le loro scatole cerate; distribuirono sigarette ai grandi, cioccolata ai piccoli; qualcuno provava goffamente ad andare in bicicletta. Le campane suonarono; andammo in piazza: eravamo euforici attorno a due mitragliatrici (contraeree da 20, disse mio padre), attorno al carro armato abbandonato. C’era gente, americani a piedi e sulle jeep, tanti; arrivò qualcuno, gridò qualcosa e corsero via: dei tedeschi erano stati visti in qualche posto. Noi tornammo a casa, mio padre mi mostrò una pistola e seppi che l’aveva presa a un autiere tedesco, nella piazza del paese, fingendosi armato e minacciandolo con le dita in tasca: l’incoscienza non era solo dei bimbi, in casa nostra, era lui che cercavano. Volli provare la pistola: me la dette, pesava e non riuscii a premere il grilletto; per anni pensai che non ero abbastanza forte, non che aveva messo la sicura. Qualche anno prima scriveva “vinceremo”, qualche
giorno prima aveva fatto quella pazzia: senza mai pensare di trarne vantaggio, solo seguendo l’ impulso del momento come quando anni prima aveva salvato un uomo dalla folgorazione o aiutato mesi dopo la moglie di un “repubblichino” incarcerato a Vicenza: lei ci regalò un grazioso cagnolino, la nostra “Boba”. Qualche tempo dopo tornammo a Vicenza. La Boba al chiuso era un disastro; fu riportata dai nonni paterni, ma spesso andava a trovare gli altri, come facevamo noi.
_______ * I pannolini di tela non si gettavano ma venivano lavati, asciugati, riutilizzati e conservati per altri figli. I neonati erano stretti in fasce.
6 Vicenza Orazio occupò parte del nostro appartamento per un po’, poi scese di un piano: quello che era stato il suo pavimento era diventato il suo soffitto. Era un “borsanerista”, contrabbandiere dei dazi comunali, maledetto e benemerito; la sua stanza (con porta sul pianerottolo) era piena di generi che non si trovavano nei negozi (quasi niente c’era allora nei negozi); riempiva due sporte, le appendeva a destra e a sinistra sul manubrio della bici e se ne andava in giro a vendere la sua merce: per me è stato il primo “lavoratore in nero” oltre che primo “abusivo”. Mi metteva un po’ di paura con quel suo fare misterioso: non parlava, sussurrava; vestiva di scuro, portava il cappello, fumava, Orazio. Davanti, un po’ a sinistra (a ovest) c’era Vicenza. Di là della strada Severino D……., ex corridore ciclista, vendeva e aggiustava biciclette; il negozio dava su Contrà Porta Padova, l’ officina su Viale Margherita e da questa strada si
scendeva nel cortile-officina. Poi c’era un prato ( el prà de C….., el becaro), con gli orti, le basse casette della corte, i resti delle mura cittadine e sulla destra la palazzina, con l’ entrata, la latteria e la macelleria in Contrà Porta Padova, dopo il negozio di biciclette e il muretto che ne sovrastava il cortile. Non vedevo la cupola della Basilica, era stata distrutta: l’avrei rivista qualche tempo dopo, rame rosseggiante sotto il sole fino a quando è tornata di un colore più sobrio e consono. Anche la parte terminale della Torre mancava. Al tramonto il sole calava oltre la città, fra i monti lontani; di notte le strade tornarono a illuminarsi; d’estate l’ asfalto molle cedeva sotto i piedi; d’inverno mondo e rumori quasi sparivano nella densa nebbia, poco contrastata dalla gialla luce del crocevia. Dalle finestre dietro si poteva vedere il primo sole, un grande ciliegio, il nostro piccolo cortile, una serie di orti fra le case di Corso Padova e Borgo Casale; la fabbrica di Giocondo P.. (birra e vino) dall’una all’altra via chiudeva l’orizzonte davanti; a destra il cortile della ditta Pietro L… Legna&Carboni, più lontano sul colle l’altra Basilica, il Santuario della Madonna di Monte Berico mille volte implorata nei triboli della guerra.
“Oh! Maria Vergine SantiSima de Monte Berico” detto con toni di afflizione, di meraviglia, di gioia, d’invocazione, di sorpresa era tipico e frequente nel vicentino, quasi quanto il “ciò” (bello, ciò/ ecco, ciò/ ciò, viento?/che caldo,ciò!), l’ equivalente del tèi o toi dei trentini. Il boccciodromo (‘a corte de’e ba’e) di Borgo Casale si sentiva molto ma si vedeva poco. Dei danni subiti dalla città e dalla casa dove abitavo il ricordo è vago, forse sono stati riparati presto: c’erano di sicuro, perché mio padre parlava di uno spezzone incendiario finito nel nostro sottotetto e quindici anni dopo lavoravo per accelerare il rimborso dei danni di guerra subiti dai fabbricati dell’Ente che mi stipendiava. Sergio cresceva ma viaggiava ancora in carrozzella; anche Renzo era piccolo, il fratello di un’amica di mia sorella. La carrozzella poteva portare due bimbi, uno di fronte all’altro; mia sorella e l’amica la spingevano e io camminavo con loro lungo il viale dai grossi platani lungo il fosso. Superato el campo de Nane – un semiselvatico terreno di giochi – dopo il ponte girammo a destra, nella strada tra Retrone e Bacchiglione. Dopo un po’ le due ragazze videro dei fiori, laggiù sulla riva; mi lasciarono a guardia dei bimbi e scesero a coglierli. La carrozzella era ferma sul ciglio della strada, a qualche decimetro dalla scarpata che finiva nel fiume. I bimbi sono curiosi, si sa: io guardavo le due ragazze, anche i due più piccoli le guardavano. Per meglio vedere entrambi si sporsero, la carrozzella si ribaltò, rotolò nella scarpata e .. si fermò in una buca di bomba: non ebbero danni, la guerra li aveva salvati.
7
Il latte Il latte ci voleva, a casa nostra (*): il latte e il pane. Non ricordo problemi per il pane, che compravamo a credito (mio padre lavorava, ma solo di tanto in tanto la ditta poteva dargli i soldi che gli doveva). Per comprare il latte si andava dalla lattara: bisognava andarci presto, con le bottiglie; finché non c’era molta gente si poteva aspettare sul muretto, poi fare la fila e attendere. La fila di due o tre persone affiancate a volte finiva oltre la macelleria e si aspettava; si aspettava che arrivasse la lattaia, che apriva la porta e i primi entravano facendo la fila a destra, lungo la vetrina, il muro, il bancone; poi si aspettava che arrivasse il latte. Arrivava un camioncino, prendevano alcuni bidoni (zare) e li portavano dentro; qualche manovra per versare il latte nel bidone fornito di rubinetto che veniva posto sul bancone e poi cominciava la vendita: la lattaia riempiva di latte il misurino (1/4, 1/2, 1 litro) e lo versava con l’imbuto nella bottiglia del cliente, si pagava con AMlire quadrate e avanti un altro. Spesso capitava che il latte finiva, ma la coda no: molti rimanevano senza, noi non potevamo permettercelo e facevamo le lunghe attese. Ma anche così poteva capitare di rimanere senza latte; soluzione: latte in polvere o latte condensato. Così mi avviavo verso Levà degli Angeli per comprare l’uno o l’altro, mai che ce ne fosse una scorta in casa. Il latte condensato era dolce, appiccicoso e si poteva mangiarlo usando un dito o un cucchiaio; il latte in polvere mangiato così si ingrumava in bocca, allungato con l’acqua sapeva più di acqua che di latte; il latte fresco si
doveva bollire. Quando cominciò ad essere più abbondante, pastorizzato, venduto in bottiglie di vetro dalla larga bocca tappata con l’ alluminio (vuoto a rendere) e la lattaia averne per tutti, in casa non arrivava mai tutto quello comprato: due buchetti sull’ alluminio e succhiavo camminando. Camminavo piano, ma abitavo molto vicino.
(*) A fine guerra noi bimbi avevamo 11, 9, 7 e meno di 1 anno, ovviamente non c’era frigorifero e il latte andava sempre bollito.
8 La vaca mora. Proprio sotto casa passava la vaca mora. Così erano detti la locomotiva nera e fumosa e il treno delle ferrovie locali che da Vicenza andava a “Recoaro, Arzignano, Chiampo” (a Montecchio si cambia), “Marostica-Bassano” (la prendevamo per andare dai nonni: capitava di dover scendere per permetterle di superare un cavalcavia), “Noventa, Montagnana“. Questa linea andava dalla stazione a Porta Monte passando per S.Croce, S.Bortolo, S.Lucia, Porta Padova e Viale Margherita: un cerchio quasi completo attorno alla città. Quando arrivava la casa tremava e si dovevano chiudere le finestre per non riempirci di fumo; sferragliava e fischiava; anche il capotreno fischiava, perché davanti casa c’era la fermata. Fino a Porta Padova il binario era sul lato destro della strada, ma lì passava a sinistra tagliando in diagonale il crocevia. I più fortunati allora avevano la bicicletta, ma quasi tutti in famiglia ne avevano una e la usavano a turno: andando da Porta Monte a S. Bortolo, in viale Margherita le rotaie erano a destra, subito dopo l’incrocio a sinistra, i ciclisti
nell’incrocio dovevano sterzare a destra e tagliare le doppie rotaie per non infilare una ruota in mezzo e cadere: erano tutti esperti, quasi nessuno cadeva e quelli che cadevano più che farsi male facevano una figuraccia. Nonostante il fumo il rumore e le doppie rotaie lazzarone, la vaca mora – locomotiva e vagoni – mi era simpatica e utile: vedevo un sacco di gente alla fermata, salivo sui respingenti dell’ultimo vagone per un passaggio fino al non lontano ricreatorio, i finestrini erano bersagli dei cartacei proiettili (pìrole) della cerbottana, sulle rotaie facevo schiacciare barattoli o altri contenitori quasi sempre vuoti; più birichinate che cattiverie.
9 La scuola Tutto questo discorso è nato considerando che quasi nessuno dei bambini va oggi a scuola a piedi, da solo, non accompagnato in macchina dai genitori, mentre ai nostri tempi era il contrario. Ho ripensato alla scuola nel paese, alla sberla che mi sono preso dall’ insegnante , ai sassi caldi che tenevamo nelle tasche d’inverno nelle strade ghiacciate, alle sliSegade (scivolate) sulle lunghe lastre di ghiaccio (sliSegarole) naturali o provocate con secchiate d’acqua, alle grandi stufe della scuola e alla poca legna, a quanto fosse vicina a casa la scuola a Vicenza: volevo parlare di questo ma ho parlato di tante altre cose e mi accorgo che sulla scuola non ho molto da dire. La sberla dall’ insegnante nella scuola del paese è giunta inaspettata ma forse non immeritata. Eravamo in classe, si sentivano gli aerei volare bassi, ripetutamente. Siamo corsi tutti alle finestre a guardare (ma perché non ce l’ha invece impedito?). Io guardavo, ammiravo, ho espresso ad alta voce la mia ammirazione – “che picchiata!” – e mi sono preso un sonoro schiaffo in faccia: i caccia “americani” stavano mitragliando la stazione, un due-trecento metri davanti a noi … proprio dove l’ insegnante abitava. Magari oggi i genitori la denuncerebbero: i miei non lo fecero, anche perché prudentemente non ne parlai, allora. Alla scuola di Vicenza, anche se avessimo avuto l’automobile mai ci sarei andato se non a piedi. Nelle strade non c’era gran traffico: biciclette, qualche carro trainato da cavallo o
asino, qualche rara vettura, il filobus (el tram co’e tirache); non c’erano strisce pedonali ma borchie (si diceva inventate a Trieste per impedire alla bora di portar via le strade); con un po’ di attenzione si passava da un marciapiede all’altro senza pericolo. Attraversavo la strada e andavo verso il centro per un centinaio di metri; lì c’era il castagnaciaro, il primo extracomunitario che ho conosciuto. Forse extracomunitario è un po’ esagerato: era solo toscano, ma tutti gli altri erano vicentini, veneti. Faceva castagnaccio, semplice, con i pinoli e non so con cos’altro: buono e caldo. Faceva anche il barbiere, nella bottega del barbiere titolare più di una volta è stato lui a tagliarmi i capelli e siccome mamma non diceva niente, credo fosse bravo anche in quello. In sua assenza c’era la castagnaciara, sua moglie: non credo facesse anche la parrucchiera, ma qualche tempo dopo oltre al castagnaccio vendeva panna montata d’inverno e gelati d’estate.
Attraversavo la via e mi trovavo in uno spiazzo in fondo al quale c’era il cancello della scuola: si entrava in un vasto cortile con grandi alberi. Se si usciva dalla parte opposta si era davanti al ricreatorio, confinante con la scuola. Credo di non essere mai arrivato in ritardo, sia perché abitavo vicino, sia perché in quel cortile si poteva giocare fino a quando i maestri non ci dicevano di fare le file per entrare, sia perché – nella giusta stagione – dai grandi alberi cadevano dolcissime pàpole. Non chiedetemi cosa sono: non lo so, ma mi piacevano. E con questo mi fermo, almeno per ora. PS – Mi è stato detto che le pàpole sono il frutto del bagolàro, l’albero che spunta in alto a destra della foto di siro.gassamigli . PPS – Ho ricevuto e inserito una foto fatta a Porta Padova credo nei primi anni ’50 in cui si possono vedere le broche pedonali, i fili del tram, l’accesso (dove c’è il vespasiano) al piazzale antistante quello della scuola.
10
Cortili Non era grande il cortile sul retro. Da quella parte avevamo le finestre di camera dei genitori, cucina, corridoio, camera nostra di noi maschietti più giovani. Un lato del cortile quadrato coincideva con i primi tre vani. Al corridoio corrispondeva dall’altra parte dell’appartamento il vano scale. Entrati dalla strada, subito a destra la porta del signor Mi…on; a sinistra la porta della signora Botti, poi la prima rampa delle scale e a destra di essa, sotto la seconda rampa, un corridoio andava dalla porta sulla strada diritto alla porta sul cortile: con entrambe le porte aperte potevamo soffiare con la cerbottana i nostri proiettili di carta (pirole) contro la vaca mora ed eclissarci immediatamente. Le finestre delle camere erano di normale grandezza, con gli scuri che scorrevano su rotaia dentro il muro. Le altre due erano grandi, ognuna munita di avvolgibile di stecche di legno che si srotolava allungando la corda di sostegno; barre di ferro sagomato reggevano all’esterno fili per stendere e tavole di legno con sopra innumerevoli vasi di fiori: tanti gerani, tanti colori , tante qualità; primo e ultimo pensiero della giornata materna.
Al centro del cortile una piccola aiuola rotonda con una bassa palma; piccoli orticelli di guerra occupavano qualche metro dal muro su tre lati. Sul rimanente lato SW, all’ombra del fabbricato confinante e della casa, c’era solo una pianta dalla bianche tenere bacche. Da quella parte un po’ del nostro orto per qualche tempo divenne recinto per poche galline.
Il terreno non coltivato era coperto di ghiaia e lì giocavamo. Da lì chiamavamo ripetutamente a gran voce “mamma”, fino a quando lei non si affacciava fra i gerani al secondo piano. Poteva essere per un fazzoletto, un gioco, una protesta, una lamentela, la meranda. Altre volte era lei a chiamarci per la merenda, quasi sempre volevamo fosse “pan, buro e sucaro“e che ci venisse gettata per non interrompere i giochi: ci arrivava bene avvolta nella carta. A NE un muro, alto neanche due metri e scalabile, ci separava dal grande ciliegio e dall’altro cortile senza bimbi e senza orti, un nobile giardino. La mia finestra era sopra quello; non avevo perso il vizio di sfidare la sorte e gli urli materni sedendomi sul davanzale, con la schiena poggiata a uno stipite e i piedi contro l’altro: ora mi tremano le gambe solo a pensarci. A SE un muro alto come l’altro ci divideva da un grande orto, ma non ci impediva di beneficiare dell’ alloro e di alberi fruttiferi posti sul confine. Gli orticelli di guerra finirono con essa: prima divennero giardini fioriti e poi sparirono del tutto. Ora che eravamo più grandicelli spesso venivano amici dei dintorni, spesso alcuni inquilini protestavano per la nostra esuberanza, spesso andavamo nel cortile di amici vicini dove poteva succedere la stessa cosa. Tra di noi si usava quasi sempre il cognome, con qualcuno il nome, parlando di amici nome e cognome. No…..li (Ico, di nome) aveva un lunga corte: cominciava dalle cantine di un alto palazzo, passava sotto le basse case sui garage e al successivo muretto (muretta) che costeggiava le rotaie della vaca mora,
saliva fino al cancello quasi sempre aperto. Tante volte ci si sedeva sulla muretta, all’ ombra delle case d’estate o al sole d’inverno. As….ri (Adriano) aveva la corte al di là della strada, poco prima: ma era inutilizzabile, vi lavorava il maniscalco ed era ingombra di tante cose. Dalla muretta si poteva proseguire avendo alla sinistra, al di là del fosso e del terreno più o meno coltivato, il cortile e l’edificio scolastico; ancora qualche decina di metri poi si girava a sinistra e si arrivava al cortile del ricreatorio per giocare a calcio con amici vicini e lontani, ma non più bimbi. A fianco della corte di No…..li, qualche metro più alta, c’era la corte di Pi..an (Toni), molto più piccola: scendeva in un orto sovrastato dal cortile della scuola. Tra corte e orto c’era un fico palestra di arrampicate e motivo d’imprecazioni del padre di Pi..an contro noi distruttori delle opere di madre natura (i rami del fico sono fragili). La terrazza di Pa..an (Piero) dava su quel cortile mentre le finestre della sua sala dominavano un vasto piazzale in terra battuta, altro terreno di gioco. Dal piazzale si entrava nel cortile della scuola e si usciva al ricreatorio, ma non sempre era possibile. Nel cortile del ricreatorio si entrava solo negli orari stabiliti, ma erano molto estesi. Cortili piccoli o grandi ma assolutamente liberi da autovetture, allora.
11 Strasse, ossi, ferovecio Non si stava bene 60 anni fa, si viveva con il poco essenziale e niente superfluo, ma si poteva giocare nelle strade quasi vuote di auto e girando in bicicletta l’unico pericolo era costituito negli incroci dalle doppie rotaie della vaca mora in cui, se non le “tagliavi”, potevi infilarci una ruota e cadere. Ora penso che non si viveva così poveramente come credevo: il pane era cosa comune, ora è quasi un lusso; polenta e baccalà alla vicentina c’era tutti i venerdì, ora mi pare una leccornia da gustare qualche volta all’anno; pane e salame, pane e pancetta, pane e lardo, “minestron”, minestra di verze erano il nostro povero cibo e sognavamo pollo con polenta. Ora, per me è il contrario. Nella giusta stagione non era un lusso avere ciliege, prugne (brombi e amoli), piccole pere (peri sampieroli, perchè maturavano a fine giugno, San Piero), fragole di bosco, castagne, patate dolci. Ora è sempre stagione e prezzi alti. Ad una cert’ora passava el scoassaro sul suo triciclo a pedali con due bidoni sopra, soffiava nella sua trombetta e mamma mi mandava giù a portare il sacchettino delle scoasse. Non c’erano e non servivano cassonetti, camion con due uomini sulle predelle posteriori o braccio meccanico su un lato: bastava un sacchettino da consegnare al scoassaro quando suonava la trombetta, ma le strade
non erano mai ingombre di rifiuti, pulite dal spassin con la lunga ramazza. Non c’erano oggetti di plastica ma di legno, che una volta inadatti all’uso finivano nella stua, i vestiti venivano aggiustati, rigirati, passati al fratello minore (c’erano fratelli). Non c’erano rifiuti in giro e non ricordo se si pagava la tassa specifica, ma si poteva raggranellare qualche soldo consegnando giornali e materiale vario a quel tale che, pure su triciclo a pedali, girava per le strade di città e paesi gridando “Strasse, ossi, fero vecio!“. Nessuna emergenza rifiuti.
NOTE. Vaca mora= locomotiva delle FTV # Stua= stufa, serviva per cucinare e scaldare la stanza # Scoasse=spazzatura (da scoa=scopa), rifiuti # Scoassaro=operatore ecologico un temp dettonetturbino, chi raccoglieva le scoasse # Spassin=operatore ecolgico un tempo detto spazzino # Minestron=minestra di pasta, fagioli, patate, aromi # Strasse, ossi fero vecio=stracci, ossa, ferro vecchio.
12 Un altro mondo Molti anni fa, quand’ero ragazzino, vivevo in un altro mondo. Non ero mai a casa, o quasi mai, ma mia madre sapeva sempre dove trovarmi, come lo sapevano quasi tutte le nostre madri. Lo sapeva e non mi veniva a cercare, non temeva che usassi droga (nessuno lo faceva), che subissi un incidente d’auto (nessuno l’aveva) o con il motorino (il Mosquito andava più adagio della bici). Per l’ora di cena ero sempre a casa, il tempo per cenare. Magari potevo tornare a casa senza una maglietta, tolta e dimenticata o – com’ è capitato – senza i calzini che avevo perduto pur essendo assolutamente certo di non essermi tolto le scarpe. Lo affermavo e ancora lo affermo, ma non so spiegarmi come possa essere successo. Passavo – passavamo – la maggior parte del tempo al ricreatorio parrocchiale “de San Piero”. Molto tempo, avevo molti impegni. Si giocava al calcio su un terreno senza erba (mai esistita) e con molti sassi; ma non mi entusiasmava, non ero molto bravo e preferivo altri giochi. Sullo stesso terreno si giocava anche a “pallacanestro” (mai chiamato basket), più o meno con lo stesso entusiasmo e gli stessi risultati. Era il tempo che nel mondo imperversava la “canasta” e anche noi facevamo interminabili partite a quel gioco con due mazzi di carte – che ora non saprei forse più giocare – fra quattro amici, in una delle sale o – d’estate- all’ombra degli striminziti alberi posti su un lato del campo di calcio e di pallacanestro, che – nelle
domeniche – era anche la platea del cinema all’aperto parrocchiale. Il ricreatorio aveva anche un biliardo in una sala e in altre dei biliardini, un paio di “calcio-balilla” e due ambitissimi tavoli da ping-pong , che d’estate spostavamo nel portico o sotto gli alberi. Per giocare al tennis da tavolo di sicuro c’erano anche le “spatole”, le racchette di legno; credo ci venisse fornita anche la pallina, ma potrei sbagliarmi. Qualcuno di noi aveva la racchetta personale, rivestita di gomma, un lusso per pochi: io e molti altri usavamo quello che ci passava la parrocchia. Ping e pong erano suoni quasi immancabili, al ricreatorio. I primi arrivati cominciavano a giocare; chi vinceva continuava e chi perdeva lasciava la spatola a chi veniva dopo e così via. Nessuno era imbattibile, ma qualcuno faceva molte partite qualcun altro poche. A me qualche volta andava bene altre meno: c’era qualcuno che raramente riuscivo a vincere ma magari potevo battere chi lo vinceva. Se eravamo in pochi le partite di singolo andavano ai 21 punti, altrimenti si facevano partite di doppio ai 21 punti o di singolo agli 11. Chi perdeva, aspettando il suo nuovo turno poteva consolarsi giocando al “calcetto”, il vecchio calcio balilla in edizione moderna: campo di vetro su panno verde, con gli undici giocatori di plastica manovrati con quattro aste di 1, 2, 5, 3 giocatori: credo non siano cambiati da allora. Anche lì vigeva la stessa regola: chi vince resta, chi perde lascia; anche lì i giocatori potevano essere due ma di solito erano quattro; anche lì non ero imbattibile ma nemmeno sempre battuto, giocando in coppia
dipendeva anche dal compagno; anche lì credo che giocare fosse gratuito, ma potrei sbagliarmi. Non sempre si poteva passare da un gioco all’altro, dipendeva da quanti eravamo e di solito eravamo in molti; non sempre si preferiva l’uno o l’altro gioco, di solito ci si accontentava di quello disponibile al momento; normalmente chi vinceva non cambiava gioco a meno che non se ne fosse stufato, volesse fare un favore ad un amico o che fosse richiesto per fare coppia. Poi arrivò Mike Bongiorno e la televisione. E il ricreatorio si munì di un aggeggio che faceva vedere le immagini TV su uno schermo piuttosto grande: al giovedì sera nella sala cinematografica la proiezioni del film si interrompeva e la gente vedeva Lascia e Raddoppia; negli altri giorni nella sal del biliardo potevamo vedere il Giro d’ Italia, “Non è mai troppo tardi” e poco altro. Avevo molto da giocare, me ne restava poco per studiare e mia madre di questo non era contenta. Anche dopo cena avevo impegni: non so quali, ma ne avevo. A maggio, per esempio, mi piaceva andare ai “Fioretti” – le funzioni della Madonna – perchè prima e dopo sul piazzale sterrato della chiesa si poteva giocare a “grosta” ossia a “ciaparse” cioè quel gioco che credo si dica “rincorrersi” o “sconderse” (nascondino) o “poncio”(lippa) o qualche altro gioco. Erano le prime serate calde, era bello anche solo girare a piedi o in bici per la città e comprare i primi gelati ai carrettini sagomati a gondola e con due lampade a carburo, i gelati “de Brustolon”, la gelateria al ponte Pusterla. Una volta eravamo in tre e avevo dieci lire: chiesi ed
ottenni un “gelato da dieci ripartito in tre coni�. Per qualche tempo studiavo (o dicevo di studiare) dalle 4 alle 7,30 del mattino.
13 Divagazioni FTV – Ho già detto (vedi) che per noi la “vaca mora” (o “vacamora”, il treno delle ferrovie locali) era una di casa: passava sotto casa nostra, la faceva tremare, vi entrava col fumo e col rumore, il nostro marciapiedi era la sua banchina. La vedevamo fermarsi e passare: non l’abbiamo mai usata per andare verso Noventa, ma nell’altra direzione -a parte i brevi passaggi “de sfroso” – qualche volta sì. Andavamo spesso dai nonni con il treno per Bassano e alla stazione FTV (Ferrovie Tramvie Vicentine) andavamo o a piedi o col “tram co:e tirache”. Le “tirache” sono le bretelle e il filobus era collegato alla linea elettrica aerea con due aste, due bretelle. La linea 1 da Porta Castello alla Stanga passava tutto Corso Palladio e tutta [via] Porta Padova, con fermata a quattro passi da casa nostra, all’andata e al ritorno. Sia la “vacamora” per Bassano che quella per Noventa dopo S.Croce fermavano a San Bortolo, ma solo pochissime volte siamo scesi o saliti a questa fermata e forse una sola volta abbiamo preso il treno da o per Porta Padova, la fermata davanti casa. L’abbiamo invece usato per andare a Santa Croce a prendere combustibile per casa, non ricordo bene se sacchi di segatura o vinacce pressate, non ricordo se là c’era una segheria o una distilleria o vendita di combustibili: su quel tragitto non c’erano filobus e in città autobus non c’erano, ma c’era la “vacamora”. Della stazione FTV davanti al Campo Marzo ricordo che appena finita la guerra era un enorme, alto, freddo
salone in cui spiccava una grande figura di diavolo (SuperIride, credo) e che vi si arrivava per una disastrata strada male illuminata a fianco dello spazio vuoto dov’era stato il Teatro Verdi: una sera tardi camminando in questa strada, mia madre per un bel tratto era convinta di mettere ripetutamente il piede in una delle tante buche, prima di accorgersi di avere perso un tacco. Inverno – D’inverno faceva freddo, al mattino freddissimo, ma poi la casa veniva riscaldata. Non tutta: solo la cucina (dove si viveva la maggior parte del tempo) e al massimo anche una stanza contigua. Non c’erano “termosifoni”, come allora chiamavamo i radiatori: in cucina oltre al fornello a gas per l’uso immediato c’erano la “cucina economica” che poteva funzionare a legna, carbone o “casate” e, d’inverno, la “stua”, la stufa a segatura. Segatura, legna (tranne una piccola scorta sempre a portata di mano), carbone, casate erano in cantina, cinque mezze-rampe di scale più sotto e lì si andavano a prendere ogni giorno. La cucina economica era una benedizione: c’era sempre l’acqua bollente nell’apposita vasca con la parte
inferiore incassata e la superiore in bella mostra, sopra il fornello una serie concentrica di anelli (piastre) permetteva di regolare l’apertura superiore a seconda della misura delle pentole e delle necessità di cottura, sulle piastre centrali si poteva abbrustolire la polenta e scaldare la soppressa sopra la carta velina e altro, ai margini il baccalà alla vicentina “pipava” per ore e veniva buonissimo. E il forno per la putana e arrosti vari, e le bron§e per la fogara che messa nella monega ci scaldava il letto, e la cenere per coprire quelle braci troppo ardenti. Bastava accenderla al mattino e alimentarla secondo occorrenza, ma per cuocere qualsiasi cosa necessitava abilità ed esperienza togliendo o mettendo piastre, posando i tegami al centro a ai margini per regolare la temperatura ed evitare che il cibo “ciapasse el brustolin”, sapesse di bruciato. La “stua” era un bidone con sotto uno sportello e sopra cerchi di ferro come quelli della “cucina economica”: si toglievano i cerchi e si estraeva un bidone leggermente più piccolo. Sopra era aperto e sotto aveva un buco in centro: si metteva nel buco al centro un palo (la “mescola”, il lungo mattarello usato per tirare la sfoglia) e si riempiva di segatura, pressandola con i piedi tutta attorno al palo che doveva rimanere in centro. Una volta ben pressata la segatura, si rimetteva dentro il bidone dov’era prima e si toglieva il palo lasciando un foro al centro. Il bidone interno poggiava su mattoni e il portello su quello esterno permetteva di mettere un fuoco sotto, la fiamma saliva lungo il foro e la segatura attorno bruciava. Faceva un bel caldo e durava piuttosto a lungo. Man mano che bruciava il
buco diventava sempre più grande e il calore più forte, ma non si poteva regolare se non un poco agendo sulla manetta che ragolava l’apertura del “canon de^a stua”, il canale da fumo che collegava la stufa al camino: era allora che si apriva la porta della stanza contigua, così il caldo diveniva tollerabile in cucina e il freddo accettabile nell’altra stanza. L’operazione di caricamento della stufa era piuttosto lungo e solitamente si faceva una volta al giorno, non di primo mattino, e a volte prima che buciasse tutta la segatura vi si aggiungeva un pezzo di “casata“. Le “casate” erano vinacce pressate, quello che restava dopo la spremitura dell’uva nel torchio e dopo averne ricavato la grappa: scuri dischi di circa due spanne di diametro e 5 cm di spessore, se ben ricordo. Bruciavano meravigliosamente con fiamma costante, tutto il contrario della segatura dalle fiammate esagerate. Al culmine della sua attività la stufa era caldissima, bisognava starne alla larga. L’ultimo dei miei fratelli era molto piccolo allora e mentre mia madre si preparava per sostituire il pannolino appena tolto lui girava per la casa col sederino scoperto: si avvicinò alla stufa, si girò e si piegò per raccogliere non so cosa e cominciò ad urlare e mia madre ad agitarsi, a controllare l’effetto del caloroso contatto, a mandarci di corsa alla vicina farmacia: fu quella volta che scopersi la Vegetallumina.
14 Venezia Mio padre mi aveva promesso che se fossi stato promosso mi avrebbe comprato la bicicletta ed ero stato promosso. Davanti casa nostra vendevano biciclette e mi conoscevano: prima di andare a casa passai per quel negozio, scelsi la bicicletta, la presi e andai a dirlo a mio padre. Era una Dei, col cambio a tre velocità … e costava più di uno o forse due mesi di paga: mio padre si congratulò per la promozione, la bici l’avrebbe pagata a rate. Così facevo giri in bici, secondo le mie possibilità che non erano gran che: non ero veloce ma testardo sì e con pazienza andavo qua e là, quasi sempre da solo. Andavo dai nonni abbastanza spesso, una quindicina di Km andare e altrettanti tornare: tutti in piano tranne un cavalcavia (quello dove ci avevano fatti scendere dalla vacamora perchè lo superasse) e un ponte. Ogni tanto – negli anni - qualche giro più impegnativo: Padova, Asiago, Lavarone, Arcugnano, Montebelluna, Valsugana e altri. L’impresa più memorabile è stata andare da Vicenza a Merano, presentarmi a casa di un omonimo e amico di gioventù di mio padre che molto gentilmente mi ha ospitato quantunque fossi arrivato senza preavviso, avesse la moglie (amica di gioventù di mia madre) impegnata non so più dove e lui dovesse ogni giorno recarsi al lavoro. Vi sono rimasto quasi una settimana: un giorno da lì sono salito verso lo Stelvio (gran caldo a
Merano, calzoncini e camicia leggera, inizia la salita, strada sterrata, sale la quota: ad un certo punto non ce la faccio più per il freddo e giro la bici), un altro su a Passo Giovo, giù a Vipiteno e poi Bolzano, un giorno Passo delle Palade e Bolzano, un altro in giro per Merano e alla fine ritorno a Vicenza: ero andato per il Passo della Fricca, tornavo per la Valsugana. A pensarci ora fu poco meno di una pazzia. Ma quello che ancora ricordo per la sofferenza è la mia prima visita a Venezia, quando avevo da poco la bici. Non è lontana da Vicenza, pensavo: una trentina di Km e sono a Padova, più o meno altrettanti e sono a Venezia. Semplicissimo. Allora non c’erano contachilometri elettronici, non avevo idea della mia velocità di crociera, non sapevo quanta strada potevo fare e in quanto tempo: un’occhiata alla carta stradale di mio padre, un calcolo approssimativo della distanza e considerato che i corridori ciclisti facevano molta più strada in tempi ragionevoli ho pensato che se per loro era facilissimo per me non doveva essere impossibile. Salito in bici e via, calzoncini corti e maglietta di tutti i giorni, cento lire in tasca. Arrivo a Venezia nel tempo che mi è voluto e comincio a girare per la città, in bici: forse non siamo in molti ad averlo fatto, escludendo i ciclisti che vi sono giunti in un giro d’Italia. Dopo avere girato un bel po’ per Venezia penso sia ora di tornare a casa. Ovviamente non sapevo quale strada avevo fatto e non avevo cartina, così un po’ a naso prendevo una via, poi un’altra e poi mi trovavo davanti un canale: frenata,
dietro front e di nuovo strada, stradina, canale. Finalmente mi decido di chiedere a qualcuno la via per andare a Padova, per tornare a Vicenza: e mi dicono che devo andare a Piazzale Roma, passare il ponte e seguire le indicazioni. Piazzale Roma! Avevo visto diverse indicazioni per Piazzale Roma, ma non sapevo che fosse quello dove finiva il ponte dalla terraferma! Fatta la scoperta, sempre in bici sul piano e con la bici sulle spalle sui ponti, seguendo le indicazioni sono arrivato a Piazzale Roma, al ponte, alla terraferma, alla strada per Padova (e per Vicenza). Non avevo mangiato nulla, avevo bevuto acqua alle fontanelle, non avevo borraccia: poco prima di Padova ero sfinito, avevo 100 lire, sapevo che un Mottarello ne costava 80, comprai il gelato e mi restavano 20 lire. Fu l’unica fonte energetica della giornata e mancavano parecchi km a Vicenza. Soffrendo non poco giunsi a Torri di Quartesolo che era buio, ma ormai – pensavo – sono arrivato, ancora pochi Km e sono a casa. Dal ponte sul Tesina a casa mia sono davvero pochi Km, forse 6: sono stati i chilometri più faticosi della mia vita ciclistica. Non arrivavo mai alla Stanga, andavo lentissimo, faticavo moltissimo, non arrivavo mai alle Casermette, non arrivavo mai al cavalcavia e a Viale della Pace, a Villa Berica, a San Giuliano, al crocevia di Porta Padova. Ma alla fine vi arrivo, giro in Viale Margherita, sono davanti alla porta di casa e sono esausto morto ma non è finita: devo mettermi la bici in spalla e portarla al secondo piano. Suono il campanello, mi aprono (non esisteva citofono), entro,
faccio la prima rampa di scale e la seconda, sono al primo piano, prendo fiato, faccio la terza e vedo l’agognato pianerottolo di casa, faccio l’ultima rampa e arrivo davanti alla porta di casa mia, poggio la bici, entro, vado in camera e mi butto sul letto del tutto esausto. Finalmente salvo e affidato alle cure di mamma: una giornata indimenticabile.